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 LEGALIZZAZIONE DELLE COLONIE ISRAELIANE NEI TERRITORI PALESTINESI
 
 
Dopo l'approvazione della Knesset  (parlamento israeliano) della legge sulla legalizzazione delle colonie  realizzate sul territorio palestinese, abbiamo discusso di questo  ulteriore pericolo per la pace in Medio Oriente e per i territori di  Palestina. Tra gli organizzatori era presente il movimento globale per  il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), a favore della  libertà, la giustizia e l'uguaglianza del popolo palestinese.  Un'organizzazione per i diritti umani inclusiva, non violenta, che  rifiuta ogni forma di razzismo e di discriminazione razziale. Questo ha provocato una reazione di indignazione da parte delle comunità  ebraiche di Modena e non solo che, attraverso la consigliera comunale  del PD, Federica Di Padova, del senatore Carlo Giovanardi (GAL)  ed altri esponenti politici locali, ha chiesto il ritiro del Patrocinio  da parte del Comune di Modena perchè da loro considerata terroristica e  antisemita.(V.articoli di stampa).
 Il BDS è nato nel 2005, per la volontà della stragrande maggioranza  delle organizzazioni della società civile palestinese. Ispirata dal  movimento contro l’apartheid in Sudafrica, si avvale della  collaborazione di numerosi militanti di origine ebraica e di forme di  lotta democratiche basate sul convincimento a boicottare tutti i  prodotti provenienti dal territorio palestinese oggi illegalmente  occupati. E'ormai un diffuso movimento internazionale fermamente  schierato contro le ideologie politiche, le leggi, le politiche e le  pratiche che promuovono il razzismo e il sionismo. Il pilastro  ideologico razzista e discriminatorio del regime israeliano di  occupazione, colonialismo e apartheid, che ha privato il popolo  palestinese dei suoi diritti umani fondamentali a partire dal 1948. (vedi BDS Italia)
   LE FOTO DELL'EVENTO    Durante la serata sono intervenuti: 
 Miriam Marino    Ebrei contro l'occupazione 
             
 Fausto Gianelli        Giuristi Democratici 
             
  Moni Ovadia         audio   video messaggio          
 Bassam Saleh        Presidente Ass.ne Amici dei Prigionieri Palestinesi 
             
 Mai Alkaila          Ambasciatrice Palestinese in Italia 
         Portavoce BDS - Bologna
 
 
           
 Le domande del pubblico 
 
             Iniziativa organizzata da:Alkemia – Ass.ne Modena incontra Jenin –  Ass.ne per la Pace Modena – BDS Bologna – CGIL Modena - GAVCI - Nexus  E.R. - Overseas – Pax Christi Modena
 con il patrocinio del Comune di Modena
 (Martedì 28 marzo 2017 - Sala Ulivi – Istituto Storico di Modena) 
 
	
	
IL POPOLO PALESTINESE Viaggio di solidarietà con i palestinesi rifugiati in Libano
 (1° parte) 
 Il Comitato ”Per non dimenticare Sabra e Chatila”,   come tutti gli anni dalla sua costituzione (2000), si è recato in   Libano per rendere memoria al massacro avvenuto nel 1982. Questo viaggio   però è stato diverso. E' stato triste, sofferto, per la mancanza di un   amico, di un compagno, Maurizio Musolino, scomparso  pochi  giorni prima della nostra partenza. Maurizio non era presente   fisicamente, ma lo era con il suo amore per il popolo palestinese e   libanese. Il Comitato è stato creato da Stefano Chiarini, giornalista de   “Il Manifesto”, insieme ad altri intellettuali e giornalisti   italiani, libanesi e palestinesi, proprio per mantenere viva la memoria   di quel massacro e per ribadire che nessun popolo può vivere sulle  terre  strappate ad altri con la forza. Maurizio, dopo la morte  improvvisa di  Stefano (2007), ha continuato la sua opera con il  supporto di tanti  altri compagni ed attivisti. Ora il testimone è nelle  nostre mani ed  abbiamo il dovere di continuare a percorrere questa  strada, specialmente  in questo momento storico molto critico e  pericoloso per la  sopravvivenza dei diritti e dignità di ogni essere  umano. Il Comitato  internazionale “Per non dimenticare Sabra e Chatila”  ricorda  sempre che la questione palestinese, una terra occupata, un  popolo in  fuga, una giustizia negata è al centro della crisi  mediorientale. Oggi  si parla sempre meno di Palestina. Oggi si parla di  Daesh, di Siria,  Iraq e Turchia. Il Medio Oriente è un immenso  crogiolo di stati in  guerra. Ai profughi palestinesi si affiancano   tanti altri profughi che  scappano da guerre, fame, dittature, alla  ricerca di una vita dignitosa,  nell'indifferenza o addirittura nel  respingimento da parte dei paesi  occidentali. Un occidente,  responsabile di tutto questo, impegnato a  ridisegnare i confini di  questi stati  per accaparrarsi le loro risorse.  La paura dell'altro,  fomentata specialmente  da partiti di destra,  porta ad innalzare sempre  più muri e barriere in nome di una fantomatica  sicurezza per  proteggere e salvaguardare la propria indipendenza. Si  creano, invece  soltanto divisioni, separazioni fra esseri umani in base  alla  nazionalità, alla religione, all'etnia. Mentre il mondo sta  impazzendo  tra guerre infinite e nuove alleanze che si creano tra le  grandi  potenze (Usa, Turchia, Russia, Israele, Arabia Saudita, Qatar...)  i  popoli, in special modo i curdi e i palestinesi, sono solo pedine  nelle  loro mani sacrificati sull'altare delle trattative. Non è  possibile  accettare la cancellazione di questi popoli. Loro stessi non  lo faranno  mai e chi sente ancora di avere un'anima democratica deve  essere al  loro fianco urlando il loro diritto di esistere. Per questo  motivo il  Comitato internazionale “Per non dimenticare Sabra e Chatila”   continua ad organizzare viaggi nei campi profughi palestinesi in Libano   permettendo così a centinaia di persone di conoscere e capire questa   realtà. Raccontare significa “Non dimenticare” I palestinesi registrati presso l'UNRWA (Agenzia   ONU per i rifugiati palestinesi) in Libano sono circa 450.000 e vivono   in 12 campi distribuiti sul territorio. Il dramma dei palestinesi  risale  alla prima guerra arabo-israeliana, con la nascita dello Stato   d'Israele, anno della Nakba palestinese, con l'espulsione di circa   750.000 persone. Una parte decise di andare via spontaneamente, pensando   che fosse solo per poco tempo confidando nella forza dell'esercito   arabo, altri invece furono coinvolti personalmente nelle ostilità. Nella   prima fase della guerra (novembre '47-maggio '48) fuggirono per scelta   le persone più agiate, come commercianti, insegnanti, medici,  funzionari  ecc.. causando la chiusura di negozi, ospedali, uffici,  scuole,  provocando disoccupazione e povertà. Nella seconda parte della  guerra  (maggio'48-gennaio '49) gli arabi rimasti furono obbligati a  fuggire. I  comandanti israeliani avevano ricevuto l'ordine di  “liberare” molti  villaggi e città dai suoi naturali abitanti, i  palestinesi, per  permettere l'insediamento di ebrei per il nuovo Stato  ebraico. Circa la  metà dei rifugiati (350.000) andò in Giordania,  200.000 nella Striscia  di Gaza, 120.000 in Libano, 60.000 in Siria e  4.000 in Iraq. Alla fine  della guerra, Israele accettò il rimpatrio  solo di 100.000 palestinesi.  Una cifra irrisoria. I rifugiati vennero  sistemati in campi profughi nei  vari stati arabi senza diritti e senza  casa, ad eccezione della  Giordania che offrì la cittadinanza ed il  diritto a lavorare. L'11  dicembre 1948, l'Assemblea delle Nazioni Unite  adottò la Risoluzione n. 194  che consentiva a chi lo  desiderava, il diritto al ritorno  nelle loro  terre, mentre quelli che  non volevano rimpatriare avrebbero avuto  diritto ad un risarcimento per  le proprietà perdute. Risoluzione che ad  oggi  è rimasta scritta solo  sulla carta. Tutte le proprietà palestinesi  abbandonate sono state  subito acquisite dai nuovi immigrati provenienti  dall'Europa e da  alcuni paesi arabi. Un arabo per un ebreo. La guerra  dei sei giorni del  1967 provocò poi altri spostamenti aumentando così il  numero dei  profughi in giro per il mondo. Oggi si calcola che ci sono  circa sette  milioni di rifugiati tra la Giordania, West Bank, Striscia  di Gaza,  Libano e Siria. E' utile ed anche curioso sapere come la contro  parte  recepisce il problema dei profughi palestinesi. Da leggere  l'articolo “Il curioso caso dei profughi palestinesi” di Tiziana Marengo apparso sul sito “L'Informale”.   Prima di tutto spiega la differenza che c'è tra profugo, migrante e   rifugiato. Per la Marengo i palestinesi che prima del ‘48 abitavano le   terre dell’attuale Stato di Israele, non sono da considerarsi “profughi”, ma  “rifugiati”. Si citano le differenze  delle due agenzie dell'Onu: UNHCR e UNRWA. (Il lungo filo della memoria 1°parte).   Infine, si chiede perché il numero dei profughi  palestinesi sia così   cresciuto dal 1947 ad oggi. L'articolo finisce con questa domanda: “Ci   si chiede se davvero la causa della violenza in Medio Oriente fosse   Israele, ora invece chiediamo: ma siete sicuri che il problema   palestinese derivi da Israele? ed esiste davvero un “problema   palestinese” o questo è creato a tavolino solo in pura finalità   anti-isreliana?” Il Diritto al Ritorno, come si  vede, è una  questione aperta di difficile risoluzione. Bisogna però  ricordare che  ci sono due Diritti al Ritorno: uno concesso agli ebrei e  quello negato  ai palestinesi. Il pensiero della Marengo riflette il  pensiero comune  d'Israele: “Israele viene messo sotto accusa a causa  di un numero  enorme di persone che vivono nella impossibile attesa di  un ritorno  alle case che avevano abbandonato  (una cosa è trattare il  ritorno di 100.000 persone, altra, impossibile,  il rientro di 6  milioni di persone); e dal lato dei rifugiati è dannoso  poiché questo  “status” implica una cultura della dipendenza, della  lamentela, della  rabbia senza alcuna via d’uscita. Nessuno dei rifugiati  palestinesi ha  invece interesse a cambiare status, queste persone hanno  trovato una  situazione che gli garantisce cibo, educazione, casa  (continuiamo a  chiamarli campi profughi ma sono città!), tutto gratuito  perché pagato  con le sovvenzioni internazionali da tutto il mondo.”
 La realtà descritta in questo articolo non   corrisponde  alla verità, a quello che i palestinesi sono costretti a   subire tutti i giorni sia in Cisgiordania, Gaza, Libano, Siria e   Giordania. Israele addossa tutta la responsabilità agli stati in cui si   trovano i palestinesi, non parla mai di Occupazione. Israele ha  occupato  una terra non sua, non per darla al suo popolo, ma per creare   unicamente uno Stato ebraico. Non sono stati i palestinesi a volere   l'aiuto dell'agenzia Onu “Unrwa”, come non sono stati loro a voler   tramandare lo “status di profugo”  per linea maschile a tempo indeterminato.
 La domanda comune di chi affronta per   la prima volta questi viaggi è sempre la stessa: come fanno i   palestinesi a resistere? Come è possibile tutto questo? I palestinesi   non hanno tante scelte a disposizione: resistere o morire. Le risposte a   queste domande si possono dare solo attraverso una corretta   informazione che purtroppo manca. Basta sapere che in Israele i libri   scolastici descrivono una realtà distorta del presente ed una   falsificazione del passato. Il libro “La Palestina nei libri scolastici di Israele – Ideologia e propaganda nell’istruzione, di Nurit Peled-Elhanan (EGA-Edizioni Gruppo Abele).  “Il mio obiettivo – afferma l'autrice nell'articolo apparso sul Il Manifesto il 21 ottobre 2015 - era   svelare l’architettura della propaganda sionista, un modello che si   propaga a educazione, arte, letteratura, archeologia, musica, teatro.   Tutte le discipline sono reclutate per dare vita a una storia comune che   ovviamente il popolo israeliano non ha, provenendo da ogni parte del   mondo”. Lo studio di Nurit Peled non è rivolto al sistema educativo   israeliano nel suo complesso, ma aiuta a capire un'ideologia che ha lo   scopo di disumanizzare il popolo palestinese e la cancellazione e   l'omissione della narrativa araba. Attraverso lo studio di 17 libri   diversi di geografia, storia e studi civici, usati nelle scuole   pubbliche israeliane dal 1997 al 2009, l'autrice dimostra la sua tesi: “la   scuola è il primo mezzo di creazione della memoria collettiva, di una   narrativa nazionale per un popolo ed uno Stato frammentato”. La “mentalità da accerchiamento”,    spiega  l’autrice, permette alle autorità di modellare l’individuo,   accompagnarlo nel cammino da studente a soldato a lavoratore verso la   forma mentis desiderata. La Nakba, la catastrofe del popolo palestinese,   non è citata o è giustificata. Nelle scuole - continua Nurit - in   pratica non imparano niente sul Medio Oriente, perché lo stato di   Israele è loro proposto come parte dell'Europa, né imparano nulla dei   loro vicini o delle nazioni confinanti. Neppure della storia degli ebrei   negli altri paesi. L'unica cosa che imparano sono i progrom,   l'olocausto e il fatto che il sionismo ha salvato gli ebrei dai   cristiani. Rappresentazione quest’ultima che potrebbe funzionare per   l’Europa dell’Est ma non per i paesi arabi”. Dalla lettura dei libri di testo israeliani si capisce che "i   palestinesi costruiscono i loro edifici illegalmente perché non   vogliono pagare le tasse e che vivono in modo primitivo perché non amano   la modernità". Il palestinese è disumanizzato, descritto come  selvaggio  a cavallo di asini o cammelli, non educato, “geneticamente  terrorista,  rifugiato o primitivo”.  “In nessuno dei libri di  testo viene  trattato, verbalmente o visivamente, alcun aspetto  culturale o sociale  positivo del mondo palestinese – scrive ancora l’autrice – né la letteratura, né la poesia, né la storia o l’agricoltura, né l’arte o l’architettura”.   E' necessario, quindi, che anche nelle  scuole italiane sia data   un'informazione oggettiva dei fatti, presenti e passati e che si   ristabilisca il fatto storico fondamentale: le persecuzioni degli ebrei,   la Shoah sono un crimine europeo. I palestinesi non ne sono   assolutamente responsabili. Il conflitto israelo-palestinese è il più   antico e pericoloso.  
 Tutto questo succede perché i nostri   paesi restano nel più completo silenzio ad osservare senza prendere   posizione.  Anche noi ne siamo complici. Dobbiamo fare di più. Lo diceva   sempre  il nostro  amico e compagno Maurizio Musolino in tutti i suoi interventi sulla questione palestinese:“L'occupazione ha mille sfumature, che   si incuneano nella quotidianità della vita rendendola disumana. Non è   qualcosa di astratto, di indefinito, ma si sostanzia con soprusi e   privazioni, con l’obiettivo di spezzare la resistenza e la volontà del   popolo che la subisce. Ed è precisamente questo che sta accadendo in   Palestina, dove Israele impone a uomini e donne, colpevoli solo di   rivendicare la propria dignità, una segregazione razziale intollerabile.   L’Occupazione è negazione della vita, pulizia etnica, volontà   deliberata di sradicare un popolo dalla sua terra per renderlo qualcosa   di indefinito. E lo fa con la complicità di stati e governi che ora con   aiuti diretti e ora con silenzi colpevoli sostengono nei fatti   l’Occupazione. Il diritto al ritorno diventa quindi uno degli elementi   che sostanziano l’idea di popolo e di autodeterminazione della   Palestina. Un elemento che unifica tutto il popolo palestinese, che   supera le barriere e le divisioni di schieramenti e di partiti che oggi   indeboliscono la resistenza contro l’occupante israeliano.”
 I rifugiati palestinesi che si trovano   in Libano sono quelli che vivono condizioni economiche e sociali molto   dure, senza nessun diritto, né alla proprietà, al lavoro, alla sanità e   allo studio, a differenza invece da quelli che vivono in Siria o in   Giordania. Quasi tutti i campi sono stati inizialmente fondati nel 1948   dalla Croce Rossa, mentre l'Unrwa inizia a fornire i suoi servizi nel   1950. I campi profughi in Libano si sviluppano in tre fasi. La prima,   dal '48 al '69, sono soggetti alla giurisdizione militare libanese; la   seconda, fine '69, iniziano i primi scontri tra l'esercito libanese e la   resistenza dei fedayyin ed  campi passano sotto il controllo della   resistenza palestinese; la terza, con la guerra civile libanese   (1975-1990) i campi sono coinvolti negli scontri e subiscono   bombardamenti, assedi e distruzione. Per capire i quindici anni di   guerra libanese è necessario dividerla in cinque fasi: 1975-1976 fase palestinese – lo scontro è soprattutto tra palestinesi e cristiani
 1976-1978 fase siriana – intervento dei   siriani come mediatori che, appoggiando ora una parte ora l'altra, in   realtà vogliono impadronirsi del potere libanese
 1978-1982 fase israeliana – invasione del Libano da parte d'Israele, occupazione del sud del paese e massacro di Sabra e Chatila
 1982-1990 fase integralista – discesa in campo di Hezbollah
 1988-1989 fase della guerra intercristiana   – lo scontro è tra le varie fazioni  della destra maronita seguita  alla  “Pax siriana” che ufficializza la presenza dell'esercito di  Damasco in  Libano attraverso un trattato di alleanza.
 20/12/2016        Leggi la 2° parte  
 
 
        
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DILEK OCALAN (deputata HDP) "Noi proseguiamo la nostra lotta perchè vincerà la pace" 18 dicembre 2016 
 Giunta in Italia per  ricevere la cittadinanza onoraria al presidente Apo Ocalan dalla  Municipalità di Reggio Emilia, Dilek Ocalan, deputata del HDP del  parlamento Turco, incontra la comunità kurda modenese e prova a  raccontare l'attuale situazione in Turchia. La deriva fascista del  governo turco e la feroce repressione attuata verso il suo popolo. 
 
 
 L'intervento di Dilek Ocalan            
 L'intervento di Dilek Ocalan in Kurdo 
 
           
   Le domande del Pubblico 
       
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Il Premio Chiarini, dedicato alla figura del giornalista de "Il Manifesto" Stefano Chiarini,  si propone di istituire un riconoscimento all’impegno sul tema del  Medio Oriente e in particolare della Palestina, con una speciale  attenzione per il mondo dei media e della cultura e dello sport.  Quest'anno sarà attribuito a RENZO ULIVIERI, noto  allenatore di squadre di calcio come Sampdoria, Perugia, Modena,  Bologna, Torino, Napoli etc. per l'impegno dimostrato nei confronti del  popolo Palestinese con la sua diretta partecipazione a stage di scuola  calcio presso i campi profughi palestinesi in Libano. 
Verranno consegnati, inoltre, riconoscimenti alla dottoressa Swee Ang,  che negli anni della guerra civile libanese e della strage di Sabra e  Chatila lavorava presso il Gaza Hospital a Sabra; all'artista Franca Marini  per la realizzazione di un video-artistico realizzato con il popolo  palestinese a Gaza. Un messaggio non solo di pace per questo popolo ma  un'evoluzione di linguaggi e di ricerca costante sull'immagine volta  alla ricerca, attraverso l'arte, di un nuovo metodo di comunicazione tra  tutti i popoli; al giornalista Arcangelo Badolati, Direttore Scientifico Corso della Pedagogia della Resistenza UNICAL (Università Calabria).
Ospite d'onore: Abu Said al Khamsa, sindaco di Ghobeiry (Beirut - Libano) 
Un ricordo di Stefano Chiarini di Giorgio Stern dell’associazione “Salam ragazzi dell’Ulivo di Trieste”.
Con la partecipazione di:
Abu Wassim, coordinatore di Beit Atfal Assomoud per il sud del Libano, Bassam Saleh responsabile per l'Italia di Al Fatah; Tommaso Di Francesco, condirettore del quotidiano “Il Manifesto”; Ellen Sirgel  (USA) infermiera al Gaza Hospital il giorno della strage nei Campi  Profughi di Sabra e Chatila (Beirut – Libano) ed altri importanti  giornalisti e rappresentanti di associazioni nazionali ed  internazionali. 
Nel corso dell'iniziativa sono previsti interventi musicali del jazzista Luca Garlaschelli
Verranno inoltre proiettati in anteprima  reportage realizzati nei campi profughi in Libano, Giordania e  Cisgiordania, risultato di tre viaggi realizzati in contemporanea ad  Agosto scorso da numerosi volontari giornalisti, amici di Stefano, etc. 
info: Mirca (3393758378), Flavio (3332987481) 
A cura di Alkemia, Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, La Tenda con il Patrocinio e contributo del Comune di Modena
 
 
	
	
 

 GUERRILLA RADIORomanzo grafico targato Round Robin Editore
   
 Racconto incentrato sulla figura  dell’attivista e reporter indipendente Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza  nel 2011. Lo sceneggiatore e disegnatore di Roma racconta la genesi di  questo nuovo progetto all’insegna del “comic journalism” nato con la  collaborazione della famiglia di Vik.   Intervengono:
 Stefano Piccoli - autore
 Tommaso Di Francesco - Condirettore de “Il Manifesto”
 Mirko Bonini - fumettista  della redazione di Alkemia
 
 Conduce Mirca Garuti – Redazione Alkemia
    La presentazione del libro
    
 
 Le domande del pubblico
 
          
 
	
	
IL MIO VICINO...AD ESTReportage dai campi profughi in Medio Oriente
 
 interventi di:Mirca Garuti – Resp. Medio Oriente del periodico d'informazione on-line “Alkemia.com”
 Novara Flavio – Direttore Responsabile di “Alkemia.com”
 Presenta: Alessandro Medici - Associazione Notti Rosse
 Attraverso Reportage e testimonianze  dirette dai campi profughi in medio oriente cercheremo di approfondire e  comprendere ciò che sta accadendo oltre i confini della fortezza  Europa, per ribadire: “basta muri, frontiere e sfruttamento”.
     
   Presentazione di Alessandro Medici - Associazione Notti Rosse   
           
 
 
 Mirca Garuti: la situazione dei campi profughi palestinesi in Libano   
           
 
 
   Novara Flavio: Giordani: terra di profughi palestinesi, siriani, iracheni   
             
     Il dialogo con il Pubblico 
           Organizzato da:
 ASSOCIAZIONE 
  presso Nuovo Circolo Arci - Via Liberazione 66, 42013 Casalgrande (RE)
 21/11/15
 
 
	
	
NO BORDERS PER LA LIBERTA' DI CIRCOLAZIONE, CONTRO LE GUERRE,
 OLTRE LA SOLIDARIETA'
 LA NECESSITA' DI AGIRE DOPO LO SGOMBERO DI VENTIMIGLIA
 
 In occasione della “Settimana Nazionale  di Azioni” promossa dalla Coalizione Internazionale Sans-papiers,  Rifugiati e Richiedenti Asilo CISPM (17/24 ottobre), l'assemblea  pubblica di sabato 24 ottobre intende portare un contributo nel  rafforzamento della rete di solidarietà, delle lotte per la libertà di  circolazione e di residenza e contro le politiche anti migranti e la  costruzione dei vari muri e del Regolamento Dublino. Interverranno:
 
 introduce: Attilio Ratto
 
   
 
 
   Emilio Quadrelli  USB Genova
 
              
   Flavio Novara -  Comitato “Per non dimenticare il diritto al ritorno” viaggio nei campi profughi palestinesi in Giordania
 
              
     Mirca Garuti - Comitato “Per non dimenticare Shabra e Chatila” viaggio nei campi profughi palestinesi in Libano
 
                  
   Raja - Unione Democratica Arabo-Palestinese (UDAP) 
 
              
   Felice - Esponenti del movimento No Border di Ventimiglia
 
          
 Aboubakar Soumahoro Coalizione Internazionale Sans-papiers, Rifugiati e Richiedenti asilo CISPM / Confederazione USB 
 
          
   MANIFESTO DELL'EVENTO A CURA USB GENOVA:I Paesi a capitalismo avanzato hanno fatto  dell'Africa e del quadrante mediorientale  un teatro di guerra.    Vetrina e sperimentazione di un conflitto che, ogni giorno che passa,  rischia di diventare sempre più totale. Lo spettro di un nuovo conflitto  mondiale è dietro l'angolo. Queste terre, depredate delle loro risorse  economiche, in gran parte materie prime strategiche per le società  multinazionali, sono portate al collasso finanziario e quindi, come  nella più classica delle politiche colonialiste, poste “sotto tutela” da  una qualche coalizione politico – militare occidentale.
 Non diversamente si comportano quando  determinati territori rappresentano interessi geopolitici e  geostrategici di fondamentale importanza. Un esempio su tutti quello del  popolo palestinese il quale, dopo essere stato scacciato dalla propria  terra con il pieno sostegno di gran parte dei potentati imperialisti  occidentali, è costretto a sopravvivere sotto il tallone di ferro delle  armi israeliane. Occupazione, guerra, saccheggio sono, da tempo, il pane  quotidiano di cui si nutre il popolo palestinese. Oltre 5 milioni i  palestinesi costretti a vivere nei campi profughi, anche nella loro  terra.
 
 Per un motivo o per l'altro gli eserciti  del Primo mondo hanno occupato territori interi, costringendo milioni di  persone alla fuga disperata. Persone che ora premono ai nostri confini.
 Sulla loro pelle, il capitalismo ha  trovato un nuovo modo per arricchirsi. Da un lato appaltando la loro  gestione, spesso non dissimile da quella del “sorvegliato speciale”,  alle varie aziende del cosiddetto terzo settore; dall'altro  reintroducendo l'ottocentesca condizione del “lavoro coatto”. Infatti,  la grande trovata delle Amministrazioni locali, è stata quella di  appaltare, a costo zero, i lavori socialmente utili ai rifugiati. In  questo modo vitto e alloggio diventano sostitutivi del salario. Tutto  ciò puzza di schiavismo lontano un miglio. Ben dovrebbe saperlo il  nostro sindaco Marco Doria il quale vanta fama, anche se non troppo  eccelsa, di storico nonché di economista. Inutile dire che, in un  momento di crisi sociale come l'attuale, declinare al “lavoro coatto” i  lavori socialmente utili è un modo, neppure troppo celato, di favorire e  amplificare la “guerra tra i poveri” finendo con il favorire non poco  la destra apertamente xenofoba e razzista. Palesemente questo tipo di   “assistenza istituzionale”  non sarà mai  attaccata, come è avvenuto a  Ventimiglia.
 
 Lo sgombero del presidio No Borders di  Ventimiglia del 30 settembre scorso rappresenta la brutale repressione   di una forma di solidarietà non tollerata perché contiene in sé stessa  la lotta e il grido di accusa contro la ferocia del sistema anti sociale  dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri. Quello sgombero ha  dimostrato che non è tollerata alcuna auto organizzazione, alcuna  solidarietà vera e attiva. Ma l'esperienza di Ventimiglia si sta  ripetendo in molti altri luoghi (Lampedusa, Calais, Parigi,...), perché   difendere pace, libertà di circolazione, salario, diritti e welfare per  tutti, combattere l'Europa della troika deve essere il cuore delle  azioni per  proseguire nella lotta.
 
 In occasione della “Settimana Nazionale di  Azioni” promossa dalla Coalizione Internazionale Sans-papiers,  Rifugiati e Richiedenti Asilo CISPM (17/24 ottobre), l'assemblea  pubblica di sabato 24 ottobre intende portare un contributo nel  rafforzamento della rete di solidarietà, delle lotte per la libertà di  circolazione e di residenza e contro le politiche anti migranti e la  costruzione dei vari muri e del Regolamento Dublino.
 
   Confederazione USB-Liguria.                                Per contatti: liguria@usb.itSabato 24 ottobre alle ore 15.00, presso il CAP, via Albertazzi, 3 r - GENOVA
 
 
	
	
DIRITTO AL RITORNOI racconti delle missioni in Giordania, Libano e Cisgiordania
 
 Il diritto al ritorno diventa uno degli  elementi che sostanziano  l’idea di popolo e di autodeterminazione  della Palestina. Un elemento  che unifica tutto il popolo palestinese,  che supera le barriere e le  divisioni di schieramenti e di partiti che  oggi indeboliscono la  resistenza contro l’occupante israeliano. E’  stata questa iniziale  costatazione, nello stesso tempo elementare e  sconvolgente, che ha  portato donne e uomini che ritengono che il  diritto al ritorno sia un  punto irremovibile e centrale per il futuro  del popolo di Palestina a  mettere in campo per questa estate una  proposta che si è concretizzata con  l’invio di missioni nei luoghi della  diaspora palestinese. Questo è il racconto di quei viaggi in Libano,  Giordania, Cisgiordania. 
   coordina: 
 
   Bassam Saleh
 
 
         interventi:
   
   Lucio Vitale (delegazione Cisgiordania)
 
          
   Marta Turilli (delegazione Libano)
 
            
 
 
   Flavio Novara (delegazione Giordania)
 
                    INTERVENTI DEGLI OSPITI: Usb, Pcdi, Prc, Rete dei Comunisti         Le conclusioni di: 
 
   Maurizio Musolino
 
            
   Sabato 10 ottobre 2015, ore 17:30 - Casa del Popolo - Torpignattara 
 
	
	

 PROTESTE IN LIBANO: MENTRE I POTENTI BALLANO, IL POPOLO IN SCIOPERO DELLA FAME
 di Mirca Garuti
 
 ASCOLTA L'AUDIO  Il centro di Beirut si riempie di  manifestanti. Centinaia di persone chiedono cambiamenti al governo  libanese. Sabato sera 19 settembre Beirut era in stato di guerra. Le vie  del centro, una volta  luogo di divertimento, di relax e di shopping,  chiuse da filo spinato,  gersj  e alti muri di cemento difesi da un  grande numero di polizia armata. Il palazzo del Parlamento è circondato  da filo spinato letteralmente coperto dalla spazzatura gettata dai  manifestanti in segno di protesta.
 Alla sera, quando ormai quasi tutti i  manifestanti se ne sono andati, alcuni ragazzi sono intenti a pulire la  strada dai residui della manifestazione di questo pomeriggio. Alcune  tende sono ancora montate da chi ha deciso di restare per la notte o di  proseguire nello sciopero della fame.
 Mi avvicino con cautela,  chiedo il  permesso di scattare alcune fotografie e di poter intervistare qualcuno  per capire meglio la situazione che sta attraversando il Libano in  questo ultimo periodo. Vicino alla tenda di uno scioperante della fame,  capeggia uno striscione con scritte arabe che elencano le richieste dei  manifestanti:
 1) stipendi adeguati al costo della vita
 2) nuova legge elettorale
 3) nuove elezioni presidenziali
 4) restituzione dei fondi ai comuni indipendenti per risolvere il problema dei rifiuti.
 All'interno della tenda mi concede un  intervista un ingegnere agronomo che è da 15 giorni in sciopero della  fame. Ha lavorato per vent'anni presso il Ministero dell'agricoltura e  tra due anni andrà in pensione con 400 dollari al mese. Alla mia prima  domanda sulla situazione politica attuale e sulla natura della loro  protesta, lascia rispondere il Direttore seduto li a fianco:
 
  “Noi  facciamo parte di un sindacato autonomo di lavoratori del pubblico  impiego. In Libano nonostante ci siano ben 500 sigle sindacali che  rappresentano tutte le categorie di lavoratori, praticamente quasi tutte  sotto il controllo del governo. A seguito della guerra civile iniziata  nel 1975 e conclusa nel 1991 con gli accordi di TA'IF tra l'Arabia  Saudita e la Siria”. I deputati libanesi firmarono un accordo  chiamato “d'intesa nazionale” che disegnò un equilibrio dei poteri  istituzionali libanesi e riconobbe anche la presenza dell'esercito  siriano in Libano. Una guerra durata 15 anni con combattimenti,  tensioni, massacri che ha procurato più di 150.000 morti tra militari e  civili ed un aumento di una diaspora libanese nel mondo.
 La crisi di governo attuale anche secondo i  vari partiti politici incontrati, giornalisti ed analisti, si potrà  risolvere solo attraverso un accordo esterno regionale ed è da escludere  la possibilità di una nuova guerra civile perchè nessuna forza presente  in Parlamento ha un interesse ad evocarla.
 “Finita la guerra civile –  continua il Direttore – si sperava in un cambiamento, ma non è stato  così. E' stato colpito il settore pubblico a beneficio di quello  privato, aumentando la corruzione e perdendo i diritti della persona.  Nel 2005 con la morte di Rafiq al-Hariri, causata da un attentato  davanti all'Hotel St.George di Beirut, cadeva la coalizione filo siriana  con i sauditi, dando vita a due correnti: una chiamata “8 marzo”,  sostenitrice di una politica vicino alla Siria e “14 marzo” per l'Arabia  Saudita. Fino alla morte di Hariri la coalizione ha condiviso il  potere, poi successivamente è avvenuta una spaccatura che però ha  comunque consentito ad entrambi di mantenere i propri legami economici  nel paese”.
 
 Nell'arco di questi ultimi 25 anni, fino  al 2011,  ci sono state continue lotte, ma da quando in Tunisia il  popolo voleva far cadere il governo, questo movimento ha cercato di  ottenere in medesimo risultato. Sono riusciti a portare in piazza oltre  30.000 persone ed i rappresentanti di categoria dei servizi pubblici  hanno cercato di organizzare un coordinamento per chiedere miglioramenti  di vita, come l'aumento degli stipendi.
 “Il governo però non ha  risposto ed è per questo che ci troviamo in questa situazione da un  mese. Questo significa solo il fallimento di un governo che non ha  saputo dare risposte di fronte ad un semplice problema: la spazzatura.  Siamo sommersi dai rifiuti, non si trova una soluzione. Pochi giorni fa  hanno chiuso il centro storico ed un commerciante ha detto che questa  area deve essere riservata solo ai ricchi. In risposta a ciò, è stato  organizzato, ogni sabato, un mercato di Beirut per tutti gli esclusi”.
 Questo movimento è iniziato il 22 agosto. “All'inizio  c'era un po' di confusione, ognuno aveva le sue richieste da presentare  al governo, ma dopo una settimana, siamo riusciti a formare un  coordinamento su alcuni punti che trovavano il consenso di tutti”.
 Il problema dei rifiuti, in realtà, è un  problema che riguarda i comuni che si sono appropriati dei fondi  destinati a questo servizio, per usarli per varie speculazioni.
 “Noi chiediamo che questi  soldi  ritornino ai comuni. Domani, sabato 21 settembre, ci sarà un  altra manifestazione e così sarà anche per le altre successive  settimane. Si sta sfruttando l'attuale spaccatura del governo che ha  dato coraggio e la gente ha rotto il silenzio e la paura. La polizia  all'inizio è stata molto violenta, ci sono stati molti feriti, ora però,  si è un po' calmata”.
 
  Diversi sono i loro obbiettivi: da quelli  più semplici, come l'aumento degli stipendi, il problema dei rifiuti o  l'eccessivo costo della vita, a quelli di più alta connotazione politica  come la richiesta di nuove elezioni, cambiamento politico e nuova legge  elettorale che superi lo Stato Confessionale e le quote di  rappresentanza di matrice religiosa.
 “Noi come movimento comunista  guardiamo con sospetto entrambe le coalizioni del 8 e 14 marzo, anche se  queste forze parlamentari cominciano a capire che le nostre richieste  non sono del tutto negative ed è iniziato un dialogo”.
 Il problema riguarda 150.000 tonnellate di  rifiuti che non si sa dove possano essere accantonati soprattutto  perché in Libano non esiste un progetto o programma volto al  riciclaggio. Tra poco riprenderanno anche le università e i manifestanti  sperano anche nell'aiuto degli studenti.
 “Noi non vogliamo solo  benefici per Beirut ma per tutto il Libano dal nord al sud. Chi governa  questo paese sono le banche. Il debito pubblico del Libano è salito a  70.000 miliardi di dollari. Tutto il debito è solo delle banche e quello  prodotto da Hariri. Tutti oggi devono ubbidire all'economia”.
 
 Quasi a confermare questo, una musica  assordante di festa proviene proprio dall'ultimo piano di un palazzo  adiacente al presidio. “Le banche vogliono farsi sentire in  questa situazione. E' così ogni sera. Dall'alto dei suoi palazzi,  accendono la musica e festeggiano, mentre noi, qui in piazza lottiamo e  facciamo lo sciopero della fame. Il nostro obiettivo è quello che chi  deve pagare sono solo le banche e non noi”.
 Davanti al Parlamento era stato eretto un  muro di mattoni dove i ragazzi scrivevano slogan e disegni, ma nell'arco  di 24 ore, è stato subito rimosso e sostituito con del filo spinato.
 “Questo modo di governare, quello che ha  prodotto in tutti questi anni disoccupazione, miseria, stipendi  bloccati, ha solo un significato: un gran fallimento. Noi vogliamo  cambiare questo tipo di politica. Il governo non sa cosa fare. Unica  soluzione è tornare ad un sistema civile senza il sistema confessionale  in essere“.
 L'ingegnere nel frattempo sembra avere un  sussulto e vuole intervenire. Nonostante i suoi 15 giorni di sciopero  della fame ci sembra stia bene.
 “Io sono un dipendente  pubblico. Tutto il settore pubblico dal 1996 ha gli stipendi bloccati,  mentre i prezzi dei beni sono aumentati del 121%. Fino al 1996 il debito  pubblico era pari a 30 – 35mila miliardi di dollari, poi è pressoché  raddoppiato. Quando nel 2012 abbiamo chiesto un aumento degli stipendi,  la risposta è stata negativa alludendo al fatto che le entrate del  governo erano poche, giusto il contrario per le uscite. Non c'era  abbastanza liquidità. Il bilancio di uno Stato deve prevedere due cose:  un'entrata di tasse ed una giusta uscita di spese oculate. Perché i  ministri non pagano le tasse? Perché si devono fare favori ed elargire  soldi alle varie confessioni? Chi sta al governo sono i principi della  guerra civile, oggi governatori, che si sono accordati con le banche per  spartirsi i soldi e quello che resta, lo si dà al popolo. Chi ha  partecipato alle prime manifestazioni – prosegue infervorandosi -  appartiene alla classe media, classe che il governo vuole annientare. Se  la classe media non si muove, non si muove niente, per questo bisogna  continuare nella lotta. Dal 2012 al 19 luglio 2014 ci sono state alcune  trattative con il governo che doveva presentare delle proposte. Il  parlamento però, ha chiesto una proroga di sei mesi e, alla fine, dopo  mille tagli alle proposte da parte delle varie commissioni, non è  rimasto nulla. Solo l'idea delle proposte. Per questo si ritorna alla  lotta.”
 Lascio la tenda con estrema apprensione  per il loro futuro, per il futuro di questo paese che ha tanto sofferto e  che non riesce a trovare giusta pace.  I governi occidentali dovrebbero  riflettere seriamente sulla loro grande responsabilità.
 19 settembre 2015 - Beirut 
 
	
	PER NON DIMENTICARE IL DIRITTO AL RITORNO:    MISSIONI IN PARTENZA DALL'ITALIA di Maurizio Musolino 
 LA DELEGAZIONE DI ALKEMIA SARA' PRESENTE IN GIORDANIA! L’occupazione ha mille facce, mille sfumature, che si incuneano nella quotidianità della vita rendendola disumana. L’occupazione non è mai un qualcosa di astratto, di indefinito, ma si sostanzia con soprusi e privazioni, con l’obiettivo di spezzare la resistenza e la volontà del popolo che la subisce. Ed è precisamente questo che sta accadendo in Palestina, dove Israele impone a uomini e donne, colpevoli solo di rivendicare la propria dignità, una segregazione razziale intollerabile. E lo fa con la complicità di stati e governi che ora con aiuti diretti e ora con silenzi colpevoli sostengono nei fatti l’Occupazione. L’Occupazione è quindi negazione della vita: impossibilità di lavorare, curarsi, studiare, avere affetti e l’elenco potrebbe continuare, lunghissimo. L’Occupazione è anche pulizia etnica, volontà deliberata di sradicare un popolo dalla sua terra per renderlo altro, un qualcosa di indefinito, un nulla. Il sionismo questo lo ha messo in pratica da sempre, fin dai quei drammatici giorni dopo la seconda guerra mondiale, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono cacciati dalle loro case attraverso il terrore e la devastazione. Da lì iniziò la diaspora di questo popolo, campi profughi senza diritti ospitati malvolentieri dagli Stati limitrofi, ignorati da un Occidente opulento e egoista, condannati a non poter ritornare nelle loro case da una comunità internazionale sorda, cieca e muta. In poche parole: complice del crimine che si stava perpetuando.
 Il diritto al ritorno diventa quindi uno degli elementi che sostanziano l’idea di popolo e di autodeterminazione della Palestina. Un elemento che unifica tutto il popolo palestinese, che supera le barriere e le divisioni di schieramenti e di partiti che oggi indeboliscono la resistenza contro l’occupante israeliano.
 E’ stata questa iniziale costatazione, nello stesso tempo elementare e sconvolgente, che ha portato donne e uomini che ritengono che il diritto al ritorno sia un punto irremovibile e centrale per il futuro del popolo di Palestina a mettere in campo per questa estate una proposta che si concretizza con l’invio di missioni nei luoghi della diaspora palestinese. Le missioni all’inizio dovevano essere cinque: Libano, Cisgiordania, Gaza, Siria e Giordania, ma la ferocia del conflitto che da anni insanguina la Siria ha da subito reso impraticabile questa ipotesi. Nei giorni scorsi un altro pezzo della missione ha dovuto subire una dolorosissima amputazione: Gaza. Dal Cairo la striscia di terra al sud della Palestina è irraggiungibile e il valico di Rafah è chiuso. Il Sinai, sempre più teatro di guerra fra il governo egiziano e le varie milizie presenti sul territorio, è diventato terra di nessuno, una sorta di “campo minato” insuperabile che giustifica agli occhi di una comunità internazionale miope l’ingiustizia criminale contro Gaza, sempre più prigione a cielo aperto per oltre un milione e mezzo di donne e uomini.
 Durante i bombardamenti di un anno fa emerse la condizione impossibile in cui vive Gaza; si era parlato di apertura di valichi, di possibili porti e di aeroporti. Finito l’ennesimo massacro e abbassate le telecamere però nulla è cambiato, anzi se possibile tutto è cambiato in peggio e questo meriterebbe una seria riflessione da parte del movimento di solidarietà con la Palestina per non rimandare una mobilitazione efficace alla prossima guerra o al prossimo massacro. Bisogna mettere in campo fin da settembre una iniziativa in grado di superare tutti i nostri particolarismi e personalismi, per chiedere l’immediata fine dell’embargo e l’apertura di un corridoio che consenta ai palestinesi di Gaza di poter entrare e uscire senza dover sottostare alle angherie e alle prepotenze del governo di Tel Aviv.
 La missione "Per non dimenticare il Diritto al ritorno" comunque non si ferma e partirà per le tre destinazioni alla fine della prossima settimana (13-15 agosto), forte della consapevolezza che nessun risarcimento potrà mai ripagare le sofferenze e le privazioni di decenni di diaspora. Il riconoscimento di questo diritto è l’unico modo per dare una soluzione all’occupazione delle terre palestinesi.
 Il 18 agosto da tre luoghi simbolo, tre campi palestinesi, ricorderemo al mondo che l’occupazione ha generato un esodo forzato del popolo di Palestina e che oggi ci sono palestinesi profughi in Libano così come in Giordania, Siria, Iraq e altri Paesi – non ultimo il nostro Occidente - ma che ci sono palestinesi rifugiati nella stessa Palestina.
 L’ebraicizzazione di Israele – punta più alta del programma neocoloniale del sionismo – esclude il diritto al ritorno dei non ebrei, e dunque dei palestinesi nati in quelle stesse terre e dei loro discendenti. La nostra presenza in quei paesi vuole denunciare questo trattamento intollerabile e razzista.
 Il tema del diritto al ritorno per il popolo di Palestina, ignorato da troppi, dentro e fuori il mondo arabo-mediorientale, non può più essere eluso o messo da parte in nome di altre e pretestuose compatibilità. Le tre delegazioni ricorderanno le vittime delle stragi e porteranno ai palestinesi solidarietà politica e sostegno umano.
 Vogliamo che l’iniziativa che ci accingiamo ad intraprendere, in collaborazione con i nostri amici palestinesi, con i quali da anni lavoriamo insieme nel Comitato internazionale "Per non dimenticare Sabra e Chatila" e con il quotidiano libanese Assafir, sia il momento centrale di un percorso che deve prevedere iniziative su tutto il territorio italiano – tanti incontri si sono svolti in tutta Italia nelle scorse settimane - con al centro “il diritto al ritorno”. La nostra presenza in Libano, Cisgiordania, Giordania, è finalizzata a denunciare una realtà inaccettabile e drammatica che ha origine, appunto, dall‘occupazione della Palestina.
 Maurizio Musolino (Comitato Per non dimenticare il diritto al ritorno)
   
 
	
	NEWROZ 2015   LA RESISTENZA DEL POPOLO CURDO   JIN  JIYAN AZADI'   (Donna – Vita – Libertà)  di Mirca Garuti              Il  Newroz 2013 è  stato caratterizzato dalla speranza, chiusa dentro ogni cuore del  popolo curdo, di poter intraprendere una vera strada verso la pace.  Tutti, quel 21 marzo a Diyarbakir,  aspettavano la lettura della lettera  del  leader storico, Abdullah Ocalan. Una folla oceanica era in attesa  di sentire le sue parole:      - “ E’ tempo che le armi tacciano e che le idee parlino"   - “ E’ il momento che la politica vada oltre le armi”   - “ E’ tempo che le nostre forze armate si ritirino oltre il confine”   - “ Questo è un nuovo inizio, non è una fine”   - “ E’ l’inizio di una nuova lotta in favore di tutte le minoranze etniche”   - “ I turchi e i curdi hanno inaugurato insieme il Parlamento nel 1920”   - “ Abbiamo costruito insieme il passato e adesso abbiamo bisogno di mantenerlo insieme”      La road-map, documento straordinario, è il cuore dei colloqui segreti tra Abdullah Ocalan e lo Stato turco, un processo iniziato nel 2009  e interrotto a metà del 2011.      Si sviluppa su tre diverse fasi:   
    
     	“La filosofia della pace”  mette in primo piano lo 	sviluppo di una nuova costituzione che possa  dare una definizione di 	“cittadinanza libera da ogni tipo di  riferimento etnico”, 	fondata su una “completa democrazia” e sui  “principi 	della giurisprudenza internazionale”,
    
    “Il piano d’azione”  prevede il ritiro delle 	forze del PKK al di là del confine turco dal  21 marzo fino alla 	fine del mese di luglio. Il “ritiro” afferma però 	 Ocalan deve essere reciproco ed approvato dal parlamento. Erdogan ha 	 affermato che il processo di pace “inizierà de facto quando i 	membri  del PKK si ritireranno in un altro paese”.
     	L’ultima parte “eventuali problemi e conclusioni” 	dovrebbe mettere fine al processo di pace.     Ma se  pensiamo ai molteplici tentativi di dialogo, come ad esempio,  all'apertura curda del 2009, alle trattative di Oslo del 2011 oppure  agli  innumerevoli tentativi di “cessate il fuoco” da parte del Pkk dal  1993 ad oggi, una vera pace rimane solo un'illusione. 
   Il 2014 e 2015  sono stati, invece, gli anni nei quali il mondo ha scoperto il popolo  curdo e la lotta per i suoi diritti e libertà. Non perché si è reso  consapevole del loro dramma che continua dal 1924, anno in cui ha inizio  la sua repressione, ma solo per l'intensificarsi della guerra civile in  Siria. La minoranza curda è sempre stata usata da chi era al potere per  raggiungere i propri scopi ed interessi.   Dopo il collasso dell'impero Ottomano, l'azione diretta della Turchia   I curdi sono, infatti,  la più ampia nazione al mondo priva del proprio stato e le prime vittime degli accordi coloniali.  Dopo il collasso dell'Impero Ottomano da parte dei colonialisti  britannici e francesi, la storia ci parla della creazione di stati  nazioni che divide la regione del Kurdistan in quattro paesi: Iran,  Iraq, Siria e Turchia.  L'accordo Sykes-Picot del 1916 ignora totalmente  il diritto di sovranità dei curdi sulla propria terra. Questo non ha  portato che molti decenni di massacri, oppressione ed assimilazione.    
   Mustafa Kemal Ataturk,  militare e primo Presidente della Turchia, inizia nel Kurdistan la  lotta di liberazione nazionale turca contro la dominazione occidentale e  l'occupazione greca. Ataturk, appellandosi alla solidarietà  curda-turca, nel corso del conflitto greco-turco, chiede anche il  supporto dei capi tribali e religiosi curdi. Dal 1921 al 1924 ci fu  quindi un forte contrasto tra la maggioranza della popolazione curda che  sosteneva il movimento kemalista e gli intellettuali che sostenevano  invece il movimento di liberazione curdo. Questa differenza dimostra la  debolezza del movimento nazionale curdo in quel periodo ed indica che il  popolo curdo preferiva un Kurdistan autonomo all'interno della Turchia,  in accordo con il popolo turco.   Il  governo di Ankara fu indotto ad occuparsi per la prima volta del  “problema curdo” a seguito della ribellione curda nella regione di  Dersim tra il novembre 1920 ed aprile 1921.  La ribellione iniziò tre  mesi dopo il trattato di Sevres e aveva l'obiettivo dell'indipendenza  nei vilayet di Diyarbakir, Elazig, Van e Bitlis.   Dopo la firma del Trattato di Losanna del 1923 (gli  art.38 e 39 sono applicabili ai curdi e viene concessa a tutti gli  abitanti della Turchia piena protezione della loro vita e libertà senza  distinzione di nascita, nazionalità, lingua, razza o religione),  il  potere kemalista sentendosi forte ed avendo consolidato la sua posizione  a livello internazionale, cambiò la sua politica nei confronti dei  curdi. Nel 1924  fu approvata una legge che proibiva l'uso della lingua  curda, vietando le pubblicazioni e l'insegnamento in tale lingua. Dopo  il 1930 il governo turco intensificò la sua politica di sterminio e  assimilazione della popolazione curda. Fu promulgata una legge che  contemplava la deportazione di intellettuali e capi curdi nelle aree  occidentali della Turchia.    Il  Kurdistan veniva diviso nel 1934 in tre aree (nel 1932 invece erano  quattro). Un'area doveva essere completamente evacuata e veniva anche  smembrata la struttura socio-economica della tribù che non era più  riconosciuta come entità giuridica. L'intenzione era quella di  disperdere e distruggere i curdi come nazione.  Inizia così  l'occupazione del Kurdistan. Nonostante una protesta internazionale, il  governo turco, non solo continuò ad applicare questa legge, ma andò ben  oltre! Le forze armate turche, nel periodo dal 1924 al 1938, furono  impegnate in 17 campagne militari tutte direttamente o indirettamente  connesse alla soppressione delle rivolte curde. Nel 1937 il governo  turco, comprendendo di essere incapace di controllare e governare da  solo questa popolazione, firmò un patto con Iran, Iraq e Afghanistan di  natura anti-sovietico, indirizzato contro il movimento nazionalistico  curdo da adottare in un'azione comune.     La provincia di Dersim nell'Anatolia  orientale,  era la più colpita dall'evacuazione forzata e dalla  richiesta del governo turco di consegnare le armi. La popolazione  dell'area, curda Alevita, insorge in una delle più sanguinarie rivolte  della storia della Turchia moderna. Dersim, (oggi Tunceli)  rappresenta il cuore ribelle del Kurdistan, anche se fino alla rivolta  del 1937/38, la sua popolazione non aveva mai reagito in maniera molto  violenta. Nel 1935 Ataturk disse: “La questione di Dersim è la  questione prioritaria della nostra politica interna. E' necessario che  il governo sia dotato di un'autorità ampia e illimitata per eliminare ad  ogni costo questa ferita interna, questo repellente ascesso”. Dopo  quasi tre anni dalle  minacciose parole pronunciate dal Presidente, le  autorità del governo turco misero in pratica il desiderio dello stesso  Presidente.     Mentre  l'aviazione turca radeva al suolo interi villaggi, l'esercito dava  fuoco alle foreste che ricoprivano le vallate della regione. Molti  abitanti furono rinchiusi in grotte e arsi vivi.  Venne usato gas  asfissiante. Le acque del fiume Munzur scorsero, per  giorni, rosse di sangue.  I morti furono 50-60 mila. Furono deportati  circa tremila notabili e 100 mila abitanti nella Turchia occidentale. I  leader della rivolta furono giustiziati nella piazza centrale della  città. Una generazioni di bambini cresciuti negli orfanotrofi fu  sottoposta ad una sistematica operazione di turchizzazione. Il nome  dell'operazione era “Tunceli” (pugno di ferro), nome poi lasciato alla città a monito per l'eternità.  L'area rimase in stato d'assedio fino al  1946 e fu vietato l'accesso agli stranieri fino al 1965. Il Presidente turco Erdogan il 23 novembre 2011, durante una riunione di partito, ha presentato le sue scuse “a nome dello Stato” per i fatti di Dersim, definendoli “massacri”.  Fatto inusuale nella storia turca. Si dubita, infatti, della sincerità  del presidente, anche perché nel 2006 il ministero della Cultura impedì  qualsiasi forma di distribuzione del documentario “Dersim 38” per non danneggiare “l'ordine e la morale pubblica e l'onore delle persone”.      Fino ad uno/due anni fa si parlava, a livello mediatico, solo della repressione subita dai  curdi in Turchia  sotto il governo di Erdogan, mentre ora, emergono  anche i curdi che vivono in Siria. Purtroppo ci vuole una guerra, ci  vogliono morti e distruzione affinché il mondo scopra la realtà delle  cose. Quando si parla di Kurdistan, bisogna considerare che non parliamo  di uno Stato nazionale regolato da leggi ed usi uguali per tutta la  popolazione, ma di una Regione e di un popolo che dal 1923 deve lottare  per conservare la sua propria identità nazionale.     Il  Kurdistan siriano geograficamente è considerato un'appendice del  Kurdistan turco, essendo formato da tre aree all'interno della Siria,  divise da territori arabi: la regione di Dagh  (montagna dei curdi) a nord ovest di Aleppo; la regione di Jarablus e Kobani  a nord est di Aleppo; Cezire tra il Tigri e l'Eufrate, un triangolo al confine turco-iracheno.    Siria terra di scontri    I curdi  in Siria sono la più grande minoranza etnica del paese (circa 2  milioni) concentrati prevalentemente nel nord e nord-est ma anche ad  Aleppo e Damasco, grazie soprattutto all'accordo di Ankara nel 1921 tra  Turchia e Francia che fissava la frontiera turco-siriana in base alla  linea ferroviaria Aleppo-Baghdad.     
   Qamişlo (Kurdistan occidentale) e Nusaybin  (Kurdistan turco) erano in precedenza una sola città, ma dopo il  passaggio della ferrovia, Qamişlo si trovò in terra siriana e Nusaybin  in terra turca. Molti villaggi, comuni e città furono divisi in due. Le  tribù, le famiglie, decine di migliaia di curdi che vivevano sulla  stessa terra si trovarono separati da barriere di filo spinato e mine.  Solo in questi ultimi anni sono stati in grado di incontrarsi di nuovo.  Questo autentico dramma, vissuto da migliaia di curdi, è ancora oggi  oggetto di documentari e programmi televisivi trasmessi in occasione di  festività religiose.    I  curdi, durante la prima guerra mondiale, furono vittime di politiche  repressive e i loro territori divisi, ad opera delle grandi potenze che  non ne riconobbero l’esistenza, né i diritti.    Sotto  mandato francese (1920-1941) la Siria diventò il rifugio naturale dei  profughi curdi di Turchia e Iraq che fuggivano dalle repressioni in atto  nei due paesi. La Siria conquistò l'indipendenza nel 1946 e, in questo  contesto, i curdi avevano una buona posizione nel paese, anche perché  compresero che sarebbe stato più utile abbandonare l'obiettivo  dell'indipendenza per arrivare ad un sistema di governo nazionale che  gli preservasse l’identità etnica. Da evidenziare però c'è una  particolare situazione: mentre da una parte le comunità curde, che si  trovano ai confini turco-iracheni mantengono le caratteristiche  nazionali, dall'altra, i gruppi curdi che sono nelle aeree interne  siriane sono stati gradualmente arabizzati.     Il Partito democratico Kurdistan-Siria  (Pdks) fondato nel 1957, persegue il riconoscimento dei  curdi come  gruppo etnico distinto con diritti culturali. Con la nascita, invece,  della Repubblica araba unita (Rau) l'unione tra Siria  ed Egitto nel 1958, le autorità siriane cercarono di ostacolare le  attività politiche e culturali curde. Iniziarono gli arresti e le  condanne con l'accusa di attività contro l'unione araba. La Siria si  separa l'anno dopo dall'Egitto, ma la repressione anti-curda rimane.     La  storia del popolo curdo in Siria è passata tra fasi positive e in  accordo con il partito Baath, ed altre negative e tragiche. Per  contrastare il “pericolo curdo” e salvare l'arabismo della regione, il governo mette in pratica nel 1962 il piano chiamato della “cintura araba”.  Piano che prevede l'espulsione della popolazione curda residente nella  regione di Cezire, lungo la frontiera con la Turchia, e la loro  sostituzione con arabi. I curdi espulsi furono mandati più a sud ma di  preferenza “dispersi”. L'esecuzione del piano prosegue però  lentamente, sia per non attirare l'attenzione del mondo e sia per la  reazione violenta dei contadini curdi che non volevano lasciare i loro  villaggi.     La situazione dei curdi nel Kurdistan occidentale ((Kurdistana Rojava)  peggiora nel 1963 con l'arrivo al potere,  con un colpo di Stato, del  partito Baath che intensifica l'arabizzazione dei curdi. Un decreto di  12 articoli pianificò ufficialmente questa politica che portò  all’insediamento degli arabi nella regione curda costringendoli  all’esilio. L’amministrazione attirò gli arabi offrendo loro  facilitazioni economiche e facendoli stabilire in villaggi arabi al fine  di tagliare le comunicazioni tra i villaggi curdi rimanenti. Si trattò  di una cacciata «incrociata» nel paese: i curdi cacciati dalla regione  vennero deportati nelle regioni arabe al centro della Siria. In Siria  così come in Turchia, la lingua curda fu proibita sulla stampa e nella  società. I nomi delle città e dei luoghi storici curdi furono  arabizzati. 300.000 curdi furono privati dei loro diritti fondamentali,  come il diritto di essere naturalizzati. Oltre al genocidio culturale,  il regime siriano non ha smesso di impegnarsi nelle aggressioni fisiche.  Questa politica colpisce soprattutto i contadini, che costituiscono  l'80% della popolazione, che devono abbandonare la loro terra e cercare  lavoro a Damasco, in Turchia e Libano. Il Piano della “cintura araba”  viene abbandonato nel 1976, ma non vengono evacuati i 41 nuovi villaggi  arabi.      
    Abdullah Öcalan,  leader del popolo curdo, ha vissuto più di venti anni in Siria,  (1979-1998) dove ha sviluppato il movimento di liberazione del  Kurdistan, ha coinvolto direttamente i curdi del Kurdistan occidentale  (Kurdistana Rojava) e ha sostenuto la riflessione e la strategia delle  loro organizzazioni. Attualmente i curdi del Kurdistana Rojava,  attraverso la loro organizzazione, hanno fondato autorità locali  autonome.     Negli  anni ottanta i curdi erano una forza di sostegno al regima bathista  senza però ricevere alcuna concessione sul piano culturale e dei diritti  umani. I curdi siriani erano preoccupati dall'instabilità della loro  situazione. Come avviene nelle altre parti del Kurdistan, la popolazione  curda rimane ai margini della ricchezza prodotta in Siria, subendo una  forte discriminazione nelle opportunità di lavoro. Nei primi anni  novanta in Siria ci sono circa settemila prigionieri politici curdi,  molti dei quali saranno rilasciati con l'amnistia del 1995. In questi  anni le relazioni tra Siria e Turchia hanno vissuto forti momenti di  tensione dovute alla strumentalizzazione della questione curda da parte  del regime di Hafez al Assad per ottenere dalla Turchia  concessioni su questioni strategiche come la gestione delle riserve  idriche del Tigri e dell'Eufrate. Sotto pressioni e ricatti  internazionali e per evitare un confronto armato con la Turchia, il  governo siriano firmò un trattato di sicurezza, l'accordo di Adana  (1998) che sancì la fine dell'appoggio di Damasco al Pkk.  Abdullah  Ocalan fu arrestato poco dopo in Kenya e consegnato alla Turchia.     Solo nell'estate del 2000, si aprì una nuova fase di disgelo e tolleranza tra la nuova dirigenza di Bashar Al Assad e il popolo curdo. “Un'armonia”  di breve durata, perché nel 2004 a Qamislo, nel corso di una partita di  calcio, le forze governative siriane con l'aiuto di nazionalisti arabi  attaccarono con estrema violenza i curdi. Le manifestazioni di protesta  durarono dieci giorni e ci  furono 32 morti, centinaia di feriti e 2000  arresti.    Il dominio della famiglia Assad e l'inizio della guerra civile.   La  Siria è governata da cinquant'anni dalla famiglia Assad in un costante  stato d'emergenza, di censura e di intimidazione. La rete televisiva Al  Jazeera, durante i primi mesi della primavera araba, definì la Siria “il regno del silenzio”  perché non si sentiva nessuna voce di protesta o dissenso. A differenza  di Egitto e Tunisia, la Siria non ha una popolazione omogenea rispetto  alla religione ed all'etnia. C'è una maggioranza sunnita che convive con  grandi minoranze cristiane, curde e alawiti (una setta islamica vicina  agli sciiti di cui fa parte la famiglia Assad e gran parte dell'elite  economica e militare del paese).     In  Siria non sempre ha regnato il silenzio, specialmente quando i Fratelli  Mussulmani negli anni ottanta occuparono la città di Hama, nella parte  orientale del paese. L'assedio durò 27 giorni. Si calcola che  l'occupazione abbia causato la morte di almeno 10 mila persone – 40 mila  secondo altre stime. Negli anni successivi ci furono altre piccole  insurrezioni, soprattutto con i curdi che abitavano nel nord del paese.   
   Le proteste in Siria ebbero inizio il 6 marzo 2011 a Daraa,  una città a maggioranza sunnita a 110 chilometri a sud di Damasco verso  la Giordania. A Daraa la situazione era molto difficile. Oltre alla  povertà e disoccupazione, la città era invasa di profughi arrivati dal  nord del paese a causa della siccità a cui il governo non era riuscito a  porre rimedio. L'atmosfera in alcuni paesi arabi era tesa e le notizie  che circolavano, in quel momento, erano di libertà: folle di persone  erano scese in piazza ed erano riuscite a rovesciare il governo tunisino  ed egiziano.      Un gruppo di ragazzi dai 11 ai 16 anni scrisse alcune frasi con uno spray rosso sui muri di quattro  scuole: “il popolo vuole rovesciare il regime” - “è il tuo turno, dottore”.  Il giorno dopo le scritte sui muri furono coperte da vernice bianca e  immediatamente, polizia ed agenti dei servizi segreti si misero sulle  tracce dei responsabili. Una quindicina di ragazzi furono arrestati. I  giorni passavano ma i ragazzi non venivano rilasciati. I genitori  iniziarono allora una protesta, ma venivano scacciati. La CNN riporta  una frase di un ufficiale: “Dimenticatevi dei vostri figli. Se  volete davvero dei figli, dovreste cominciare a pensare di farne degli  altri. Se non sapete come fare, possiamo farvelo vedere noi”. La  notizia, nonostante la censura, superò il silenzio. Alcuni prigionieri  politici iniziarono uno sciopero della fame. I ragazzi di Daraa non  erano più soli. Uno dei responsabili di Amnesty International per la  Siria ha affermato: “Arriva il punto in cui l'insulto non è più sopportabile. Il popolo smette di inginocchiarsi e risponde”.    Il 15  marzo, infatti, per la prima volta in Siria, migliaia di persone scesero  in piazza per protestare contro il governo. Ci sono state  manifestazioni silenziose dove la gente camminava tenendo in alto le  foto dei parenti, amici scomparsi, altre invece più dure dove le persone  urlavano slogan contro il regime e ci furono scontri con la polizia. Il  regime rispose con durezza. Ci furono ancora molti arresti, ma mentre  il governo aumentava lo scontro, aumentavano anche le proteste.     Il 18  marzo, dopo la preghiera del venerdì, i cortei si erano diffusi in quasi  tutte le città del paese con la partecipazione di migliaia di  manifestanti. La polizia rispose caricando le folle con lacrimogeni ed  idranti. In un giorno furono uccise sei persone. Dopo una piccola  tregua, il 25 marzo ripresero le proteste. A Daraa marciarono contro il  governo più di 100 mila persone e almeno una ventina furono uccise dalle  forze di sicurezza. Nel corso del mese di aprile, il governo schierò  l'esercito contro i dimostranti ed autorizzò l'uso di armi da fuoco e  carri armati per disperdere la folla nelle strade e piazze.  Contemporaneamente il governo fece piccole concessioni, come ad esempio  quella di revocare lo stato d'emergenza in vigore da 50 anni.    All'inizio  di maggio la repressione era diventata estremamente feroce. Il numero  delle persone uccise durante le dimostrazioni era salito a più di mille.  Questo però non arrestò la rabbia del popolo. I manifestanti,  soprattutto nel nord del paese, cominciarono ad assaltare le caserme  delle forze di sicurezza ed a impossessarsi delle loro armi. Iniziò la  reazione dei soldati. Alcuni di loro, costretti a sparare sulla folla,  iniziarono a disertare ed unirsi ai manifestanti.     Il 29 luglio, quattro mesi dopo le prime proteste, un gruppo di ufficiali disertori proclamò la nascita dell'Esercito Libero Siriano (FSA).  E' guerra civile.     
   Tra la  fine del 2011 e l'inizio del 2012 la guerra diventa sempre più violenta.  I ribelli ricevono finanziamenti da parte di alcuni paesi arabi per  iniziare ad acquistare armi più sofisticate. Il regime comincia a fare  un uso massiccio di armamenti pesanti, in particolare durante l'assedio  di Homs, “la capitale della rivolta”. Così è chiamata dai ribelli.     A  luglio gli scontri si intensificano anche a Damasco. A questo punto  iniziano a verificarsi importanti cambiamenti all'interno dello  schieramento dei ribelli. Cominciano ad arrivare combattenti stranieri,  spesso già esperti militari. Alcuni scelgono l'Esercito libero (FSA),  altri invece danno vita a nuove brigate e bande autonome. Un gruppo di  combattenti provenienti dall'Iraq che aveva combattuto con Abu Musab al Zarqawi, capo di al Qaida in Iraq, insieme ad altri miliziani, formarono il 23 gennaio 2012 il Fronte al Nusra,  un gruppo estremista islamico. Inizialmente le forze più laiche della  FSA combatterono insieme ad al Nusra, ma poi successivamente i loro  rapporti si deteriorarono perché al Nusra si dimostrò migliore nel  trovare fondi all'estero ed a reclutare volontari. Tra la fine del 2012 e  l'inizio del 2013, numerosi esperti cominciarono a definire “guerra per  procura”, quello che stava accadendo in Siria. Attraverso gruppi di  miliziani integralisti islamici locali, nel conflitto erano entrati in  competizione alcuni paesi arabi sunniti che finanziavano i ribelli, con  altri paesi (Iran) e gruppi (Hezbollah) che appoggiavano invece il  governo Assad.     Nei  primi mesi del 2013 il regime siriano era riuscito a vincere nei  confronti della FSA. In campo jihadista invece era in atto una  scissione, causa vari scontri tra la leadership siriana ed i miliziani  ISI (Stato Islamico dell'Iraq), guidati da Abu Bakr al Baghdadi. Nell'aprile 2013 Al Baghdadi proclamò la nascita dell'ISIS (Stato Islamico dell'Iraq e del Levante). La divisione definitiva ci fu nel febbraio del 2014.    I gruppi islamici in guerra per la dominazione sunnita sul Medio Oriente    Nel 2001 il mondo conosceva Osama bin Laden  che guidava il movimento di Al Qaida. Dopo la  sua uccisione, in un  raid americano in Pakistan il 2 maggio 2011, subentrò un medico  egiziano, Ayman al-Zawahiri. Altra figura emblematica per capire lo sviluppo di questo movimento, è Abu Musub al-Zarqawi,  un giordano che negli anni ottanta e novanta era stato, all'interno dei  mujaheddin e di al Qaida, uno dei rivali di Bin Laden.     Al Qaida era nata per essere un movimento sunnita che doveva difendere i territori abitati dai musulmani dall'occupazione occidentale. Al Zarqawi,  invece, decise di fondare un gruppo con obiettivi diversi. Voleva  creare un califfato islamico esclusivamente sunnita, attraverso una  campagna di sabotaggi continui e costanti in alcuni stati musulmani  creando una rete di “regioni della violenza” nelle quali la  popolazione locale fosse obbligata a  sottomettersi  alle forze  islamiste occupanti. Nel 2003, per esempio, il suo gruppo fece esplodere  un autobomba in una moschea nella città irachena di Najaf durante la  preghiera del venerdì: rimasero uccisi 125 musulmani sciiti.     Nel 2004, nonostante le differenze, il suo gruppo si avvicinò ad Al Qaida, diventando il gruppo di Al Qaida in Iraq (AQI), unicamente perché l'affiliazione portava vantaggi ad entrambi.     Nel 2006 Al Zarqawi fu ucciso da una bomba americana. Il suo posto fu preso da  Abu Omar al-Baghdadi che fu ucciso poi nel 2010. Attualmente guida l'organizzazione Abu Bakr al-Baghdadi.  Il gruppo di al-Baghdadi, nel 2011, aveva ripreso potere anche per le  politiche violente e settarie che negli ultimi quattro anni, il primo  ministro sciita dell'Iraq, Nuri al-Maliki  aveva  attuato nei confronti della popolazione sunnita.     Nell'aprile  2013, grazie anche alla guerra in Siria con nuove prospettive  d'espansione sul suo territorio, il gruppo Al Qaida in Iraq divenne Stato islamico dell'Iraq e del Levante  (ISIS). Il Levante è l'area del Mediterraneo orientale: Siria,  Giordania, Palestina, Libano, Israele e Cipro. L'ambizione dell'ISIS è  molto forte e ampia. La brutalità dell'ISIS era nota a Al Qaida già  nella guerra in Siria tanto che nel febbraio 2014 Zawahiri espulse  l'ISIS da al Qaida.   
   La  guerra civile in Siria dopo i primi tre anni non ha portato alla  vittoria nessuna delle due parti in causa. Il regime ha ottenuto  importanti vittorie grazie agli aiuti dei suoi alleati (Iran e  Hezbollah), mentre l'opposizione è divisa. La parte moderata, l'Esercito  Libero Siriano ha l'appoggio internazionale e riceve rifornimenti da  paesi arabi come Arabia Saudita e Qatar, ma deve combattere, oltre il  governo, anche contro i vari gruppi dei ribelli islamici e in  particolare contro l'ISIS.  All'inizio del 2015 le due forze principali  in Siria sono rimaste il governo di Assad e l'ISIS. Il governo controlla  la gran parte delle zone costiere a maggioranza cristiana o alawita,  oltre che Damasco e gran parte del sud del paese. L'ISIS, invece,  controlla un terzo del paese nella parte nord orientale ed ha stabilito  la sua capitale a Raqqa. Qui ci sono le principali risorse  petrolifere che hanno assicurato al gruppo un costante flusso di denaro.  L'Esercito Libero Siriano controlla una piccola area intorno alla città  di Aleppo e alla città di Dar'a. Lo scorso ottobre l'ISIS ha cercato di  conquistare la città di Kobane, controllata da curdi siriani.   Le conseguenze del Colonialismo Occidentale    La  domanda più ricorrente che ci si pone è quella di come sia stato  possibile un'ascesa così forte da parte di questi gruppi jihadisti in  Medio Oriente. Dove sono i movimenti radicali, i gruppi studenteschi, le  organizzazioni femministe, le lotte di liberazione nazionale, i  movimenti operai, contadini ed intellettuali di sinistra? Cosa è  successo per rendere i gruppi jihadisti gli attori principali in grado  di cambiare la geopolitica della regione? Forse la risposta ha radici  profonde all'interno della storia coloniale ed imperialista dell'area.  In occidente si segue l'avanzata dell'ISIS in Iraq e in Siria senza  preoccuparsi di analizzare il ruolo che hanno avuto in questo caos i  rispettivi governi. Per non parlare poi di come molti media  rappresentino la popolazione della regione solo come dei fanatici divisi  tra etnie e religione.     Guardando  la storia del Medio Oriente, forse si può cercare una risposta nelle  politiche dei poteri coloniali dall'inizio del 20° secolo ad oggi. Il  prossimo anno, infatti, ricorre il centenario dell'accordo Sykes-Picot  (1916) che divise l'Impero Ottomano in stati nazioni artificiali. Un  secolo di dominio coloniale seguito poi da governi corrotti in mano ai  Signori del petrolio e controllati dalle potenze imperiali. Questo  controllo è poi aumentato nel periodo della Guerra Fredda per prevenire  l'influenza dell'ex Unione Sovietica nella regione. E' iniziata così una  crociata contro la sinistra. Decine di migliaia di membri di partiti,  sindacati e movimenti studenteschi, nel corso degli anni '80, sono stati  uccisi nelle prigioni iraniane, turche, siriane, irachene, egiziane e  di altri paesi della regione. E' in questo periodo che sono sorti i  primi gruppi jihadisti. Nell'ultimo decennio, questi gruppi, in  particolar modo dopo l'occupazione dell'Afghanistan e dell'Iraq, hanno  ottenuto uno status legittimo tra le persone come coloro che combattono “gli invasori stranieri” e “gli infedeli”.  Tutto questo ha trasformato la regione mediorientale in un campo di  sterminio dove gli estremisti islamici possono condurre la loro lotta  senza creare problemi nei paesi occidentali.     Dopo  l'ondata delle guerre imperialiste iniziate ufficialmente dopo l'11  settembre 2001, è emersa la possibilità di promuovere un Islam moderato in accordo con l'economia mondiale neo liberale.  Il  governo dell'AKP di Erdogan  in Turchia  rappresentava proprio quel modello di  stato islamico  moderato che con le sue politiche economiche neo liberali poteva   riconciliare la rabbia del popolo contro l'Occidente e operare come  agente del capitale nella regione. E' diventato così il futuro del Medio  Oriente. Questo ha consentito al  governo turco di guadagnare maggior  potere e fiducia nella propria rivendicazione a ruolo guida della  comunità islamica sunnita globale. In realtà ha solo portato ulteriore  devastazione e violenza tra sunniti e sciiti.     Il  sostegno della Turchia insieme ai paesi del Golfo, ai gruppi jihadisti  in lotta contro Assad, ha volutamente fatto sprofondare la Siria in un  caos totale con l'obiettivo di distruggerla. La Turchia, infatti, ha  peggiorato la situazione trasformando se stessa e le province confinanti  con la Siria, in un luogo di transito degli estremisti islamici. E'  stata anche accusata di fornire supporto logistico e militare ai gruppi  jihadisti: l'ISIS e il Fronte Al-Nusra sono quelli che hanno beneficiato  di questo sostegno. Questo avviene sotto gli occhi delle nazioni  occidentali che di fatto non ribadiscono che respingere e sconfiggere  l'ISIS e il suo Califfato nero è prima di tutto una lotta antifascista  in difesa della libertà e l'emancipazione dei popoli.    L'ISIS,  fin dall'inizio di questa guerra in Siria, è diventato il flagello per  il Kurdistan, il Medio Oriente ed il mondo intero.       
   I curdi e la libertà in Siria   I curdi del Kurdistan occidentale (Kurdistan Rojava)  e quelli che vivono all'interno della Siria  hanno sempre corso il  rischio, insieme a tutti gli altri curdi delle altre nazioni confinanti,  di scomparire. Soprattutto come popolo, a causa delle politiche  negazioniste di cui sono stati oggetto. La rivolta popolare contro il  regime siriano ha contribuito ad aprire la strada per un cambiamento  della situazione, attirando l'attenzione del mondo su questa piccola  parte del Kurdistan. Questa regione è diventata la chiave per risolvere  la questione curda e un modello di organizzazione politica per tutto il  Medioriente. Questo perché da alcuni anni, nel Rojava, è in corso un  processo politico di trasformazione della società e da quando il  conflitto siriano si è trasformato in guerra civile, il movimento curdo  guidato dal PYD (Partito di Unione Democratica) ha  preso il controllo di gran parte della regione. E' infatti nel novembre  2013, che il PYD ha dichiarato la piena autonomia e proposto una  costituzione chiamata Carta del Contratto sociale.   Kurdistan occidentale: nasce il Movimento della Società Democratica   La  regione autonoma del Kurdistan occidentale è divisa in tre cantoni,  ciascuno con il proprio autogoverno democratico e autonomo: Cizire,  con più di un milione di abitanti e la sua ricchezza del sottosuolo è  la più importante della regione. I giacimenti di petrolio della regione  Rimelan-Cizre sono i più importanti (Rimelan ha lo stesso potenziale di  Kirkuk).  Kobane, regione agricola situata davanti alla  pianura di Suruc, nel Kurdistan del Nord (Turchia), attraversata  dall'Eufrate, uno dei maggior fiumi della Mesopotamia, abitata da più di  500.000 curdi. Efrin, a causa delle migrazioni  interne, ha raddoppiato la sua popolazione stimata sui 500.000 abitanti.  Tutti e tre i cantoni sono dotati di assemblee popolari e forze di  autodifesa, le YPG (miste) e la YPJ (solo da donne). La Carta del Contratto Sociale è  la costituzione più democratica che la popolazione di questa regione  abbia mai avuto. La Rojava può essere considerata un modello di un  confederalismo democratico nel Medio Oriente  nel quale ogni comunità ha  il diritto all'autodeterminazione e all'autogoverno.    La zona  orientale è stata per molto tempo controllata dall'esercito  governativo, ma poi, a causa delle continue infiltrazioni di bande  terroriste e jahdiste, contro gli abitanti, specialmente curdi, il 12  luglio 2012 è stipulato un accordo tra le varie formazioni curde, in  particolare tra il Consiglio Siriano Curdo (CNSC) ed il partito PYD (ramo siriano del PKK) per adottare una linea comune per la difesa della popolazione locale. L'opposizione armata del CNS (Consiglio Nazionale Siriano) e del ELS  (Esercito Libero Siriano) accusano i curdi di essere alleati del  governo di Assad, perché il Presidente siriano, strategicamente, ha  concesso ai curdi, dopo solo qualche settimane dall'inizio delle  rivolte, fino a quel momento considerati stranieri, la cittadinanza  della regione orientale dell'Hasak. Certamente la rivolta popolare  contro il regime di Assad è stata l'occasione per i curdi di portare la  propria lotta ad un livello superiore. Il movimento, pur partecipando  attivamente alla rivoluzione e facendo tesoro della sua esperienza  storica, ha intrapreso un corso indipendente, prendendo le distanze sia  dalle forze del regime e sia dalle forze di opposizione. Si presentano   come la terza forza che può proporre  una soluzione al conflitto. Per  rimanere mobilitati politicamente ed attivi nella rivoluzione i curdi   decidono quindi  di creare il Movimento della Società Democratica (TEV-DEM) e l'Assemblea Popolare del Kurdistan occidentale (MGRK).     La  strategia curda è  quella di organizzare la propria resistenza  sviluppando una propria politica indipendente. La rivoluzione del 19  luglio 2012 gli ha permesso di prendere gradualmente il controllo di  tutte le assemblee comunali mettendo in atto il suo piano strategico  sviluppato in  tre fasi. La prima, diretta a prendere il controllo delle  zone rurali e dei villaggi collegati al Comune, la seconda verso le  istituzioni civili e servizi pubblici connessi allo Stato e la terza al  controllo di tutte le città curde. Dal 19 luglio 2012, il movimento  curdo era pronto per entrare nella terza fase della sua strategia. Dopo  Kobane, sono state liberate tante altre città, come anche quartieri  curdi delle città siriane di Aleppo, Raqqa e Hassaké. In  due-tre mesi  tutte le collettività locali curde sono andate nelle mani del popolo, ad  eccezione di Qamislo, la più grande città della regione.     Il mese di luglio rappresenta per il popolo curdo un punto di svolta importante della sua storia:     Il 2  luglio 1979, il suo leader Abdullah Ocalan varca il confine del Nord  Kurdistan per andare in Kurdistan occidentale aprendo così la strada per  una rivendicazione identitaria.     Il 14  luglio 1982, quattro quadri del PKK, detenuti nel carcere di Diyarbakir,  iniziano uno sciopero della fame, che li condurrà alla morte, per  protestare contro il sistema carcerario, le pressioni e la tortura  contro i curdi. Questa nuova forma di resistenza si è poi diffusa in  tutto il Kurdistan portando la voce del popolo curdo a tutto il mondo.     Il 19  luglio 2012, i curdi, dopo aver cacciato le forze del regime, prendono  la gestione del governo locale delle città del Kurdistan Rojava per  mettere in pratica i principi della “autonomia democratica”,  tra cui il controllo politico, l'amministrazione della giustizia e delle  attività economiche e socio culturali, le questioni riguardanti i  diritti delle donne e l'organizzazione delle forze di legittima  autodifesa.     Gli  eventi del 19 luglio hanno anche rafforzato l'unione dei tanti partiti  politici curdi,   permettendo quindi  al PYD, la forza più grande della  regione, insieme ad altri sedici partiti, in una riunione dell'Assemblea  del popolo del Kurdistan occidentale, di creare l'Assemblea nazionale curda della Siria (ENKS). Il 24 luglio le due assemblee hanno poi annunciato la fondazione dell'Alto Consiglio Curdo,  riconosciuto da centinaia di migliaia di curdi scesi in piazza per  festeggiare questo importante momento. Successivamente l’Alto Consiglio  Curdo ha istituito tre comitati: il “Comitato della diplomazia”, il “Comitato dei Servizi Sociali” e “Comitato della Difesa”.   
   Curdi e integralisti del Califfato: uno scontro senza esclusione di colpi   Dalla  metà del 2013, i curdi delle tre regioni autonome della Siria  settentrionale sono stati impegnati in un conflitto armato contro  l'ISIS, ma questo non ha suscitato molto interesse nell'opinione  pubblica internazionale. Era considerato solo un sotto conflitto  distinto all'interno del grande conflitto siriano. Solo quando, il 10  giugno 2014, le forze estremiste dell'ISIS hanno conquistato Mosul  (Iraq) il mondo ha aperto gli occhi. Tra giugno e la fine di luglio  l'ISIS si è concentrato poi nuovamente sul Kurdistan occidentale con  l'intenzione di massacrare la popolazione del Cantone di Kobane. Tutto  il popolo curdo si è mobilitato in massa dando sostegno alle forze delle  YPG e YPJ favorendo così una resistenza storica. Trovando resistenza a  Kobane, l'ISIS ha provato un'offensiva nella regione di Cizire nella  città di Hasakah che si trova vicina al confine siriano-iracheno. Dopo  giorni di combattimento, l'ISIS  è stata costretta ad arretrare. Dopo  queste disfatte i gruppi terroristi si sono diretti verso il Kurdistan  iracheno.     
 Il 3 agosto l'ISIS ha attaccato una delle zone più antiche e sacre della nazione curda, Sinjar (Singal), massacrando curdi yezidi,  senza nessuna differenza tra civili e combattenti. Le forze peshmerga  nell'arco di 24 ore hanno abbandonato le loro postazioni e l'ISIS ha  preso il controllo della città. Il numero dei morti, feriti, dispersi è  ancora ignoto, ma si parla di 1500-2000 civili morti. A seguito di  questi attacchi, più di 50.000 yezidi sono scappati verso le montagne di  Sinjar e più di 300.000 tra donne, bambini e anziani sono stati  sfollati. Migliaia di donne sono state rapite e ridotte in schiavitù o  sono state vittime di stupri. I rifugiati in montagna sono poi rimasti  isolati ed hanno dovuto affrontare la fame e la sete. Quasi 300 bambini  sono morti per fame e disidratazione e molte donne hanno preferito il  suicidio piuttosto che finire nelle mani dell'ISIS. Questo brutale  attacco ha spinto le unità armate delle YPG ad intervenire dal Kurdistan  occidentale per proteggere i civili in fuga ed aprire un corridoio  umanitario per la popolazione bloccata in montagna. Ciò ha salvato molte  vite ed ha impedito all'ISIS di controllare zone più ampie del  territorio.     
   L'appoggio non tanto segreto della Turchia all'ISIS
   Lo  stato islamico è tornato ad attaccare anche con armi pesanti, come i  carri armati T-72,  la popolazione curda del cantone di Kobane (15  settembre 2014) utilizzando anche armi consegnate dalla Turchia. Decine  di villaggi sono attaccati con i cannoni. L'obiettivo è quello di fare  un altro massacro come quello della popolazione yezidi. Le forze di  difesa YPG e YPJ stanno resistendo mentre il governo dell'AKP di Erdogan  sta sostenendo queste bande. Il confine turco rimane chiuso ai  profughi, mentre invece è aperto per i miliziani dell'ISIS. Se la  comunità internazionale vuole fermare l'ISIS bisogna intervenire sulla  Turchia. L'Ufficio d'informazione del Kurdistan in Italia (UIKI)  lancia un appello al Governo italiano, all'Europa ed alle  organizzazioni umanitarie per un intervento verso la Turchia affinché  cessi di appoggiare l'ISIS.  A metà di ottobre, con l'intensificarsi  dell'attacco a Kobane, qualcosa  cambia. Gli Usa, per frenare l'avanzata  dell'Isis, ha iniziato una serie di bombardamenti aerei e, attraverso i  suoi velivoli, ad inviare anche armamenti al PYD. Una decisione che ha  trovato una forte contrarietà da parte delle autorità turche che hanno  sempre considerato le PYD una organizzazione terroristica. La politica  interna della Turchia è infatti legata al futuro della questione curda  del Medioriente. L'obiettivo di Erdogan è quello di impedire di  ristabilire un governo autonomo a Kobane. La speranza della Turchia è  che l'Esercito Libero Siriano, che lotta contro Assad, prenda il  controllo di Kobane. Il premier Ahmet Davutoğlu ha dichiarato che Ankara non vuole al proprio confine “nè il PYD, né il regime di Assad e nemmeno l'ISIS”.   L'atmosfera in Turchia resta tesa. Durante varie manifestazioni curde a  favore di Kobane, iniziate il 6-7 ottobre e continuate per più giorni,  hanno perso la vita oltre 40 persone in scontri con la polizia e gruppi  vicini al PKK e ad islamici radicali. Per il momento, dopo la terza  settimana di assedio dell'ISIS al cantone di Kobane, Ankara assiste  impassibile al graduale indebolimento delle unità curde di difesa  popolare (YPG). Numerosi carri armati dell'esercito turco sono stati  posizionati sulle alture interessate ai combattimenti, tutti puntati  verso la regione curda. Una linea di confine di oltre 100 chilometri. La  Turchia teme la presenza di “regioni autonome curde” ai propri confini  per la possibilità che questo possa estendersi anche nelle sue regioni  sudorientali. Le condizioni di Ankara per dare aiuto a Kobane sono  quelle di rinunciare, da parte del PYD, a pretese autonomiste e di  smettere di collaborare con il regime di Assad. La Turchia avrebbe anche  chiesto a Washington la possibilità di istituire una zona cuscinetto al  confine con la Siria ed una dichiarazione di una “no fky zone”.  Il portavoce della Casa Bianca ha però ribadito il rifiuto di questa  richiesta, ribadendo che l'obiettivo continua ad essere solo l'ISIS. Il  co-leader del PYD, Muslim ha però dichiarato che il  partito curdo è riuscito ad accordarsi su molti punti con il governo di  Ankara. Quello che i curdi attendono è “l'autorizzazione a passare dai confini turchi per poter portare aiuti a Kobane dagli altri cantoni”. Ma,  alla fine la Turchia non ha  mantenuto le sue promesse. E' immorale che  da una parte una città sia minacciata da un massacro e dall'altra ci  siano solo gli interessi di alcuni stati.     Dopo 133 giorni di resistenza Kobane è libera! “E' la vittoria della linea della libertà sull'oscuro ISIS”,  queste  sono le parole del Comando Generale YPG. I combattenti delle  YPG e YPJ, giovani uomini e donne del Kurdistan e tutti i volontari che  li hanno raggiunti da tutto il Kurdistan ed altri paesi, si sono battuti  con molto coraggio ed hanno opposto una forte resistenza al terrore.  Questa vittoria è il frutto della rivoluzione del Rojava. “Questa è  stata una battaglia tra l’umanità e la barbarie, tra la libertà e la  crudeltà e tra i valori comuni dell’umanità e i nemici dell’umanità. È  la correttezza, lo spirito di libertà e il libero volere dei popoli e  dell’umanità, che hanno vinto questa battaglia”, ha sottolineato ancora il Comando Generale YPG.     L'anno 2014 è stato molto importante per il Kurdistan e le popolazioni del Medio Oriente. Uno dei comandanti delle YPG, Cemil Mazlum   sottolineando che l'ISIS, in superiorità tecnica e numerica, si è  scontrata  con la filosofia di Ocalan, con lo spirito di sacrificio ed  una forte organizzazione delle forze curde, ha dichiarato: “Inoltre,  abbiamo capito il nemico in modo corretto e anticipato che cosa avrebbe  potuto fare. Su questa base, ci siamo preparati per attacchi e barbarie  di qualsiasi livello, e abbiamo combattuto il nemico con una chiara  superiorità morale e coraggio. Le bande di ISIS erano superiori a noi  per quanto riguarda le tecniche, le braccia e il numero di militanti, ma  la determinazione eroica, la motivazione, l’impegno e il coraggio dei  combattenti delle YPG/YPJ sono stati il nostro più grande vantaggio  contro l’ISIS. Di fatto, Kobanê ha assistito allo scontro fra la  superiorità tecnica e un popolo in lotta per la propria libertà, che  finora ha vinto la guerra”.    
   Il ruolo delle donne nel conflitto e nella società curda   Le  donne hanno avuto un ruolo molto importante in questo contesto. Le Unità  di protezione del popolo contano circa 45mila unità, il 35% sono donne  (quasi 16mila). C'è in gioco il posto che le donne occupano nel mondo e  per questo le guerriere sono orgogliose di aver imbracciato le armi,  così come lo sono le loro madri. A Kobane la guerra è una scelta  obbligata per chi ha cura della  propria vita e libertà,  di quella dei  compagni, della regione e delle idee. Queste donne stanno portando  avanti anche una battaglia sul fronte interno per affermare il loro  diritto a conquistarsi la libertà. La partecipazione alla guerra le ha  portate a sentirsi uguali, hanno preso a difendere se stesse con il  rischio di morire, senza nessuna predilezione al martirio. A loro la  guerra non piace, come non piace uccidere, lo dicono nelle tante  interviste rilasciate a giornalisti. Una combattente racconta, infatti,  che pulire il suo fucile non era difficile, ma per riuscire a sparare ha  dovuto combattere la paura. Ogni donna, prima di tutto, ha dovuto fare i  conti con se stessa e con la sua normale passività di fronte alla vita  quotidiana. Mentre rivendicano di essere una brigata di sole donne che  vivono in modo del tutto indipendente, rivendicano e praticano anche  l'uguaglianza ed insegnano qualcosa agli  uomini. La loro lotta ha  qualcosa di sovversivo che forse non sarà decisiva da un punto di vista   militare, ma lo sarà da quello politico. La straordinaria resistenza  delle donne curde non nasce dal nulla, ma ha radici molto lontane. E',  infatti, doveroso ricordare la figura di Sakine Cansiz (assassinata  con le sue compagne Fidan Dogan e Leyla Saylemez a Parigi il 9 gennaio  2013) che insieme a poche altre compagne negli anni '70 diede inizio  all'auto-organizzazione delle donne nel movimento curdo.     “Erano  anni molto difficili, dove si viveva in clandestinità e lottando sia  contro lo Stato turco e la sua feroce repressione, sia contro la  sinistra turca che non vedeva di buon occhio il movimento curdo,  definendolo “nazionalista”, sia contro i pregiudizi sociali dell'epoca  interni alla stessa società curda, che voleva per le donne un destino  già scritto di mogli e madri. Un lavoro che le è costato lunghi anni di  prigione, torture, esilio. Ma che è la vita che Sakine Cansiz aveva  scelto per sé, l'unica che avrebbe potuto condurre.” [Dal libro “Tutta la mia vita è stata una lotta” di Sakine Cansiz 1°volume]     Gli occhi della delegazione Italiana   E' in questo contesto che la delegazione italiana come Osservatori internazionali  è arrivata il 18 marzo scorso in Kurdistan, suddivisa in vari gruppi  per poter raggiungere più luoghi del territorio del Kurdistan turco. La  delegazione di cui facevo parte era la “Delegazione di Van” e,  Kobane era la nostra meta finale (22 marzo) insieme agli altri gruppi.      
   Partiamo la mattina presto da Diyarbakir per raggiungere la cittadina di Suruc vicina  al confine siriano a 45 km a sud ovest della città di Urfa. Oggi è un  importante distretto agricolo famoso per la produzione del melograno.  Incontriamo nella sede del Municipio il responsabile della Commissione  della diplomazia del partito DTK (Congresso della Società democratica)  di Diyarbakir, Mustafa Dogal. Senza troppi giri di  parole, ci comunica subito che raggiungere Kobane è praticamente  impossibile, le autorità turche non concedono permessi.  Dogal si trova a  Suruc da cinque mesi  con un ruolo da diplomatico. Il nostro programma  per oggi prevede, dopo questa breve introduzione sulla situazione  odierna, un sopralluogo vicino al confine dove potremo vedere Kobane ed  una visita ad un campo profughi.     La  città di Suruc conta 101.000 abitanti e dall'inizio della guerra, sono  arrivati in tutta la provincia di Sanliurfa, a cui Suruc appartiene,  126.000 profughi. La popolazione si è praticamente raddoppiata. Il  numero totale delle persone fuggite da Kobane che si trovano nel  territorio del sud est turco è di 180 mila.  Dalla liberazione di Kobane  sono riusciti a tornare alle loro case nel Cantone circa 50.000  persone. Il rientro è organizzato, tre volte alla settimana, dai  responsabili dei campi con il partito locale e con le famiglie. Le  persone sono così accompagnate al confine  con l'aiuto di mezzi di  trasporto presi a noleggio. “Dal 1945 - continua Dogal - Turchia,  Siria, Iran e Iraq, quattro paesi sotto le Nazioni Unite, continuano a  praticare un embargo verso il popolo curdo. Sono 70 anni. L'unica  soluzione da fare è quella di esercitare una forte pressione sulle  Nazioni Unite, prima si farà e prima la Turchia sarà costretta a  cambiare la sua politica. Ogni persona che viene qui e non passa a  Kobane, quando torna indietro se non fa niente, se non dice niente,  serviranno ancora altri 70 anni per cambiare qualcosa. Tutto è nelle  nostre mani”.  Dogal si raccomanda, quando andremo al confine, di  non osare troppo, di non andare troppo vicino al confine. E' una zona  militare, c'è l'esercito turco, soldati, e sono pazzi. In passato,  alcune persone sono state uccise solo perché si sono avvicinate troppo.  La Turchia non ha riconosciuto ai profughi curdi di Kobane lo status di  rifugiati e per questo non è intervenuta in questa emergenza. La  municipalità di Suruc ha accolto invece per cinque mesi la popolazione  di Kobane, non come rifugiati, ma come parenti, liberi di scegliere se  restare o tornare alle proprie case.      Il  trattato di Losanna ha diviso il confine separando di fatto persone  della stessa famiglia da uno stato ad un altro. A chi resta, la Turchia  però non rilascia un permesso di lavoro. Suruc ha  prestato aiuto sia a quelli che sono rimasti e sia a chi è tornato a  Kobane. Da ricordare infatti che Kobane per l'80% è ancora distrutta,  specialmente la parte occidentale con molti corpi di combattenti  insepolti ed ordigni esplosivi non disinnescati. A Suruc si trovano 6 campi profughi,  di cui 5 gestiti dalla municipalità ed uno dalla protezione civile del  governo turco, messo in piedi quattro mesi dopo la fine della guerra con  Kobane liberata. La municipalità non ha ricevuto nessun aiuto né dalle  Nazioni Unite e né dalla Turchia. Gli aiuti sono arrivati da 103 diverse  municipalità e da diverse organizzazioni turche ed europee, niente dal  governo turco o da governi europei. “I governi europei  - afferma Dogal -  rappresentano  ufficialmente il governo turco. Il campo profugo turco è in realtà come   un campo militare ed occorre un permesso per entrare e uscire. Il  governo turco pretendeva inoltre che i rifugiati lasciassero i campi  gestiti dalla municipalità di Suruc per trasferirsi in quello ufficiale  turco. Ma era troppo tardi. I rifugiati volevano solo tornare alla loro  case o a quello che ne era rimasto.”   La relazione di Dogal prosegue con toni più politici soprattutto inerenti al conflitto siriano.   “E'  più interessante parlare dell'intera coalizione che parlare solo del  bombardamento delle Nazioni Unite sulla Siria. Quando hanno iniziato a  bombardare l'ISIS – continua Dogal – era tardi, ma è sempre meglio che  niente. Le forze di coalizione dovrebbero continuare, perché come popolo  curdo non abbiamo abbastanza potere militare, ma come coraggiosi,  abbiamo potere. Abbiamo bisogno di attrezzature, le  YPG/ YPJ hanno  bisogno di più armi, l'Isis ha grandi armi, ma nonostante questo sono  stati sconfitti e, grazie al coraggio curdo e alla resistenza”.    Per 70  anni, a causa delle divisioni, dei confini e dei regimi dittatoriali non  è stato possibile creare un'unità curda.  Il popolo curdo è stato  volutamente diviso per evitare una reale unificazione. Per quanto  riguarda il rapporto con i Peshmerga, arrivati dall'Iraq, Dogal è molto  diplomatico. Afferma infatti che il loro aiuto è stato minimo, ma è solo  l'inizio. E' stato un passo importante per la costruzione di una unità  dei curdi.     “Senza  unità i curdi non possono essere così potenti, come dovrebbero esserlo,  e non solo i curdi da soli, i fratelli come voi, come noi – prosegue Dogal - Voi  venite dall'Italia, ma le vostre radici sono qui, tutta la civiltà è  nata in Mesopotamia. Se si legge la storia, le persone si sono mosse in  Europa e negli Stati Uniti partendo dalla Mesopotamia, tra il Tigri e  l'Eufrate. Bisogna tenere in considerazione le proprie radici. Il popolo  curdo non sta combattendo solo per il popolo curdo, ma combattiamo per  la democrazia in tutto il mondo. Se l'area che dovrebbe essere  controllata dai curdi, sarà controllata dai curdi, l'intero mondo sarà  al sicuro. Se l'occidente aiuterà il popolo curdo a controllare questa  area, i fondamentalisti non potranno più manovrare in quest'area. Per  questo bisogna supportare il popolo curdo affinché controlli questa zona  e non solo contro l'Isis di oggi, ma anche contro quelli che verranno,  perché spesso cambiano solo il nome, ma restano gli stessi. Il popolo  curdo è l'assicurazione dell'intero mondo”.   Per quanto riguarda la questione del PKK (Partito del Lavoratori del Kurdistan), Dogal ci chiede: “Se il PKK è considerato un gruppo terroristico, perché la coalizione sta combattendo con loro?  La  storia aveva detto che Nelson Mandela era terrorista, ma poi cosa è  successo? Il popolo curdo non è terrorista ed il mondo lo capirà. Dopo  Kobane ed il massacro degli yezidi, lo capirà, tardi, ma capirà. Il  popolo curdo non ha mai voluto occupare un altro territorio, non ha mai  voluto seguire l'esempio dell'Isis in nessuna terra. Quello che il  popolo curdo vuole è solo vivere nella sua terra, sul suo terreno con  dignità ed onere, come gli altri popoli. Quello che vogliamo è la  democrazia per l'intero mondo e per le donne”.   Sul processo di pace e sulle dichiarazioni di Ocalan, Dogal si esprime solo a livello personale.     “Le  autorità turche negli ultimi trent'anni hanno trovato sempre delle  scuse per non concedere l'autonomia al popolo curdo, come per esempio,  attribuire la responsabilità al PKK perchè non accetta di deporre le  armi. Il PKK però negli ultimi tre anni ha portato avanti “il cessate il  fuoco” ma il governo turco non ha fatto nessun passo verso una  riconciliazione. Il governo turco ora afferma  che se il PKK abbandona  la Turchia, è pronto a concedere al popolo curdo i suoi diritti. Sul  processo di pace si sono aperte delle differenze di posizione tra  Erdogan ed il primo ministro turco, ma siamo vicino alle nuove elezioni  politiche ed è una consuetudine per Erdogan, per prendere più voti,  rilasciare dichiarazioni che poi non metterà mai in pratica. Ad Erdogan  piace il potere, vuole dimostrare a tutti chi è il Re, ma chi l'ha messo  su lo può anche buttare giù. Tutto questo è normale per Erdogan, ma è  lui che non è normale!”.     Audio Mustafa Dogal 
   In direzione di Mesher a due passi dal confine e dal conflitto
   La  delegazione, subito dopo l'incontro con il diplomatico Mustafa Dogal  nella sede del Municipio di Suruc, si dirige verso il confine con Kobane  raggiungendo il villaggio di Mesher.     Mesher è  infatti l'ultimo centro urbano turco prima della frontiera, tra Suruc e  la Siria. Mesher e Kobane si guardano, si salutano, si aiutano, distano  solo  tre chilometri e, con l'aiuto di un binocolo o di uno zoom di una  macchina fotografica si può guardare dentro alle case o di quello che è  rimasto in piedi.       
   
    Arriviamo  al confine. Scendiamo dal pulman. Alla nostra destra c'è una grande  collina verde dove ci sono alcune pecore che tranquillamente mangiano  l'erba, non sembrano sorprese o preoccupate, per loro è solo una  silenziosa giornata di sole senza spari. Sulla strada ci sono camionette  e militari che imbracciano fucili o Kalashnikov. Sono giovanissimi, ci  guardano un po' curiosi, ma abituati a questi occidentali che vogliono  passare per vedere quello che resta di questa guerra. L'emozione mi  prende allo stomaco, alla testa, dimentico lo zoom della mia macchina  fotografica sul pulman, solo una volta a casa capisco che ho perso  un'occasione per scattare delle fotografie più intense. Il tempo a  nostra disposizione è poco. I miei compagni di viaggio iniziano a  correre per raggiungere un punto migliore e il più vicino possibile allo  spazio a noi consentito, dove riprendere o scattare immagini. C'è  confusione, si sente gridare a qualcuno di tornare indietro,  qualcun'altro vuole una foto con un soldato, ognuno esprime come vuole i  propri sentimenti. Appena tre chilometri mi separano da Kobane, da  quello che è rimasto della “Stalingrado del Medio Oriente”,  così è stata chiamata Kobane dai primi giornalisti che sono riusciti ad  entrare al termine dei quattro mesi di combattimento. Da qui riesco a  vedere i palazzi, le case distrutte, le automobili, i furgoni  abbandonati oltre il confine turco dai profughi in fuga e, sullo sfondo  in lontananza, anche la bandiera delle YPG. Siamo tutti su questa linea  con le macchine fotografiche e cineprese a guardare case distrutte.   Penso ai combattenti, agli abitanti di Kobane, al loro tentativo di  rivoluzionare la società esistente attraverso la proposta di una nuova  costituzione chiamata “Carta del Contratto sociale”. Un  documento laico, egualitario e anticapitalista. Alcuni principi sono già  stati messi in pratica, come l'uguale divisione delle cariche  amministrative fra uomini e donne, le forze di difesa speciali di sole  donne (YPJ), la coesistenza sullo stesso territorio di etnie e religioni  diverse.     Domani noi tutti torneremo alle nostre case e poi? Una domanda mi attraversa la mente mentre mi guardo attorno: “ma  perché solo ora tanta gente è qui oggi? Perchè negli altri anni, per  festeggiare il Newroz insieme al popolo curdo in Kurdistan, eravamo  circa una trentina di persone, mentre in questo viaggio siamo in 120?  Occorre una guerra, una devastazione per far muovere le persone? Ma  poi mi dico che in fondo non c'è bisogno di affrontare un viaggio per  essere vicino e supportare i diritti del popolo curdo e, il gran numero  di persone presenti in quest'occasione, è solo per dimostrare al mondo  intero, ma specialmente, al governo turco che siamo in molti a  schierarsi con il popolo curdo, con la loro determinazione, coraggio e  resistenza. La loro lotta deve essere anche la nostra.  Dove mi trovo  ora è “La linea” descritta da Serena Tarabini  il 15 gennaio scorso nel suo racconto di un viaggio sul confine  turco-siriano. Ricordare le parole di Serena è un omaggio per tutti  quelli che hanno vissuto sulla propria pelle questa aggressione.     “La  linea” si compone tutte le mattine a Mesher, villaggio collocato fra la  cittadina di Suruç, ultima enclave urbana turca prima della frontiera, e  la Siria. Un aggregato di poche case che lambisce il confine, dalla  quale ciò che succede a Kobane si vede e si sente. Uno in mezzo a tanti  altri, ma che si distingue. Le sue poche centinaia di abitanti, a cui si  sono aggiunte una quarantina di famiglie fuggite da Kobane, assieme a  ex combattenti, volontari, simpatizzanti, visitatori internazionali che  vi transitano, ogni mattina formano una lunga linea rivolta verso una  Kobane dalla quale si alzano colonne di fumo e provengono i suoni delle  mitragliatrici e delle granate, mentre il ronzio degli aerei della  coalizione si avvicina o si allontana. Nella “linea” decine, a volte  centinaia di persone, rivolgono il loro omaggio ai combattenti di  Kobane, scandendo slogan e innalzando canti di lotta. Un gesto simbolico  pieno di orgoglio, di storia, di forza e di coraggio. Un rituale non  privo di pericoli quando si svolge a pochi metri dal confine e si è  sotto il tiro dell’esercito turco: un’attivista curda di 28 anni, Kader  Ortakaya, a Novembre vi ha perso la vita, colpita alla testa da una  pallottola sparata da un soldato.  Questa catena umana che corre  parallela lungo il confine, fa anche da linea di congiunzione fra due  fronti di resistenza, quello militare che si svolge dentro Kobane, dove  le Ypg e le Ypj, le truppe di liberazione maschili e femminili curde  combattono l’Isis a costo della vita, e quello umanitario dall'altra  parte della frontiera, dove si sono rifugiate le decine di migliaia di  profughi provenienti da Kobane. “La linea” è uno dei tanti gesti che  fanno di Mesher un luogo speciale, un osservatorio permanente sugli  sviluppi del conflitto e un presidio di solidarietà dai caratteri simili  a quelli della “comune”. Ma non c’è solo Mesher, tutta questa zona ha  qualcosa di eccezionale....«Questa guerra non è la nostra guerra» ci  dice Fatma, nome di fantasia per una dei 20 membri eletti al governo del  cantone di Kobane e responsabile dell’ordine e della sicurezza a Suruç.  «Chiunque si definisca un democratico dovrebbe sostenere questa nostra  resistenza, perché stiamo combattendo contro l'Isis, che sono dei  fascisti e dei terroristi»... Sono tante le linee che ho visto in questo  viaggio: quelle formate dalle tende dei campi profughi, dalle macchine  che fuggitivi siriani sono stati costretti dall'esercito turco ad  abbandonare lungo il confine, dalle ambulanze che trasportavano morti e  feriti, dalle persone in attesa di un pacco o di una visita medica, dal  fumo delle esplosioni, sono tante linee le strade che tagliano  l’infinita pianura mesopotamica. E poi la linea di frontiera, irta di  filo spinato, brulicante di carri armati e uomini in divisa. Che  continua con tutte le linee di frontiera dell’Europa e del mondo:  innocenti righe tracciate su un pezzo di carta, nella realtà selettive e  crudeli barriere sulle quali si infrangono le speranze e la vita di chi  fugge dall'orrore.   Foto di Giorgio Barbarini     
     I  combattimenti sono cessati, Kobane è libera ed ora si contano i danni  della devastazione. La guerra contro l'Isis ha avuto un costo molto  alto. Il Consiglio esecutivo della provincia di Kobane ha costituito un  Comitato con il compito di documentare tutti i danni subiti. E' stato  quindi redatto un rapporto (http://www.uikionlus.com/rapporto-sui-danni-nel-cantone-di-kobane/)  nel quale sono dettagliate tutte le necessità di cui Kobane ha bisogno  per riprendere una vita normale. Tutto è stato distrutto:  infrastrutture, ospedali, agricoltura, istruzione, economia e capitale  sociale.         Immagini  Suruc      
   Lasciamo la linea del confine per raggiungere uno dei sei campi profughi a Suruc: Suruc Belediyesi – Kobani – Cadir Kenti. Siamo  accolti all'ingresso da tanti bambini curiosi. Il campo è abbastanza  grande con tante  tende grigie ben allineate. Possiamo girare  liberamente all'interno del campo e ci dividiamo per non essere troppo  invadenti nei confronti delle persone che lo occupano. La prima  sensazione in queste occasioni è di disagio. Le nostre intenzioni, il  nostro impegno è sincero, ma potremmo essere fraintesi nel momento in  cui non incidiamo sulle prese di posizione dei nostri governi. Entro nel  campo e subito una dolcissima bambina dai capelli castani con una  giacca rosa, mi prende la mano e mi accompagna a conoscere il campo per  tutto il tempo a nostra disposizione. Comunichiamo a gesti, avrei voluto  conoscere la sua famiglia, sapere con chi si trovava lì, ma purtroppo,  per la differenza linguistica, le mie domande sono rimaste  insoddisfatte. Noto, come ci aveva raccontato il diplomatico Dogal,  molti spazi vuoti, segno che molte tende sono state smontate per  l'inizio delle operazioni di rientro a Kobane. La mia impressione è  stata positiva perché mi trovavo di fronte ad una situazione d'emergenza  messa in atto semplicemente dalla buona volontà di persone per aiutarne  altre in estrema difficoltà. Questo non è il solito campo profughi dove  vengono ammassate  moltitudini di persone per un tempo indefinito, qui  si tratta di un campo allestito per aiutare chi sta scappando da una  guerra, si tratta dello stesso popolo e come tale è considerato. Sono  liberi di scegliere se restare o ritornare alle proprie case. Le parole  diventano inutili di fronte a tutto ciò, forse le immagini rendono  meglio la situazione. Porto nel cuore con me il viso di quella bambina  sorridente e spero che sia ora con tutta la sua famiglia nella sua casa a  Kobane, come del resto, anche per tutte le altre persone presenti nel  campo. L'unico rimprovero e delusione è quello di non aver potuto sapere  le storie di quelle persone, delle loro paure, speranze, richieste  d'aiuto. Non era programmato un incontro esplicativo con alcuni  rappresentanti del campo.   
   Immagini del campo profughi
 
   22/05/2015 Fonti:   - Dal libro”Storie dei curdi” di Mirella Galletti   - sito “Osservatorio Balcani e Caucaso”   - sito “Uiki Onlus” I curdi in Siria   - sito “il Post”: tre anni di guerra in Siria – quatto anni di guerra in Siria – che cos'è l'Isis   -sito “Info Aut” La rivoluzione in Rojava   -sito “Ossin.org” La minoranza curda nella crisi siriana 
 
	
	
Sesta edizione Premio Stefano Chiarini 2015“PALESTINA: IL DIRITTO AL RITORNO”
 Modena, domenica 1 febbraio 2015 ore 10,00
 presso LA TENDA, Viale Molza angolo Viale Monte Kosica
 come raggiungerci...  
 Le foto dell'evento:  Il Premio Chiarini, dedicato alla figura del giornalista del Manifesto Stefano Chiarini,  si propone di istituire un riconoscimento all’impegno sul tema del  Medio Oriente e in particolare della Palestina, con una speciale  attenzione per il mondo dei media e della cultura. Quest'anno sarà  attribuito a Moni Ovadia,  attore teatrale, drammaturgo, scrittore, ricercatore, cantante e  interprete di musica etnica e popolare di vari paesi, per il suo impegno  per la diffusione, attraverso la sua arte, della questione palestinese. Consegnato, inoltre, un riconoscimento al Gruppo musicale “I Kalamu” band  calabrese di musica folk-rock  per il loro impegno nella costante lotta  alle mafie ed alla ricerca di una comunicazione tra tutti i popoli.
 
 Hanno inoltre partecipato: Moni Ovadia, Mai Alkaila Ambasciatrice Palestinese in Italia, Sirkku Kivistu, attivista pro-PalestinaFinlandia, Kassem Aina, presidente Comitato internazionale per il diritto al ritorno (Libano), Mohammed E.A.Eleyan,  Dipartimento Affari profughi Olp, giornalisti, amici di Stefano e  rappresentanti di associazioni nazionali ed internazionali, etc.
 
 
 
   Presentazione e apertura  di MIRCA GARUTI                  
 
         
   SIRKKU KIVISTU,  attivista pro-palestina Finlandia traduzione  Raffaele Spiga
          
 
         
   GIANPIETRO CAVAZZA  Vicesindaco e Assessore alla Cultura e all'istruzione di Modena      
 
                “DIRITTO AL RITORNO” Video realizzato dalla redazione di Alkemia
 La vita del popolo Palestinese, dai campi profughi dal Libano a Gaza. La felicità e il dolore di chi da troppo  tempo attende di poter tornare a casa, di poter esistere e di essere  riconosciuti, secondo il diritto internazionale, come legittimi  proprietari di un territorio oggi occupato da Israele.
  
   
    
   MAI ALKAILA  Ambasciatrice Palestinese                  
 
   OSAMA QASIM AL RIMAWI  Giovani Mussulmani Italiani (GMI - Modena)                 
   “RICORDO DI STEFANO CHIARINI”  KASSEM AINA – Pres.Te Com.Inter. per il Diritto al ritorno  (Libano)  Traduzione di Bassam Saleh             
 
   “LETTURA ARTICOLO DI STEFANO CHIARINI”  ERMANNO BUGAMELLI               
   Presentazione  “per non dimenticare Sabra e Chatila...”  di MAURIZIO MUSOLINO             
 
 
   MOHAMMED E. A. ELEYAN - Dipartimento affari profughi OLP                       
   LETTURA POESIA DI DAWISH OSAMA QASIM AL RIMAWI - TAKWA HADDAD (in Italiano)             Premiazione  MONI OVADIA 
 Attore teatrale, drammaturgo,  scrittore, ricercatore, cantante e interprete di musica etnica e  popolare di vari paesi, viene riconosciuto il premio chiarini 2015 per  il suo impegno per la diffusione, attraverso la sua arte, della  questione palestinese. Moni Ovadia, oggi è considerato uno dei più  prestigiosi e popolari uomini di cultura ed artisti della scena  italiana. il suo teatro musicale, ispirato alla cultura yiddish, che ha  contribuito a fare conoscere e di cui ha dato una lettura contemporanea.  Moni Ovadia è anche noto per il suo costante impegno politico e civile a  sostegno dei diritti e della pace ed è un punto di riferimento per le  giovani generazioni.
 recentemente sul gesto del pontefice ha  affermato che: «il pugno di francesco è lungimirante» e la battuta del  pontefice non è casuale né ingenua: «è stato un modo con cui non solo ha  chiarito che come papa difende la chiesa ma anche che non è  indifferente al ridicolizzare le fedi, il tutto però sdrammatizzando.  oggi si tende a commentare tutto in diretta. dovremmo cominciare a  riattivare l'uso del cervello e lasciare da parte le budella».
 
 Le sue dichiarazioni dopo la premiazione:
 “..vorrei fare molto di più perché nella coscienza di ogni persona  per bene, nella coscienza di un uomo che riconosce i valori centrali  dell'umanità, il dramma del popolo palestinese è una ferita aperta.  Nella nostra coscienza di esseri umani, di cittadini europei, di  cittadini del mondo e dovrebbe essere una ferita aperta anche nella  coscienza ebraica...”
 
 Audio:
 
  Audio fotografico:  
 Premiazione
 GRUPPO MUSICALE KALAMU
 
 Band calabrese di musica folk- rock in  costante impegno di lotta alle mafie ed alla ricerca di una  comunicazione tra tutti i popoli. i testi spaziano dai temi sociali a  brani di carattere intimistico. Tra impegno ed ironia per parlare a  tutti in una costante ricerca di comunicazione.
 
 Audio:
 
  Video della premiazione:  
 
  
      
 ANDREA PICCININI - Ricordo della Professoressa Ada Lonni di Torino  Azione BDS – RAFFAELE SPIGA (comitato Boicottaggio Disinvestimenti Sanzioni -  Bologna) Missione “Diritto al Ritorno” 2015 - GUSTAVO PASQUALI 
     La festa finale con “Bella Ciao”:    
  I DISEGNI DEI BAMBINI DEL CAMPO PROFUGHI CHATILA (LIBANO) Laboratorio di arte e ritratti di Roberta Ravoni 
     
   
    
 A cura di Alkemia, Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, LaTenda
 
 
	
	
  
 (scarica o ascolta l'audio della giornata) LE FOTO DELLA GIORNATA di Mirca Garuti: Non è stata una  domenica qualsiasi quella del 29 novembre scorso  a Lucca. L'Auditorium  San Romano ha accolto molti militanti, attivisti e intellettuali per  partecipare ad un confronto su quale progetto futuro per una resistenza  non violenta alla repressione israeliana e quale percorso intraprendere  affinché siano riconosciuti i diritti dei palestinesi e il ritorno dei  profughi. Durante la giornata è stato inoltre lanciato,  per evitare, come chiaramente espresso da Norberto Julini, che “tra un anno ci ritroviamo qui a fare la conta dei danni e le medesime analisi”, un obiettivo: lavorare affinchè anche il nostro governo riconosca lo Stato di Palestina.
 Una giornata dunque intensa, ricca di focus di analisi e confronto che  meritava di essere raccontata e che abbiamo cercato di sintetizzare.
 Apertura dei lavori e di Norberto Julini (Pax Christi) e i saluti di Ilaria Biechina, Stefano Baccelli (Presidente prov. di Lucca) e la Direttrice UNRWA Italia.
 
  FOCUS - LA CAMPAGNA “PONTI E NON MURI” DIECI ANNI DOPO: LA SOCIETA' CIVILE INTERNAZIONALE SI RACCONTA...
 
 L'esperienza diretta di chi opera sul  campo è tra le parti più importanti di questo focus. Dalla denuncia  della voluta distruzione di una scuola costruita dagli italiani a Gaza,  non durante un raid aereo ma con l'avanzata di terra dell'esercito  israeliano e il rifiuto di chiedere i danni, votando contro ad una  mozione presentata in parlamento; al racconto in collegamento dalla  Cisgiordania, di Patrik ultimo cooperante dell'ISM colpito al petto  mentre difendeva, durante il raccolto, i contadini palestinesi. Anche  Stephanie Westbrook ha elencato i successi della campagna BDS nel mondo e  della necessità che questa campagna di boicottaggio diventi attiva per  distruggere il regime di apartheid, come del resto è stato fatto per il  Sud Africa. Soprattutto perché sono i palestinesi stessi che ce lo  chiedono. Stefano Gambini ha poi ricordato, come illustrato nella  dichiarazione dell'ONU, che le falde acquifere di Gaza, a causa della  rottura delle fognature, rischiano entro il 2020 di essere   inutilizzabili.
 
  Don Nandino Capovilla incontra: Massimo (rapp.te di Operazione Colomba)
 Stefano Gambini (cooperante a Gaza)
 Josè Henriquez (segr,ario di Pax Christi international)
 Maya (rapp.te ISM)
 Annibale Rossi (rapp.te di Vento di Terra)
 Stephanie Westbrook (leader del BDS)
 
 
 
   AUDIO COLLEGAMENTO CON PATRIK      
 
 AUDIO DELL'INCONTRO 1p  AUDIO DELL'INCONTRO 2p                OMAR SULEIMAN: LE POESIE DI DARWISH   
       FOCUS – LA COMUNITA' INTERNAZIONALE: COME LE NAZIONI UNITE STANNO LAVORANDO PER LA PACE, LA GIUSTIZIA, I DIRITTI UMANI 
 Il focus non poteva che cominciare che  con il saluto dell'ambasciatrice palestinese in Italia e la descrizione  dettagliata ed aggiornata di Ray Dolphin, dove  attraverso la proiezione di carte e specifiche descrizioni grafiche, ha  evidenziato la lampante violazione dei diritti internazionali  soprattutto in riferimento agli insediamenti israeliani e le zone di  totale controllo dove i Palestinesi non possono neppure entrare. Per  esempio, in Cisgiordania  le zone dove non solo è vietato l'accesso ma  anche la coltivazione da parte dei Palestinesi, sono l'85%. Ha  parlato,  subito dopo, della realizzazione di oltre 400 km di muro su un totale  di  700 km che, nonostante abbia ottenuto il permesso dalla Corte  Internazionale per la sua realizzazione all'interno dei territori  d'Israele, è stato compiuto su suolo palestinese. Nicolò Rinaldi ha espresso, invece, la difficoltà  all'interno del Parlamento Europeo di riuscire ad avanzare una seria  discussione sulla questione Palestinese, non solo a causa del peccato  originale dell'Olocausto, ma anche per i troppi legami commerciali  relativi ad armamenti e tecnologia con il governo israeliano. Altra  motivazione è che comunque Israele viene considerata un enclave, un  presidio occidentale in una terra araba. Un lavoro parlamentare che, a  fatica, comincia a dare qualche frutto e prova di andare oltre il  semplice versamento di circa 900 milioni di euro all'UNRWA. Cosa che, al  contrario, non fanno i governi arabi, anche se, prima o poi, dovranno  affrontare.
 Luisa Morgantini ha elencato i valori e i risultati  della lotta non violenta nei territori occupati soffermandosi, in  particolare, sulla pochezza del messaggio di Ban ki-Moon che mantiene  equidistanza tra i due contendenti mettendo sullo stesso piano  oppressori ed oppressi. Un atteggiamento che evidenzia l'impossibilità  per le Nazioni Unite di poter avere un ruolo decisivo nei processi di  pace e nella realizzazione di due popoli in due stati.
 
 Renato Sacco, coord.re naz. Pax Christi, incontra:
 
   Ray Dolphin (rapp.te dell'ONU e dell'OCHS)           
     Nicolò Rinaldi (Parlamentare Europeo)           
   Luisa Morgantini (ex pres.te parlamento europeo)   
 
       Presentazione del progetto “1000 biglietti per Gaza” dall'associazione “InvictaPalestina”  InvictaPalestina   ha organizzato il primo concorso nazionale di Arte Contemporanea “I  popoli che resistono”.  Le 40 opere, omaggiate dagli artisti, saranno  poi estratte al termine della vendita dei biglietti.  L'obiettivo è  quello di raccogliere  2.500 euro da destinare alla ricostruzione di  Gaza. 
 
 
 
 FOCUS - LA POLITICA ISRAELIANA TRA OCCUPAZIONE E MASSACRO: LE PAROLE PER DIRLO
 
 Gideon Levy: “Una cosa  va detta subito e senza esitazione: quello che Israele, il mio Paese,  vuole fare è accaparrarsi più terra possibile. E questa non è una  questione complessa, come spesso si dice. E’ molto semplice: dal ’48 gli  ebrei colonizzano la terra palestinese e le loro politiche non sono  cambiate. E questo ha un nome: colonialismo. Oggi, poi, dobbiamo parlare  chiaramente di un vero regime di apartheid. … Con il mio lavoro voglio  documentare tutto, perchè un giorno, quando tutto sarà finito, gli  israeliani non possano dire 'non sapevamo'. Sono nato e vissuto a Tel  Aviv sentendomi una vittima e non certo un occupante e ho pensato questo  fino agli anni '80, quando ho cominciato a lavorare per Haarez, che mi  ha inviato nei Territori Occupati. Solo lì ho cominciato a vedere e a  capire. Come chiamereste un regime in cui uno dei due popoli gode di  tutti i diritti mentre l'altro non ha nulla? Io lo chiamo apartheid”. Moni Ovadia invece affronta il problema che “in Europa  siamo tenuti sotto ricatto violentissimo attraverso l'uso ideologico  ideologico della Shoah, come critichi l'occupazione o le azioni del  governo israeliano, immediatamente parte subito l'insulto o la  maledizione. Moni risponde alle accuse di antisemitismo, di essere  nemico del popolo ebraico, di ebreo che odia se stesso. Il tutto senza  mai rispondere alle mie argomentazioni”
 
 Grazia Careccia intervista:
  GIDEON LEVY (giornalista israeliano)     
 
       
   MONI OVADIA (attore e intellettuale)     
           
   Le risposte di Ovadia e Levy alle domande del Pubblico      
       FOCUS – UNA LUNGA STORIA DI RESISTENZA: COME E' CAMBIATA LA RESISTENZA PALESTINESE IN 12 ANNI DI MURO DI APARTHEID 
 Gli ultimi anni raccontati ed analizzati da un importante intellettuale arabo e rappresentate dell'OLP in Italia, Washim Dahmash  e da Mohammed Khatib coordinatore  dei comitati per un opposizione non violenta al governo Israeliano nei  territori occupati. Due punti di vista che pur partendo da due diversi  modi di agire politico ed attivo,  giungono alla medesima conclusione:   liberare il popolo palestinese dall'oppressione israeliana. 
 Anna Clemente intervista:
 Mohammed Khatib (cood.re comm.lotta popolare non violento palestinese)
 Washim Dahmash (prof.re lingua e letteratura araba a Cagliari)
   
 
 
  AUDIO DELL'INCONTRO           
 
 WASHIM DAHMASH Legge le poesie di Darwish  
       Per altre informazioni o approfondimenti:http://www.bocchescucite.org/giornata-onu-una-voce-nel-deserto-i-video-e-gli-interventi-di-lucca-2014/
 
 https://www.youtube.com/channel/UCop3V1dXcqFYbhewDp0vEEA
 
 
	
	

   FERMATO IL GENOCIDIO A GAZA STOP AL MASSACRO  
 In tutta, TUTTA, la Palestina stasera si festeggia. Non si festeggia solo il cessate il fuoco, che sarebbe il minimo, dopo 51 giorni di particolare ferocia che solo chi è sporco di putrida malafede dalla testa ai piedi non riesce a chiamare col giusto nome di crimine di guerra.
 Non si festeggia solo il cessate il fuoco ma si festeggia la vittoria.
 
 GAZA ha pagato caro ma ce l'ha fatta. Non è finita, è solo il primo passo, ma è il primo passo significativo. Per la prima volta le divisioni interne sono state messe all'angolo e stasera TUTTI i palestinesi, di qualunque colore sia il loro stendardo, stanno festeggiando nelle strade, nelle piazze, perfino tra la polvere delle rovine prodotte dagli F16 che con accanimento disumano hanno tagliato la vita a circa 2200 persone. C'è qualcosa che né Israele ne i suoi lerci alleati, compresi quelli di casa nostra, hanno saputo sconfiggere: la forza della dignità e insieme la straordinaria forza della vita che ha risposto per ogni bimbo ucciso con 10 bimbi nati per raccoglierne il testimone.
 
 L'Unicef alcuni giorni fa comunicava che in un mese e mezzo Israele aveva fatto strage di 450 bambini (poi purtroppo saliti a circa 520) ma comunicava anche la nascita, nello stesso periodo, di 4.500 bambini vivi e belli, nonostante le condizioni terribili in cui avvenivano i parti.Di molti dei bambini uccisi abbiamo le immagini delle loro risate, dei loro vestiti di festa o del loro compleanno, immagini solari che si sono decomposte sotto le bombe che hanno frantumato quei corpi. Se la legalità internazionale avesse fatto il suo corso, se Israele non fosse stato rifornito di armi, peraltro vietate come le "dime", quei bambini seguiterebbero a ridere e i 2.200 morti e i 10.800 mutilati e feriti non ci sarebbero stati.
 Se ci sarà finalmente un banco degli imputati, Israele non dovrebbe sederci da solo, chi lo ha sostenuto ne dovrebbe condividere le responsabilità.
 *
 Intanto nelle strade si ride, si canta e si respira l'aria della vittoria. Ma mentre si festeggia è bene non dimenticare che molte carogne, anche di piccolo cabotaggio, oltre a quelle di maggiore autorevolezza, dopo aver esaurito il repertorio della "corruzione nell'Anp" si sono sbizzarrite su Hamas, spendendosi in fantasiose affinità con l'Isis al fine di impedire un sostegno unitario alla lotta che si è svolta a Gaza per la libertà e la dignità di tutto il popolo palestinese.
 Seguendo il tormentone dettato ai media e recitato con maggiore o minore abilità da quasi tutti i nostri opinion maker, in una sorta di coazione a ripetere che ha contagiato anche molte persone oneste, abbiamo letto e sentito che la colpa dell'eccidio stava nei razzi lanciati da Hamas e dalla Jihad.
 Abbiamo visto scambiare i ruoli tra vittime e carnefici e tra occupati e occupanti. Abbiamo sentito parlare di scudi umani senza mai una parola di condanna verso Israele che ignorando la loro eventuale (e mai dimostrata) funzione di scudi li ha regolarmente assassinati. 
 Abbiamo saputo che grazie a quella debolezza umana che a volte porta un disperato a farsi spia, alcuni capi di Hamas sono stati uccisi radendo al suolo le case in cui si trovavano e con chiunque vi si trovasse dentro. Non abbiamo mai sentito ipotizzare che se i capi dell'IOF fossero stati uccisi bombardando le loro case sarebbe stato l'equivalente di ciò che Israele stava regolarmente facendo a Gaza e "occasionalmente" anche in Cisgiordania. Hamas non aveva le armi per farlo, ma se le avesse avute avremmo di nuovo sentito dire dai nostri geni della comunicazione che uccidere un capo dell'IOF è un atto di terrorismo mentre uccidere un capo di Hamas è atto giusto e pertanto non punibile.
 Abbiamo sentito i difensori di Hamas ripetere che Hamas spara solo dei razzetti più o meno innocui e abbiamo sentito i suoi accusatori dire che Hamas ha armi raffinate e pericolosissime. Proviamo a riflettere senza faziosità: se Hamas avesse avuto solo razzetti la situazione oggi sarebbe come nel gennaio 2009 dopo piombo fuso. Hamas non ha certo le armi di Israele, ma ha qualcosa di più che quattro razzetti innocui e, da chiunque li abbia avuti, li ha utilizzati per dire a Israele che Gaza non è più un agnello sacrificale che si può sgozzare senza rischiare neanche un graffio. Anche dal sud del Libano è arrivato un avvertimento a Israele, era l'equivalente armato delle manifestazioni pacifiche che si sono svolte nel mondo, diceva così: Gaza non è sola, ci siamo anche noi. 
 Abbiamo sentito dire che Israele doveva difendersi dai gazawi che scavavano i tunnel, ma, come per un'interruzione di corrente raziocinante, i nostri analisti dell'informazione non hanno mai ricordato mai che i tunnel sotterranei sono il portato dell'assedio illegale che rende Gaza un campo di concentramento. 
 Abbiamo sentito dire che i soldi arrivati alla dirigenza di Hamas finivano in lussuose ville mentre il popolo era alla fame. Ora, mentre una parte dei tunnel veniva distrutta dagli F16 israeliani, veniva detto che mentre il popolo era alla fame i dirigenti di Hamas facevano costruire i tunnel. Insomma non erano più le ville ma i tunnel gli affamatori del popolo gazawi e, ovviamente, non l'assedio. Per cui Israele, usciva regolarmente assolto.
 Ma oggi la Palestina è in festa perché sa che attraverso tutti quegli uomini, quelle donne, quei bambini massacrati senza accettare di genuflettersi è stato detto al mondo VOGLIAMO LA LIBERTÀ perché è NOSTRO DIRITTO. Vogliamo che vengano rispettati i diritti umani perché, appunto, sono i nostri diritti.*
 Oggi godiamo con tutto il popolo palestinese questa vittoria costata tanto sangue, ma senza dimenticare che se Israele non finirà davanti alla Corte penale internazionale, si sentirà libero di ripetere le sue periodiche mattanze e il sacrificio di Gaza non sarà servito a molto.
 Gaza oggi ha vinto e tutta la Palestina ha vinto, sprecare la vittoria sarebbe un altro crimine.
 
 Da Facebook post di Patrizia Cecconi - 27 Agosto 2014 -
 
  Gaza, tregua permanente annunciata alle ore 19 del 26 agosto, dopo 51 giorni di aggressione sionista, che ha causato 2200 morti e più di 11000 feriti, e distrutto quartieri interi comprese scuole chiese e moschee.  Ha vinto la resistenza del popolo palestinese a Gaza, una sconfitta della macchina da guerra israeliana. Hanno vinto l'unità delle forze della resistenza insieme alla eroica volontà popolare di sfida e fermezza.  L'unità della delegazione unitaria Olp, Hamas e Jhad islamica. Grazie a tutti quelli che hanno sostenuto e creduto nella capacità della fermezza del popolo palestinese e nella sua giusta lotta contro l'occupazione sionista della Palestina. Attendiamo ora l'attuazione dell'accordo, che prevede: la fine dell'aggressione israeliana, l'apertura dei valichi, la ricostruzione di Gaza, l'aumento a 6 miglia fino a 12 miglia, a fine anno, delle acque territoriali per la pesca, la cancellazione  della zona di sicurezza ai confine con Israele. Le altri questioni, aeroporto e porto,  saranno discusse entro un mese. La lotta del popolo palestinese continua: boicottaggio dei prodotti israeliani, lotta popolare contro il muro, la colonizzazione, l’occupazione ed ebraicizzazzione di Gerusalemme, la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi e per aumentare il livello delle istituzione internazionali per processare i criminali di guerra israeliani.
 
 Da facebook post di Bassam Saleh - 27 agosto 2014 -
   
 GAZA SOTTO LE BOMBE 
 L'offensiva  di terra, i     bombardamenti e l'uccisione della popolazione  civile. Donne e     bambini  di Gaza “avvisati” dall'esercito israeliano  cinque minuti    prima  di  essere uccisi. Le descrizioni, i racconti e le riflessioni  durante e  dopo la distruzione dei tunnel di Hammas e delle scuole per  l'infanzia  volute dai volontari italiani. Le immagini della  disperazione e di  quelli uccisi dai bombardamenti israeliani nonostante  accolti nei rifugi  messi a disposizione dall'ONU. Altri servizi: UNA COOPERANTE IN PRIMA LINEA - di Meri Calvelli  TUTTA COLPA DI HAMMAS  - di Gideon Levy  L'INCUBO DI GAZA - di Noam Chomsky  IL GOVERNO ISRAELIANO HA PERMESSO L'ASCESA DI HAMMAS - di Isaan Tharoor/The Washington Post  LETTERA ALLA FAMIGLIA DELLA MILLESIMA VITTIMA - di Ilan Pappè  ONG ITALIANE : MASSACRO SILENTE   LA LETTERA  SUL MASSACRO DI GAZA - di Javier Bardem  GAZA, I PIU' COLPITI SONO I BAMBINI - di Marco Cesario  GLI ERRORI DELLA LEADERSHIP DI ABBAS - di Amira Hass  ISRAELE NON VUOLE LA PACE - di Gideon Levy   LA VOCE DI UN MEDICO SOTTO LE BOMBE DI GAZA   UNA DISCUSSIONE MANCATA IN CONSIGLIO COMUNALE DI MODENA (03/07/14)  
 INTERVISTA DA GAZA A MICHELE GIORGIO 10 luglio 2014 - ore 11.20 – Radio Città Aperta
  
Il volto della Guerra e le opinioni   dalla voce del Giornalista de Il Manifesto presente a Gaza e   intervistato dai giornalisti di Radio Città Aperta.   
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 DIRETTA DA GAZA SU ATTACCO ISRAELIANO (Nenanews)  
 
	
	
ISRAELE E CURDI IRACHENI:UN CONNUBIO ALL’INSEGNA DEL PETROLIO
 (E DELLA TRADIZIONE DI ABRAMO)
 di  Marco Cesario
 
 Mentre l'Iraq si sfalda, lo Stato Islamico  (ex ISIL) proclama il ritorno del califfato ed Abu Bakr Al-Baghdadi  s'autoproclama califfo del neonato stato e Wali (leader) di tutti i  musulmani, i rapporti economici tra Israele e i Curdi d'Iraq  rifioriscono, segno di una fin troppo discreta (e segreta) amicizia che  rivede la luce proprio in queste ultime convulse settimane in cui il  Medio Oriente sta letteralmente esplodendo e gli equilibri stanno  cambiando velocemente.
 
 Nel deserto lasciato dalla ritirata  dell'esercito iracheno (che ha abbandonato tank, blindati e jeep ai  jihadisti che avanzavano senza incontrare resistenza), i Curdi,  grazie all'efficiente apparato dei combattenti, i Peshmerga  (letteralmente "coloro che affrontano la morte") hanno consolidato la  propria autonomia regionale riuscendo con un'operazione scaltra e rapida  a evitare, nella débacle dell'esercito iracheno, di perdere il  controllo di un centro nevralgico d'importanza fondamentale come la  città di Kirkuk, uno dei maggiori centri d'estrazione petrolifera d'Iraq  ma anche capitale storica per i Curdi, al centro di frizioni tra Bagdad  ed Erbil.
 
 Israele dal canto suo,  sin dall'inizio dell'offensiva dell'ISIL, ha seguito con crescente  timore il formarsi di un califfato islamico in Medio Oriente. La sua  stessa esistenza è minacciata. Nella dizione "al-Shams" ovvero "la  Grande Siria" è incluso tutto il Levante dunque anche Israele. E c'è un  altro fronte oltre la Siria e l'Iraq: la Giordania, anch'essa minacciata  dall'avanzata delle truppe jihadiste. Non è un caso che il re hashemita  Abdallah di Giordania, temendo uno sforamento delle truppe dello Stato  Islamico in territorio giordano, abbia dispiegato l'esercito lungo i  confini con l'Iraq.
 
 Governo Regionale Curdo: verso la creazione di uno stato consolidato?
 
 In questo contesto d'instabilità i Curdi  stanno legittimando il proprio ruolo nella regione, forti di  un'autonomia amministrativa e desiderosi di ottenere, sul lungo periodo,  una vera e propria indipendenza politica. Per proteggere il proprio  territorio i Curdi dispongono di un esercito composto da oltre 350 mila  combattenti.
 
 La regione autonoma curda, oltre a  disporre di un forte esercito, controlla direttamente il valico di  frontiera con la Turchia tanto che gli stessi cittadini iracheni non  curdi non sono autorizzati ad entrare nella regione se non sono  'invitati' (da sponsor curdi).
 
 Sui palazzi governativi è issata e  sventola non la bandiera irachena ma quella curda, si parla e s'insegna  il curdo (e la lingua araba s'eclissa). Insomma se il consolidamento del  Governo Regionale Curdo (Hikûmetî Herêmî Kurdistan) è un dato di fatto,  le recenti mosse del leader curdo Barzani, di fronte al precipitarsi  degli eventi in Iraq, ha accelerato questo processo: in primo luogo la  decisione di vendere petrolio in maniera indipendente dal governo di  Baghdad (attraverso un oleodotto in Turchia) ma anche il controllo  strategico della città di Kirkuk ed infine il referendum per  l'indipendenza (che però è questione molto più complicata).
 
 Le dichiarazioni del ministro degli esteri israeliano Lieberman e dello stesso premier israeliano Benjamin Netanyahu ("Il popolo del Kurdistan, moderato e affidabile, merita l'indipendenza politica") vanno in questo senso.
 Israele, di fronte al collasso dell'Iraq e  alla minaccia di uno stato sunnita nemico, vedrebbe di buon occhio la  creazione di uno stato indipendente curdo nella regione. La chiave di  questa posizione è il petrolio che Israele può acquistare direttamente  dal Kurdistan il quale può trasformarsi in un insperato alleato nella  regione.
 
 Petrolio curdo in Israele
 
 Cruciale per il governo regionale curdo è  infatti vendere il proprio petrolio, bypassando l'autorità centrale del  governo d'Iraq, attraverso un oleodotto indipendente. In quest'ottica è  stata lanciata la nuova rotta d'esportazione verso il porto turco di  Ceyhan, nella Turchia meridionale, che ha ampliato in maniera  esponenziale l'export di petrolio curdo.
 La vendita diretta del petrolio curdo a  terzi ha provocato attriti enormi con Bagdad che sostiene che quel  petrolio invece appartiene all'Iraq e deve essere venduto solo  attraverso il Ministero del Petrolio di Bagdad. Dal canto loro i Curdi  portestano contro Bagdad quando quest'ultimo vende petrolio a terzi  senza che il Governo Regionale Curdo benefici dei dividendi della  vendita.
 
 I giacimenti curdi producono attualmente  circa 120.000 barili al giorno, ma nel tempo la produzione potrebbe  raggiungere i 300.000 barili. Insomma una manna dal cielo per Israele,  in questi giorni impegnato nella più violenta operazione militare contro  Gaza e Hamas sin dai tempi di Piombo Fuso.
 
 Un esempio lampante di quello che potrebbe  consolidarsi come pratica nel tempo è ciò che è avvenuto alcune  settimane fa: un carico di petrolio curdo che ha navigato per settimane  nel Mediterraneo nelle cisterne della petroliera Altai (battente  bandiera liberiana) ha finito per attraccare nel porto di Ashkelon  (Israele) dove sono stati scaricati milione di barili di petrolio  prodotti nelle regioni curde dell'Iraq settentrionale. Dato che per anni  i Curdi hanno cercato invano di raggiungere un accordo con il governo  centrale sulle quote e la condivisione dei ricavi, in mancanza di un  accordo, il governo regionale curdo si ritiene autorizzato a vendere il  petrolio a qualsiasi acquirente, anche ad Israele, il vecchio e discreto  alleato, il quale accetta di buon grado il petrolio curdo.
 
 Curdi iracheni ed Israele: un'amicizia discreta nel nome di Abramo
 
 I legami storici tra Israele e Curdi, mai  ufficializzati ma sempre presenti, risalgono agli anni '60 quando cioè  agenti dei servizi segreti israeliani erano dislocati in territorio  curdo iracheno per aiutare le autorità locali. La cooperazione si è  intensificata con la caduta di Saddam Hussein e soprattutto grazie alle  imprese israeliane che negli anni hanno penetrato il mercato curdo  iracheno ed anche in ambito militare i peshmerga curdi hanno ricevuto  adeguato addestrmento anche da parte di unità d'élite di commando  israeliani.
 
 C'è poi la tradizione secondo la quale gli Ebrei ed i Curdi avrebbero un antenato comune: il patriarca della Bibbia Abramo. E' un'antica credenza dei Curdi d'Iraq infatti quella che Abramo fosse d'origine curda.
 Una tradizione vuole infatti che Abramo  nacque ad Edessa (Urfa), nell'attuale Turchia, a soli 40 km dall'attuale  frontiera siriana mentre tutta la sua famiglia proverrebbe da Carre  (l'attuale Harran, sita nel Kurdistan turco).
 Il padre di Abramo, Terah, secondo la Bibbia, lasciò Ur per sistemarsi e morire proprio ad Harran. Esistono  poi parallelismi tra Israele e il Kurdistan, entrambe nazioni non arabe  'accerchiate' da nemici che s'oppongono alla loro esistenza e  indipendenza.
 
 I Curdi d'Iraq guardano inoltre ad Israele  come esempio di uno stato indipendente fondato su un potente esercito  in grado di fronteggiare e sconfiggere più nemici (vedi Guerra dei Sei  giorni). Dal lato israeliano uno stato curdo nella regione potrebbe  diventare, per ragioni economiche, politiche e strategiche, un alleato  prezioso, forse il più prezioso, per il proprio futuro.
 
 11 Luglio 2014 su www.eastonline.eu
 
 
	
	
OMICIDI IN PALESTINAA MODENA IN CONSIGLIO COMUNALE UNA DISCUSSIONE MANCATA
 di Mirca Garuti 
 Ancora una volta a Modena,  in Consiglio comunale, la questione del conflitto Israelo-Palestinese è  stata affrontata in modo superficiale e priva d’approfondimento. E’  sufficiente leggere l’Ordine del giorno, approvato il 3 luglio scorso,  relativo agli ultimi avvenimenti che stanno sconvolgendo la terra di  Palestina.
 Si condanna l’assassinio dei quattro  ragazzi senza prendere in considerazione che questo è solo la  conseguenza dell’occupazione della Palestina da parte d’Israele e della  cultura dell’odio alimentata dalla continua espansione delle colonie,  insediamenti illegali, e dei continui soprusi perpetrati ai danni del  popolo palestinese.
 Troppo comodo commemorare quattro morti in Palestina ed esprimere anche l’incoraggiamento “a non smettere di perseguire la strada della ricerca della pace in Medio-oriente”. Il capogruppo del PD Paolo Trande e i consiglieri Federica Di Padova e Marco Forghieri,  dovrebbero documentarsi e non usare strumentalmente fatti di cronaca  per conquistarsi il ben volere dei cittadini. Sono state omesse, per  esempio, le aggressioni da parte di alcuni estremisti della comunità  ebraica di Roma nei confronti di manifestanti filo palestinesi, come non  sono stati condannati gli spari contro la sede dell’Ambasciata  Palestinese a Roma.
 Si condanna, quando non si può fare altrimenti, ma il silenzio della comunità internazionale è evidente, come ha dichiarato Don Nandino Capovilla di Pax Christi, “…non  stiamo parlando di uno scontro tra due eserciti, non stiamo parlando di  un campo di battaglia. Il Patriarca attuale è stato chiarissimo in  questi giorni - “Basta con questa logica di vendetta” - ma da parte  della comunità internazionale, è necessaria una ripresa della  chiarificazione, perché senza un congelamento immediato della  colonizzazione, senza un ripristino dei diritti per tutti, nella stessa  terra, l’incubo si avvolge solamente in una spirale, che può solo  portare ad un peggioramento della situazione”.
 L’informazione deve essere corretta e quell’Ordine del Giorno non lo è. Si cita “cordoglio e ferma condanna per i quattro giovani “barbaramente assassinati”.  In verità, in merito alla morte dei tre giovani coloni israeliani, non  c’è assolutamente chiarezza: gli esiti delle autopsie non sono stati  rivelati, non si sa da chi siano stati rapiti, nessuno ha rivendicato  questo atto politico. Chi aveva interesse a “rapire” questi tre coloni,  in un momento in cui le forze politiche palestinesi avevano trovato  un’unità nazionale e nuove elezioni?
 Nel testo si definisce “arabo” il quarto  giovane barbaramente assassinato, forse il nuovo Consiglio comunale ha  paura di usare la parola “Palestinese” perché tale termine si parifica a  quello di “terrorista”?
 Mohamed Abu Khedir è un ragazzo palestinese del campo profughi di Shuaffat.
 La commemorazione delle morti non centra  nulla con le parole del Ministro degli esteri italiano, condivise dal  Consiglio Comunale di Modena, che fa appello “affinché tutte le  parti mostrino che chi attenta alla sicurezza di Israele non potrà  prevalere minando la via del dialogo, unica speranza di pace vera e  duratura nella regione”.  Ma, esprime così solo una posizione  politica evidente nei confronti d’Israele giustificando ogni sua azione.  Nulla è stato espresso nei confronti d’Israele, come invece ha fatto Amnesty International,  rispetto all’escalation di violenza esercitata sulla popolazione civile  nei territori occupati. Rastrellamenti, raid notturni, perquisizioni,  blocchi stradali, completa chiusura di molte città, bombardamento sulla  striscia di Gaza. Invasioni e assalti a campi profughi, ad oltre 1000  case, università e ad ambulatori medici. Sequestrati illegalmente più di  500 cittadini palestinesi, tra cui molti minorenni..
 Solo attraverso la richiesta dell’applicazione delle numerosissime risoluzioni ONU,  mai rispettate da Israele, gli Entri locali e le comunità  internazionali possono dare un vero contributo ai processi di pace tra  Palestinesi ed Israeliani.
 07/07/2014 Comunicato Stampa del  Documento dell'O.D.G Consiglio comunale Modena 
 
 
	
	
PALESTINA:  TERRA DI VIOLENZA UMANAdi Mirca Garuti
 
 Ascoltare in queste ore i vari servizi che  passano per la televisione, da quella nazionale a Rainews o Euronews, è  veramente penoso! Nessuno deve gioire per la morte che coinvolge  altri  esseri umani, questo è vero, ma, le morti di questi tre coloni ebrei  israeliani, si collocano in un contesto molto particolare. Guardare il  volto di Benjamin Netanyahu che chiede “vendetta”, che si rivolge ad Hamas, ritenuto l’unico responsabile di queste uccisioni, definendoli “bestie”,  ma, nessuno, proprio nessuno, si è fatto la domanda del perché? Il   mondo guarda Israele, piange i tre ragazzi uccisi, ma chi piange tutte  le vittime che ha fatto Israele dal 1947 ad oggi? Non ci troviamo di  fronte ad una nazione “normale” che vive in pace con il suo popolo, ma  si tratta di uno Stato che  occupa un altro Stato da ben 66 anni. Uno  Stato, vittima di un massacro, che continua, a sua volta, ad uccidere, a  ferire, a deportare e ad arrestare innocenti. Uno Stato che continua a  non rispettare tutte le Risoluzioni emesse dall’ONU, che usa la Detenzione Amministrativa  a suo gradimento, che non rispetta i diritti dei minori, che toglie  l’energia e l’acqua agli abitanti di queste terre. Uno Stato che è in  guerra da sempre, perché vuole piena autonomia su tutta la Palestina.  Uno Stato che in nome della sua “sicurezza” è riuscito  ad avere l’appoggio di quasi tutto il mondo e negare al popolo  palestinese il diritto all’autodeterminazione nel proprio paese. Cosa  dovevano fare i palestinesi dal 1947 ad oggi? Per Israele solo  andarsene, è ovvio, andare a chiedere ospitalità negli altri stati arabi  e zitti e muti. Ma le cose non sono andate così. I Palestinesi si sono  difesi, hanno combattuto, ma specialmente, hanno resistito e resistono  ancora in attesa che il mondo non abbia più paura di ammettere che lo  Stato d’Israele è uno stato sionista, fascista e razzista. Non è  necessario elencare qui tutte le operazioni militari e massacri ideati  dal governo d’Israele contro il popolo palestinese sia nella sua terra e  sia in altri stati, come il Libano, perché niente è stato casuale,  tutto era programmato dall’inizio di questa storia. L’obiettivo era  terrorizzare la popolazione e creare una destabilizzazione permanente  tra i vari stati arabi al fine di diventare la maggior potenza in Medio  Oriente.
 
 Dal 12 giugno scorso, giorno della scomparsa dei tre coloni, Gilad Shaer (16 anni), Naftali Frenkel (16 anni) e Eyal Ifrach  (19 anni) nei pressi dell’insediamento di Allon Shvut, nell’area  colonica di Etzion tra Betlemme ed Hebron, l’esercito d’occupazione  israeliano ha sferrato una violenta offensiva militare contro i  palestinesi. Invasioni ed assalti in varie città e campi profughi: i  soldati entrano nelle case, staccano la luce, sfondano le porte e, con  la scusa di cercare prove del rapimento, procedono a saccheggi e  devastazioni. Più di 1000 case hanno subito questa  sorte, come è successo anche alle scuole, università ed ambulatori  medici. Sono stati sequestrati più di 500 cittadini palestinesi e 8 sono stati uccisi.
 Chi ha ucciso i tre coloni ha minato la  causa palestinese proprio nel momento in cui si era formato un nuovo  governo d’unità nazionale, quindi, a chi giova tutto questo? Questa  voglia di vendetta non giustifica queste rappresaglie, punire un’intero  popolo per un crimine commesso da pochi responsabili, forse… ancora non  si sa la verità!
 
 La vendetta è già iniziata, sia in Israele e sia in Italia.
 
 Mohamed Hussein Abu Khdeir,  17 anni, palestinese che viveva nel campo profughi di Shuafat è stato  trovato in un bosco a Gerusalemme Est, completamente bruciato. Il  giovane, questa mattina, è stato bloccato e costretto a salire su un  auto nera da un gruppo di coloni estremisti, mentre stava per entrare in  moschea per pregare. Il suo corpo è stato trovato un’ora dopo in  un’altra zona della città.
 Nel centro di Gerusalemme coloni impazziti continuano a gridare “Morte agli arabi”. Ma….  qualcuno ha detto loro che stanno occupando una terra che appartiene ad  altri? Come si comportano i coloni nei confronti della popolazione  autoctona? Si sono chiesti a chi giova la morte dei tre ragazzi?
 A Roma, in Piazza Venezia, ieri,  squadristi sionisti hanno aggredito e picchiato violentemente un giovane  solo perché aveva al collo una kefiah. In serata altri sei giovani sono  stati brutalmente assaliti e  feriti.
 Lunedì  30 giugno, sui muri esterni  dell’Ambasciata palestinese a Roma sono apparse scritte ingiuriose,  mentre, il giorno dopo verso le 20,30 da una macchina in corsa sono  stati esplosi alcuni colpi di arma da fuoco contro la sede diplomatica.
 
 Gli insediamenti illegali delle colonie  non si fermano. Presto, infatti, sarà costruita nell’area dove sono  stati ritrovati i corpi dei tre coloni, una nuova colonia israeliana,  dal nome Maalot Halhul,
 
 Quanti ancora dovranno morire per “pareggiare” i conti?
 
 La causa di tutta questa situazione rimane sempre e solo una: l’Occupazione della terra di Palestina.
 02/07/2014
 
 
	
	
PALESTINA:IL NUOVO GOVERNO NAZIONALE TRA ASPETTATIVE E OCCUPAZIONE ISRAELIANA 
 Ascolta l’intervista con la saggista e analista di questioni mediorientali Cinzia Nachira Ha giurato il 2 giugno il nuovo  esecutivo di unità nazionale palestinese, presieduto da Rami Hamdallah.  Il governo di tutto il popolo palestinese, è stato definito, poiché  nasce dopo la riconciliazione fra Hamas, che dal 2007 governa la Striscia di Gaza, e al-Fatah, il movimento palestinese più moderato che controlla la Cisgiordania.Ha il compito di portare Cisgiordania e  Gaza alle elezioni entro l’anno. Ma i parlamentari sono costretti a  tenere le riunioni in videoconferenza, viste le restrizioni imposte  dall’occupazione di Israele che tiene sotto assedio la Striscia di Gaza e  frantuma la Cisgiordania a causa delle colonie e dei check points.
 Intanto la lotta dei prigionieri politici  palestinesi si fa sempre più dura: a decine sono ricoverati in ospedale  dopo oltre un mese di sciopero della fame, Tel Aviv pensa a una legge  per alimentarli contro la loro volontà anche se l’associazione dei  medici israeliani si dice contraria parlando di “metodo di tortura”.
     Dal sito Radio Onda D’Urto04/06/2014
 
 
	
	
L'OCCUPAZIONE, LA SOCIETA' ISRAELIANA E I MEDIA Intervista con Gideon Levy
 di Marco Cesario 
  "Il nodo del conflitto  israelo-palestinese sono le colonie a cui i governi di Tel Aviv non  vogliono rinunciare. Ma finché non lo faranno, non ci sarà pace in Medio  Oriente".
 Tel Aviv -  La sede del quotidiano israeliano Haaretz  si trova al termine di una lunga strada alberata e dagli appezzamenti  di verde estremamente curati. Il verde dei giardini, di un colore così  vivace stride con l'architettura circostante, fatta di palazzi  fatiscenti, mostri di cemento sventrati e anneriti dallo smog, complessi  edilizi semi-abbandonati della peggiore architettura degli anni '60 e  '70. All’improvviso, in mezzo ad un nugolo di case costruite quasi senza  senno, spunta un elegante edificio Bauhaus o una villetta curata di due  o tre piani circondata da maestosi alberi, fiori e giardini. E' qui che  incontro Gideon Levy.
 “L'accordo Hamas-OLP sarebbe un'ottima notizia se funzionasse” dice a Pagina99  Gideon Levy, Vincitore dell'Emil Grunzweig Human Rights Award nel 1996,  del premio della Fondazione Anna Lindh (2008) per un articolo  sull'uccisione di Palestinesi da parte dell'esercito israeliano e del  Peace Through Media Award nel 2012. Levy tiene una rubrica su Haaretz  dal titolo “Twilight Zone” in cui fa resoconti  dettagliati sulle attività dell'esercito israeliano nei territori  occupati. E' una delle voci critiche più autorevoli d'Israele.
 Il 29 Aprile scorso è scaduto il  termine dei 9 mesi decisi nello scorso luglio a Washington, sotto la  spinta del presidente Obama e di John Kerry, per trovare un accordo di  pace tra israeliani e palestinesi. Un nuovo fallimento?
 In realtà non si tratta di 9 mesi ma di 45  anni. Il vero processo di pace è infatti iniziato agli inizi degli anni  '70. Ogni volta si tratta sempre sullo stesso tema. E ogni volta non si  riesce a trovare un accordo. Non credo si possa realmente giungere a un  accordo tra le parti. E la ragione è semplice: fin quando Israele non  deciderà di mettere fine all'occupazione non si potrà mai raggiungere  alcun accordo. E' chiaro come il sole. Il problema è che Israele non ha  intenzione di rinunciare ai territori occupati. E' questo è il nodo del  problema, il centro della discordia. Tutto il resto è di minor entità.  Non credo che il governo di Netanyahu voglia rinunciare ai territori e  non credo che alcun altro governo dello stato d'Israele voglia, con  sincerità ed onestà, assumersi questa responsabilità.
 
 Il negoziatore capo palestinese  Saeb Erekat ha addossato la colpa del fallimento al premier Netanyahu  mentre per quest'ultimo la trattativa è finita anche di fronte al fatto  che l'Anp non voglia riconoscere Israele come "Stato ebraico". Ora  s'aggiunge l'accordo di unità nazionale tra OLP e Hamas, quest'ultima  definita da Israele, Usa e Ue un'organizzazione terroristica.
 In primo luogo non sono sicuro che  quest'accordo funzionerà perché già in passato ne sono stati siglati  diversi, poi saltati. Credo che questo essere divisi sia il principale  problema ed il più grande errore dei palestinesi. Dividendosi fanno il  gioco del governo israeliano che cerca in ogni modo di dividerli. I  palestinesi del '48 da quelli del '67, gli abitanti di Gerusalemme da  quelli della Cisgiordania, di dividere i cittadini della Cisgiordania da  quelli di Gaza, di dividere i palestinesi della diaspora da quelli  residenti in Palestina ed infine di dividere Hamas dall'OLP. Ovviamente  tutto ciò non è solo responsabilità degli israeliani. Io spero che  questa volta l'accordo non fallisca e che i palestinesi trovino davvero  un'unità. Ma resto molto scettico. Se funzionasse questa sarebbe  un'ottima notizia per chiunque voglia la pace perché infine si avrebbe  un solo interlocutore palestinese. Mi sembra chiaro che se Hamas s'allea  con l'OLP vuol dire che accetta, direttamente o indirettamente, di  trattare con Israele.
 
 L'ANP ha annunciato l'adesione a 15 trattati internazionali e ha manifestato l'intenzione di aderire ad altri 60.
 L'adesione a questi trattati è  perfettamente legittima, l'autorità palestinese ha pieno diritto.  Israele costruisce colonie senza sosta e ciò non costituisce un  problema. E quando l'ANP s'appella alla comunità internazionale – il che  che costituisce non solo un suo diritto ma anche un suo dovere -  Israele dice che si tratta di una “decisione unilaterale”. Per me questo  è totalmente inaccettabile. L'ANP ha pieno diritto ad aderire ai  trattati internazionali.
 
 Come vede il ruolo d'Israele nel Mediterraneo?
 Israele risiede in una zona geografica in  cui la maggior parte dei paesi non ne accetta l'esistenza. Ma non  bisogna dimenticare che Israele fa di tutto per non essere accettato.  Israele ha infatti un'unica ispirazione: quella di essere un paese  europeo, americano, occidentale, un paese che nonostante la sua  posizione geografica, volta completamente le spalle al mondo  arabo-musulmano. Israele non solo intrattiene pessimi rapporti con i  propri vicini ma cerca di evitare qualunque contatto con la cultura e la  lingua araba, la sua musica, la sua storia. La cultura araba è  praticamente un tabù in Israele. Mentre io credo sinceramente che invece  di voltare le spalle al mondo arabo, Israele dovrebbe rivolgere il suo  sguardo verso di esso perché ciò avrebbe anche conseguenze politiche  importanti. Un esempio è la Turchia. L'unico paese nel Medio Oriente che  accetta l'esistenza d'Israele (e con il quale i rapporti commerciali e  turistici sono più che floridi), un rapporto rovinato in seguito alla  questione della Freedom Flotilla. Mi chiedo: era davvero necessario che  il governo israeliano agisse in quella maniera?
 
 In quanto giornalista critico del governo lei è molto esposto. Come vede il ruolo dei media critici nella società israeliana?
 I media in Israele hanno molta influenza.  La maggior parte dei media collaborano attivamente alla filosofia  dell'occupazione territoriale. Molte volte penso che senza i media  israeliani l'occupazione non sarebbe durata tanto. I media collaborano  attivamente con questo stato di cose negando l'occupazione,  nascondendola, disumanizzando e demonizzando i palestinesi. Io  rappresento un'esigua minoranza come commentatore all'interno  dell'opinione pubblica israeliana. Devo dire che il mio giornale,  Haaretz, rappresenta una specie di isola in Israele in quanto a libertà  ed indipendenza dell'informazione. Ma non so quantificare l'impatto  dell'informazione che io ed il giornale su cui scrivo abbiamo  sull'opinione pubblica. Posso solo dire con certezza che Israele senza  Haaretz sarebbe un posto molto peggiore in cui vivere.
 
 Dal Sito "Pagina 99"
 31/05/2014
 
 Reportage di Marco Cesario a Gerusalemme:
 http://www.eastonline.eu/it/opinioni/open-doors/gerusalemme-la-citta-della-discordia
 http://ita.babelmed.net/cultura-e-societa/103-israele/13421-vita-quotidiana-a-gerusalemme-est-sgomberi-demolizioni-e-discriminazioni.html
   APPELLO DI GIDEON LEVY AL BOICOTTAGGIO DI ISRAELE 
 
	
	RICORDANDO LA NAKBA1948-2014
 di Mirca Garuti   Il 16 maggio a Modena, abbiamo voluto ricordare i 66 anni della Nakba Palestinese.
 La Catastrofe. L’espulsione del popolo palestinese, dalla sua terra,  dalle sue case, dai suoi villaggi. Espulsione eseguita dall’esercito  israeliano per cercare di raggiungere l’obiettivo del movimento politico  europeo, chiamato sionismo, che puntava alla colonizzazione della  Palestina. Il conflitto israele-palestinese è un conflitto politico tra  un movimento coloniale ed un movimento di liberazione nazionale, non è  un conflitto religioso. Israele è l’occupante di una terra che non gli  appartiene.
 
 La Nakba è stata ricordata anche in tantissime altre città italiane,  come Roma-Firenze-Bologna-Milano-Monza-Cagliari-Salerno, con tante  iniziative diverse, ma tutte, con un unico scopo: quello di RICORDARE E  NON DIMENTICARE.
 
 Ci sono alcuni momenti storici molto significativi da dover ricordare per capire quello che è successo.
 
 Dichiarazione Balfour, 2 novembre 1917 - Il ministro  degli esteri Lord Balfour trasmette una lettera per conto del governo  inglese al vice presidente dell’organizzazione sionista: "Caro Lord  Rothschild, sono lieto di trasmetterle, a nome del governo di Sua  Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni  ebraico-sioniste, esaminata e approvata dal gabinetto. Il governo di Sua  Maestà vede con favore la creazione in Palestina di una “sede  nazionale” per il popolo ebraico e intende fare tutti i suoi sforzi per  favorire la realizzazione di questo obiettivo, essendo chiaramente  inteso che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e  religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, o i  diritti e lo status politico goduti dagli ebrei in ogni altro paese”
 In quel momento il popolo ebraico era composto di 50.000 immigrati, mentre le comunità non ebraiche erano 750.000.
 In questa dichiarazione i palestinesi, diventano i “non ebrei”. I palestinesi così “non esistono”,  questa è la politica sionista. Da una parte, quindi, la popolazione  palestinese (araba musulmana e cristiana) che non intende farsi  spogliare dei suoi diritti, e dall’altra un gruppo di ebrei sionisti  che, contro anche il parere della maggioranza degli ebrei del mondo,  vuole impadronirsi della Palestina per creare uno Stato ebraico, dal  quale sarebbe rimasto escluso, per definizione, chi non fosse stato  ebreo.
 
 Il 29/11/1947, l’Assemblea Generale dell’ONU con la Risoluzione 181,  raccomanda la spartizione della Palestina in due stati: uno,  arabo-palestinese e l’altro ebraico ed una zona internazionale di  Gerusalemme sotto la giurisdizione dell’Onu. La parte araba con  1.250.000 arabi-palestinesi occuperà solo il 42,88% del territorio,  mentre quella ebraica con 600.000 ebrei il 56,47%. Già da questi numeri  si capisce dove si vuole arrivare.
 
 Gli ebrei erano considerati gli “immigrati europei”. Molti di  questi immigrati, giunti negli anni ’30, erano tedeschi in fuga dal  nazismo e, quasi tutti, erano istruiti, colti, appartenevano ad una alta  classe borghese.
 
 Il 15 maggio 1948, decaduto il Mandato britannico sulla  Palestina, le forze sioniste guidate da Ben Gurion autoproclamarono la  costituzione dello Stato d’Israele ed iniziò l’espulsione senza tregua  della popolazione palestinese. Le milizie delle organizzazioni  terroristiche sioniste ebraiche, l’Haganà, l’Irgun, la Banda Stern,  assalirono città e villaggi palestinesi, massacrando gli abitanti,  distruggendo le abitazioni, costringendoli alla fuga incalzandoli verso i  confini degli stati limitrofi.
 
 Una leggenda sionista di questo periodo, sostiene che, in realtà, si è trattato di un “esodo spontaneo”  dei palestinesi. E’ vero solo nel senso che, quando abbandonarono le  loro abitazioni, specie negli anni 1947-48, lo hanno fatto solo perché  sollecitati in modo molto pesante e con la promessa di un ritorno, da  parte dalle autorità britanniche, o ingannati, negli anni successivi,  dalle promesse di un esercito della salvezza giordano.
 
 La Nakba fu una catastrofe di massa.
 
 A seguito della Nakba, le Nazioni Unite approvarono la Risoluzione 194  che sanciva il Diritto al Ritorno dei profughi palestinesi ai luoghi  d’origine, e/o il risarcimento dei danni materiali e fisici subiti.  Diritto che poi fu riconfermato nelle successive Risoluzioni n. 242 – 237 del 1967 e 338 del 1973.
 
 Con la Nakba si ebbe l’espulsione di 815.000 palestinesi su un totale di 1.400.000
 Si può parlare di “Pulizia etnica della Palestina”, in quanto le vittime sono persone che sono fuggite per paura.
 I palestinesi del ’48 furono le vittime di una politica sistematica di  espulsione in massa, attuata dalle forze ebraiche con la violenza, con  il terrorismo e massacri contro civili.
 L’idea della pulizia etnica è presente nell’ideologia dominante del movimento coloniale sionista fin dalle sue origini.
 L’obiettivo dei sionisti era: il massimo di terra con il minimo  possibile di arabi. Senza l’espulsione di 800.000 palestinesi, lo Stato  ebraico non si sarebbe potuto creare.
 
 L’occupazione della Palestina è stata paragonata ad uno stupro, da una  giornalista israeliana, corrispondente del quotidiano Ha’aretz, Amira Hass.
 
 Il diritto al ritorno è un diritto nazionale e inalienabile.
 Il diritto al ritorno dei Rifugiati palestinesi è il nucleo della causa palestinese.
 Israele nega il diritto al ritorno alle case d'origine per 7,4 milioni  di rifugiati palestinesi e persone sfollate. Nel frattempo, Israele si  adopera per il reinsediamento dei rifugiati palestinesi in esilio e la  sua leadership sempre più chiede il riconoscimento internazionale dello  Stato di Israele, come stato ebraico esclusivo.
 I palestinesi vivono sotto controllo militare in Cisgiordania, sotto  assedio nella Striscia di Gaza, sotto discriminazione istituzionale  all'interno di Gerusalemme ed in condizioni strazianti in esilio.
 I palestinesi, che in passato avevano trovato rifugio in Siria, stanno  vivendo una seconda catastrofe. Stanno subendo la guerra e la  distruzione della loro vita a Yarmouk, Nierab, Sit Sainab, Khan Al Shiekh, Dar'a ed  altri luoghi in tutta la Siria, dove risiedevano i rifugiati  palestinesi. I palestinesi, sfollati per la seconda volta in paesi come  il Libano, Giordania, Turchia ed Egitto, sono costretti ad affrontare  ulteriori umiliazioni e condizioni insopportabili che portano a tentare  una
 fuga, via mare, come atto disperato ed estremo. Fuga che spesso finisce  con la morte di centinaia di profughi palestinesi senza nessun  riconoscimento pubblico.
 Il 66 per cento del popolo palestinese è rifugiato in altri paesi o  sfollato all’interno del suo stesso paese.  Il diritto al ritorno è  dunque una condizione necessaria per raggiungere l'autodeterminazione  del popolo palestinese frammentato ed esiliato.
 Il Diritto internazionale conferisce ai rifugiati palestinesi il diritto  al ritorno volontario alle loro case, al restauro delle loro proprietà e  al risarcimento. Questo diritto inalienabile non può essere oggetto di  negoziazione o baratto.
 La Risoluzione delle Nazioni Unite 181 (1947 ) che ha determinato la  divisione della Palestina in due stati, ha portato allo spostamento tra  750.000 e 900.000 palestinesi. La Comunità internazionale ha definito la  sua responsabilità per la protezione e l'assistenza umanitaria ed ha  sancito il diritto al ritorno nelle case d’origine di tutti i rifugiati e  profughi palestinesi, con le Risoluzione dell'Assemblea Generale 194  (1948) e la Risoluzione del Consiglio, 237 (1967).
 
 La repressione militare dell’esercito israeliano d’occupazione,  continua. L’ininterrotta espropriazione di terre palestinesi, la  costruzione del muro dell’apartheid, l’edificazione delle colonie  ebraiche, l’ebraicizzazione di Gerusalemme Est, le infinite azioni di  punizione collettiva con le quali si martirizza la popolazione civile  palestinese, hanno tutte lo scopo dichiarato di continuare la pulizia  etnica dei Territori Occupati. Tutto questo, naturalmente, avviene con  il silenzio dei governi europei che preferiscono firmare accordi di  cooperazione nel campo militare e della ricerca con Israele, stabilendo  rapporti privilegiati economici e culturali, piuttosto che denunciare ed  impedire la morte, la violenza, i soprusi, la strage del popolo  palestinese.
 
 
 Contributi:
 
 link per vedere le foto della giornata del 16 maggio a Modena: https://www.flickr.com/photos/48807279@N03/sets/
 
 video : http://bambuser.com/v/4622417
 
 racconti:  Ayn Al-Zaytun
 
        Deir Yassin - 9 aprile 1948                   El Ramle  
 
	
	Quinta edizione Premio Stefano Chiarini 2014
“PALESTINA: IL DIRITTO AL RITORNO”  Modena, sabato 8 febbraio 2014 ore 15.30
 presso LA TENDA, Viale Molza angolo Viale Monte Kosica
 
 Il Premio Chiarini, dedicato alla figura del giornalista del Manifesto Stefano Chiarini, sarà attribuito al gruppo Modena City Ramblers per il loro impegno per la diffusione, attraverso la loro presenza e musica, della questione palestinese. Verrà consegnato anche un riconoscimento al Dr. Angelo Stefanini  docente all’Università di Bologna presso il Dip.to di Scienze Mediche e  Chirurgiche e Direttore scientifico del Centro Studi e Ricerche in  Salute Internazionale e Interculturale, per la dimostrata competenza ed  oggettività nel campo dell’informazione sulla situazione umanitaria in  Palestina e la realtà della vita nei territori occupati. (...)    CRONACA DELLA GIORNATA DI PREMIAZIONE  
 
	
	
 
 A GAZA PER IL DIRITTO AL RITORNO  di Mirca Garuti e Flavio Novara 
Era il dicembre 2009 quando, in occasione  della Gaza Freedom March, abbiamo provato ad entrare a Gaza ma siamo  stati subito bloccati al Cairo dalla polizia di Mubarac. Quest'anno, invece, la delegazione “Per non dimenticare...il diritto al  ritorno” composta da ventisette volontari tra cui i tre modenesi,  Goretta Bonacorsi, Mirca Garuti e Flavio Novara, è riuscita ad entrare a  Gaza nonostante l'embargo. Grazie anche al contributo, presenti al  Cairo nei primi giorni, di altri due modenesi Franco Zavatti e Ivano  Poppi. Obiettivo è stato consegnare gli aiuti (offerte economiche e medicinali)  all'ospedale Al Awda e manifestare solidarietà con il popolo  palestinese ribadendo il loro diritto a tornare nelle terre d'origine. (...)   UNA TESTIMONIANZA DIRETTA  DA GAZA   di Mirca Garuti Un gruppo di donne e uomini, pochi giorni fa, è entrato nella Striscia di Gaza. Si tratta della delegazione italiana “Per non dimenticare… il diritto al ritorno”.  L’obiettivo era quello di denunciare il trattamento razzista ed  intollerabile del governo israeliano nei confronti del popolo  palestinese, a cui vieta il diritto di ritornare nelle loro terre  d’origine. La Striscia di Gaza, un pezzo della  Palestina occupata, si trova, da molti anni, sotto assedio, costretta  alla fame, all’oscurità e privata dell’autodeterminazione reale e della  libertà. (continua…)  LEGGI LA CRONOSTORIA DI QUEI GIORNI ANCHE SU FACE BOOK  
 
	
	
Quando é il servizio d'ordine della  Comunità a decidere chi possa partecipare ad un evento e chi possa  parlare, siamo caduti nella violenza fascista. Il fatto che questo  servizio risponda al presidente della comunità é ancora più grave. 
 
Quando sono stato aggredito, solo due  persone, non ebree, sono venute in mio soccorso, Pasqualina Napoletano e  Andrea Amato. Dov'era Tobia Zevi? Io ho risposto ad un invito  di Tobia Zevi. Lui ha tranquillamente abbandonato il suo invitato ai  violenti. Vera tempra morale. Il PD ha qualcosa da dire?
 
Che tendenzialmente la Polizia sia  schierata non contro gli iper-sionisti violenti ma a loro difesa, mi fa  pensare che siamo messi molto male. 
 
Le accuse di antisemitismo a tutti quelli  che non accettano le politiche di Israele é una accusa ridicola. Il  problema a Roma non é l'antisemitismo, ma la violenza fascista di alcuni  membri della comunità ebraica. L'accettazione ad occhi chiusi delle  politiche di Israele é cecità!
 
Che questa gente si senta difesa dal Presidente della Repubblica é molto grave.
 
Una prima conclusione dell'episodio: ebrei che escono dalla comunità. Una seconda: la minaccia di creare una seconda comunità, la divisione degli ebrei romani. Una terza:  la rabbia di questi poveri violenti (ripeto: poveri violenti) contro  chi scrive e chi pensa la dice lunga sulla loro capacità di analisi,  sulla loro capacità di far politica analizzando il mondo in cui viviamo.  
 
Ma che succederà quando Israele dovesse cambiare politica? Contro chi vorranno dirigere le loro violenza? 
 
Le contraddizioni interne ad Israele non  sono immediatamente visibili, ma sono gigantesche agli occhi di chi  segue gli avvenimenti in Medio Oriente. I negoziati di pace vanno avanti  a rilento ed é probabile che finiscano male. Ma intanto gli USA, con  Obama e Kerry, hanno preso grandi distanze dalla politica israeliana. Il  mondo ebraico americano cambia profondamente e rapidamente, ma i  sionisti - anche quelli nostrani - non sembrano accorgersene. 
 
Il mondo muta a gran velocità, ma il presidente Pacifici, i dirigenti della comunità ebraica, il rabbino capo Disegni aiutano la loro gente a capire le novità? 
 
Nessun programma televisivo, nessun “talk-show”,  si azzarda a discutere dei rapporti tra Italia, Israele, Mediterraneo,  Medio Oriente. Eppure si tratta di discutere degli interessi strategici  dell’Italia e del futuro dell’Europa.  Guerre, rivoluzioni, grandi  trasformazioni, politiche energetiche, ma non se ne parla. Ebraismo,  sionismo, Islam, diritti umani, diritto internazionale, convivenze: temi  che non interessano?
 
Un ebreo come me é chiamato traditore. Con  gli altri ebrei che denunciano le politiche di Israele, siamo i veri  difensori dell'ebraicità e del popolo di Sion. Denunciamo le politiche  sioniste perché sono l'origine di una ondata di antisemitismo a livello  mondiale. Questo é il vero pericolo.
 
Le politiche sioniste sono una profonda  corruzione della cultura ebraica.  Il sionismo è mettersi al centro del  mondo e, allo stesso tempo, chiudersi con Israele al mondo. Con la sua  violenza, ha isolato gli ebrei dal resto del mondo. Troppi ebrei  nascondono le loro origini culturali per paura. Dovremmo avere politiche  che valorizzino la nostra cultura, ma la comunità preferisce la  violenza, l’intolleranza.
 
In ultimo: sono italiano. Non intendo  essere metà e metà: metà israeliano e metà italiano. Le mie battaglie  politiche le faccio qui, per gli ebrei italiani e per i palestinesi che  mi sono vicini come gli ebrei italiani. Uno dei violenti che mi ha  sbattuto fuori dal Centro di via Balbo e che probabilmente mi ha colpito  alla testa, urlava che suo cugino era stato ucciso in un attentato in  Israele. Allora facciamo la mattanza dei Palestinesi? E i Palestinesi  non si sentiranno legittimati ad una mattanza di Ebrei? Dove finiremmo?  Il mio problema è, piuttosto, da dove rincominciamo.
 
Ci vuole coraggio a capire, a  ragionare, a negoziare. Io lo faccio da italiano ebreo e lo faccio anche  per difendere la comunità che mi chiama traditore.L’AGGRESSIONE A MARCO RAMAZZOTTI STOCKEL
 LE CONSIDERAZIONI DOPO LA TRISTE NOTTE ALLA SINAGOGA/
 CENTRO CULTURALE DI VIA C. BALBO
 
 di Marco Ramazzotti Stockel *
 
 
  
  Ieri sera, domenica, nella trasmissione "Che tempo che fa" é stata presentato un libro della figlia del giudice Chinnici,  ucciso dalla mafia. Desidero fare alcune mie considerazioni, collegando  lotta alla mafia e quel che é successo alla sinagoga / centro ebraico  di via Balbo a Roma.
 Come ogni ragazzo ebreo, ho dovuto pensare  e ripensare, assaporare il sapore di morte e l' orrore dell'Olocausto.  Nel silenzio, di nascosto. Ogni ebreo vive il suo Olocausto: la sensazione di non avere diritti, non essere una persona, essere un giocattolo nelle mani di persone crudeli e inumane.
 Ho partecipato, nel mio piccolo, alla  lotta alla mafia, facendo controlli al mercato della frutta e verdura di  Palermo, nel 1973.
 Sono convinto che la legalità sia una  delle risorse della lotta di classe, a casa nostra, e della lotta  internazionalista per l'indipendenza dei popoli e la giustizia nei  rapporti internazionali.
 Credo nelle istituzioni, anche se possono lavorare più o meno bene. Ma sta a noi cambiarle in meglio.
 Sono nato nell'epoca delle indipendenze  africane, sono cresciuto in Africa e questa lotta per le indipendenze mi  ha profondamente marcato. Anche qui, le posizioni dei coloniali e dei  neo-colonizzatori si misuravano e si scontravano con il diritto  all'indipendenza e allo sviluppo dei popoli colonizzati e dei  neo-indipendenti.
 Vivere con gli Africani musulmani mi ha  posto immediatamente il problema di scegliere tra una concezione della  vita razzista o non razzista. Non potrei mai tradire i miei amici/amiche  e compagni/e africani e musulmani: ho condiviso molto con loro e lo  farò fino alla fine.
 Legalità, lotta contro il razzismo e contro l'apartheid.  Coscienza della propria identità politica - italiano di sinistra, culturale - ebreo. Tutto questo - per un minimo di coerenza - significa, per me, lottare per i diritti dei Palestinesi e contro ogni Islamofobia. I Palestinesi hanno avuto negata la loro  indipendenza. La legalità internazionale é stata violata infinite volte a  danno dei Palestinesi. Vivono da sessanta anni sotto l'attacco di un  regime coloniale, razzista, che si regge sull'apartheid e che li vuole  liquidare etnicamente. E gli Israeliani? si considerano le vittime del  mondo. Tutto si giustifica perché c'é l'anti-semitismo.
 Ma chi crea anti-semitismo? I Palestinesi di oggi sono gli ebrei di ieri. Ho vissuto, per 5 anni in Angola,  l'aggressione dei Sud Africani dell'apartheid contro gli Angolani e io  ero dalla parte degli Angolani. Ma il Sud Africa aveva il suo più  potente appoggio militare in Israele (la bomba atomica, i carri armati, i  caccia-bombardieri ....). Combattendo il Sud Africa, combattevo  inevitabilmente contro Israele. Ma era anti-semitismo? No, era lotta per  il diritto all'indipendenza, contro il militarismo, per una vita  pacifica, contro il razzismo. Israele ha avuto e ha politiche disumane.  Non é difendibile. Israele, con le sue politiche disumane,  mette in pericolo gli ebrei di tutto il mondo. Combattere le politiche  sioniste é anche combattere per una vita vivibile per gli ebrei.
 I sionisti della Comunità di Roma si  rendono colpevoli di violenza (mi hanno colpito alla testa così forte  che sono caduto per terra), di ricatto morale (sei un traditore, sei  fuori dalla comunità perché non la pensi come Sharon e Netanyahu), hanno  preso la giustizia nelle loro mani, non riescono a dialogare se non con  coloro che sono sempre d'accordo con loro. I sionisti tradiscono la  cultura ebraica.
 Cercherò in tutti i modi di spiegare,  nelle mie conferenze, la differenza profonda tra ebraismo e sionismo e  la mia vicinanza con le vittime del sionismo.
 Continuerò a combattere il sionismo di Israele come quello nostrano.Se non avessi questo atteggiamento,  dovrei vergognarmi di me stesso.
 
 20/01/2014
 *Antropologo e laureato in  Giurisprudenza, Fellow del Churchill College di Cambridge, Gran  Bretagna. Studi negli USA, Francia, Portogallo.Sposato con due figli (è nonno). E’  cresciuto in un paese musulmano. Ha lavorato in 25 paesi africani, 3  asiatici, 1 latino-americano e 10 paesi occidentali. Ha lavorato in 12  paesi musulmani. I suoi committenti sono stati ONG, imprese, governi  europei e africani, agenzie delle NU. Lavora prevalentemente su progetti  di sviluppo, dalla loro concezione fino alla loro valutazione finale.  E’ direttore tecnico di cantieri di sminamento. Ha insegnato in Angola e  in Mali. Vive in Italia. Fa parte della Rete ECO (ebrei contro  l'occupazione)
 
 
	
	
  Il sud del Libano rappresenta la  resistenza e la lotta per la libertà contro tutte le invasioni. Per i  profughi palestinesi, il sud è, nello stesso tempo, gioia e dolore.  Gioia, perché qui hanno trovato un rifugio dalla violenza israeliana.  Dolore perché, senza diritti, sono costretti a difendersi. Vivere lottando soprattutto perché la loro terra, le loro case ed i loro parenti sono irraggiungibili, nonostante si trovino a pochi chilometri di distanza. Un sogno, un miraggio.
 Il viaggio nel sud del Comitato inizia da Sidone. Sidone (Saida in arabo), cittadina portuale a circa quaranta chilometri da Beirut, è circondata da bananeti ed agrumeti. Sidone, un  tempo città fenicia ricca ed importante, è oggi capitale del sud del  Libano e rappresenta il simbolo della resistenza patriottica libanese e  del Movimento di Liberazione Nazionale di tutto il mondo arabo. Con il  suo Castello del Mare costruito dai crociati, le sue moschee, i  caravanserragli, i suq con i soffitti a volta, è una delle località più  affascinanti del Libano.
   Come primo appuntamento, la delegazione rende omaggio alla memoria del Martire Maarouf Saad,  difensore di tutte le classi sociali più deboli e povere, ucciso nel  1975 dalle forze fasciste di destra libanesi, durante una manifestazione  di protesta dei pescatori. Il suo assassinio segna l’inizio della  guerra civile libanese che scoppierà due mesi più tardi.
 
  Siamo accolti dal figlio, Osama Saad, deputato  del partito panarabo nasseriano, uno dei partiti fondamentali per il  Libano, specialmente a Sidone. Offre sostegno ed appoggio a tutti i  popoli del mondo che si trovano sotto occupazione. In Libano, la loro  lotta è rivolta a cambiare il sistema politico vigente per arrivare ad  una giustizia sociale, contro la destra libanese. Osama, inoltre, è  molto attento a tutte le questioni che riguardano il Medio Oriente e le  sue analisi sono sempre precise ed interessanti. Aveva, infatti, già  previsto, due anni fa, che le così dette “Primavere arabe”, col tempo, avrebbero avuto delle involuzioni. E così è stato. 
 (http://nuke.alkemia.com/MedioOriente/OSAMASAADAMODENA/tabid/1274/Default.aspx)
 
 Audio Musolino spiega Osama
  
     Osama Saad, nei giorni successivi, ci  ospita nuovamente a Sidone. Dopo aver visitato la meraviglia del  Castello del Mare, ci fa conoscere la Fondazione Maarouf Saad.  Al suo interno, si trova la scuola nazionale di Sidone, frequentata da  182 studenti palestinesi, libanesi ed ora anche siriani che vivono a  Sidone. Questa scuola fu costruita da un emiro nel 1920. Quando a Sidone  arrivarono i turchi e l’emiro fu esiliato in Toscana, la scuola venne regalata ai francesi quando iniziarono il loro mandato in Libano. Qui, infatti, ha vissuto il console francese sino a quando, cessato il suo dominio, la scuola diventò un ospedale governativo.
 
 
 
   Siamo accolti da un gruppo di scolari che ci danno il benvenuto, leggendo scritti e poesie.     Audio fondazione Saad      
   La delegazione del comitato visita il Centro culturale Maarouf Saad. Sono presenti varie forze nazionaliste, islamiste, organizzazioni non governative e nasseriane.
 
  Osama Saad apre l’incontro: “Il  cammino della resistenza, attraverso tutte le sue varie forme, compreso  anche la lotta armata, continua in tutto il mondo arabo. Siamo sicuri  della nostra vittoria contro l’occupazione sionista e capaci di  smantellare il sistema sionista della terra araba fino alla liberazione  della Palestina. Noi consideriamo questo sistema, razzista, aggressivo,  espansionistico e, per questo lo combattiamo. Quando venite qua, al  nostro fianco, ci sentiamo più forti e coraggiosi. Combattiamo lo stesso  nemico. La nostra lotta è comune contro l’imperialismo, il sionismo e  la reazione di una parte del mondo arabo. Vinceremo questa comune  battaglia, anche nella nostra regione, per una democrazia, una libertà,  una vita dignitosa, affinché tutti possano avere la giustizia sociale  che stiamo cercando.” Maurizio Musolino, come portavoce del Comitato, riafferma il motivo del nostro viaggio: ricordare e raccontare. “Veniamo qui – dice Maurizio – anche  per chiedere diritti per i vivi, per i palestinesi che vivono  all’interno dei campi. Sappiamo che i libanesi sono al nostro fianco.  Insieme dobbiamo lottare per questo e per chiedere il riconoscimento del  Diritto al Ritorno, perché i palestinesi devono poter ritornare alle  loro case. Il nostro pieno appoggio è per la resistenza libanese. Siamo  per un Libano libero ed indipendente da qualsiasi influenza.”
 Dopo i consueti discorsi d’apertura, ascoltiamo alcuni interventi da parte del pubblico presente in sala. Katia, rappresentante del partito nasseriano: “Noi  vogliamo la pace in tutto il mondo, in modo particolare nei paesi  arabi. Siamo pronti a lavorare con voi per affrontare il nemico sionista  e americano, per dire Basta a queste aggressioni. Abbiamo il diritto di  vivere in pace.”
 Si susseguono altre dichiarazioni,  testimonianze e richieste, ma si possono riassumere in una sola. Sono  profughi da 65 anni. Chiedono che noi, popolo europeo, facciamo  pressione sul governo libanese, affinché possa loro garantire diritti  civili e sociali. “Abbiamo il diritto di vivere con dignità finché non riusciamo a tornare nelle nostre terre, nelle nostre case, in Palestina”.
 Un partecipante a quest’incontro, si alza e chiede. “  Qual è la vostra conclusione, dopo tanti anni che venite qua? Siete  convinti che, prima o poi, il sionismo cesserà? E che la Palestina  ritornerà ai palestinesi?" Maurizio risponde: “In questi giorni  abbiamo visto tanti campi e incontrato amici.  Abbiamo sentito la forza  e l’ostinazione a non arrendersi, anche in situazioni molto difficili,  come, per esempio, nel campo di Naher El Bared, oppure in situazioni di  sovraffollamento che rendono la vita nei campi praticamente impossibile.  Nonostante tutto questo, abbiamo visto la capacità di continuare a fare  cultura, per non dimenticare le origini del popolo palestinese,  trasmettendole da generazione a generazione. Contro questa  determinazione nessuno può vincere. Siamo sicuri che i palestinesi  vinceranno, anche se oggi possono sembrare i più deboli. Il mondo  cambia. Vent’anni fa l’esercito israeliano sembrava invincibile. Nel  2006, invece, proprio qui in Libano, si è dimostrato il contrario. Si  poteva fermare”.
 
 Audio teatro culturale Saad
  A Sidone la delegazione incontra anche l’ex sindaco, Abdul Rahman Bizri.  Molti partecipanti del Comitato hanno già avuto in passato il piacere  di conoscerlo, in modo particolare, subito dopo la guerra dei trentatré  giorni del 2006. Saida, terza città del Libano, capitale del sud, è  l’esempio della resistenza e della solidarietà. Durante quella guerra il  Comune non è stato mai chiuso, anzi, è stato trasformato in un centro  di smistamento al servizio dei profughi. Tutti a Saida avevano aperto le  porte delle proprie case per aiutare chi era in fuga dalla guerra,  compreso i campi profughi palestinesi. Il campo di Ain El Helweh, per esempio, definito dal governo americano “un covo di terroristi” aveva ospitato circa 10.000 persone, senza alcuna distinzione di etnia religiosa.
 L’ex sindaco Bizri saluta il Comitato: “Ci sono persone nuove, e questo è un bene, perché significa che questa causa sta andando avanti.”
 Bizri fa un piccolo accenno alla figura di Ariel Sharon.  Afferma che, nonostante sia morto, la richiesta della sua condanna di  fronte ad un tribunale internazionale deve continuare.  Si tratta di una  condanna per i crimini che sono stati commessi, una condanna morale che  oggi è indispensabile. Intorno alla figura di Sharon è sorto un  mistero: non esiste la certezza che sia morto. Nessuna comunicazione  ufficiale. Alcuni sostengono che le autorità israeliane aspettino  condizioni politiche migliori per poter diffondere la notizia. Altri  ancora sostengono che si tratta solo di voci infondate, che Sharon sia  ancora ricoverato e che si trovi in uno stato vegetativo da quel 4  gennaio 2006.
 L’ex sindaco è però curioso di sapere da  noi quali sono le nostre sensazioni e cosa abbiamo notato di diverso  rispetto agli anni precedenti. Cosa è cambiato in fondo nel paese dei  cedri? I nuovi problemi sono legati alla situazione in Siria, alle  migliaia di profughi che sono arrivati in Libano, al sovraffollamento  dei campi palestinesi, mentre i vecchi problemi sono sempre quelli  relativi ai non diritti dei profughi palestinesi in questa terra ed alla  questione palestinese in generale.
 
  Bizri  descrive al Comitato la situazione in Libano per la conseguenza della  guerra in Siria. Per la prima volta, si è riunito un Comitato congiunto  di tutte le organizzazioni del campo di Ain El Helweh, a cui  hanno partecipato tutte le forze palestinesi sia interne e sia esterne  al campo, compreso anche quelle islamiste. Lo scopo era quello di fare  in modo di “tenersi fuori” da possibili interventi esterni. "Secondo cifre ufficiali – continua l'ex sindaco – il  Libano ha ospitato da 700.000 a 800.000 siriani (Bizri non vuole fare  delle differenze tra siriani e palestinesi-siriani, perchè sono tutti  fratelli, per lui sono semplicemente siriani), in verità, i numeri veri  oscillano da 1.000.000 a 1.200.000 persone uscite dalla Siria.” Bizri  si occupa anche, all'interno del governo libanese, di monitorare la  percentuale di malattie infettive rispetto alla situazione generale  sanitaria. La richiesta di vaccini è, infatti, aumentata ed ha raggiunto  il milione. Questo dato è significativo perchè rispecchia il numero  delle persone presenti. La crisi siriana non ha solo effetti politici e  di sicurezza, ma anche sociali. “Se ci sarà un attacco militare - prosegue Bizri – dovremo  prevedere l'arrivo di tantissimi altri profughi, per questo motivo  stiamo tenendo sotto controllo questo fenomeno. A Sidone sono state  ospitate 5000 famiglie e se si considera che ogni famiglia  siriana/palestinese è composta di 7/8 persone, sono presenti quindi  circa 30/40.000 “ospiti”. Di tutta questa moltitudine, 4/5000 persone si  trovano all'interno del campo di Ain El Helweh. Una situazione dunque  esplosiva!” Bizri espone la sua analisi sulla Siria. “La  Siria è come tutti gli altri stati arabi. Al suo interno c'è di tutto:  corruzione e mancanza di democrazia e di controllo. La Siria ha bisogno  quindi di riforme democratiche per la libertà e di un controllo sullo  stato attraverso libere elezioni. A differenza di altri paesi arabi, in  Siria ci sono garanzie sociali, sanità e istruzione per tutti ed inoltre  è iniziata un’apertura economica.  La sua colpa è data dalla politica  interna: è uno di quei paesi che non ha mai firmato trattati di pace con  Israele, ha ospitato organizzazioni in disaccordo con Israele,  (es.Hamas), ha appoggiato la resistenza libanese e sostenuto tutte le  resistenze del mondo arabo. All'interno della Siria c'era un'opposizione  nazionalista che poteva essere molto importante, ma è stata messa a  tacere. Esiste poi la parte peggiore che è quella che rifiuta la società  civile, cercando di portare tutto verso un estremismo insopportabile.  Al confine della Turchia con la Siria gruppi estremisti si stanno  massacrando tra loro. A causa della profonda crisi siriana, dopo un  lungo periodo di leggi fuori controllo, dove ognuno poteva fare ciò che  voleva, sembra che si stia tornando ad un equilibrio strategico a  livello di potenze mondiali. Questo ci può dare un po’ più di speranza  di poter evitare un’altra guerra. In Libano volevamo avere, nei  confronti della Siria, un’unica posizione, volevamo le riforme  all’interno della Siria, mantenendo però intatta la sua posizione  politica e strategica per il ruolo che aveva nel mondo.”
 Abbiamo infine chiesto all’ex sindaco di Saida alcune informazioni sulla Legge elettorale in Libano.
 “Il Libano – afferma l’ex sindaco –  corrisponde a ciò che è spiegato in un libro uscito negli Stati Uniti  “The Revenge of Geography (La rivincita della geografia)”, dello  scrittore Robert Kaplan*. Questo  dimostra che esiste un rapporto organico tra la Siria ed il Libano e la  possibilità che il Libano si possa staccare dalla Siria è finita con la  guerra del 1967. Perché il Libano non ha partecipato alla guerra, è  stato neutrale, ha seguito la classe politica d’elite, l’occidente,  mentre, invece, doveva partecipare al conflitto. Poteva, forse, subire  una sconfitta, come gli altri paesi arabi, ma a quel punto, poteva  nascere un nuovo Libano. Da quel momento, invece, è finito lo Stato  libanese.  Il paese dei cedri decise di seguire l’estero, la classe  politica maronita che poi lo porterà alla guerra civile nel 1975. Non ci  saranno imminenti nuove elezioni finché non sarà chiarito il quadro  regionale che decide."
 
 Audio Ex sindaco Sidone
 
   *"Se volete conoscere la prossima mossa di Russia, Cina o Iran, non leggete i loro giornali né domandate cosa hanno scoperto le nostre spie: piuttosto consultate una mappa.  La geografia può rivelare gli obiettivi di un governo tanto quanto le  sue riunioni segrete. Più dell’ideologia o della politica interna, ciò  che di base definisce uno stato è il punto che occupa sul pianeta. Le  mappe colgono gli eventi fondamentali della storia, della cultura e  delle risorse naturali. Con il medio oriente in tumulto e una  transizione politica turbolenta in Cina, date un’occhiata alla geografia  per capirci qualcosa. In teoria, la geografia, come mezzo per spiegare la politica mondiale, è stata messa in ombra da economia, globalizzazione e comunicazioni elettroniche.Mentre alcuni continuano a premere per un intervento in Siria,  è utile ricordare che lo stato moderno che porta quel nome è un  fantasma geografico di ciò che fu dopo la caduta dell’impero ottomano,  che includeva quelli che sono oggi Libano, Giordania e Israele. Persino  quella vasta entità era più una vaga espressione geografica che un luogo  ben definito. Nonostante ciò, il moderno stato siriano, per quanto  tronco, contiene tutte le divisioni interne della vecchia regione  ottomana. Fin dall’indipendenza, nel 1944, la sua composizione  etnico-religiosa, con alawiti nel nord-ovest, sunniti nel corridoio  centrale e drusi nel sud, lo rende una Yugoslavia araba in gestazione.  Questi frazionamenti sono ciò che per lungo tempo ha reso la Siria il  cuore pulsante del panarabismo e lo stato più estremo nel respingere  Israele. La Siria potrebbe placare le forze che da sempre minacciano di  smembrare il paese, solo facendo appello a un’identità araba radicale,  andando oltre il richiamo della setta. Questo non significa però che la  Siria debba ora sprofondare nell’anarchia, perché la geografia ha molte  storie da raccontare. Sia la Siria sia l’Iraq hanno radici profonde in  specifici terreni agricoli che risalgono a millenni fa, rendendoli meno  artificiali di quanto non si possa supporre. La Siria potrebbe comunque  sopravvivere come una sorta di equivalente del XXI secolo di una Beirut,  Alessandria e Smirne degli inizi del XX secolo: un mondo levantino di  identità multiple, unito dal commercio e ancorato al Mediterraneo. Le  divisioni etniche basate sulla geografia possono essere superate, ma  solo se prima ne riconosciamo l’eccezionalità." ( stralci  tratti dal libro di Robert D. Kaplan “The Revenge of Geography” -  Copyright Wall Street Journal, per gentile concessione di MF/Milano  Finanza. - Traduzione Studio Brindani- settembre 2012)
   Il nostro viaggio nel sud continua verso Tiro (Sour) che si trova a 80 km da Beirut con destinazione Qana.  Lungo il percorso, in prossimità del fiume Litani, che durante  l’occupazione israeliana dal 1978 al 2000 parte delle sue acque furono  utilizzate per irrigare Israele e, durante la guerra del 2006, fu luogo  di scontro tra l’esercito israeliano ed Hezbollah, superiamo la Rocca del Castello di Beaufort.  Si tratta di un vecchio avamposto militare, conteso da quasi tutti gli  invasori negli ultimi 1000 anni, in cima ad uno dei più elevati crinali  della regione e lo si può vedere da molte miglia di distanza. Le sue  origini risalgono al periodo bizantino. Tra le sue mura sono passati i  protagonisti della storia del Libano: crociati, sultani, re,  guerriglieri, invasori stranieri. Tutti hanno voluto mettere la propria  bandiera sulle torri del castello. Nel 1920 sventolava la bandiera  francese. Era il periodo del protettorato che finì, nel 1943, con  l’indipendenza del Libano. Nel 1976 fu invece conquistata dai  guerriglieri palestinesi dell’Olp e difesa dai ripetuti attacchi sia da  parte dei cristiani-maroniti e sia dagli israeliani. Nel 1982, durante  la feroce invasione del Libano da parte d’Israele, fu occupata  dall’esercito israeliano che vi mantenne un presidio fino alla sua  ritirata, nel maggio 2000. Durante la loro ritirata, prima  dell’abbandono, per distruggere le tracce della loro occupazione, fecero  saltare in aria parti del Castello, ignorando la precisa richiesta del  governo libanese di rispettare il sito storico già pesantemente  danneggiato.     Dopo Tiro, in direzione sud-est a 14 km, raggiungiamo il piccolo villaggio sciita di Qana. E’ una fermata obbligatoria, per ricordare i tanti massacri avvenuti qui da parte dell’esercito israeliano. Durante il viaggio, Maurizio Musolino  racconta che cosa rappresenta Qana non solo per i palestinesi e  libanesi, ma anche per tutti noi, assumendoci il compito di portare la  loro voce al di fuori di questi confini.
 Audio Maurizio Qana  
 Va ricordato il massacro avvenuto all’interno della così detta “Operazione Grappoli d’ira” iniziato l’11 aprile 1996,  dal primo ministro israeliano Shimon Peres per fermare la resistenza  Hezbollah, interrompendo così il processo di pace in corso (Accordi di Oslo).  L’attacco durò 16 giorni. Peres era convinto che solo l’uso di un  massiccio bombardamento dal cielo, terra e mare, avrebbe potuto  dissuadere la popolazione dall’appoggiare le milizie di Hezbollah che  combattevano per la liberazione dei territori occupati del Libano.  L’aggressione fu particolarmente violenta: secondo stime attendibili  furono impiegate 35.000 bombe. Il 18 aprile,  circa 800 persone si rifugiarono a Qana, all’interno della base delle  forze di pace delle Nazioni Unite. La base fu bombardata con attacchi  ripetuti e mirati: morirono 102 persone e 120 rimasero ferite. Fu  un vero e proprio massacro: bruciati vivi, corpi deturpati e sfigurati,  carne e sangue fusi con l’acciaio, bambini decapitati.  Subito gli  israeliani cercarono di far credere che non sapessero dell’esistenza dei  civili all’interno della base, ma poi, secondo le indagini condotte  dalle Nazioni Unite, la verità fu che Israele bombardò deliberatamente  il bunker del campo.  “Il 18 aprile 1996, alle 14:10, i  cannoni israeliani aprono il fuoco sulla postazione del reparto fijiano  delle forze di peace-keeping a Favjiya-Qana dove hanno cercato riparo i  circa 800 abitanti del villaggio che non sono riusciti a fuggire. Si  tratta in prevalenza di bambini, donne e vecchi. Gli israeliani lanciano  sui tre rifugi circa 12 scariche di proiettili da 155mm, donati loro  dagli USA. Tali proiettili sono progettati per esplodere a 7 metri  d’altezza per poter uccidere il maggior numero di persone o produrre  amputazioni letali.  7 bombe colpiscono, con voluta precisione, i ripari  del battaglione fijiano. La carneficina è spaventosa. In ciò che resta  dei ripari, distrutti e incendiati, giacciono i cadaveri di 102 civili  arabi, in un ammasso di corpi irriconoscibili, alcuni dei quali stanno  ancora bruciando. I feriti, molti dei quali in condizioni gravissime,  sono 116.Nel massacro muoiono anche 4 militari del  battaglione ONU delle Fiji.”(dalla “Diaspora Palestinese in Libano ed i  tempi della guerra civile” di Mariano Mingarelli)
 Dopo il 1996, sono successi altri  bombardamenti, come per esempio, nel 1982 dove sono morti centinaia di  persone. Quello che colpisce di questi attacchi è il fatto che si sono  svolti tutti a danno di strutture dell’Unifil, dove al suo interno si  rifugiavano solo civili con la speranza di trovare un posto sicuro.  Colpire i luoghi dove si rifugiano i civili è però un elemento che si  ripete spesso nella strategia del governo israeliano. In tempi più  recenti, Israele bombardò ancora una volta Qana nel luglio del 2006, durante la guerra dei 33 giorni.  Il comitato visita questo luogo di  memoria dove sono sepolte le vittime di questa strage. Israele colpì  nella notte una palazzina di tre piani dove avevano trovato rifugio  varie famiglie: 60morti, tra cui 37 bambini.  In questo piccolo cimitero si trovano  in semicerchio le immagini di questi bambini che hanno perso la vita  sotto le macerie. Purtroppo molti di loro portano lo stesso cognome; una  tragedia che ha distrutto intere famiglie.  “Dal 1948 - così ci racconta un responsabile del luogo - le  autorità competenti libanesi non hanno mai costruito dei rifugi  antiaerei. La popolazione, quindi, aveva come rifugio solo la propria  casa. Durante l’aggressione israeliana del 2006, l’esercito israeliano  non ha risparmiato nessuno, ha bombardato tutto. A Qana, da un nostro  censimento, le case distrutte completamente sono state 64 e 1200 hanno  subito danni consistenti. In questo quartiere, la gente, per lo più  vecchi, donne e bambini, non ha avuto la possibilità di scappare e si è  rifugiata nei piani bassi di una palazzina in costruzione a pochi metri  da qui. Gli israeliani si accaniscono contro i civili perché proteggono,  secondo loro, la resistenza. La gente sostiene la resistenza perché ha  bisogno di chi la protegge dall’occupazione israeliana.”
 
         Audio Qana  Lasciamo il villaggio di Qana per raggiungere il campo di El Buss Nel campo di El Buss vi  è un importante centro di consultorio familiare con un ospedale  psichiatrico per la cura psicologica rivolta a donne e bambini, vittime  di violenza. L’associazione di Assumoud, compresa  l’estrema gravità del problema, è riuscita, grazie all’aiuto di  un’associazione finlandese, a sviluppare questo progetto. Sia l’UNRWA e  sia la Mezza Luna Rossa Palestinese non hanno questo tipo di servizio.  Il centro di salute psicologica è stato aperto nel 2007 ed è l’unico per  tutti i campi profughi del sud del Libano e per i nove raggruppamenti  di palestinesi. Non è solo rivolto ai bambini palestinesi, ma a chi ne  ha bisogno, siano esse siriani, libanesi, egiziani, o  altro. Questo  servizio si trova solo in 5 centri gestiti da Beit Atfal Assumoud in  tutto il Libano. I finanziamenti per quest’importante attività arrivano  solo da tre paesi: Norvegia, Finlandia e da un’associazione francese.  
  La responsabile del centro, illustra al Comitato, le funzioni di questo consultorio: “Il nostro lavoro è rivolto ai ragazzi  fino a 18 anni ed ai loro familiari. Il nostro staff lavorativo è  composto di uno psicologo, da vari operatori sociali ed operatori  socio-psicologi. La cura di queste persone avviene mediante sedute  quotidiane. Gli operatori sociali lavorano a tempo pieno, mentre gli  specialisti secondo le necessità. La crisi siriana e l’arrivo di tanti  palestinesi hanno creato al centro numerosi problemi.  Non siamo in  grado di risolverli tutti e le conseguenze sono lunghe liste d’attesa a  cui non riusciamo a dare delle risoluzioni. Queste persone, in fuga  dalle città in cui vivevano, catapultate in una realtà totalmente  diversa, costrette a dipendere da altri non avendo più niente, hanno  subito profondi disagi e crisi difficili da risolvere. Abbiamo dovuto  affrontare subito un primo soccorso: avevano bisogno di cibo,  d’indumenti e di un tetto. Tutto il sud si è mobilitato per dare questo  tipo d’aiuto a quelli che scappavano dalla vicina Siria. Noi abbiamo  ricevuto tanti bambini palestinesi, usciti dalla Siria, con uno stato  psicologico molto provato perché hanno visto gli effetti della guerra.  Questi bambini hanno bisogno di cure immediate per evitare che questo  stato di cose possa peggiorare. I loro stessi genitori hanno chiesto  aiuto, perché non sanno come affrontare questo tipo di problema, non  sanno più come comportarsi per poterli aiutare a superare queste paure,  questi disagi. Noi quindi abbiamo insegnato ai genitori come fare  organizzando delle assemblee. Inoltre, abbiamo anche messo in campo  altre attività socio-psicologiche per tutti i bambini con l’obiettivo di  riuscire a scaricare le loro tensioni interne, le loro paure non  dichiarate, per farli parlare, per raccontare. Questo esperimento lo  stiamo facendo in due campi: Burij El Shemali e Rashidieh, dove vi è un  alto numero di famiglie ed è rivolto a bambini tra i 6 e 13 anni con  questo tipo di problemi. Tutte le famiglie palestinesi provenienti dalla  Siria che si trovano all’interno del nostro bacino d’utenza, hanno il  diritto a partecipare a tutte le attività organizzate da Assumoud, anche  se questo comporta naturalmente una diminuzione dei nostri fondi. Ma  non importa. Andiamo avanti. Prima della crisi siriana, avevamo una  situazione finanziaria molto buona, ora invece i costi, offrendo servizi  e cure a tutte queste persone, sono triplicati.  Oggi siamo in uno  stato d’emergenza e la mancanza d’aiuti dall’esterno e di fondi ha reso  difficile portare avanti il nostro programma. Il nostro finanziamento  durerà fino a dicembre e poi se non ne troviamo altro, per il 2014  saremo a terra. Per noi è estremamente importante riuscire a trovare  altri finanziamenti, perché altrimenti corriamo il rischio di non  riuscire a portare a termine il nostro lavoro. I ragazzi del sud del  Libano difficilmente potranno arrivare a Beirut per continuare la cura.  La comunità internazionale applica una forte discriminante nei confronti  dei profughi. Se chiediamo ad un ente libanese di occuparsi delle cure  di un bambino palestinese-siriano, ci rispondono che non possono, non è  un loro compito, ma dell’UNRWA, mentre se è un bambino siriano, allora  tutto è possibile perchè paga la commissione europea. Oggi l’UNRWA ha  diminuito i suoi contributi. Succede quindi che se un bambino ha  bisogno di fare delle analisi, dove prima l’Unrwa ne rimborsava il 50%,  ora invece, spesso non dà nulla ed è per questo, che ci dobbiamo  attivare attraverso amicizie o a livello personale. Non esiste più un  servizio permanente né per i palestinesi che vivono qui e né per quelli  che arrivano dalla Siria.”
 Il primo problema che incontrano i  palestinesi siriani sul suolo libanese, è l’accento linguistico, poi, si  rendono conto che quello che manca in realtà, sono i diritti a cui  erano abituati. Poiché la loro permanenza continua, cominciano a  sentirsi come i loro predecessori del 1948, quando pensavano che il loro  allontanamento fosse solo per qualche settimana. A questo punto,  cominciano le ricerche di altri eventuali profughi provenienti dallo  stesso villaggio siriano, dalla stessa città, per stare insieme, ma il  loro desiderio è solo quello di poter tornare presto in Siria.I sintomi psicologici riscontrati nei  bambini sono per lo più quelli relativi al rifiuto di staccarsi dalla  famiglia, alla mancanza di sonno, alla paura, all’angoscia, all’anuresi,  al fenomeno di malattie viaggianti, al bisogno di essere sempre in  movimento e quello di mangiare sempre o niente.
 
 Audio El buss
    Dopo la visita al centro, c’inoltriamo  per le vie del campo. Notiamo la presenza dei nuovi palestinesi fuggiti  dalla Siria. Ci salutano. Incrociamo anche una famiglia seduta su un  muretto, nell’attesa, forse di un miracolo… chissà ora dove sarà… non  sono arrabbiati, sono semplicemente stanchi ed amareggiati.Sono giovani. Una giovane coppia con due  figli. Sono ben vestiti e l’uomo racconta che sono arrivati da Damasco.  Nel campo non c’è posto, così hanno deciso di affittare una camera in  città. In Siria, il padre faceva il geometra, aveva una piccola impresa  con dipendenti. Ora non ha più nulla. In Siria era libero, mentre ora è  solo stanco di essere chiamato “palestinese”. Un nome a causa  del quale, tutte le porte sono chiuse. Solo l’Unrwa potrebbe agire ma  non risedendo dentro il campo, nulla vale il suo diritto. Ci racconta  anche un fatto strano: due suoi fratelli vivono in Germania ed hanno la  cittadinanza tedesca. Una normativa tedesca prevede l’ingresso di 5000  famiglie siriane. Lui ha preparato tutta la documentazione.  I suoi  fratelli sono tedeschi e sua moglie siriana, sperava, quindi, in un  possibile ricongiungimento familiare. E’ andato allora, al consolato  europeo, ma gli è stato anche qui, negato l’accesso in Germania perché  palestinese. L’uomo allarga le braccia e cita alcuni versi del poeta  palestinese Tamim Barghouti “Tu sei palestinese, non devi vivere, devi vivere solo per i posti di blocco e le restrizioni”.
 Noi dobbiamo andare, ma lui prosegue dicendo che i palestinesi vivono nell’attesa della morte. “Ci  vogliono così.  Noi siamo destinati a vivere così, ma io sono fiero  d’essere palestinese, vado a testa alta e porto la causa palestinese con  me”. Un ultimo saluto e li lasciamo lì soli sul muretto, in attesa…
 
 12/12/2013
 
 continua…
 
 
	
	
SIRIA: UN PAESE ANCORA IN GUERRA  
 Il 6 aprile 2013 il giornalista italiano Domenico Quirico e il suo collega belga Pierre Piccinin da  Prata sono stati rapiti in Siria e tenuti in ostaggio per 152 giorni,  fino all’8 settembre. Quell’esperienza è raccontata dai due protagonisti  nel libro uscito a novembre intitolato: “Il paese del male. 152 giorni in ostaggio in Siria” (Neri Pozza, pp. 176, euro 15).Una narrazione sofferta e probabilmente  terapeutica, che pone a chi legge questioni spinose e non solo  relativamente alla guerra in Siria. Non sorprende, ma lascia comunque  l’amaro in bocca, che in Italia si parli di Siria, ma più in generale di  vicende che escono dai ristretti confini dello Stivale, solo in  occasioni drammatiche come quella del rapimento di un connazionale.
 Ma la guerra in Siria continua; come scrive Quirico nelle righe finali riportando le parole di uno dei suoi carcerieri: “Vedi,  ve ne andate, liberi. allora non è vero che voi eravate i prigionieri e  noi i custodi. Tutti, voi e noi, eravamo altrettanto prigionieri. Ma  con una differenza: che voi potete lasciare questa tragedia, partire,  noi restiamo qui…”.
 E quindi il giornalista prosegue: “E’  solo ora, partendo, che capisco l’essenza di questo posto. Dopo cinque  mesi sono diventato parte del luogo, della disperazione, della morte,  del cibo sudicio e scarso, del caldo e del color sabbia. Ora, mentre  cammino nella terra di nessuno tra Siria e Turchia, ho la sensazione di  comprendere i problemi di questa falsa rivoluzione, i suoi paradossi e  perfino il suo squallore. Sento una gelosa, assurda fratellanza con  tutti quei siriani che cercano di non andare ancora più a fondo”.
 11 dicembre 2013 Dal sito di Radio Onda D’Urto
 Ascolta Domenico Quirico che conversa con la saggista Cinzia Nachira.
  
 
	
	
Come osano i leader israeliani piangere la morte di Mandela?“Mandela fu un personaggio esemplare  della nostra era e sarà ricordato per essere stato un leader dalla  grande statura molare. Fu un combattente per la libertà che rifiutò  l’uso della violenza..” Con queste parole, il Primo Ministra israeliano, Benjamin Netanyahu,  non solo rivela una scarsa conoscenza della storia sudafricana (questo è  il meno) ma ha superato il limite della decenza. Nel coro unanime a  livello mondiale di ammirazione per Mandela, l’unica cosa che i  rappresentati dello stato di Israele avrebbero dovuto fare, era tacere  con umiltà e per la vergogna.di Michel Warschawski (AIC – Alternative Information Center)
 

 (Foto: Desertpeace.wordpress.com)  Stando a numerosi rapporti, Israele ebbe stretti legami diplomatici e nucleari con il Sud Africa dell’apartheid.
 Fino ad oggi nessun leader israeliano ha mai chiesto perdono a Mandela e  al popolo sudafricano per il ruolo attivo dello stato di Israele nelle  difesa e nel mantenimento del regime dell’apartheid a Pretoria.  L’alleanza tra Israele e il Sud Africa razzista fu strategica da un  punto di vista economico, ma anche militare e ideologico. Anni dopo che  la maggior parte della comunità internazionale aveva lanciato il  boicottaggio del regime sudafricano, Israele continuava ad avere  eccellenti relazioni con Pretoria, aiutandola ad aggirare le sanzioni  internazionali. Stando ai media internazionali, Israele non avrebbe  potuto continuare il proprio programma nucleare senza la collaborazione  del Sud Africa dell’apartheid. Tale alleanza non si basava solo su  interessi comuni, ma anche sulla condivisione della filosofia  dell’essere due paesi di bianchi che si trovavano circondati da paesi  ostili di non bianchi e dall’essere accomunati dalla battaglia contro il  comunismo e contro l’affermazione dei popoli del terzo mondo.
 Alcune settimane fa ho visto un  appassionante reportage trasmesso alla televisione israeliana a  proposito di un famoso miliardario israeliano che fu contemporaneamente  un produttore cinematografico di successo e un agente del Mossad.  Tra le molte rivelazioni (almeno, per me, lo sono state), l’uomo ha  ammesso di aver ricevuto milioni di dollari dall’amministrazione  statunitense e dal regime del Sud Africa per produrre dei film il cui  unico obiettivo doveva essere la legittimazione dell’apartheid.. inclusi  i suoi leader filo-nazisti. Quando gli venne chiesto se prova rammarico  per ciò che ha fatto, rispose con un “sì, un po’” anche se i suoi occhi rivelavano che stava mentendo.   Quando Mandela venne  finalmente scarcerato e accettato globalmente come il leader indiscusso  del nuovo Sud Africa, i vari governi israeliani hanno continuato a  mantenere una certa distanza da quel comunista/terrorista africano e  hanno preferito Desmond Tutu, considerato più moderato, al leader dell’ ANC.  Israele sicuramente non fu l’unico  paese ad appoggiare il regime dell’apartheid e gli Stati Uniti hanno  spesso utilizzato lo stato israeliano per portare avanti alcuni dei loro  sporchi lavori. Il forte legame tra Tel Aviv e Pretoria non era  tuttavia solo il frutto di interessi comuni ma anche di una visione  simile del mondo e di valori condivisi. Questo è esattamente il motivo  per cui Israele è stato l’ultimo paese a recidere i legami con il regime  sudafricano.  Il “lutto” di Netanyahu e le affermazioni del Presidente israeliano Shimon Peres  sono tanto false quanto la risposta data dal produttore  cinematografico/agente del Mossad. Speriamo che la famiglia, gli amici e  tutti i sostenitori di Nelson Mandela non permettano a queste persone e  alle loro affermazioni di profanare gli eventi in ricordo di Mandela,  uno dei più grandi lottatori per la libertà del secolo scorso. 11 Dicembre 2013
 (tradotto da AIC Italia/Palestina Rossa)  (dal Sito “Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus)
 
 
	
	

 Su Alkemia Word  TALAL SALMAN: IL CONFLITTO SIRIANO
 Quali ripercussioni in medio oriente
  
 Video relazione del direttore del più importante quotidiano libanese As Safir, dott. Talal Salman. Dalla  strumentalizzazione dell'occidente, alle milizie integraliste  “rivoluzionarie” guidate dall'Arabia Saudita e dal Qatar. Il tentativo  di Israele di ridisegnare quell'area geopolitica, il ruolo della Russia e  della Cina e il pericolo, in caso di intervento USA, dell'estensione  del conflitto.
 Beirut - 17 settembre 2013 – Libano
 
 
	
	
Oggi 23 ottobre, il Sindaco della città di Modena Giorgio Pighi, ha dato il benvenuto all’Ambasciatrice Palestinese in Italia, Mai Alkaila insieme alla delegazione palestinese. 
La Presidente del Consiglio comunale, Caterina Liotti  apre l’incontro ringraziando l’Ambasciatrice palestinese per la visita  alla nostra città. La Presidente modenese auspica che si possa arrivare,  anche con l’aiuto di tutta la comunità internazionale, ad una vera  pacificazione tra il popolo palestinese e quello israeliano. Infine,  rileva l’amicizia che la nostra città sente nei confronti del popolo  palestinese. All’incontro sono intervenute altre autorità del Comune di  Modena e della Provincia: Fabio Poggi assessore di Modena con delega alla Cooperazione internazionale, il vice presidente della Provincia Mario Galli, il vice sindaco del Comune di Fiorano Modenese Marco Busani e l’assessore del Comune di Formigine Maria Costi. 
Oltre alle autorità, sono presenti anche  alcuni rappresentanti d’associazioni impegnate in progetti di  solidarietà, di promozione allo sviluppo dell’informazione, dei diritti  umani per il sostegno del popolo palestinese, come “Modena incontra Jenin”, “Alkemia”, “Pax Christi” e “Gavci”.A MODENA, L’AMBASCIATRICE PALESTINESE IN ITALIAdi Mirca Garuti
   L’ambasciatrice, dopo aver ascoltato le  autorità modenesi e le varie associazioni, ringrazia tutti i presenti  per l’impegno messo in atto nel dare, in diversi modi, solidarietà ed  appoggio al popolo palestinese. “La pace ha bisogno del vostro sostegno, ma occorre fare di più” – dice Mai AlKaila – e prosegue, affermando che “la  nostra dirigenza ha scelto la pace, una pace vera, a differenza  d’Israele che non ha ancora rispettato la firma degli accordi di Oslo”. L’ambasciatrice parla, inoltre, della politica d’occupazione da  parte del governo israeliano che continua imperturbabile a sottrarre  acqua e terra ai palestinesi a favore dei coloni, promuovendo così il  loro arrivo in Israele a scapito invece del trasferimento della  popolazione palestinese in altri stati. Mai Alkaila non dimentica di  citare la costruzione illegale del Muro dell’apartheid che divide villaggi e città palestinesi, della detenzione amministrativa,  norma ancora in vigore nell’ordinamento d’Israele, usata per lo più nei  confronti dei palestinesi per una detenzione senza obbligo di un  provato reato a tempo indeterminato. L’ambasciatrice termina affermando  che “Israele viola ogni giorno i diritti del popolo palestinese  attraverso gli arresti indiscriminati, la distruzione di case, di  alberi, l’uso dei tanti checkpoint che obbligano la popolazione  palestinese a dover sostare per lunghe ore prima di poterli attraversare  per raggiungere i luoghi di lavoro, di studio e di cura”. Per  tutto questo, Mai lancia una richiesta d’aiuto, a noi popolo occidentale  per sensibilizzare e fare pressione su ogni comune, città, regione,  paese europeo affinché si possa veramente raggiungere una vera pace in  Palestina.La delegazione palestinese, oltre all’Ambasciatrice, era formata da: Mahmoud Abu Adeh membro del Comitato esecutivo della “Palestine General Federazion of Trade Unions” di Betlemme, Shaheen A.M.Shaheen amministratore Doha Municipality del Governorate di Betlemme, Monica J.A.Salem responsabile delle donne sindacato palestinese P.G. of T.U. e Hani Gaber funzionario dell’Ambasciata Palestinese a Roma. 
I responsabili del sindacato nazionale  palestinese puntano il dito sull’enorme problema del lavoro in  Palestina. La disoccupazione è molto alta ed i lavoratori palestinesi  che lavorano in Israele non hanno nessun diritto, nessuna garanzia.  Molte volte non sono neppure pagati. Nelle loro buste paga c’è la  trattenuta relativa alla sanità e alla pensione, ma, a loro non ritorna  nulla, non hanno nessun beneficio e sono obbligati a pagare per  qualsiasi prestazione di cui hanno bisogno. Non possono vendere i propri  prodotti che producono in ogni settore. Tutto questo produce solo  povertà e disoccupazione. Israele non porta via solo terre, acqua e  lavoro ma anche la loro dignità di uomini e donne. 
La donna in Palestina è sempre stata  all’avanguardia, in prima linea, è sempre stata considerata importante  sia per la società e sia per la famiglia. Oggi, il 25% nei vari settori  della società è occupato da donne.  L’obiettivo, però, è quello di  riuscire a raggiungere il 50%. La vita delle donne in Palestina non è  certo facile, è difficile e dura,  in quanto sono loro che, di solito,  devono portare avanti la famiglia, perché il marito o i figli o i  fratelli sono in prigione o morti. 
Nel corso dell’incontro è presentato il progetto “Operazione Rondine, diritto come misura e giustizia come livella “ dell’associazione Gavci,  che fa appello agli enti del governo locale, le autorità locali  d’Israele e Palestina, alle associazioni transnazionali dei governi  locali perché si uniscano in una corale mobilitazione e idealmente, con  delibera formale, procedano a reclamare Gerusalemme quale Word District-Capitale Mondiale della Pace.  Questo progetto è anche oggetto di un convegno che si terrà nel  pomeriggio a Bologna alla presenza di tutta la delegazione palestinese.L’ambasciatrice, come ultimo atto,  consegna al Comune di Modena due piatti prodotti in Palestina con  dipinta la bandiera della pace ed altri doni simbolici della terra di  Palestina.
 La presidente Caterina Liotti, offre  all’Ambasciatrice come dono una riproduzione della statuetta che si  trova all’angolo del Palazzo comunale “La Bonissima”. La  statuetta doveva probabilmente rappresentare l’onestà del commercio. La  leggenda più diffusa racconta, però, che si tratta di “una dama  ricca che, in un periodo di carestia, aveva sfamato il popolo, chiedendo  aiuto agli altri notabili della città. Cessata la carestia, avrebbe  festeggiato con tutta la popolazione nel suo palazzo, cacciando solo  quelli che non l’avevano aiutata nell’opera buona”.
 La Presidente del Consiglio nel consegnare  la statuetta all’Ambasciatrice sottolinea l’importanza della donna in  questa campagna verso la Pace.
 
 23/10/2013
 
 
	
	

 SIRIA
 UNA GUERRA DA EVITARE
 di Mirca Garuti
 Un’altra guerra imminente?  Se si leggono i  titoli dei tanti quotidiani italiani e stranieri, sembra proprio di sì.  Le tante voci che tentano di alzarsi a difesa di un popolo, anzi, dei  popoli che fanno parte dell’area circostante la Siria, restano  inascoltate. Gli interessi personali dei Grandi Stati sono più  importanti di tutto e tutti. L’uomo, per l’ennesima volta, dimostra  tutta la sua capacità distruttiva nei confronti dei suoi stessi simili!  La storia non insegna, il passato non è in grado di dimostrare  l’inutilità di un’altra guerra, si è sordi e ciechi, quando in gioco c’è  solo il proprio interesse e potere. Quando le armi chimiche sono usate  dagli “amici” si rimane in silenzio, si fa finta di niente, mentre, quando sono utilizzate dai “nemici”,  allora s’insorge, si grida all’orrore ed al dovere dare una lezione.  Come il solito, due pesi e due misure, secondo la convenienza!
 La crisi economica porta sempre e solo alla guerra. Il Presidente americano, incurante dei tanti “No alla guerra”,  prosegue il suo cammino verso una sicura catastrofe. A lui non  interessa se tantissime persone innocenti moriranno! O è tanto cieco e  sordo, oppure è solo un burattino nelle mani di qualcuno più forte di  lui.
 
 “La strategia usata è sempre la  stessa. Prima fase: si grida alla mancanza di democrazia e di diritti  umani. Seconda fase: s’inviano consiglieri che sostengono i militanti  della libertà e s’inventa un aggettivo per la rivoluzione in atto (dei  gelsomini, dei cedri, arancione ecc.) I consiglieri partecipano anche  alle proteste e agli scontri, aumentando così di numero ed  intensificando il loro coinvolgimento. Terza fase: la causa della  guerra.” (da “Left “del 31/08/2013 – nota di Maurizio Torrealta)
   La Siria  per tutti è quella rappresentata dal governo di Bashar al-Assad oppure dai così detti “ribelli”. Pochi parlano della terza forza del paese: i curdi siriani.  In Siria come in Turchia la lingua curda fu proibita nella stampa e  nella società. Oltre al genocidio culturale, il regime siriano non ha  mai smesso le aggressioni fisiche nei loro confronti. I curdi vivono da  sempre una tragedia umana. In questa guerra la posizione dei curdi è  stata neutrale, hanno  preso le distanze sia dalle forze del regime e  sia da quelle di opposizione, organizzando una propria resistenza,  cercando di sviluppare una politica indipendente. 
 Il quotidiano “The Independent” il 26 agosto scorso ha pubblicato una corretta analisi sulla situazione siriana, affermando che: “Mentre  il mondo nella scorsa settimana si è concentrato sugli orrori a  Damasco, i ribelli anti-governativi hanno condotto una campagna di  pulizia etnica contro i curdi siriani nel nord-est del paese,  costringendo 40.000 di loro, in meno di una settimana, a fuggire  attraverso il Tigri nel nord dell'Iraq. Così molti stanno cercando di  sfuggire a quello che le Nazioni Unite dicono che è il più grande  singolo esodo dei profughi dalla guerra. Il ponte di barche sul Tigri  che stavano utilizzando è vicino al collasso e ha dovuto essere chiuso,  intrappolando decine di migliaia di curdi terrorizzati all'interno della  Siria .”
 Ma chi sono questi ribelli? Sempre sul quotidiano inglese: “I  ribelli non vogliono negoziare con il governo, in parte perché sono  così frammentati che avrebbero difficoltà a concordare una squadra di  negoziatori che rappresenti i diversi filoni di opposizione. Secondo una  stima, ci sono 1.200 diverse unità militari ribelli in Siria  che  variano nel formato: da gruppi familiari di alcune decine di combattenti  a piccoli eserciti di miliziani ben organizzati e pesantemente armati  di carri armati e artiglieria.”
 
 Approfondimenti:
 
 -  Gli interessi economici della Francia interventista di Marco Cesario da Linkiesta
 
 -  Dossier: “I curdi in Siria”  (link su uikionlus)
 
 -  “Contro la Guerra del Levante” – Paola Caridi, dal sito “Invisibile Arabs”
 -    L'Iran, non la Siria, vero bersaglio dell'Occidente di Robert Fisk -    L'infernale illusione delle armi di Adonis -  Appello di UikiOnlus  -  Appello del Partito comunista libanese -   Notizie dalla Siria - Nena News Agency   -   No alla guerra imperialista di Bassam Saleh 
 Articoli su Alkemia:
 - L'IMPERO IN DECLINO - Intervista con Gilbert Achcar   - SIRIA:  UNA VIA PACIFICA ALLA SOLUZIONE DELLA CRISI - di  Giovanni Sarubbi - Intervista ad Ossamah Al Tawil membro del Comitato  Esecutivo del Coordinamento Nazionale Siriano per il Cambiamento  Democratico   
	
	

   PRIME RIFLESSIONI SULLA DINAMICA DELLA RIVOLUZIONE EGIZIANA    Intervista a Gilbert  Achcar rilasciata il 3 luglio al canale televisivo The Real News Network  (TRNN) e trasmessa in due parti il 4 luglio.  Gilbert Achcar è  cresciuto in Libano ed è ora professore presso la Scuola di Studi  Orientali e Africani dell’Università di Londra. Tra le sue opere:  "Scontro tra barbarie", "Terrorismo e disordine mondiale" (2002,  pubblicato in 13 lingue); "La guerra dei 33 giorni" (con Michel Michel  Warshawski, edizioni Alegre), "La poudrière du Moyen-Orient" (2007), con  Noam Chomsky, "Les Arabes et la Shoah" (2009) e, più recentemente, "Le  peuple veut" (2013). 
 Puoi illustrarci la tua  reazione alla notizia che il presidente Morsi, il leader  democraticamente eletto d’ Egitto, è stato rimosso dal potere  dall’esercito egiziano?
 Direi che, in un certo senso, si tratta  della ripetizione dello stesso scenario che ha avuto luogo nel febbraio  2011. Quel che effettivamente possiamo constatare in entrambi i casi è  che si tratta di un colpo di stato, un colpo di stato militare,  nel contesto di un’immensa mobilitazione, con la sola differenza che  coloro che sono al potere sono diversi e la composizione della folla, la  mobilitazione di massa, è anch’essa diversa rispetto al 2011. Nel gennaio-febbraio 2011, abbiamo  assistito, come si sa, ad un immenso movimento di protesta, quella  grande rivolta nella quale erano coinvolte tutte le correnti di  opposizione al regime di Mubarak. Si trattava dei liberali, dei  movimenti di sinistra, ma anche i Fratelli Musulmani. Essi  rappresentavano una componente importante della mobilitazione in quel  momento. In quella grande mobilitazione di massa si riscontravano lo  stesso tipo di aspettative nei confronti dell’esercito, l’idea cioè che  l’esercito sia dalla parte del popolo, che esso potrebbe rappresentare  gli interessi del popolo. Mi ricordo, d’altronde, che proprio l’8  febbraio 2011, appena tre giorni prima della caduta di Mubarak, The Real News Network mi aveva intervistato ed io avevo messo in guardia contro simili illusioni circa l’esercito e i militari. Quello che stiamo vedendo adesso è solo  il risultato di una sorta di gioco delle parti. I Fratelli Musulmani  sono al potere e i sostenitori del vecchio regime, quello di Mubarak,  per le strade a fianco dei liberali, con la sinistra, con l’opposizione  popolare ai Fratelli Musulmani. È in un certo senso, come ho già detto,  una ripetizione dello stesso scenario, naturalmente con una differenza  fondamentale: la natura della forza politica che è al potere. In entrambi i casi assistiamo ad una  grande mobilitazione. E questa sollevazione è assolutamente  affascinante. È qualcosa che va oltre le aspettative, anche tra chi,  come me, rifiuta tutti quei commenti cupi ai quali si assiste ogni volta  che le elezioni portano al portare forze simili alla Fratellanza Musulmana. Abbiamo assistito ad ogni tipo di commento che indicava come la primavera si fosse trasformata nell’autunno [islamista] o addirittura in inverno [fondamentalista];  molti hanno visto in questi eventi un motivo, se non una scusa, per  denigrare tutte le rivolte nella regione. Ci sono stati anche altri,  come me, che hanno invece insistito sul fatto che ci troviamo solo  all’inizio di un processo rivoluzionario di lunga durata. Ho anche detto  che, in effetti, ero abbastanza contento di vedere i Fratelli Musulmani  accedere al governo perché questo sarebbe stato il modo migliore per  fare in modo che essi finalmente si esponessero e, in questo modo,  perdessero la loro capacità di ingannare la gente con slogan demagogici  del tipo “l’Islam è la soluzione”. Ci puoi dire qualcosa sugli interessi fondamentali in gioco nella rivolta in Egitto e quali quelli politici che la animano?
 Come ho appena detto, siamo di fronte a  una folla molto eterogena, politicamente parlando. Ho visto in tv  alcune interviste con gente per le strade. Molte persone, nei caffè o in  luoghi simili, esprimono la loro preferenza per Mubarak piuttosto che per Morsi.  Vi sono dunque, naturalmente, un gran numero di sostenitori del vecchio  regime, un gran numero di persone che sono, come dire, una massa  piuttosto conservatrice, che è contro i Fratelli musulmani a causa del  profonda incapacità mostrata in questo anno al potere. Si sono  comportati in modo veramente deplorevole, mostrando una totale  inettitudine, e sono stati capaci di mettere contro di loro proprio  tutti. Vi sono quindi sostenitori del vecchio  regime; ma in questa grande mobilitazione avete immense masse di persone  che agiscono partendo dalla loro situazione di classe, se così possiamo  dire, constatando che nulla è stato fatto contro il deterioramento  delle loro condizioni vita; il governo non ha fatto altro che continuare le politiche sociali ed economiche del regime precedente. Troviamo poi anche l’opposizione liberale,  che si oppone ai Fratelli musulmani per motivi politici, ma che non  contesta le loro politiche economiche e sociali, poiché i liberali, in  sostanza, condividono le stesse opzioni. Abbiamo poi la sinistra.  Si tratta quindi, come ho detto, di una massa molto eterogenea. Nello  stesso modo in cui nel 2011 abbiamo visto forze molto eterogenee, di  natura assai diversa, riunirsi attorno ad un obiettivo comune che era la  loro opposizione a Mubarak, oggi assistiamo allo stesso fenomeno nella  opposizione a Morsi. Naturalmente questo non risolverà il  problema. Qualsiasi illusione che l’esercito e o chiunque verrà portato  al potere dall’esercito (perché l’esercito si trova di nuovo nella  posizione di king maker) possa e voglia apportare miglioramenti alle  condizioni sociali ed economiche e alle condizioni di esistenza dei  lavoratori in Egitto è semplicemente infondata. Tutte le illusioni di  questo tipo sono per l’appunto solo questo: illusioni! Ci troviamo quindi di fronte ad uno  scontro tra coloro che sostengono il colpo di stato dei militari perché  vogliono la restaurazione dell’ordine, convinti che i Fratelli Musulmani  non riescono a raggiungere questo obiettivo, quelli cioè che desiderano  un ritorno alla normalità nel paese; cosa che in realtà significherebbe  la fine di tutte le mobilitazioni sociali e di tutti gli scioperi che  si sono sviluppati in modo assai intenso negli ultimi due anni. Vi è  quindi questo tipo di persone. Dall’altra parte poi ci sono quelli che  si ribellano a Morsi perché ha continuato le politiche sociali di  Mubarak. Ci troviamo quindi in piena  contraddizione. Il problema è che, con l’eccezione di gruppi marginali,  vi è poca consapevolezza di questa situazione. La tragedia sta nella  mancanza di una forza di sinistra che possa contare su una credibilità  popolare reale e su una chiara visione strategica di ciò che sta  accadendo. Questa mancanza pesa enormemente. Hai finora delineato il modo in  cui questo processo rivoluzionario, che ha avuto inizio il 25 gennaio  2011, sta evolvendo. In sostanza stai dicendo che non si vedono emergere  leader del movimento rivoluzionario in grado di candidarsi alla  leadership in occasione delle prossime elezioni promesse dall’esercito…  Vi  è stata l’apparizione di una figura che poteva svolgere un ruolo di  unificatore delle aspirazioni, chiamiamole così, sociali e progressiste  della popolazione. Era il candidato nasseriano Hamdeen Sabahi,  con riferimento al Nasser che ha governò l’Egitto fino al 1970. Questo  candidato ha rappresentato una proposta che si può configurare come una  sorta di nazionalismo di sinistra. È arrivato terzo (nel 2012 con il  20,72% contro il 23,66% di Ahmed Shafik – un ufficiale, un  rappresentante del vecchio regime – e il 24,78% di Mohamed Morsi). È  stata la vera e propria sorpresa delle elezioni presidenziali.  Rappresenta l’unica figura realmente popolare nella vasta gamma della  sinistra egiziana. Il problema è che anche lui condivide totalmente il discorso oggi prevalente secondo il quale l’esercito è nostro amico, è con il popolo, ecc.  Difende, inoltre un’ alleanza con i liberali e con altri che sono veri e  propri superstiti del vecchio regime come Amr Moussa (il segretario  generale della Lega Araba tra il 2001 e il 2011, e ancora prima ministro  degli Esteri tra il 1991 e il 2001). Recentemente ha addirittura  dichiarato che era stato un errore per il movimento popolare, prima che  Morsi giungesse al potere, lanciare rivendicazioni quali “Abbasso il regime militare”; e questo mentre il Comitato supremo delle forze armate (CSFA)  governava il paese con il pugno di ferro. Queste dichiarazioni non sono  per nulla rassicuranti. Tuttavia bisogna riconoscere che è stata  l’unica personalità emersa in grado di attrarre si di sé le aspirazioni  popolari al cambiamento a sinistra e non a destra (sia nella variante di  una leadership islamista o in quella di un ritorno al precedente  regime). La questione che ora si pone, se l’esercito manterrà il  programma annunciato – il che è ancora tutto da verificare – che prevede  la tenuta di elezioni presidenziali a breve termine, è vedere che cosa  accadrà in queste elezioni e come questo candidato – l’unico in grado di  imporsi a sinistra – si posizionerà: che tipo di discorso svilupperà ,  quale programma, ecc. È questo un aspetto sul quale dovremo concentrare  la nostra attenzione, sempre che – lo ripeto ancora una volta – le  elezioni abbiano effettivamente luogo. È troppo presto per pronunciarsi a  tale proposito, poiché i Fratelli Musulmani per i  momento continuano ad opporsi al colpo di stato e a denunciarlo per  quello che è: un colpo di stato. E lo è davvero. E questo anche se non  si tratta di un semplice putsch contro un governo democraticamente  eletto, ma di un colpo di stato contro un governo un eletto sì  democraticamente, ma che ha suscitato l’opposizione della stragrande  maggioranza della popolazione egiziana. Le mobilitazioni contro Morsi  hanno raggiunto livelli mai visti. E’ stato un avvenimento assolutamente  senza precedenti.
 Qual è il ruolo degli Stati  Uniti in tutto questo? Sono stati felici di sostenere Mubarak per  decenni con i militari al potere. Che ruolo hanno giocato in questa  situazione e qual è il ruolo che gli Stati Uniti potrebbero svolgere nel  prossimo periodo? Il movimento di opposizione in Egitto,  vale a dire l’opposizione a Morsi, ha la forte convinzione che  Washington abbia sostenuto Morsi. C’erano infatti molti segnali che  indicavano il sostegno di Washington a Morsi; messe guardia contro un  intervento dell’esercito, l’insistenza sulla necessità di seguire sempre  la via costituzionale, sebbene l’attuale Costituzione goda di una  legittimità assai discutibile. Questo enorme movimento, infatti, non  riconosce questa come una costituzione legittima, ma come qualcosa  imposto dai Fratelli Musulmani. L’ambasciatore degli Stati Uniti al  Cairo ha fatto una dichiarazione, all’inizio delle proteste contro  Morsi, nella quale ha affermato che esse erano dannose per l’economia.  Una dichiarazione che è apparsa come flagrante sostegno a Morsi. Vi sono  quindi ampie indicazioni che vanno in questa direzione. In realtà Washington si trova in una  situazione di grande difficoltà. Coloro che sostengono, e sono tanti,  soprattutto su Internet, tutte queste teorie del complotto secondo cui  Washington sarebbe onnipotente e tirerebbe le fila di tutto quello che  sta accadendo nel mondo arabo sono completamente fuori strada. Penso  invece che l’influenza di Washington, degli Stati Uniti in tutta la  regione, si trovi ad un livello estremamente basso. Questa situazione è  il risultato della sconfitta in Iraq, perché quella è stata una grande  sconfitta per il progetto imperiale degli Stati Uniti. Abbiamo assistito alla combinazione di  questo disastro per la politica imperiale degli Stati Uniti con il  rovesciamento di alleati fondamentali per Washington come Mubarak.  Washington  ha cercato di puntare sulla Fratellanza Musulmana. Infatti, durante  l’ultimo periodo, dopo l’inizio delle rivolte nel mondo arabo, o  immediatamente dopo, Washington ha scommesso sui Fratelli Musulmani. Si ê  trattato in realtà di una loro rinnovata alleanza poiché gli Stati  Uniti hanno lavorato a stretto contatto con i Fratelli Musulmani negli  anni ’50, ’60, ’70, di fatto fino al 1990-1991. Sono sempre stati in  stretto contatto con i Fratelli Musulmani. Hanno rinnovato questa  collaborazione convinti che nelle attuali condizioni del mondo arabo, di  fronte a tutte queste mobilitazioni di massa – che costituiscono il più  importante e nuovo sviluppo a partire dal dicembre 2010/gennaio 2011 –  avevano bisogno di alleati con una vera base popolare, con una vera e  propria organizzazione popolare. Coloro che meglio incarnavano questa  opzione e che erano disposti a lavorare e a cooperare con Washington  sono stati i Fratelli Musulmani. Questo è quello che hanno fatto e  questo è ciò che essi continuano a fare.
 La situazione ha ormai raggiunto un punto in cui Washington ha dovuto constatare che la Fratellanza Musulmana  ha fallito. Quindi, anche dal punto di vista di Washington, scommettere  su di loro non è più possibile. Non sono riusciti a riportare l’ordine  in Egitto. Non sono stati in grado di controllare la situazione. Il  principale alleato di Washington in Egitto è ovviamente l’esercito, un  esercito che ha legami molto stretti con Washington. Esso è in parte finanziato da Washington  (dalla fine degli anni 1970, a seguito della conclusione di un trattato  di pace con Israele, l’esercito egiziano riceve finanziamenti annuali;  attualmente pari a circa 1,3 miliardi dollari). La maggior parte dei  pagamenti degli Stati Uniti verso l’Egitto, che si colloca appena dopo  Israele dal punto di vista degli importi riscossi, va all’esercito.  L’attuale generazione di ufficiali è stata addestrata negli Stati Uniti,  ha partecipato a manovre militari congiunte, ecc. Si tratta quindi di un esercito strettamente legato a Washington.  E, naturalmente, non è concepibile che Washington prenda posizione  contro i militari. Credo che adotteranno una posizione conciliante. Ciò  che conta è che essi non dirigono la situazione. E coloro che pensano  che gli Stati Uniti siano i registi occulti di tutta l’operazione, come  ho già detto, sono completamente fuori strada. Puoi ora dirci cosa accadrà in  Egitto? Mohamed El-Baradei è una delle figure dell’ opposizione tra i  leader che hanno incontrato l’esercito. Pare che i leader sindacali non  abbiano incontrato l’esercito. Ci puoi dire quali le possibili  implicazioni di tutto questo? Infine, dopo la crisi di questo governo  dei Fratelli Musulmani, se ci dovessero essere nuove elezioni, pensi che  i Fratelli Musulmani potrebbe vincere? Comincerò con l’ultimo punto. No, io  non vedo come i Fratelli Musulmani potrebbero in questo momento vincere  delle elezioni. Le prossime elezioni saranno elezioni presidenziali,  perlomeno in base alle indicazioni del comandante dell’esercito El-Sissi  contenute nel suo discorso. Se si guarda a quello che è successo nelle  precedenti elezioni, si ricorderà che Morsi è stato eletto al secondo  turno grazie ai voti che non erano “pro-Morsi”, ma piuttosto  contro Shafik, l’altro candidato, un ex soldato considerato  rappresentante di una totale continuità con il regime di Mubarak. Morsi  ha ottenuto, anche allora, poco meno del 25% dei voti al primo turno. E  non sono affatto sicuro che i Fratelli Musulmani otterrebbero di nuovo  questo 25%. Quindi, no, non penso che sia davvero possibile, per non  parlare del fatto che mi è difficile immaginare l’esercito organizzare  delle elezioni che permettano a Morsi, o a qualcuno a lui legato, di  ritornare al potere. Questo mi pare perlomeno piuttosto improbabile.Quello che accadrà è esattamente ciò a cui  mi riferivo quando ho fatto allusione alla questione del candidato  nasseriano. Questo fronte di opposizione assai eterogeneo si presenterà  alle prossime elezioni con un unico candidato? Se è questo quel che  succederà, il candidato non sarà il nasseriano al quale ho fatto  allusione [Hamdeen Sabahi], ma piuttosto qualcuno come El-Baradei, un liberale.
 In qualche modo tutto questo sarà un  altro passo, l’apertura di una nuova fase in processo rivoluzionario che  sarà bel lontano dall’essere portato a termine. Esso continuerà, e  passerà per molti anni, se non decenni, di instabilità prima di giungere  in una fase in cui le cose cambieranno profondamente sulla base di  politiche economiche e sociali diverse. Per raggiungere questo obiettivo  è necessario che si produca un cambiamento sociale e politico profondo.  Tutto questo oggi non è ancora visibile. È perciò troppo presto per  fare previsioni a questo proposito. Quello che però possiamo dire è che è  altamente improbabile che l’esercito cerchi di ripetere quello che ha  fatto dopo il precedente colpo di Stato dell’11 febbraio 2011, quando,  nello stesso modo, l’esercito ha allontanato Mubarak dal potere. Quello  che adesso hanno fatto con Morsi. Essi hanno a lungo governato il paese  la prima volta, prima dell’elezione di Morsi (tra il febbraio 2011 e la  fine di giugno 2012, ndr). Mi sembra difficile che possano fare la  stessa cosa perché hanno capito che questo è per loro dannoso e che di  fatto oggi il potere in Egitto è diventato una sorta di patata bollente.  Solo che… chi potrebbe desiderare di affrontare tutti i problemi che  abbiamo davanti, uno dei quali, non certo il meno importante, è  rappresentato dai Fratelli Musulmani stessi? Staremo a vedere cosa  succede. Se questi ultimi verranno semplicemente sopraffatti, obbligati a  capitolare, ciò accadrà con un accumulo di molto risentimento e ci sarà  una forte opposizione da parte degli ambienti islamici verso chiunque  verrà dopo Morsi. D’altra parte vi è una situazione  economica terribilmente difficile, molto preoccupante, con un paese  sull’orlo della bancarotta, ai limiti di un profondo disastro economico.  La sola politica proposta, da parte di un ampio schieramento che va da Morsi ad El-Baradei passando per i militari, corrisponde all’agenda delle misure neoliberali che l’FMI promuove in Egitto.  È veramente difficile definire fino a che punto il Fondo monetario  internazionale rappresenti nei fatti proprio quello che è stato  criticamente definito da molto tempo, cioè il fondamentalismo monetarista internazionale.  A tal punto fondamentalista nella sua prospettiva neoliberale da  spingere l’Egitto, dopo tutto quello che abbiamo visto, ad approfondire  ulteriormente l’applicazione di quelle stesse politiche economiche già  attuate sotto Mubarak e che hanno portato a questa profonda crisi  economica: nessuna crescita e, in ogni caso, creazione di pochissimi  posti di lavoro, una disoccupazione enorme, in modo particolare tra i  giovani. Come detto, essi continuano a preconizzare le stesse  politiche. L’FMI ha esercitato forti pressioni sul governo Morsi  affinché mettesse in atto ulteriori misure di austerità, con nuove  riduzioni dei sussidi erogati sui prezzi del carburante e di altri  prodotti di base. Essi continuano a sostenere tali politiche. Morsi non  le ha attuate per la semplice ragione che non era in grado di farlo. Non  era politicamente abbastanza forte per poterlo fare. L’unica volta che  ha tentato di farlo ha assistito a una tale reazione che lo ha costretto  ad annullare immediatamente, via Facebook, le misure che aveva  annunciato. È stato davvero ridicolo. È una vera e propria patata bollente.  Proprio per questo, lo ripeto ancora una volta, quello a cui stiamo  assistendo non è altro che un episodio di una lunga storia, che di fatto  si trova ancora alle sue battute iniziali. Assisteremo a numerosi altri  sviluppi nei prossimi anni in Egitto e nel resto del mondo arabo. (traduzione a cura della redazione di Solidarietà - pubblicato da fabur49 il 10 luglio 2013 sul sito di Sinistra Critica)
 - “Egitto, la questione sociale alla radice dei grandi sconvolgimenti politici" (Intervista rilasciata il 30/06/13 di Gilbert Achcar)
 
 
	
	
(Leggi 2° parte)  VERSO IL KURDISTAN: INCONTRI E TESTIMONIANZE(3° parte)
 
 di Mirca Garuti
 
ASCOLTA L’INTERVISTA AL DEPUTATO CURDO ALTAN TANDIYARBAKIR: MADRI DELLA PACE e TUHAD FED,  associazioni che si occupano di madri e famiglie che hanno perso o che  hanno in carcere mariti, figli, padri, fratelli o sorelle.    Lasciati i festeggiamenti del Newroz, siamo ancora a Diyarbakir per gli ultimi due appuntamenti molto importanti. 
Diyarbakir è una grande  città in movimento piena d’energia, simbolo dell’identità e della  tenacia del popolo curdo. E’ una città storica con monumenti, antiche  case costruite in basalto nero ed ornate con decorazioni a stampo su  pietra, moschee in stile arabo ed un imponente cerchia di mura che si  snoda per quasi 6 km, con numerosi bastioni e torri.
 

 Incontriamo le Madri della Pace nella  sede della loro associazione. Ci accolgono sorridenti, sono tante, di  tutte l’età e tutte portano sul capo un gran foulard bianco che ci  ricorda subito altre Madri, quelle della Plaza de Mayo in Argentina. L’incontro con queste donne è emozionante. La “questione Donna”  è un argomento molto sentito all’interno della nostra delegazione.  Oltre all’associazione Alkemia, infatti, c’è l’avvocato Simonetta Crisci  che fa parte della Casa internazionale delle donne a Roma e la  giornalista Emanuela Irace che scrive per la rivista “Noi Donne”, un mensile di politica e cultura fondato nel 1944. L’associazione “Verso il Kurdistan”,  da oltre dieci anni, prosegue un progetto di sostegno a distanza di  queste donne, offrendo loro l’opportunità di poter continuare ad avere  una vita dignitosa, in mancanza di mezzi di sostentamento.  Le Madri della Pace  sono donne adulte, sono le madri dei detenuti, dei guerriglieri, dei  rifugiati, dei martiri. Le loro vite sono spezzate, non per questo,  però, sono rimaste immobili e mute. (vedi Madri della Pace - 2012)  Organizzate in associazioni, a  Diyarbakir, Van e Istanbul, sono riuscite a trasformare il loro dolore  in forza, diventando protagoniste di molte iniziative, sit-in e lotta  per i diritti umani, per la pace e la democrazia. Ogni anno organizzano  un congresso per decidere insieme nuove strategie e confrontarsi sui  vari problemi e situazioni.In un appello del 2002, le Madri sostenevano "Vogliamo costruire un futuro di pace e libertà per le future generazioni” Nell’appello precisavano inoltre le loro richieste: “Apertura  di un dialogo di pace, amnistia generale per i prigionieri politici,  abolizione della pena di morte, delle leggi d’emergenza, scioglimento  delle formazioni paramilitari dei "guardiani di villaggio", diritto al  ritorno dei profughi e alla ricostruzione, istruzione nella lingua  madre, e un nuovo patto costituzionale di cittadinanza che garantisca  pluralismo culturale e piena libertà d’espressione e di pensiero.”
 La ragione della loro battaglia non  violenta è rivolta alla riconciliazione tra il popolo curdo ed il  governo turco. Da sempre cercano di portare all’attenzione dell’opinione  pubblica internazionale gli scopi delle loro azioni. Per questo  raccontare le loro storie è importante, perché Raccontare significa “Esistere”.
       Nonostante la sofferenza che traspare  dai loro visi segnati dal tempo e dal dolore, sono donne serene e fiere  di se stesse. Non hanno più paura, hanno visto la morte e la  disperazione troppe volte per temere ancora la vita. Sono sedute intorno  a noi, pronte a raccontare le loro storie senza versare nessuna  lacrima.
 
  Husinè Guler  ha 75 anni ed ha sei figli.  Descrive l’angoscia che la tormenta ogni  giorno da 15 anni nell’attesa di ricevere qualche notizia sulla sorte di  uno dei suoi figli, andato in montagna a combattere. Un altro figlio e  suo marito di 80 anni sono stati condannati alla pena massima, 36 anni  di carcere, arrestati, forse, durante un’operazione militare o in uno  scontro armato. Il figlio ha già scontato 11 anni, mentre il marito 20.  Husinè proviene da un villaggio vicino a Diyarbakir che fu bruciato  dall’esercito. Oggi vive qui a Diyarbakir con due figli.  
 Serine Unat, ha dieci  figli.  Non ha notizie di un figlio da 21 anni. Era uno studente di  medicina. Gli mancavano solo 6 mesi dalla laurea, ma questo non gli ha  impedito di partire per andare a combattere in montagna. Durante una  perquisizione avvenuta nell’abitazione, suo marito è stato colpito  violentemente alla testa dal calcio di una pistola da un militare  dell’esercito turco. Dopo pochi mesi è deceduto. Da 50 anni vive a  Diyarbakir. Ha dovuto lasciare il suo villaggio a causa della violenza  dei “guardiani del villaggio”.      
     Nafiye Vigit, ha 5  figli: uno in carcere e due si nascondono, in quanto sono ricercati. Uno  di questi era uno studente della facoltà di medicina al terzo anno. Suo  marito è malato di cancro.         Leyla Astan  ha perso il marito, quando aveva 25 anni in un incidente d’auto ed ha 4  figli. Ha trascorso la sua giovane vita fuggendo da un villaggio  all’altro. Prima, per il suo villaggio dato alle fiamme e poi, di nuovo,  a causa di una denuncia fatta alla polizia da un vicino di casa. “La sua famiglia - dice – era ricercata”.  E’ stata quindi costretta a trasferirsi a Diyarbakir. Suo fratello era  il Presidente del partito DEP (ora BDP) a Batman. E’ stato ucciso in un  agguato al mercato. E’ stata un’esecuzione eseguita dallo Stato. Leyla  vive con un figlio, mentre gli altri sono sposati. La sua sofferenza  però non ha fine. Ora il suo dolore è per i nipoti. Il figlio di suo  cognato, studente di medicina, ha dovuto abbandonare gli studi a causa  della continua oppressione della polizia. Arrestato più volte e  torturato, ha scelto la strada della montagna. E’ diventato martire. I  suoi familiari però non hanno mai avuto il suo corpo. Un altro cognato è  stato ucciso nella sua auto, una notte, nel 1993, mentre rientrava a  casa, in un agguato in un villaggio nel distretto di Batman.  Lasciava  tre figli piccoli.
 
  Sultan Aksoy. Nel  1993 uno dei suoi figli è stato ferito, arrestato e torturato. E’  rimasto invalido. Nel 1994 è stato ucciso. Altri due figli hanno fatto 3  anni di carcere. La voce di Sultan, a questo punto, s’incrina,  trattiene le lacrime, mentre racconta: ” I poliziotti hanno perquisito la nostra casa, con molta violenza, per tre volte, ma non siamo stati arrestati”.  Sultan abitava in un paese vicino a Mardin. Il Governo turco, dietro  minacce di morte, ha obbligato la sua famiglia ad abbandonare il  villaggio. Sono stati quindi espulsi e si sono poi trasferiti a  Gaziantep. Sultan, guardandoci negli occhi, termina così il suo racconto: “Dopo tutta questa sofferenza, noi offriamo ugualmente la nostra mano per la pace”.
 
 
  L’ultima donna che vuole lasciare la sua testimonianza è Karain.  Ha sei figli: uno, martire; uno, scomparso da 21 anni ed un altro che  vive in Europa, dove si è trasferito dopo la sua scarcerazione.  Era un  guerrigliero. Karain è di Diyarbakir e vive con due figlie. Suo marito è  morto sotto tortura. L’ultima figlia, Fatma, è stata  uccisa un anno fa. Era con un gruppo di 15 guerriglieri. L’esercito  turco ha usato contro di loro armi chimiche. Fatma aveva 23 anni. Karain  ci fa vedere, orgogliosa ma triste, la fotografia della figlia  ritagliata da un giornale. 
 
 
 Ascoltare le storie di queste Madri ci fa  capire l’importanza di questi racconti. È sempre doloroso dover  ricordare, ripercorrere momenti tristi, sofferti, ma è indispensabile  per far capire cosa c’è dietro l’Associazione delle “Madri della Pace”. E’ questo il messaggio che, la delegazione italiana “Verso il Kurdistan”  , rivolge a queste donne coraggiose. Questo deve essere il nostro  impegno. Dobbiamo far conoscere a chi ci circonda, al mondo che è fuori  di qui, chi sono queste donne, cosa e come hanno vissuto, cosa hanno  patito e cosa, invece, oggi sono in grado di fare. Le Madri della Pace  vanno in ogni luogo dove si svolgono azioni, iniziative, interventi per  impedire disordini o scontri. Sono gli scudi umani del popolo curdo.  Sono state in montagna sotto la pioggia e la neve, niente, le può  fermare. La loro è la battaglia per la pace. In merito al discorso di  Ocalan, hanno di nuovo ripetuto che loro pregano per la pace, sono  pronte per la pace, ma “Aspettiamo un passo in avanti da parte del nostro governo turco”, hanno così concluso la nostra domanda.
 
 Audio Ass. Madri della Pace
 
     Ci troviamo ora nella sede di Tuhad Fed,  federazione formata dai familiari dei detenuti del PKK e KCK.  L’associazione è stata fondata nei primi anni novanta, mentre la  federazione negli anni 2000.
 La federazione è composta da 9  associazioni e 2 uffici di rappresentanza. Sono responsabili di 10 mila  detenuti e 82 carceri. Il loro scopo è quello di sostenere le necessità  sia dei detenuti e sia delle loro famiglie, dare sostegno giuridico e  denunciare le violazioni dei diritti umani. La responsabile di Tuhad Fed  dichiara: “ Siamo un’associazione per i diritti umani, non  politica, siamo i portavoce dei detenuti, lottiamo anche per la libertà  di Abdullah Ocalan e denunciamo le sue cattive condizioni carcerarie”. Ogni anno, il 4 aprile, ci ricorda, è il compleanno di Ocalan  e si celebra ad Amara, suo villaggio natale, con una conferenza stampa e  vari festeggiamenti. Da un anno e mezzo il loro presidente si trova in  totale isolamento, non può vedere i suoi avvocati e non può far sentire  la sua voce al popolo curdo. Per questo il popolo ha reagito duramente,  compiendo molte azioni violente. All’interno delle prigioni, in quel  periodo, le guardie carcerarie aggredivano i detenuti politici con  estrema violenza, non facendo distinzione tra donne e bambini,  contribuendo così, ad incrementare le numerose rivolte. In alcune  strutture, diversi detenuti civili si univano a queste ribellioni, come  nel carcere di Urfa.   A causa di un incendio, provocato proprio durante  alcuni tumulti, morirono 13 detenuti civili, di cui uno solo era stato  condannato, gli altri 12 erano ancora in attesa di giudizio. Per questo  ci furono trasferimenti forzati di molti detenuti in altre carceri. La  responsabile poi continua, affermando che ”Noi abbiamo 137.000  detenuti, il popolo per questa guerra è diventato molto povero e, la  conseguenza è l’aumento di crimini comuni. Le guardie carcerarie si  divertono ad umiliare i detenuti, specialmente se sono curdi.” Tuhad Fed  fece una conferenza stampa ed organizzò una manifestazione. La polizia  reagì molto violentemente, usando i soliti mezzi in uso, gas lacrimogeni  e cannoni ad acqua, con il risultato di lasciare dietro di sé ancora  morti.
  I detenuti politici decisero, allora, d’iniziare uno sciopero della fame senza termine. Lo sciopero è iniziato il 12 settembre 2012 in sette carceri da 64 detenuti. E’ durato 68 giorni,  coinvolgendo 78 carceri e circa 10.000 detenuti, sostenuti dalle  famiglie, da intellettuali, scrittori e dalla sinistra turca.  Il 30  ottobre personaggi dello spettacolo in Piazza Taksim ad  Istanbul decisero di dare voce ad alcuni dei 700 detenuti curdi in  sciopero della fame, leggendo il testo di otto lettere, specificando i  motivi della loro lotta: fine dell’isolamento di Ocalan, il diritto  all’istruzione in curdo e di potersi difendere in tribunale nella  propria lingua madre.
 Centinaia di accademici delle più importanti università del paese hanno poi firmato un appello per “La fine del conflitto e il ritorno immediato al tavolo delle trattative” e, giornalisti dei media di sinistra o pro-curdi hanno manifestato ad Istanbul scandendo lo slogan: “Non vogliamo scrivere notizie di morte”.   Personaggi famosi in Turchia, come la cantante Sezen Aksu o lo  scrittore Yaşar Kemal, si sono infine appellati al primo ministro Recep Tayyip Erdoğan perché  non lasciasse la voce dei detenuti inascoltata. La direzione delle  carceri invece si accanì sui detenuti in sciopero, mettendoli in  isolamento, con torture fisiche e non dando loro né acqua e zucchero e  né vitamine. Il governo turco negò al mondo l’esistenza di questi  scioperi in atto nelle sue carceri. Allo scadere dei 68 giorni, le  condizioni dei detenuti erano diventate veramente critiche, al limite  della morte. Il 17 novembre Ocalan, tramite una lettera  consegnata a suo fratello Mehmet, sollecitava i detenuti ad  interrompere subito lo sciopero della fame.(vedi prima parte Newroz di  Diyarbakir)
 “Questo sciopero si è rivelato molto importante – continua la responsabile - perché  ha visto l’unione di tutti i curdi che vivono nei quattro paesi del  Kurdistan (Turchia, Siria, Iran e Iraq) insieme con quelli della  diaspora, in altre parole a chi vive all’estero, anche con l’appoggio  dei socialisti del popolo turco ed i difensori dei diritti umani. Questa  solidarietà è la dimostrazione di quanto il proprio presidente è  importante per il popolo curdo, al contrario, invece, da quanto  sostenuto dal governo turco. Lo sostengono da 34 anni.” Ora è in  atto un nuovo processo di cambiamento. Durante questi scioperi della  fame, ci sono stati alcuni incontri, tenuti segreti, tra il governo  turco e Ocalan. Nella prima settimana di gennaio scorso, invece, sono  ripresi i colloqui e, questa volta, dandone notizia alla stampa, creando  così un’ondata di speranza per il popolo curdo. Le lettere di Ocalan,  per il suo popolo, non sono state una sorpresa, perché era già a  conoscenza della sua linea di difesa: Ocalan non difende la guerra, ma, difende la lotta per i loro diritti.  Durante i 14 anni d’isolamento ha lottato per creare e progettare una  fraternità tra i popoli della Turchia ed i curdi. Nella lettera,  infatti, – dice ancora la responsabile – “Ocalan esprime il suo desiderio affinché tutti i popoli della Turchia vivano uniti in una patria libera”. Questi  messaggi sono, inoltre, importanti, sia a chi non conosce la questione  curda e la figura di Ocalan per comprendere la sua idea e, sia  al  popolo curdo per esaminare le nuove condizioni ed organizzare una nuova  lotta cambiando i metodi finora utilizzati. Perchè questo sogno possa  diventare realtà, occorre che questi “incontri” si trasformino in “trattative” e per “trattare” il Presidente Abdullah Ocalan deve essere libero. Solo così lo Stato turco si potrà dimostrare sincero.
 
 La responsabile ricorda che Ocalan aveva iniziato questo processo di pace già nel 2009, presentando una road map  che includeva anche il ritiro dei guerriglieri, ma con la garanzia, da  parte del governo turco, di dare diritti civili costituzionali al popolo  curdo. Processo durato fino al Trattato di Oslo nel 2011. Anche in  quest’occasione si parlava del problema legato alle armi dei  guerriglieri, ma prima di deporre le armi, erano necessarie serie e  precise garanzie, da parte del Parlamento turco. “Tutto questo era già successo nel 1999 - ripete la responsabile - allora  il governo turco non aveva fatto niente e furono massacrati 500  guerriglieri perché, rispettando gli ordini del loro Presidente, non  avevano sparato”. Ora le cose saranno diverse.  Senza garanzia, i  guerriglieri non deporranno mai le armi. Ocalan attende un segno  positivo da parte del governo per continuare le trattative. La  responsabile, inoltre, ci confida che, nell’incontro con i deputati  curdi, Ocalan ribadisce che "Questa è l’ultima occasione per lo  Stato turco, se non saranno accolte le sue richieste, ci sarà una nuova  grande guerra popolare con almeno 50.000 curdi pronti a combattere per i  loro diritti”. Per quanto riguarda invece le lettere scritte da Ocalan, quella che noi abbiamo ascoltato durante il Newroz a Diyarbakir,  è quella scritta per il popolo e lo stato turco, mentre quella diretta  alla sua organizzazione del PKK, è rimasta segreta. La responsabile ci  fa presente che, in questo stesso momento, il comandante del PKK a Bonn  sta rilasciando un messaggio in risposta alla lettera ricevuta da  Ocalan. “Fra le tante richieste rivolte al governo turco – continua la responsabile – c’è  anche quella inerente all’amnistia per i detenuti politici curdi, ma,  dobbiamo aspettare la fine di giugno per avere una risposta. Questo è il  periodo di tempo stabilito.”     La responsabile porta la discussione sull’uccisione di Sakine Cansiz (una fondatrice del Pkk insieme al leader Ocalan nel 1978), Fidan Dogan e Leyla Soylemez,  uccise il 9 gennaio scorso a Parigi e sui continui arresti del popolo  curdo. Tutto questo danneggia la loro relazione con l’Europa. “Noi vogliamo – incalza la responsabile – che voi facciate pressione sul vostro governo, non vogliamo solo progetti economici. L’Unione Europea dà molti soldi alla Turchia che acquista armi e ci uccide. Noi siamo uccisi dai vostri soldi.  Voi potete fare critiche serie per queste scelte dei governi nel vostro  paese. Anche i curdi della diaspora soffrono molto, come noi. Il nostro  partito è considerato “terrorista” e noi lottiamo per  quest’ingiustizia. Voi ci vedete, siamo forse terroristi? Tutto questo  deve essere spiegato in Europa. La Germania e la Francia sono vicini al  governo turco e l’Italia ha un ruolo molto passivo. Vi chiediamo di essere il nostro portavoce in Europa ed  ognuno di voi può spiegare ai suoi amici, conoscenti, la nostra  sofferenza e l’ingiustizia che, tutti i giorni, siamo costretti a  subire”.  Il nostro incontro termina con gli ultimi aggiornamenti che riguardano, sia i lavori della diga sul sito di Hasankeyf ed il massacro di Roboski.  Le opere per costruire la nuova diga sono sospese, le banche hanno  ritirato i finanziamenti ed il governo turco sta cercando altri  finanziatori. Per la questione di Roboski, lo stato voleva pagare  un’indennità alle famiglie colpite dal massacro, ma loro hanno  rifiutato. Lo stato continua a sostenere nel suo rapporto che non si è  trattato di un massacro voluto, ma è stato un errore. Le famiglie di  Roboski sono andate più volte ad Ankara per chiedere giustizia e  vogliono portare questo processo alla Corte europea.  L’associazione Onlus “Verso il Kurdistan” dal 1999 ha attivato il progetto “Oltre le sbarre”.  E’ un progetto di affido a distanza che permette il sostegno di  famiglie che, dopo l’arresto del capofamiglia o dei figli, si trovano in  condizioni economiche particolarmente difficili. Attraverso la formula  dell’adozione, si può esprimere così la propria solidarietà ai detenuti  politici e alle loro famiglie. Anche quest’anno al termine del nostro  incontro, l’associazione “Verso il Kurdistan” consegna personalmente gli  affidi raccolti in Italia.
 AUDIO TUHAD FED   Documento sulle carceri Turche  
       
 Ultimo giro al bazar di Diyarbakir.  E’ quasi sera, il cielo è grigio, ha appena smesso di piovere, giro tra  le stradine del Gran Bazar, molti stanno chiudendo la loro giornata di  lavoro, non c’è molta gente. Sono triste. Io parto, torno a casa. Sento  su di me il peso dell’indifferenza, dell’immobilismo in cui versa la  maggior parte delle persone che hanno ancora molti privilegi. Sento  ancora le parole della responsabile di Tuhad Fed che ho  da poco incontrato ed ascoltato. Riuscirò veramente ad essere  ambasciatore di questo popolo? Riuscirò ad arrivare al cuore di tanti  sconosciuti con i miei racconti e le fotografie delle donne, dei bambini  e degli uomini di questo popolo dimenticato dal mondo? Oggi, con la  crisi economica e di lavoro che regna in Italia ed in Europa, è ancora  più difficile attirare l’attenzione verso queste situazioni, ma, come  questo popolo fiero e dignitoso m’insegna, non perderò la fiducia.  Continuerò a parlare di tutti quei popoli che lottano ancora per  ottenere una giustizia, per non essere più oppressi, per non dover più  andare in carcere perché sei curdo o palestinese, per poter,  semplicemente, vivere.
 
 Fonti: Osservatorio Balcani & Caucaso
 
 02/06/2013
 
 
	
	  NELLA GIORNATA INTERNAZIONALE DELLE DONNERICORDIAMO LE DONNE PALESTINESI PRIGIONIERE NELLE CARCERI ISRAELIANE
 
 
 Mentre il mondo festeggia la Giornata Internazionale delle Donne,  noi celebriamo la Palestina e le sue figlie. Festeggiamo la madre, la  figlia, la sorella, la zia. Festeggiamo l'insegnante, la studentessa,  l'operaia, la contadina, l'infermiera, la dottoressa, l'architetta,  l'ingegnere. Festeggiamo l'organizzatrice, la dimostrante, l'attivista,  colei che lancia le pietre, la combattente per la libertà. Festeggiamo  la sorella nella lotta, la compagna che resiste. Festeggiamo la  prigioniera, la donna ferita, l'esiliata, la martire. Festeggiamo la  donna che possiede la terra, che la lavora, che la ama e la protegge.  Festeggiamo Lina, Samar, Patima, Mona,  Asma, Nawal, Manal, Ena’am, Intisat, Ala’a, Hadeel, Salwa, Ayat ed Eman.   E in questo giorno, ogni giorno ricordiamo le prigioniere palestinesi  che hanno sacrificato la loro libertà affinché le generazioni future  possano avere la libertà, e ne possano godere. In questo giorno e ogni  giorno, ricordiamo quelle donne che hanno sacrificato la loro libertà  per la libertà della Palestina. Dal 1967 più di 800.000 palestinesi, comprese 15.000 donne, sono stati arrestati e  imprigionati dalle autorità israeliane. Durante la Prima Intifada, almeno 3.000 donne sono state fermate e durante l'Intifada Al-Aqsa più di 900  sono state rinchiuse nelle prigioni israeliane. Ogni giorno ci sono  irruzioni e si operano fermi. Alcune volte le donne fermate vengono  rilasciate dopo pochi giorni, altre dopo poche settimane, oppure restano  in detenzione a tempo indeterminato. 13 sono le donne palestinesi tra i 4.750 palestinesi attualmente nelle prigioni israeliane; la più anziana è Lina Jarbouni che viveva nei territori occupati nel 1948, ed è stata arrestata 11 anni fa. Le sue compagne di prigionia sono Mona  Qa'adan, Nawal Al-Sa'adi, Asma Al-Batran, Manal Zawahreh, Ena'am  Al-Hasanat, Intisat Al-Sayed, Ala'a Abu-Zaytoun, Ala'a Al-Jua'aba,  Hadeel Abu-Turki, Salwa Hassan, Ayat Mahfouth e Eman Bani Odeh.
 Le autorità israeliane commettono  moltissime violazioni contro le donne detenute nelle loro carceri. Le  più gravi di queste sono: il modo brutale con cui vengono arrestate  davanti alle loro famiglie e ai figli in tenera età; i metodi fisici e  psicologici usati durante gli interrogatori; la proibizione di vedere i  loro figli; le carenze sanitarie ed assistenziali per le donne incinte;  le costrizioni fisiche durante il parto; le punizioni, come l’isolamento  e uso della costrizione fisica; la detenzione in luoghi inadatti; le  perquisizioni usate dalla polizia carceraria a mo’ di provocazione; gli  insulti, le aggressioni e l’uso dei gas lacrimogeni. Inoltre, sono  maltrattate quando sono portate in tribunale o quando devono incontrare i  familiari e perfino durante i trasferimenti da una sezione a un'altra  del carcere. Talvolta vengono loro negate le visite dei familiari.  Durante i periodi di isolamento le prigionieri politiche sono spesso  messe insieme alle criminali, senza rispetto per le necessità dei figli  che vivono con loro in carcere. 
   Incinta, fa lo sciopero della fame- PatimaZakka  ha 42 anni. Al momento dell’arresto era incinta. E' stata rilasciata in  cambio di un video di Gilad Shalit durante la sua detenzione. Fatima  era stata accusata di aver cospirato per fare un attentato suicida  contro un autobus pieno di militari  israeliani. L'accusa aveva chiesto  una condanna a 12 anni di prigione per la ladre di otto figli. "Non sapevo di essere incinta prima dell'arresto", dice Fatima. "L’ha  scoperto un'infermiera quando ero detenuta. I miei otto figli sono  rimasti a casa senza di me. Nessuno mi ha mai insegnato a far saltarein  aria delle persone. E' vero che loro [gli israeliani] avevano ucciso mio  fratello e molti miei parenti, ma questo succede a molta gente in  Palestina." Fatima dice di essere stata sottoposta a diverse tecniche durante gli interrogatori. "Mi hanno torturato mentre ero  incinta", dice. Mi hanno tenuto in una cella gelida, spostandomi di  continuo da una cella a un'altra. Volevano che avessi un aborto  spontaneo: i maltrattamenti mi hanno provocato perdite di sangue."  Questo ha spinto Patima a iniziarelo sciopero della fame. Ha resistito  21 giorni. "Non mi hanno lasciato scelta," spiega. "Allah sia lodato.  Non ho avuto un aborto spontaneo. Mio figlio è nato in carcere. Si  chiama Youssef."
 Partorire con mani e piedi legati. Samar Isbeh  è stata arrestata quando aveva 22 anni, in seguito a una protesta  studentesca. E' stata condannata a due anni e mezzo di carcere. Ora ha  28 anni e vive a Gaza, mentre la sua famiglia e quella di suo marito  vivono in Cisgiordania. "Sono stata arrestata tre mesi dopo il mio  matrimonio. Ero a capo di un Consiglio studentesco dell'Università  islamica. Abbiamo organizzato una protesta contro l'occupazione. Sono  stata arrestata a casa di mio marito a Tulkarm. Due giorni dopo, anche   mio marito è stato arrestato e condannato a 9 mesi di prigione, sebbene  non avessero nulla di cui accusarlo," dice Samar. Ora è stata deportata nella striscia di Gaza e le è stato negato l'accesso a Tulkarm e quindi non può vedere né il marito né i figli. "Ero  alle prime settimane di gravidanza quando sono stata arrestata. Ho  subito ogni tipo di tortura. Mi hanno tenuto per 66 giorni in una cella  sotterranea. mi hanno costretta a stare in equilbrio  su un seggiolino,  mi hanno tenuto in una cella gelida," dice Samar. Quando è iniziato il  travaglio mi hanno legato le mani e i piedi: mi hanno fatto il taglio  cesareo, non perché fosse necessario, ma semplicemente per odio. Mi  hanno lasciato il bambino, ma hanno trattato anche lui come un  prigioniero."   La storia di Samar  riflette un'attitudine ed un odio che hanno radici profonde, non  soltanto nei confronti del popolo palestinese, ma anche delle donne.  Durante la prigionia è stata umiliata, maltrattata, esposta a situazioni  che mettevano a rischio la sua vita e quella del bambino non ancora  nato.  E’ stata legata come un animale in una stalla. La storia di  Samar, tuttavia, non è l'unica, ma riflette la storia di continui abusi  perpetrati nei confronti delle donne palestinesi. Tra il 2000 e il 2005,  almeno 60 donne palestinesi hanno partorito ai  checkpoint israeliani per essere stato loro negato il trasporto in un ospedale vicino, e 36 bambini sono morti in conseguenza di questo.
 Nel marzo 2012 nove donne palestinesi hanno presentato proteste formali contro la Shin Bet (i  Servizi Segreti israeliani), per i maltrattamenti subiti durante i  lunghi interrogatori. L’esperienza di Samar riflette i maltrattamenti  che sistematicamente sono usati contro le donne palestinesi da parte  delle forze di occupazione.   Una protesta frequentemente sollevata  da molte prigioniere politiche palestinesi, riguarda la pratica abituale  di denudarle e sottoporle ad umilianti ispezioni intime e corporali. Le  donne che rifiutano di sottoporsi a questi abusi, spesso sono inviate  in isolamento.  Frequenti sono gli insulti degradanti  ed a sfondo sessuale, da parte del personale carcerario, e le minacce di  stupro (rivolte anche a membri della famiglia). Questi fatti, che  caratterizzano l'esperienza carceraria delle donne palestinesi,  dovrebbero essere considerati e trattati, come atti di sistematica  violenza razzista e di discriminazione legata al sesso, operati dallo  Stato. Uno Stato, che permette che le donne prigioniere, vengano  abitualmente denudate e sottoposte ad ispezione corporale, come forma di  punizione, viola gli obblighi che gli competono, ai sensi della  normativa internazionale che tutela diritti umani e della Convenzione  contro la tortura e ogni altro  trattamento crudele, inumano e  degradante.  Fonti:  http://avoicefrompalestine.wordpress.com/;  http://www.middleeastmonitor.com/; http://samidoun.ca/;  http://rt.com/news/; http://www.addameer.org/
 
 Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese - AAMOD
 08/03/2013 
 
	
	
ROSARIO CITRINITI:  “INIZIO LO SCIOPERO DELLA FAME CON I DETENUTI PALESTINESI.  LA LORO LOTTA SARÀ ANCHE LA MIA”  
 Carissimi amici, accogliendol’appello promosso da Amnesty International,
 
  l’appello lanciato dall’Arcivescovo Atallah Hanna, l’appello lanciato dalle organizzazioni palestinesi,
 tutti riguardanti i prigionieri    palestinesi detenuti illegalmente nelle carceri israeliane molti dei    quali in sciopero della fame da molti mesi ed alcuni in serio pericolo    di vita ( SAMER ISSAWI, 200 GIORNI DI SCIOPERO DELLA FAME ) in    solidarietà con la loro lotta di resistenza, dalle ore 17 di oggi    lunedì 18 febbraio la loro lotta sarà anche la mia, con le stesse    modalità inizierò uno sciopero della fame finché gli organismi nazionali    e/o internazionali non prenderanno impegni reali per assicurare il    rispetto dei diritti umani nelle carceri israeliane con un intervento    immediato atto a salvare i detenuti in sciopero della fame e alla    scarcerazione di tutti i prigionieri palestinesi in carcere senza né    accuse né processi. (Da Amnesty International: ISRAELE: DETENUTO IN PERICOLO DI VITA )
 Alcuni amici allestiranno presto una    tenda per la notte nella gradinata della chiesa parrocchiale non   essendo  stato possibile portare avanti l'iniziativa dentro il luogo di   culto.  Un abbraccio e grazie per la partecipazione all'iniziativa.
 
 Rosario Citriniti - Invictapalestina
 Pentone (CZ) 18 febbraio 2013
 SEGUI LA CRONACA DELLA PROTESTA 
   Mercoledì 27 febbraio 10° giorno di solidarietà con Samer Issawi 
 Cari amici, con lo sciopero della fame iniziato sul Sagrato della Chiesa  di Pentone (CZ) abbiamo provato a scuotere l’indifferenza  generalizzata, digiunando con Samer pubblicamente, ma l’Italia, a parte  una piccola nicchia, è rimasta cieca e sorda al pari degli altri paesi.
 
 Non abbandoneremo mai Samer e gli altri, ma da domani cambieremo forma  di lotta, allo sciopero della fame, sostituiremo altre pratiche di  solidarietà con i prigionieri politici palestinesi, più visibili e più  efficaci. Le forme cambiano ma il nostro sostegno resta immutato.
 
 Si ringraziano quanti hanno solidarizzato con l'iniziativa e anche chi,  segnalando la propria indignazione, ha fornito motivo di riflessione.
 
 Un abbraccio - Rosario
 
 "Nessuno ha mai commesso un errore più grande di colui che non ha fatto niente perché poteva fare soltanto poco" - Edmund Burke
 D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
 Italo Calvino, Le città invisibili
 
 
 Martedì 26 febbraio 
 Nono giorno di sciopero della fame in solidarietà con Samer Issawi e i prigionieri nelle carceri israeliane. 
 Ieri  sera ho ricevuto la visita del mio amico medico Gianni, insieme abbiamo  partecipato nel 2005 alla “Carovana dei Diritti”  da Strasburgo verso  Gerusalemme per chiedere in particolare  l'applicazione delle risoluzioni  Onu sulla Palestina. La Carovana fu  bloccata da Israele sul ponte di  Allenby e neanche in questa occasione  le bandiere della pace, consegnate  da  decine di associazioni dei paesi  attraversati dal convoglio,    raggiunsero Gerusalemme. Gianni mi ha  trovato in buona salute.Ieri  sera nella Casa Umanista c’è stato un breve incontro con altre   associazioni torinesi ed insieme abbiamo concordato un momento   informativo per Mercoledi  27 in piazza Castello angolo via  Garibaldi,  l’appuntamento è alle ore 17, chi vuole potrà poi  partecipare al momento  di preghiera contro tutte le guerre, organizzato  dal Centro Sereno  Regis nelle stesso luogo fino alle 19.
 In questi giorni sono  arrivate molte mail , la maggior parte di  solidarietà all’iniziativa di  sostegno ai prigionieri palestinesi altre  di  critica all’iniziativa  partita dalla Calabria:
 Qualcuno suggerisce di fare scioperi della  fame per i problemi italiani  e occupandosi di politica estera non  ritiene opportuno pubblicizzare  l’iniziativa anche se scrive su un  giornale nazionale.  Qualcuno ha  anche ritenuto inopportuna e poco  rispettosa la lettera scritta a Samer  Issawi.
 Io resto convinto che  lo sciopero della fame  di Samer Issawi, insieme  ad altri eventi  accaduti negli ultimi giorni,  è stato causa scatenante  delle rivolte in  atto, è riuscito anche a creare uno sciopero più  ampio, si parla di  oltre 4000 detenuti che hanno aderito alla stessa  forma di lotta. A  questo punto è necessario il martirio? Io penso di  NO.
 
 
 Lunedì 25 febbraio
 
 Ottavo giorno di sciopero della fame in solidarietà con Samer Issawi e i prigionieri nelle carceri israeliane.
 
 Ho dormito al caldo della "Casa Umanista" in via Martini 4/b Torino.
 Questa mattina c'è molto silenzio, il pc è sempre acceso e scorro le  pagine della posta elettronica e Ringrazio Giorgio della Casa Umanista  per i comunicati alla stampa, Antonino ed Enrico ISM-Italia per le  informazioni postate alle varie organizzazioni.
 Poi scorro la bacheca di FaceBook e penso a Vittorio! Penso a quanti ne  parlano e a quanto lo usano per aumentare la propria notorietà, ma  quanti lo imitano?
 
 Il Centro Invictapalestina nasce in Calabria con un bellissimo intervento di Wasim Dahmash e Marco Ramazzotti,  non sono tardati ad arrivare gli auguri di Vittorio, in quell'epoca era  a GAZA e ci siamo meravigliati di vederci raccontati nel suo BLOG da  lui, così lontano ma cosi vicino e attento.
 
 Oggi apro le pagine di FaceBook  e ritrovo Daria & Maksim: Messaggi  scritti col cuore e foto spiritose, poi scorro col mouse sulle tristezze  della quotidianità... chi "scende il cane", chi augura buon  giorno al mondo, chi prende l'ombrello intonato alle calze per andare a  votare, chi ci descrive come ammazza il tempo tra un divano e una  poltrona, e poi notizie più importanti che scorrono veloci e non riesci  ad acchiappare in tempo per leggerle. Josè Saramago molti anni fa ci  aveva avvertiti che saremmo diventati la società del mouse, molti click ma poche azioni, utenti anziché cittadini.
 
 Il 25 febbraio 1994 il colono ebreo fondamentalista  Baruch Goldstein, membro del partito estremista Kach, entrò nella sala  di preghiera riservata ai fedeli musulmani, indossando la sua divisa da  soldato. Aprì il fuoco sui fedeli col fucile d’assalto Galil, uccidendo  trenta persone e ferendone 125. I superstiti lo picchiarono a morte. Non  venne scelto un giorno a caso per il massacro. Il 25 febbraio era  infatti il giorno in cui nel 1994 cadeva la festa del Purim (che  commemora la liberazione del popolo ebraico nell’antico Impero Persiano,  come riportato nel libro di Ester).
 
 Oggi Samer Issawi è in fin di vita isolato in una cella  della prigione di Ramle, il fratello Fadi morì in quel massacro.
 
 Domenica 24 febbraio 
 Oggi 7° giorno di sciopero della fame.
 
 Lo sciopero continuerà presso la Casa Umanista via Martini 4/b, zona  Università, Palazzo Nuovo, contrariamente a quanto comunicato  precedentemente.
 
 Sono arrivato a Torino e ho trovato accoglienza nella sede della casa umanista: La Casa Umanista  è un luogo di cultura e di attività ispirate ai principi del Nuovo  Umanesimo Universalista. Accoglie e promuove iniziative e realtà che  hanno come obiettivo l’aggregazione sociale, lo sviluppo della  creatività, l'affermazione dei diritti umani e l'evoluzione dell'essere  umano. E' un luogo dove la nonviolenza diventa azione.
 
 In serata  è stato possibile dedicare un momento a Samer Issawi,  l'informazione e la verità sono sempre le prime vittime di ogni  conflitto, aiutateci a smascherare in ogni luogo la falsa ricerca di  pace di un paese che quotidianamente porta avanti la pulizia etnica del  popolo palestinese.
 Leggete: La pulizia etnica della Palestina (Pappé Ilan scrittore israeliano)
 
 "D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda."
 Italo Calvino, "Le città invisibili"
 
 
 
 Sabato, 23 febbraio Cari amici, oggi è il 6° giorno di sciopero in solidarietà con Samer.Ieri sera ho partecipato alle funzioni religiose anche senza essere credente/praticante. Prima di iniziare il percorso della Via Crucis   il Parroco ha letto un messaggio di denuncia sull'occupazione   israeliana, alla fine delle 14 stazioni sono stato invitato a spiegare   le ragioni della protesta, ho avuto così occasione di parlare nei   dettagli di Samer Issawi nelle carceri israeliani ad appena 16 anni, poi ho letto "la denuncia", brano scritto da Don Nandino Capovilla per la 10° stazione della Via Crucis.
 
 Finita la funzione religiosa grande   sorpresa: Davanti alla tenda la 4° classe della scuola elementare al   completo, armati di notes e matita pronti a riportare le mie risposte   alle loro 10 domande, faranno un elaborato in classe e poi lo   recapiteranno ad Invictapalestina. Il Centro  ha donato alla maestra libri sull'argomento e un Premio per l'elaborato più impegnativo e completo.
 Abbiamo poi smontato la tenda e il digiuno è proseguito nel "Centro di documentazione" Invictapalestina finalmente al caldo.
 
 Oggi alle 14.40 aereo da Lamezia per   Torino, dove lo scioperò continuerà insieme ad altri amici in una tenda   che nel frattempo sarà allestita in via Garibaldi nei pressi del Centro   Studi Sereno Regis.
 
 Riporto i 2 brani di seguito:
 Lettura del Parroco ai fedeli.
 Le Vie Crucis che celebriamo, non sono   semplicemente archeologie devozionali o particolari spiritualità, che   variegano il mondo cattolico. Esse sono scritte, ancora oggi, con il   sangue di migliaia di oppressi che lottano per la loro liberazione. Tra   questi ci sono i palestinesi che sono ogni giorno costretti in   interminabili checkpoint, in uno stato di umiliazione continua e   terribile. La Palestina è fatta di gente scacciata dalle proprie case,   di agricoltori senza terra, di artigiani senza bottega. Il ripercorrere i   passi di Cristo, sotto il peso di una condanna ingiusta, ci dovrebbe   immerge proprio in quell’atmosfera quotidiana della Terra Santa, dove il   dolore e l’umiliazione sono un dato costante per un popolo che  percorre  le stesse strade di Gesù, divenute calvario di morte, di paura  e di  insicurezza totale.
 
 Su tutto questo, domina il tristissimo   segno del muro. Quel muro che in Europa commemoriamo caduto, venti anni   dopo, perché ci siamo accorti che era un terribile segno di inciviltà e   di ingiustizia. Ma quello stesso muro, ben più raffinato e ben più   ingiusto, divide ora ancor più di due popoli, due lingue, due culture,   due religioni.
 
 Purtroppo, la passione di Gesù non ha   spazi privilegiati. Si ricompone in ogni angolo della terra. Perciò, la   Via crucis diventa vivente, ogni giorno su strade che portano ai  calvari  di oggi.
 
 
 Don Nandino Capovilla: 10° stazione, In prigione, in prigione
 
 E' una montagna di dolore questo calvario su cui arrancano più di diecimila famiglie palestinesi.
 Una serie di norme, in gran parte   contrarie al diritto internazionale, condanna persino i ragazzini a   marcire nelle prigioni israeliane anche per vent'anni, senza processo né   capo d'imputazione.
 Ragazzini rei di aver scagliato pietre   contro i carri armati, ragazzini che una volta uomini, potrebbero   imbracciare le armi per mal riposto desiderio di riscatto.
 
 Sette famiglie su 10 piangono i loro   parenti senza sapere dove sono, ignorando le torture che subiscono, le   volte in cui verrà rinnovata "la detenzione amministrativa", quella   forma di arresto senza accusa su cui nemmeno gli avvocati potranno   indagare.
 
 Le madri di quanti sono in carcere si   ritrovano spesso sulle piazze di Ramallah o di Nablus, per affidare a un   megafono gracchiante tutto il grido che il cuore non contiene più, e   tengono sul petto un piccolo quadro con la foto del figlio, come se   fosse morto.
   Venerdi 22 febbraio  Oggi 5° giorno  di   sciopero della fame in solidarietà con i detenuti palestinesi  detenuti   nelle carceri israeliane. Giornata di sole in Calabria e  notte molto   serena grazie a Don Gaetano, parroco di Pentone, che mi ha  sottratto   alla pioggia torrenziale offrendomi ospitalità nella  sacrestia della   Parrocchia San Nicola di Bari. Peppino ha portato una  stufetta per   asciugare sacchi a pelo e coperte, i ragazzi come tutte  le sere latte e   tè. Questa mattina Enzo è arrivato con la sua panda e  mi ha portato al   bar per un latte super caldo. Questa sera in Chiesa  ci sarà la Via   Crucis, subito dopo la tenda sarà smontata e lo  sciopero continuerà in   altro luogo fino alla liberazione di Samer.  Voci danno la sua   liberazione come imminente ma non ci fidiamo della  "giustizia   israeliana" soprattutto quella inflitta ai palestinesi. La  tenda è metà   di visite e riflessioni, ieri sera una riflessione molto  importante...   Siamo derubati del nostro tempo! Molti si rendono conto  che vorrebbero   fare... vorrebbero informarsi ma non hanno tempo, altri  passeggiano per   ammazzare il tempo, la riflessione si sposta dalla  Palestina al nostro   modo di vivere con la distruzione graduale della  Comunità e il  prevalere  degli egoismi personali che poco per volta  distruggono il  tessuto  sociale. Anche a Pentone c'è aria di campagna  elettorale, più  che in  altri luoghi si discute, mi sembra con pochi  contenuti, i nomi  dei  candidati, ancora una volta, mi sembra siano al  centro  dell'attenzione  ma non i programmi e i progetti per una società   rinnovata. Nessuno degli  schieramenti politici si è pronunciato sui   diritti negati ed in  particolare sulla situazione Palestinese. Ieri ho   ricevuto la visita del  Sindaco di Pentone che ha contattato la Croce   Rossa di Catanzaro per  informare sulla protesta in Atto.
 Segue la traduzione della mia lettera a Samer, fatta da Massimo (USA) chi può farla recapitare a Samer nelle carceri sioniste?
 
 Dear Brother, dear Sami,
 
 The echo of your struggle has reached Calabria (ITALY).
 
 In a small town of this region, we have    set up a ‘tent of hope, where, for the past four days, I have been on a    hunger strike, in solidarity with you and with all our Palestinian    sisters and  brothers, who are engaged in their daily resistance to the    inhumane Zionist occupation, which has been trying to silence your    aspirations to freedom and to thwart your indomitable will.
 Here, in Calabria, I founded    “Invictapalestina’ (Indomitable Palestine), and in these days, more and    more people want to learn about the beautiful land of Palestine. They    need me as a source of information through events, videos, books etc.,    and they need you as a luminous example of courageous resistance to  the   Israeli occupation, which you first experienced when you were  barely  16.
 Zionism is driven by an urge to suppress    freedom, suppress life, in order to continue with its project of    evictions, ethnic cleansing and Apartheid.
 To counter this project, I have a propostion for you:
 -          Dear Sami, choose life over martyrdom.
 -          By choosing to end our hunger    strike together, you in your prison in the Occupied territories and I    here, in Italy, we continue to embrace the collective, daily struggle,    that will soon bring, together with all people of conscience all over    the world, to the liberation of your land.
 As brothers, together we will wait for    your liberation, will share the same food, the same house. We shall    share your house in Palestine, rebuilt with the colors of Spring and of    Calabria’s olive orchards, and my house here with the colors and the    flag of your land.
 I am not asking, of course, that your    renounce your struggle. Mine is a call to life, to continue the struggle    with renewed energy. Together we will embrace our mothers, our  sisters   and our brothers, you in Palestine and I in Italy..
 Once freed from the Israeli chains, we    will make sure that you can come to Italy to tell your story of    resistance. We will welcome you with the songs of our Partisans, who    liberated us from the Nazi-fascists. Afterwards, I will follow you to    Palestine, and you will be my guide to the landmarks of revolt,    resistance, art, and music of  your beloved Land.
 I conclude with Mahmud Darwish’s words:
 If you shout with all your strength and an echo replies
 “Who’s there?”
 You can say “Thank  you”  to your identity.
 Looking forward to your reply
 A big hug,    Rosario -- Invictapalestina
 
 
 Giovedì 21 febbraio
 Oggi 4°giorno di sciopero in solidarietà a Sami (mi hanno detto che è il suo diminuitivo)Piove dalle ore 14, alcune donne hanno portato latte, acqua, tè, altre    hanno portato via coperte e guanciali da asciugare in casa, Enzo ha    portato 2 teli provvidenziali di plastica  che Vincenzo e Marta hanno    steso sulla tenda per evitare ulteriori infiltrazioni d'acqua.
 Ieri sera ho ricevuto visite da Mario, Antonio, Nicolas, Francesco,    Peppe, Michele, Raffaele, Manuel, Matias. Il più piccolo 9 anni il più    grande 14, con grande curiosità hanno fatto domande sulla Palestina,    sono andati via tardi poi alcuni sono ritornati con i giubottini gonfi,    poi un po' timidi hanno svuotato le tasche lasciandomi succhi e latte    caldo in un microscopico termos.
 La salute è buona e il morale alto, la lettera che segue è indirizzata a    Sami, sarebbe da tradurre in arabo/inglese e recapitarla con le   proprie  organizzazioni direttamente a Sami.
 I Link che seguono aggiornano quotidianamente la situazione in Palestina    e in Calabria, Grazie Mirca e Gabriella, altre notizie sul sito di    Palestinarossa.
 
 Per contatti info@invictapalestina.org  o segreteria@invictapalestina.org , risponderà a tutti  Simonetta. https://sites.google.com/site/parallelopalestina/sciopero-della-fame 
 Caro fratello, Caro SamiL’eco della tua lotta è arrivata in Calabria (ITALIA).
 In un piccolo paese di questa regione    abbiamo montato una tenda della speranza nella quale da quattro giorni    anch’io faccio lo sciopero della fame in solidarietà con la tua lotta    che poi è quella di tanti fratelli e sorelle palestinesi che ogni  giorno   s’impegnano per la fine dell’occupazione sionista che con  crudeltà   inaudita cerca di piegare le vostre  speranze di libertà e la  vostra   ferrea volontà.
 Io, in questo piccolo paese della    Calabria,  ho fondato InvictaPalestina,  Palestina  indomita, Palestina     mai vinta e in questi giorni di lotta sono molte le persone che    vogliono sapere, informarsi, conoscere la bellissima terra di Palestina.    Hanno bisogno di me per continuare ad informare con manifestazione,    video, racconti, hanno bisogno di te come valoroso testimone della    violenza israeliana che hai incontrato a soli sedici anni.
 Il sionismo ha la necessità di spegnere la    speranza, spegnere le vite,  per poter affermare il suo dominio con    espulsioni, pulizia etnica e apartheid, per contrastare questo  progetto    ti faccio una proposta.
 Caro Sami,  ti propongo di scegliere la    vita al martirio, scegliendo di comune accordo di sospendere il nostro    sciopero per camminare insieme nella lotta di liberazione del popolo    palestinese, t’invito a sospendere insieme,  io in Italia  tu nelle    carceri israeliane,  lo sciopero in corso e sostituirlo con la lotta    collettiva, quotidiana, che un giorno, insieme a tutti le persone che    resistono e solidarizzano col tuo popolo, porterà sicuramente alla     liberazione della tua terra.
 Come fratelli aspetteremo insieme la tua    liberazione, divideremo poi lo stesso boccone,  la stessa casa.    Condivideremo  la tua casa in Palestina ricostruita con i colori della    primavera e gli ulivi della Calabria, la mia in Calabria con i colori e    la bandiera della tua terra.
 Quello che ti chiedo non è la rinuncia    alla lotta, è un appello alla vita per poter lottare con più energia,    abbracceremo insieme le nostre mamme,  le nostre sorelle e i nostri    fratelli, insieme, io in Italia e tu in Palestina.
 Una volta liberato dalle catene    israeliane,  faremo di tutto per farti venire in Italia per raccontare    la tua storia di resistenza, ti accoglieremo con le canzoni dei nostri    partigiani che ci liberarono dal nazifascismo, io ti seguirò, poi, in    Palestina e tu mi guiderai nei villaggi simbolo delle rivolte, della    resistenza, dell’arte, della musica della tua adorata Palestina.
 Concludo con le parole Mahmud Darwsh:
 Se gridi con tutte le tue forze e l’eco ti risponde:
 “Chi c’è”
 Dì alla tua identità: Grazie!
 In attesa di una tua risposta, un grande abbraccio Rosario - Invictapalestina
   Martedì 19 febbraio Secondo giorno di  sciopero della fame   sulle gradinate della chiesa San Nicola di Bari a  Pentone (CZ) Sveglia   alle ore 6,30 con la visita della guardia medica  che ha confermato lo   stato di buona salute. Visite di Michele, Enzo  Marino e Lauretta detta   da biccherara, madre di 13 figli 3 dei quali  emigrati negli Stati Uniti,   ha portato latte e tè col silenzio della  mamma consapevole della   sofferenza altrui, mentre altri nel  chiacchiericcio vuoto quotidiano,   con la discarica di Alli a pochi  chilometri strapiena di rifiuti, un   progetto di centrale biomasse nel  vicino parco della Sila, con i giovani   senza nessuna prospettiva di  lavoro, polemizzano sulla opportunità   dell'iniziativa. Molti in paese  sono preoccupati per il freddo   soprattutto notturno, ma come si può  sentire freddo se fra una   incursione israeliana e l'altra si sogna la  Palestina libera? Grazie per i messaggi di solidarietà di    Miriam da Viterbo, Pina da Padova, Enrico, Giorgio e Consolata da    Torino, Criss da Lisbona, Enrico da Roma, Silvia da Padova, Francesco da    Milano, Patrizia da Gaza, Pati e Pamela da Lecce, Apicella da Londra,    sicuramente ho dimenticato qualcuno!
 
 
 Per informazioni, risposte, materiale da diffondere:  info@invictapalestina.org
 
 
	
	
TUNISIA: RITORNA LA PAURAASSASSINIO DI CHOKRI BELAID
 di Mirca Garuti
   Chokri Belaid, segretario del Partito patriottico di sinistra democratica (Watad)  e portavoce  del Fronte Popolare, è stato ucciso mercoledì 6 febbraio,  mentre usciva dalla sua abitazione, con quattro colpi d’arma da fuoco  sparati a distanza ravvicinata.  Chokri Belaid, fin  dall'inizio della rivoluzione, aveva capito che era necessario creare  una mobilitazione generale con i vari partiti di sinistra nel mondo per  costruire un fronte unico democratico nel Mediterraneo. Sosteneva,  inoltre che, per contrastare l'avanzata della destra religiosa in  Tunisia, bisognava formare un'alleanza, anche con l’appoggio dei  sindacati per avere così una forza maggiore all’interno dell’Assemblea  Costituente. Gli obiettivi principali del suo partito (Watad)  si  riassumevano in tre punti: diritti economici e sociali – diritti civili e  diritti per le donne – sviluppo. Queste sono state le sue parole  pronunciate un anno fa in un incontro avuto nella sede del suo partito  durante il nostro viaggio in Tunisia. (v. speciale Alkemia)
 A quell’incontro era presente anche Maurizio Musolino del PdCI che lo ricorda in un comunicato come “un  progressista, un laico, un comunista, amante del suo paese e della sua  gente. Per anni si era fieramente opposto al regime di Ben Alì e oggi  era in prima fila per la difesa dei diritti delle donne e dei lavoratori  tunisini. Chokri era un uomo del dialogo e ricercava con ostinazione  l'unità delle forze di sinistra. Credeva nella laicità e nella  convivenza”. Lo colpì inoltre, il suo continuo richiamarsi alla  tradizione e al pensiero gramsciano e la sua consapevolezza  dell'importanza di rafforzare la presenza della sinistra nel sindacato.
 “Evidentemente tutto questo era  insopportabile per quelle forze che lavorano alla restaurazione,  tradendo le aspirazioni e i sogni di tanti uomini e donne liberi della  Tunisia.”
 
 Il suo pensiero politico espresso durante l’intervista rilasciata nel dicembre 2011 ad un anno dalla rivoluzione Tunisina
 
 
                                          La versione integrale dell’incontro con i membri del suo partito. 
                  La notizia della sua uccisione ci ha colto  di sorpresa ed, immediatamente, il nostro pensiero è andato al popolo  tunisino, alle sue sofferenze, alla sua lotta, al suo desiderio di  essere libero e di poter vivere una vita dignitosa. Una mano ha fermato  la vita di una persona che credeva nella democrazia, nel diritto di  tutti, nella laicità. Ora il paese è sotto choc, nel caos, il governo è  in bilico. Il premier Jebali ha annunciato, infatti, la formazione di un governo d’unità che conduca la Tunisia alle elezioni. E tutto questo perchè?
 
 Chokri Belaid, era soprattutto uno dei massimi esponenti del Fronte Popolare,  coalizione delle forze della sinistra di classe, laiche e progressiste  per il raggiungimento degli obiettivi della rivoluzione, di cui Watad ne  è parte. Per questo Chokri era stato già oggetto di minacce e  intimidazioni che lui stesso aveva denunciato come provenienti dai   militanti del partito al potere Ennadha (comunicato del Fronte Popolare  Tunisino in Italia). Il suo partito fa parte, insieme a Nidaa Tounes (l’Appello di Tunisia) e Al Massar  (La Via, sinistra) di una specie di gruppo dell’opposizione, avviato  poche settimane fa, per tentare di mettere insieme la frammentazione dei  partiti laici per ottenere una migliore posizione alle prossime  elezioni. Nidaa Tounes, partito centrista fondato il 20 aprile scorso dall’ex premier ad interim Beji Caid Essersi,   è riuscito a costituire a novembre una sua delegazione all’interno  dell’Assemblea Costituente. Recentissimi sondaggi sulle intenzioni di  voto dei tunisini, per la prima volta hanno evidenziato un sorpasso,  lieve ma indicativo, dell’opposizione laica di Nidaa Tounes nei  confronti del movimento islamico Ennadha. E’ diventato il secondo gruppo  in parlamento con l’accredito del 20% dei consensi.
 
 Belaid, lo scorso 14  gennaio aveva partecipato alla manifestazione per ricordare il secondo  anniversario della caduta del regime di Ben Ali. Più volte aveva  accusato l'attuale governo di corruzione e di non aver realizzato gli  obiettivi della rivoluzione.
 L’ultimo intervento politico di Chokri Belaid risale  alla sera precedente del suo assassinio alla televisione locale Nessma:  è stato un atto d’accusa contro Ennahda. Belaid aveva, infatti,  affermato che “Ci sono gruppi all’interno di Ennahda che incitano alla violenza, chiunque critica Ennadha può essere vittima di violenza”. La sua denuncia era diretta a Rachid Ghannouchi,  accusato di difendere le squadracce dei fondamentalisti salafiti.  Inoltre, sosteneva che il partito Ennahda stava cercando di ottenere il  progressivo controllo della macchina dell’amministrazione, della  giustizia ed anche dell’apparato militare e che questo avrebbe portato  nuova violenza, ogni volta che all’Assemblea Costituente si sarebbe  discusso di un articolo “retrogrado e contrario alla libertà”.  Chokri Belaid ha dunque, fino all’ultimo, cercato di difendere la laicità dello Stato ed i diritti di tutti.  La situazione in Tunisia, in questi due  anni, è sempre stata molto critica, fragile. Il popolo, infatti, di  fronte al nuovo sistema di potere al quale partecipano anche partiti  laici - la sinistra moderata di Ettakatol e il Congresso per la Repubblica -  è sfiduciato, deluso perché tutto questo potere ha pensato solo di  occupare le sedie lasciate vuote da Ben Alì, senza affrontare nessuno  dei problemi dei cittadini. Il risultato è quello di aver portato la  Tunisia ad avere un bilancio economico in deficit, gli investitori in  fuga, l’industria, il turismo e l’agricoltura fermi. Il Ministro delle  finanze annuncia ulteriori aumenti del prezzo dei carburanti,  dell’energia elettrica e del tabacco.  
 Il Fondo Monetario Internazionale incalza il governo con la richiesta di altre riforme strutturali. Di fronte a tutto ciò, il 23 gennaio scorso il Fronte Popolare rifiuta l’offerta del FMI per un incontro privato.  Il FMI, accettando per 23 anni la dittatura di Ben Alì, ha in pratica  imposto alla popolazione tunisina una politica antisociale e  antidemocratica, determinando così solo povertà, disoccupazione e  corruzione. Il Fronte Popolare propone invece al FMI un incontro pubblico  durante un dibattito televisivo, ripetendo il concetto che il popolo  tunisino, attraverso la rivoluzione, ha apertamente espresso la sua  volontà di porre fine a questo tipo di politica. Il FMI, invece, non  solo dimostra di ignorare quello che chiede il popolo, ma pretende di  continuare con la stessa politica, anzi, con il nuovo piano di austerità  e l’indebitamento estero firmato con il governo della Troika (Ennadha, Ettakatol e Congresso per la Repubblica) la rafforza. L’ultimo rapporto dell’esperto delle Nazioni Unite sul debito condanna i comportamenti dei creditori e del Fondo Monetario Internazionale e, sottolinea che “gli  stati creditori e le istituzioni finanziarie internazionali non  dovrebbero approfittare di una crisi economica, finanziaria o legata al  debito estero per promuovere riforme strutturali nei paesi debitori”. Il Fronte Popolare, quindi, non riconosce alcuna legittimità al FMI  nel continuare a decidere della sorte del popolo tunisino e chiede al  FMI di cessare tutte le ingerenze e gli atti ostili contro di esso e la  restituzione di ciò che è stato indebitamente sottratto al popolo  tunisino. Il Fronte Popolare chiede anche che il governo della Troika  cessi ogni collaborazione con il FMI e l’immediata sospensione degli  interessi, il congelamento del debito ed una verifica sul debito  tunisino che deve coinvolgere la società civile per comprendere come si è  formato, il suo uso e per individuarne le responsabilità. Il 4 febbraio  scorso il governatore della Banca centrale della Tunisia, Chedly Ayari, appare in conferenza stampa congiunta con i rappresentanti del FMI.  La Tunisia è precipitata di nuovo nel  caos, dopo l’uccisione di Chokri Belaid.  Questo vile attentato è un  segnale di debolezza da parte del partito di governo. Hema El Hamami, portavoce del Fronte popolare  ha annunciato, in una conferenza stampa, di ritirare i propri  rappresentanti dall'Assemblea Costituente, chiedendo le dimissioni del  governo in carica e la formazione di un nuovo esecutivo ad interim per  difendere il paese da questa nuova ondata di violenza. Il giornalista Rached Cherif scrive sul giornale Nawaat “Belaid  aveva ricevuto molte minacce per la sua opposizione tenace alla  politica del governo attuale. Aveva denunciato a più riprese l'aumento  della violenza politica”. Il portavoce del governo, Samir Dilou ha affermato che si è trattato di un “crimine abominevole”. Il primo ministro tunisino, Hamadi Jebali di Ennahda ha condannato naturalmente l'omicidio sostenendo che, “è stato un atto criminale, un attacco terroristico non solo contro la persona di Belaid, ma contro tutta la Tunisia”  ed ha annunciato le dimissioni del governo per sostituirlo con un  governo di tecnici. Su tutte le tv italiane, è apparso, in diretta da  Strasburgo, il presidente della Repubblica tunisina Moncef Marzouki che, di fronte ai parlamentari europei, ha così commentato l'omicidio del leader dell'opposizione Chokri Belaid: “Un assassinio odioso e brutale che rappresenta una minaccia all'intero paese. Belaid lo conoscevo bene, era un amico”.  Il partito Ennadha ha sconfessato, però più tardi quanto annunciato dal  suo primo ministro Jebali. Questo dimostra solo una grossa frattura  all’interno del partito che può portare solo ad un aumento delle  proteste.
 
 Dedico queste poche righe a Chokri Belaid  che ho conosciuto un anno fa nell'occasione di un viaggio in Tunisia  alla scoperta di un paese dopo la rivoluzione popolare. E’ sempre molto  triste parlare di una persona che viene uccisa perché contraria ad  un’idea di potere ma, quando questa ”persona” prende forma, ti ha  parlato, spiegato le sue idee, la sua lotta, il suo credere nei diritti,  allora tutto si complica, arriva lo sconforto, una tristezza infinita  che ti avvolge in un immenso silenzio.
 L’ideologia di Chokri Belaid si inspirava ad Antonio Gramsci, rivolgo quindi a Chokri ed a tutto il popolo tunisino questo suo pensiero:
 
 “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. chi vive veramente non
 può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria,
 non è vita. Perciò odio gli indifferenti”  -  Antonio Gramsci –
 
 07/02/2013
 
 
	
	L'IMPERO IN DECLINO
 Intervista con Gilbert Achcar  
Gilbert Achcar è professore presso la Scuola di Studi Orientali e Africani dell'Università di Londra. Il suo ultimo volume s'intitola Gli Arabi e l'Olocausto. Narrazioni della guerra arabo-israeliana (New York, Metropolitan, 2010). Il suo prossimo libro, La gente vuole: Un'analisi radicale della rivolta araba, sarà pubblicato nel mese di giugno 2013 (Los Angeles, University of California Press).  È stato intervistato da David Finkel della redazione di Against the Current (Controcorrente). Against the Current: Dal suo punto di vista particolare, europeo e vicinorientale assieme, può descriverci come sono state viste le elezioni negli Stati Uniti all'estero?
 
 Gilbert Achcar: Come si può immaginare, le reazioni sono state diverse in Europa e nel Vicino Oriente. In Europa, c'è stata una specie di sospiro di sollievo per la rielezione di Obama. Romney infatti era visto sotto una luce molto negativa dalla maggior parte delle persone e il commento più comune è stato di soddisfazione per il fatto che non sia stato eletto.
 Nel Vicino Oriente, invece, questa volta c'era molta indifferenza, diversamente dal 2008, quando ci fu grande entusiasmo per Obama, per le ovvie ragioni del suo colore e del suo background rispetto alla tradizione dei presidenti degli Stati Uniti. In seguito, questo ha portato  Obama ad essere visto, nella migliore delle ipotesi, come molto debole  nei confronti della classe politica statunitense e soprattutto nei  confronti di Israele, per il modo in cui la sua amministrazione si è  prostrata di fronte all'arroganza e alle provocazioni israeliane.Questo ha creato un'enorme delusione perché la gente aveva creduto che le cose sarebbero davvero cambiate.
 Inoltre, in generale,  quest'amministrazione ha effettivamente dovuto gestire l'impero nel suo  punto più basso di prestigio nella regione, essendo venuta  immediatamente dopo la devastante amministrazione Bush, disastrosa dal punto di vista dell'impero degli Stati Uniti.
 Lo scrittore neo-conservatore Charles Krauthammer nel 1990 aveva annunciato un "momento unipolare" (incontrastato potere degli Stati Uniti dopo il crollo del blocco sovietico). Non molto tempo dopo l'11 settembre 2001, però, con l'invasione dell'Iraq del 2003, l'amministrazione Bush è riuscita a dissipare tutto il capitale politico che gli Stati Uniti avevano accumulato sin dal 1990.Nell'ultimo periodo, gli USA hanno dovuto affrontare un calo reale della loro influenza, soprattutto nel Vicino Oriente, dopo il picco della loro egemonia nel 1990-'91, quando intrapresero la prima guerra contro l'Iraq.
 Il ritiro USA dall'Iraq, senza avere raggiunto neanche uno degli obiettivi fondamentali che l'amministrazione  Bush aveva in mente quando iniziò l'invasione, è una sconfitta tremenda  e un disastro per il potere degli Stati Uniti.
 Penso che sia stato Henry Kissinger a dire che se gli Stati Uniti fossero stati sconfitti in Iraq sarebbe stato "peggio del Vietnam".  Credo che questo sia esattamente ciò che è accaduto, perché quel che è  in gioco in Medio Oriente e nel Golfo è molto più di quello che rappresentava il Vietnam.
 
 USA isolati sulla Palestina
 
 ATC: Questo ci porta direttamente alla mia prossima domanda sul significato del voto dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite sullo status di "Stato non membro" per la Palestina. Un fatto che sembra molto più di una sconfitta per gli Stati Uniti di qualsiasi altra cosa, e che potrebbe significare molto per la realizzazione concreta di uno stato palestinese.
 
 G.A.: Esatto, questa è una delle prove più evidenti di quello che stavo dicendo. Si tratta di un vero e proprio schiaffo a viso aperto che ha messo a nudo un grado di impotenza dell'impero abbastanza sorprendente, e che non avevo mai visto dall'ultimo periodo di declino nel 1970. Ora è evidente quanto gli Stati Uniti e Israele siano isolati assieme a Canada, Repubblica Ceca e alcuni stati insulari fittizi del Pacifico.
 Il modo in cui l'Europa in particolare  ha rotto con Washington è solo un indicatore di questo declino della  potenza imperiale, soprattutto rispetto a ciò che sta accadendo nel  Vicino Oriente. Il livello di mancanza di una risposta concreta a quanto  accade nella regione e i tentativi di adattarsi alla situazione, senza  alcuna reale alternativa all'investimento nei Fratelli Musulmani come si  sta tentando di fare, tutto questo indica quanto l'egemonia regionale  degli Stati Uniti stia perdendo terreno. Per quanto riguarda quanto questo abbia che fare con "la soluzione dei due Stati" (Israele- Palestina),  bisogna dire che per tutti i paesi che hanno votato a favore, o che si  sono astenuti sulla risoluzione, ovviamente, il voto era strettamente  collegato all'opinione che hanno di questa soluzione. Hanno ritenuto che  un voto negativo sarebbe stato interpretato come un rifiuto di questa  formula che sostengono ormai da anni. Questo infatti è anche il modo in  cui l'Autorità Palestinese ha presentato la questione, e cioè come "l'ultima occasione per la soluzione dei due Stati".Tra i palestinesi il risultato è stato per lo più visto come una vittoria morale dopo una lunga catena di sconfitte di tutti i tipi e di fronte a una forza militare schiacciante come quella di Israele, che continua il suo accanimento contro Gaza. Il voto è venuto anche sulla scia di un'altra vittoria morale, il fiasco dell'ultimo attacco di Netanyahu su Gaza.
 
 ATC: L'Europa continuerà a mantenersi fortemente contraria all'espansione di Israele nella zona "E1"? (Il progetto intorno all'area di Gerusalemme Est annunciato da Israele immediatamente dopo il voto delle Nazioni Unite, che taglierebbe la Cisgiordania in due).
 
 G.A.: Questo resta da  vedere, ma l'espressione di rabbia questa volta è nettamente superiore  rispetto alle precedenti occasioni. È un segnale specifico nei confronti  dell'espansione di una colonia che è qualitativamente più dannosa delle  decisioni passate, per il problema di Gerusalemme Est e le sue  implicazioni per l'integrità territoriale di un ipotetico Stato  palestinese.
 Netanyahu ha preso il voto degli Stati Uniti come un via libera, quindi sono davvero gli USA ad avere la responsabilità diretta di questo, anche se Washington ha cercato di prenderne le distanze. Israele non avrebbe avuto il coraggio di sfidare il mondo e Washington, ma può sfidare tutti gli altri fino a quando gli Stati Uniti rimangono in gioco.Come tutti sappiamo, la leva finanziaria europea su Israele è relativamente limitata. Esistono mezzi attraverso i quali potrebbero esercitare pressioni, come lo stop agli accordi commerciali privilegiati o la pratica reale del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), ma una cosa del genere è talmente al di là delle politiche europee che è difficile da immaginare.
 Il nocciolo della questione è che Israele dipende soprattutto dagli Stati Uniti, ed è impressionante che anche questo presidente, Obama, che per molti versi ci si aspettava essere favorevole ai palestinesi, abbia rinunciato a qualsiasi possibile lotta.Se si guarda ai decenni dopo Eisenhower, è l'amministrazione Bush Senior  che appare come quella che ha avuto la maggiore influenza su Israele.  Nel 1991, ad esempio, proprio al culmine dell'egemonia degli Stati  Uniti, ha spinto il governo di Yitzhak Shamir a partecipare ai negoziati di Madrid,  minacciando di sospendere le garanzie per un prestito di 10 miliardi  dollari che Israele in quel momento stava cercando. Da allora non  abbiamo più visto niente di simile.
 Naturalmente Bush Junior era in totale sintonia con i governi più di destra in Israele e dal 2001  abbiamo assistito ad uno spostamento continuo verso l'estrema destra.  Spostamento che è proseguito anche con l'amministrazione Obama e che non  è altro che un riflesso del profondo declino dell'influenza degli Stati  Uniti: Washington non è in grado di esercitare pressioni sul suo alleato più affidabile.
 
 ATC: Abbiamo la sensazione che ci sia un accordo grazie al quale Israele non attaccherà l'Iran contro la volontà degli Stati Uniti, che sarebbe comunque folle, in cambio gli Stati Uniti  permettono ad Israele di avere mano libera sui territori occupati  palestinesi e su Gaza. Ha senso un'ipotesi di questo tipo?
 
 G.A.: Credo che queste "trattative", se vi piace, non siano esplicite, ma possono esistere implicitamente.  L'amministrazione Obama ha effettivamente dovuto affrontare le minacce  di un'azione unilaterale da parte di Israele. Bisogna aggiungere che la  rielezione di Obama è una sconfitta per Netanyahu, che scommetteva su  Romney, nella convinzione che Romney avrebbe acconsentito, e forse anche  partecipato, ad un'azione militare contro l'Iran.
 La verità è che non solo l'amministrazione Obama, ma anche gli alti ufficiali del Pentagono sono molto preoccupati per una tale prospettiva (quella di un'azione israeliana). Non sono disposti a correre un grosso rischio solo per fare piacere a Netanyahu. Lo stesso accade anche  nell'esercito israeliano. Ci sono indiscrezioni che trapelano dal  settore della sicurezza e dagli ambienti dell'intelligence israeliani  che sostengono che sarebbe un'impresa folle.L'Iran ha missili e razzi e così pure  Hezbollah in Libano. Non sarebbe un'azione senza rischi come invece è  stato l'attacco a Gaza.
 Il risultato finale è che Netanyahu,  dopo aver indetto le elezioni per gennaio, con la sconfitta di Romney,  ha dovuto ridurre le sue ambizioni ed ha attaccato Gaza in una manovra  elettorale sostitutiva del suo desiderio di colpire l'Iran. Azione che  sembra essere un fallimento.Quanto a cosa accadrà dopo, penso che sia difficile immaginare che Israele lanci un attacco su  un bersaglio come l'Iran senza un chiaro nulla osta degli USA. Sarebbe  così folle che non credo che l'esercito israeliano accetterebbe.
 
 ATC: Lei aveva previsto con precisione che le vittorie delle rivolte non violente della primavera araba non si sarebbero ripetute nel caso di regimi come la Siria. Come vede la crisi che è esplosa lì e cosa stanno cercando di fare le forze esterne?
 
 G.A.: Le politiche di Stati Uniti ed Europa, Gran Bretagna in particolar modo, si sono concentrare per evitare quello che considerano un cambiamento "caotico". Il motto di Washington, già da subito, a partire dal gennaio 2011, è stato "transizione ordinata", una frase ripetuta innumerevoli volte dai funzionari degli Stati Uniti, Obama e Hillary Clinton inclusi.
 Questa è la "transizione ordinata" che hanno imposto allo Yemen con l'aiuto del Gulf Cooperation Council (GCC)  delle monarchie del petrolio: una specie di sistemazione che ha  depredato il movimento yemenita popolare della sua vittoria, un  compromesso del tutto frustrante che non funziona perché ha lasciato il paese completamente instabile. Hanno negoziato un accordo in cui il presidente ha consegnato il potere al suo vice, mentre lui continua  ad operare dietro le quinte e la sua famiglia gestisce l'esercito, un  reale tentativo di interruzione del processo rivoluzionario.
 Questo è esattamente ciò che gli Stati Uniti cercano di ottenere quando c'è una grande rivolta di massa e il cambiamento diventa inevitabile, come in Libia, dove l'obiettivo dell'intervento è stato quello di cercare di controllare il processo. Anche se non potevano farlo via terra perché i ribelli libici non avrebbero accettato truppe straniere, hanno continuato a negoziare con il figlio di Gheddafi (Seif al-Islam). Ma la rivolta non rispetta limitazioni di questo tipo, e il regime è stato poi abbattuto dagli insorti nella sua stessa capitale.
 In Siria hanno nuovamente cercato di ottenere una "transizione" senza dare un reale sostegno alla rivolta. Naturalmente non c'è un intervento militare diretto degli Stati Uniti o della  NATO, e il rifiuto di armare la rivolta spiega il forte squilibrio tra  la ribellione armata e il regime. Obama stesso aveva parlato di una "soluzione Yemen" per la Siria. Non molto tempo  fa, il primo ministro britannico David Cameron aveva detto che la  sicurezza di Assad avrebbe potuto essere garantita se avesse lasciato il  paese. Questa è arroganza imperiale senza limiti. Indica chiaramente quali sono le reali intenzioni di  queste persone, e quanto sia sbagliato credere che Washington stia  cercando di rovesciare il regime. La loro preoccupazione principale è  ciò che Washington e Londra chiamano "la lezione dell'Iraq".  Lì infatti, hanno smantellato l'esercito e l'intero Stato, per poi  accorgersi che era un grave errore. In realtà, anche questa è una  valutazione sbagliata dei motivi della loro sconfitta in Iraq, che sono  ben più profondi, ma, dal loro punto di vista, hanno commesso un errore  enorme nello smantellamento dello stato baathista, e non vogliono  ricaderci.Stanno ripetendo la stessa formula in Siria: cercano di trovare un accordo con tutti i settori disponibili del regime. Non stanno ottenendo successo in questa direzione, non più diquanto  non sia accaduto in Libia, perché il conflitto è tale, dopo tanta  distruzione perpetrata da parte di un regime e una famiglia regnante,  disposti a distruggere il loro paese, con intere città come Homs e  Aleppo - mi ricorda l'attacco israeliano in Libano e la distruzione  della periferia di Beirut nel 2006 - che diviene inimmaginabile che la  gente sia disposta a convivere con qualsiasi settore abbia fatto parte  di una tale macchina statale organizzata su una base confessionale com'è  questa. Credere che sia possibile è una pia illusione.
 
 ATC: Dunque, in che direzione crede che si evolverà la situazione a questo punto?
 
 G.A.: Non credo che ci sia altra possibilità che la fine del regime, la situazione è completamente irreversibile. Perciò la domanda importante non è se il regime cadrà, ma in quanto tempo ciò avverrà. Più tempo ci vorrà e maggiore sarà il costo umano e anche il costo politico, perché questo protrarsi della situazione sta creando le condizioni per undeterioramento della scena politica anche all'interno della rivolta.
 In assenza di un sostegno occidentale, il supporto alla rivolta è venuto dalla monarchia  saudita, incanalatasi attraverso le forze fondamentaliste sul campo. È  la profezia del regime che si realizza, perché fin dall'inizio ha detto  che si trattava di una "congiura dei salafiti e di al-Qaeda" e ha fatto del suo meglio per produrre questo risultato. Tutto questo,naturalmente,  è molto preoccupante, ed è per questo che più a lungo prosegue il  conflitto e peggio sarà per il futuro della Siria.
 È nell'interesse del futuro della Siria che il regime cada molto presto. Purtroppo sembra piuttosto difficile, ma se si fa il confronto con l'anno scorso, quando la situazione stava appena cominciando a militarizzarsi, il regime ha perso molto terreno e diventa chiaro quanto  velocemente le cose possano svilupparsi. Dipende anche da ciò di cui  cui dispone la rivolta, ci sono notizie infatti di un sostegno da parte  del Qatar e dell'acquisizione da parte dei ribelli di missili  terra-aria. Ma in mancanza di simili elementi, o senza un collasso interno alle forze del regime, la situazione può benissimo durare per diversi mesi, anche un anno o più.
 ATC: Infine, c'è la nuova crisi politica in Egitto. Può darci una valutazione in breve?
 
 G.A.: Il problema in Egitto non è una sorpresa perché, da un lato, la Fratellanza Musulmana è di gran lunga la più potente forza organizzata dopo il crollo delle istituzioni del regime di Mubarak. Quindi c'era da aspettarsi la loro vittoria elettorale. Il punto chiave però non è che abbiano guadagnato il potere, ma la fragilità reale della loro vittoria. La vittoria elettorale di Morsi infatti, non è stata travolgente, e agli occhi del movimento di massa lui non comanda alcuna autorità.
 Appena decretata la concentrazione del potere, ecco che si solleva una grande e ostinata spinta che gli si oppone. I Fratelli Musulmani hanno una forza molto potente, in grado di organizzare le masse, ma quel che c'è di nuovo è che ormai c'è un gran numero di persone pronte a dire "No". Nel lungo periodo questo regime è in realtà molto debole, una "tigre di carta", perché non ha soluzioni per tutti i maggiori problemi economici e sociali che hanno portato alla rivolta anti-Mubarak.
 Le radici profonde di tutto questo si possono trovare nelle difficoltà economiche e nell'enorme disoccupazione. Morsi nel suo programma non ha nulla se non una politica di continuazione col precedente regime. Ha appena firmato un accordo con il Fondo Monetario Internazionale contenete le stesse condizioni di sempre, che creeranno un'insoddisfazione ancora maggiore.Così, lo sconvolgimento che ha avuto inizio nel mese di gennaio 2011 è tutt'altro che finito.
 Siamo solo all'inizio di un processo rivoluzionario molto lungo, e il rapido discredito che sta calando sui Fratelli Musulmani in Egitto e in Tunisia è motivo di ottimismo per il futuro, non lo è invece il diffuso pessimismo soprattutto in Occidente, dove in molti avevano delle aspettative errate ed ora giudicano negativamente l'intera rivolta.
 
 Gennaio / febbraio 2013, ATC 162
 
 (Traduzione dall'inglese Fatima Sai)
 
 
	
	
IL MEDIORIENTE NELLE ULTIME SETTIMANE di Cinzia Nachira
  
     Il Medioriente  nelle ultime settimane è tornato alla ribalta dell’attenzione  internazionale. Ormai da molti mesi l’interesse in Occidente per le  rivolte che stanno cambiando il volto del Medioriente e del Maghreb è  diminuito perché gli eventi in corso non soddisfano le attese  occidentali, deludendo tutti coloro che si aspettavano un percorso  lineare. In realtà in Occidente sono stati sottovalutati due fattori.  Per un verso alcuni  paesi coinvolti erano succubi di dittature ultra  decennali e per questo ogni forma di espressione culturale, politica,  sociale o sindacale è stata repressa e conseguentemente molti dei leader  che oggi sono protagonisti della scena politica sono tornati dopo  lunghi periodi di esilio in Occidente, dove avevano trovato rifugio. Per  un altro verso, l’elemento che oggi desta più smarrimento in Occidente è  il ruolo di primo piano svolto dalle organizzazioni politiche islamiche  che all’inizio delle rivolte nel dicembre 2010 sembravano essere  marginali. Ma, come spesso succede, la realtà è ben più complessa di ciò  che si desidera e quindi ci si trova ad un bivio: cercare di  comprendere ciò che avviene, districandosi fra la complessità dei dati  sul terreno, oppure ignorare la realtà adattandola ai propri desideri.Inoltre, molti paesi della regione  negli anni scorsi sono stati teatro di gravi crisi interne, soprattutto  legate all’impoverimento generalizzato delle popolazioni, fin dagli anni  ’90 del XX secolo. Ma ciò che due anni fa ha reso  diverse dalle  precedenti le rivolte che sono  scoppiate è stato il prevalere del loro  carattere politico e del loro coraggio. Questo elemento, più degli  altri, è diventato la miccia che non  si è ancora spenta.
 Per quanto il mondo arabo rappresenti  da diversi punti di vista un insieme organico è anche vero che ognuno  dei paesi mediorientali hanno vissuto vicende specifiche che oggi li  influenzano. Sottolineare questo aspetto è necessario anche per non  commettere l’errore di porre tutto sullo stesso piano. Questo rischio è  particolarmente presente e da alcuni anni si intrecciano due elementi:  per un verso la sconfitta dei partiti laici che dagli anni sessanta fino  alla fine degli anni settanta del secolo scorso avevano tentato di  imporsi sulla scena politica e, per un altro verso, come conseguenza,  l’affermarsi delle organizzazioni politiche islamiche. Spesso si è stati  tentati, e lo si è tutt’ora, di risolvere questo enigma annullando le  differenze.
 
 
 L’Occidente cambia tattica
 Una cosa è certa: nessuno si aspettava che dalla Tunisia nel  dicembre 2010 si estendesse un movimento di massa di grandi  proporzioni. Le potenze Occidentali, Stati Uniti ed Europa in testa,  hanno tentato all’inizio di rinnovare il loro appoggio ai dittatori che  fino a poche ore prima erano dei loro alleati e clienti di vecchia data e  di consolidata lealtà. Ma quando è diventato chiaro che la dinamica era  irreversibile, perché le piazze non si svuotavano malgrado la  repressione brutale, il loro atteggiamento è cambiato. Il quesito che si  poneva sia agli Stati Uniti che all’Europa era semplice: per garantire i propri interessi nella regione conveniva sostenere o abbandonare i vecchi alleati?  Evidentemente, nel decidere la risposta venivano presi in  considerazione una serie di diversi elementi, fra cui anche il  fallimento delle politiche che dal 2001 fino al 2009 avevano avuto come  risultato principale quello di impantanare l’Occidente nelle due guerre  dell’Afghanistan e dell’Iraq. Era molto più difficile uscire da queste  guerre di quanto non fosse stato scatenarle.
 Inoltre, le guerre scatenate in Iraq e Afghanistan avevano avuto anche il “risultato”  di radicalizzare tutti i movimenti di opposizione nel mondo arabo, per  cui scegliere dei nuovi alleati per l’Occidente era un’operazione  tutt’altro che facile. In questo contesto, l’unica soluzione era quella  di modificare le alleanze, per non intaccare i rapporti, strategicamente  importanti, con Israele e  i paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa.  Gli stessi paesi del Golfo erano tutt’altro che esenti dal “contagio” delle rivolte: dall’Arabia Saudita al Bahrein, passando per il Qatar. Anche  in questi paesi l’opposizione riprendeva vigore e le manifestazioni  popolari mettevano in pericolo i paesi ricchi di petrolio. Questi per  l’Occidente non solo rappresentavano interessi legati al petrolio ma  erano anche importanti sedi di basi militari statunitensi organizzate  all’epoca della guerra del Golfo nel 1991. Tutto questo andava  preservato e in questo senso gli interessi statunitensi ed europei  andavano coincidendo in modo sempre più evidente con quelli delle  monarchie petrolifere. Fino ad oggi queste monarchie hanno saputo  intrecciare i metodi più classici di “contenimento” delle  rivolte interne attraverso una fortissima repressione. Grazie alle loro  immense ricchezze hanno potuto sostenere le forze politiche islamiche  nei diversi paesi in rivolta (in Tunisia hanno largamente finanziato  Ennhda). In questo modo i partiti islamici hanno potuto facilmente  riorganizzarsi e vincere le elezioni. Ovviamente, l’influenza dei paesi  del Golfo è stata molto apprezzata dagli Stati Uniti che alla fine hanno  stabilito buoni rapporti con le forze politiche islamiche che fino al  novembre 2010 erano considerate terroristiche e destabilizzanti.
 In questo modo, pur non avendo giocato  un ruolo di promotori delle rivolte, i partiti islamici hanno potuto  accreditarsi nella regione come i nuovi interlocutori dell’Occidente.  Nel gennaio 2011 l’amministrazione statunitense auspicava “una transizione nell’ordine”  e questa sembrava essersi realizzata. Questo elemento, inoltre, si era  rivelato un punto importantissimo di forza anche nell’orientare  l’atteggiamento occidentale verso i paesi nei quali le rivolte erano  sfociate in guerre aperte: in Libia e in Siria. È qui possibile solo un accenno, ma è essenziale sottolineare il fatto che tanto il regime di Gheddafi quanto quello degli Assad, pur avendo una facciata “antimperialista”,  soprattutto dal 1991, intrattenevano stretti rapporti sia con gli Stati  Uniti che con l’Europa. Il ruolo diverso della Libia e della Siria  nella regione ha determinato il diverso approccio occidentale.
 Ancora una volta, però, la realtà ha smentito coloro che pretendevano che le “primavere arabe”, come  sono state definite in Occidente, fossero un argomento chiuso, dopo la  vittoria elettorale dei partiti islamici in numerosi paesi (dal Marocco  all’Egitto). Soprattutto in Tunisia e in Egitto,  pur avendo i partiti islamici vinto le elezioni e prevalendo nelle  assemblee costituenti dei due paesi, le manifestazioni contro il nuovo  assetto non sono in realtà mai terminate.
    Per gli interessi occidentali nella regione, in particolare l’Egitto  oggi riveste un’importanza fondamentale. È ormai chiaro che gli Stati  Uniti e l’Europa hanno scelto come interlocutore privilegiato il  presidente Mohamed Morsy. Ma, al contrario del regime di Mubarak, i Fratelli Musulmani  devono preoccuparsi di non perdere né il consenso popolare e neppure  gli equilibri ereditati dal vecchio regime che essi hanno l’interesse a  preservare. Questi equilibri riguardano soprattutto l’esercito che in  Egitto è una parte essenziale del potere economico, visto che gestisce  direttamente una quota importante degli aiuti militari statunitensi ed è  nello stesso tempo formato da una base sociale popolare. Con il decreto  presidenziale Morsy si concedeva dei poteri che ponevano le sue  decisioni al di sopra di qualunque tipo di controllo ed estendevano  contemporaneamente i poteri dell’esercito tentando di neutralizzare gli  appetiti dei generali. Fin dalla presa del potere di Nasser  tutti i presidenti egiziani provenivano dall’esercito, anche se poi  svestivano la divisa a favore degli abiti civili, e questo dà l’idea del  rilievo dell’esercito nella società egiziana. Morsy, il primo  presidente non militare, aveva quindi la necessità sia di accreditarsi  come interlocutore affidabile verso l’Occidente, sia di dare  l’impressione che la transizione dopo Mubarak fosse reale. Un’occasione  gli è stata offerta da Israele che attaccando Gaza il 14 novembre scorso  pensava di mettere in difficoltà l’Egitto. Al contrario, Morsy aveva  saputo sapientemente sfruttare la crisi di Gaza. In primo luogo il Cairo  è diventato il crocevia dei negoziati, ma nonostante questo Morsy non  ha rinunciato a fare dichiarazioni di fuoco contro Israele, come non  avveniva da decenni. L’invio del primo ministro egiziano a Gaza sotto i  bombardamenti ha aperto la strada alla fine dell’isolamento politico di  Gaza e della leadership di Hamas. Inoltre, dopo il primo ministro  egiziano, a Gaza si sono recate delegazioni di tutti paesi in qualche  modo coinvolti nella vicenda, dalla Turchia fino alla Lega Araba.
 Tutto questo ha definitivamente convinto  gli Stati Uniti che il quadro regionale era cambiato e che mantenere un  atteggiamento di difesa ad oltranza delle scelte militari di Israele  metteva a rischio i propri interessi strategici.
 
 
 L’aggressione a Gaza e il riconoscimento dell’ONU
 Quanto analizzato finora dimostra chiaramente che la Palestina  non poteva restare estranea agli eventi che si susseguivano a livello  regionale. E se anche il popolo palestinese è rimasto ai margini delle  rivolte arabe, inevitabilmente nessuno poteva onestamente pensare che  queste non lo avrebbero influenzato. E questo anche perché Israele è  invece rimasto saldamente ancorato alla vecchia visione regionale,  sperando contro ogni evidenza che la nuova situazione potesse essere  gestita con i metodi consolidati: guerra e copertura occidentale. In questo contesto regionale reso ben più fluido dalle rivolte e dai nuovi equilibri le  leadership palestinesi, quella dell’Autorità Nazionale Palestinese – in Cisgiordania – e quella di Hamas  – a Gaza – sono state costrette a fare i conti con un distacco sempre  più profondo tra le loro politiche e il popolo che intendono  rappresentare.
 Hamas, evidentemente,  ha avuto maggiore possibilità di rientrare nel gioco regionale per due  motivi: perché gode ancora del fatto di aver vinto le elezioni  legislative nel 2006 e perché grazie al prevalere dei Fratelli Musulmani  ha maggiore visibilità e credibilità. Questo spiega anche il motivo per  cui Khaled Meshaal, il leader di Hamas in esilio, nei  mesi scorsi ha deciso di rompere l’alleanza con la Siria trasferendo il  suo quartier generale a Doha, in Qatar. Quando in ottobre  l’emiro qatariota si è recato a Gaza in visita ufficiale, Hamas  cominciava a trarre i profitti delle proprie scelte politiche. Con  l’ultima aggressione contro Gaza, Israele ha dato una nuova  dimostrazione di aver compreso poco o nulla del mutato scenario politico  regionale ed internazionale. A spingere Israele a scatenare la nuova,  terribile, aggressione contro Gaza appare chiaro che è stata la fine  dell’isolamento politico di Hamas molto più che le elezioni israeliane  che si svolgeranno il prossimo 22 gennaio. Inoltre, fin dai primi giorni  dell’aggressione di Israele contro Gaza era evidente che Hamas  era riuscito a prevalere sulle altre organizzazioni politiche  palestinesi della Striscia. Non a caso Meshaal, una volta giunto al  Cairo per tentare di arrivare ad una tregua, ha potuto parlare anche in  nome del Jihad Islamico. Inoltre, Hamas è in procinto di rinnovare i  suoi quadri dirigenti e Meshaal, pur dichiarando di non ripresentarsi  alla guida dell’ufficio politico di Hamas, deve affrontare anche il  problema, soprattutto dopo il 21 novembre (giorno dell’entrata in vigore  del cessate il fuoco con Israele), del grande consenso ottenuto dalla  leadership dell’interno. Non è la prima volta che nello scenario  politico palestinese si propone la dicotomia tra le direzioni politiche  in esilio e quelle che invece sono sul campo. Certamente, Meshaal è  riconosciuto come l’architetto della tregua, anche se questa è stata  possibile, ancora una volta, soprattutto grazie al mutato clima  generale. Il suo trionfale ritorno a Gaza, per il 25° anniversario di Hamas, è stato anche un grande rito. Gigantografie dello Sceicco Yassin, leader carismatico fondatore dell’organizzazione nel 1987 e ucciso dagli israeliani nel 2004, erano al fianco di quelle di altri leader assassinati, da Abdel Rantisi fino ad Ahmed Jaabari.  Meshaal era circondato dai membri del governo in carica a Gaza e il suo  discorso ha sottolineato un dato: la direzione politica in esilio  riconosce pienamente l’autorità di quella dell’interno. Tutto questo con  una folla immensa di palestinesi con le bandiere verdi di Hamas.  Meshaal nel suo discorso ha anche ribadito che non vi è riconoscimento  possibile di Israele e che la resistenza continuerà fino alla  liberazione. E ha concluso sostenendo che la riconciliazione è a portata  di mano: un evidente invito all’Autorità Nazionale Palestinese e a Fatah.  Inoltre, e non accadeva dalla rottura del 2007, una delegazione di  Fatah era presente a Gaza. In definitiva, un discorso ampio e generico  volto a preservare i risultati politici ottenuti con il cessate il  fuoco. Ma non solo.
 L’Autorità Nazionale Palestinese  durante la settimana di bombardamenti a Gaza sembrava definitivamente  messa in un angolo. Ma nonostante il grande vantaggio di Hamas, anche  grazie al tacito consenso internazionale, resta il fatto che in ogni  caso l’organizzazione islamica palestinese non offre all’Occidente  quella affidabilità dimostrata dall’ANP e da Fatah fin dal 1993.
  Per questa ragione di fondo gli Stati Uniti  hanno deciso di giocare su due tavoli contemporaneamente: far accettare  il cessate al governo più oltranzista nella storia di Israele,  mantenendo tuttavia un atteggiamento che reiterava l’accettazione del “diritto alla difesa” di Israele. Su un altro piano, pur chiedendo a Mahmud Abbas di rinunciare all’iniziativa di chiedere all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di ammettere la Palestina come Stato non membro e con status di osservatore,  in realtà non hanno fatto nulla perché la richiesta dell’ANP venisse  rifiutata. A differenza di Israele, gli Stati Uniti hanno compreso che i  palestinesi con il voto dell’Assemblea Generale hanno ottenuto molto  meno che con gli accordi di Oslo nel 1993. Anzi, passata l’euforia per  le “vittorie” di Hamas e dell’ANP è probabile che la realtà si  presenti pesantemente gravida di pericoli. Primo fra tutti quello che  Israele imponga un accordo che registri di fatto la parcellizzazione  della Cisgiordania creata con la costruzione del Muro di separazione  unilaterale, iniziata da Israele nel 2002. Evidentemente, il voto favorevole dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre   ha dato un sostegno fondamentale all’ANP di Abu Mazen, aiutandolo ad  uscire dall’angolo in cui era finita. Ma tutti sanno che il consenso  popolare seguito all’esito della votazione è legato da un fragile filo.  Per questa ragione sia gli Stati Uniti che l’Europa hanno reagito in  modo negativo all’annuncio israeliano della costruzione di 3000 nuove abitazioni nei pressi della colonia di Maale Adunim  alle porte di Gerusalemme. In definitiva, il cessate il fuoco del 21  novembre raggiunto con Hamas e il voto favorevole dell’Assemblea  Generale sono due facce di una stessa medaglia. È evidente che Hamas e  l’ANP, se vogliono conservare il consenso, dovranno raggiungere un  accordo di riconciliazione, tutt’altro che scontato, e questo dovrà  significare per il popolo palestinese, in tutte le sue componenti, un  miglioramento effettivo delle condizioni di vita.
 Ovviamente, è comprensibile il sollievo  e perfino la gioia sia dei palestinesi della Striscia di Gaza sia della  popolazione della Cisgiordania. Le stesse scene di giubilo collettivo  si videro nel 1993 all’indomani della firma degli accordi di Oslo e  tuttavia furono sufficienti pochi anni perché l’illusione fosse  dolorosamente svelata. Certo, il clima politico regionale ed  internazionale di oggi è profondamente diverso da quello degli anni  novanta del secolo scorso e ciò che emerge fino a questo momento è che  saranno determinanti sia le scelte delle due direzioni politiche  palestinesi, sia la disposizione dell’Occidente a farsi valere nei  confronti di Israele. In questo senso le speranze dell’Occidente di “chiudere”  il dossier palestinese-israeliano con artifici diplomatici privi di  sostanza politica potrebbe rivelarsi, ancora una volta, un boomerang i  cui effetti sarebbero per l’ennesima volta dolorosamente pagati dal  popolo palestinese.
 
 Dicembre 2012
 
 
	
	

 PREMIO STEFANO CHIARINI 2013 Anteprima intervista a Ascanio Celestini
 di Mirca Garuti e Novara Flavio
 
  A pochi giorni dalla consegna del premio Stefano Chiarini abbiamo raggiunto telefonicamente Ascanio Celestini vincitore dell’edizione 2013 per porgli alcune domande non solo riguardo al premio che gli verrà consegnato il 2 febbraio a Modena, ma anche in merito alla questione palestinese.
 Dall’esperienza negativa vissuta anni addietro in Israele, definito “…una  sorta di laboratorio. Nel senso che se funziona li, questa cultura del  confine e dei tanti confini interni, può funzionare da qualche altra  parte. E questo fa veramente paura.”, all’appoggio alla nave  Estelle della freedom flotilla 3 che aveva come obiettivo rompere  l’assedio di Gaza e portare aiuti umanitari al popolo di Palestina. Un  azione da lui stesso definita “un modo concreto per spezzare il vincolo che ci vede attivi solo come crocerossine che fanno l’elemosina”.
   Ascolta l'intervista    La giuria ha deciso di assegnare il Premio  all'attore Ascanio Celestini (che consiste nel pagamento per un anno  dell’adozione di un bambino palestinese rifugiato in Libano) per  sottolineare il suo impegno attraverso il teatro e interventi televisivi  a rompere il muro ipocrita del “politicamente corretto” che colpisce  gli strati più deboli delle popolazioni e che da sempre rappresenta uno  dei principali strumenti dell’informazione nell’opera di manipolazione  sulla questione palestinese.
 
 
	
	
Il Comitato Per non dimenticare Sabra e Chatila, Alkemia,Circolo de Il Manifesto
 presentano:
  QUALE FUTURO SULLA PALESTINA 
 Incontro con FAUSTO GIANELLI - Giuristi Democratici e MICHELE GIORGIO - Autore del libro NEL BARATRO  (I Palestinesi, l’occupazione israeliana, il Muro, il sequestro Arrigoni)
 “Tre palestinesi sono stati uccisi oggi nei Territori occupati…”. Per questa notizia non c’è bisogno di andare a vedere che giorno è. È ininterrottamente lo stesso giorno, quasi un intercalare temporale nell’arco di più di mezzo secolo in Medio Oriente. Che quotidianamente ripropone, scriveva Eduard Said «la tragedia di essere vittima delle vittime». Dalla prefazione di Tommaso Di Francesco   
   
 Michele Giorgio*: "Israele  ha raccolto per tre anni informazioni su Gaza attraverso i suoi servizi  segreti e per questo che ritengo che l'attuale offensiva solo inizio  poteva essere stata colpendo obiettivi mirati, ma non in seguito. Gli  ulteriori bombardamenti sono stati volutamente mirati a colpire le  abitazioni. Per non parlare dell'attacco portato anche dalla marina  militare".
 1° PARTE
    
    Fausto Gianelli: "Non  è vero che il riconoscimento dell'ONU della Palestina come stato  osservatore ne riconosce l'autorità. Anche perchè la Palestina era già  uno stato. Esisteva e quindi questa è un accettazione, un riconoscimento  già dato. Bisogna però vedere se questo può nei fatti cambiare le cose  in seno alla Corte Internazionale. Anche perchè già in precedenza non  aveva risposto alle richieste di giustizia dei palestinesi. Grave è che si continui a sottovalutare la  questione degli omicidi mirati. Soprattutto perchè non si prende il  considerazione che non è solo una questione di Giustizia ma di  Democrazia. Un capo di stato può decide di uccidere senza un regolare  processo e preventivamente che possa commettere un reato. Una grave  prassi, per il Diritto Internazionale, che pare stia diffondendosi. Mi  risulta, infatti, che anche il presidente Obama ogni settimana si trovi  in una riunione con la CIA a valutare e decidere tra i nomi riportati su  una lista".
 2° PARTE    
 * Michele Giorgio è  originario di  Caserta, dove è nato nel 1961. Giornalista  professionista, vive a  Gerusalemme ed è corrispondente dal Medio  Oriente del quotidiano Il Manifesto; collabora inoltre con altre testate giornalistiche. Da due anni amministra il sito d’informazione Near East News Agency (Nena news) 
 
	
	
 
                      GAZA: TREGUA DALLE ORE 20,00 DEL 21/11/2012 
 
  I dettagli dell'accordo tra Israele e Hamas: 
- Israele fermerà l'operazione militare  contro Gaza e tutti gli attacchi da terra, mare e cielo comprese le  incursioni ai confini e omicidi mirati; - Le fazioni palestinesi fermeranno le aggressioni da Gaza, inclusi lancio di razzi e attacchi ai confini; - Tutti i valichi saranno aperti da 24  ore dopo il cessate il fuoco, riducendo le limitazioni nel passaggio di  beni e persone da e per Gaza: - L'Egitto sarà garante del rispetto dei termini del cessate il fuoco. (traduzione di Nena NewsAgency) 
 OPERAZIONE “PILLAR OF CLOUDS”(COLONNA DI NUVOLE)
 GAZA SOTTO ASSEDIO
 di Mirca Garuti Sta succedendo di nuovo! Gaza è di nuovo sotto assedio. L’incubo di “Piombo Fuso” è alle porte. Sembra impossibile, ma è tutto vero. Come  al solito, i titoli dei giornali e le televisioni riportano il dolore,  la paura, lo sdegno della popolazione israeliana colpita dai razzi  lanciati dalla Striscia di Gaza. Arriva solo la notizia dell’uccisione  di tre civili israeliani, due giovani donne ed un uomo,  a Kyriat  Malachi, 25 chilometri a nord di Gaza. Il missile che ha centrato la  casa è stato lanciato dopo che un missile israeliano, con una perfetta  operazione mirata, aveva ucciso il capo militare di Hamas Ahmed Al-Jabari,  mentre guidava la sua automobile in una strada di Gaza.
 
 Sul quotidiano “Libero” di oggi, 16 novembre, è apparso un articolo di Maria Giovanna Maglie con il titolo “Israele è sotto attacco: fa benissimo a sparare”,  nel quale afferma che Israele ha risposto  “dopo che per settimane e  settimane i missili di Gaza sono caduti sui suoi cittadini a centinaia”.  Continua così: “Immaginatevi di abitare al confine con la Svizzera, a  Como, e che da oltre confine vi bombardino ogni giorno. Non reagite,  continuate a subire, non proteggete gli abitanti?... Israele è un  piccolo Stato e un grande Paese, vive circondato e assediato, è il  nostro avamposto occidentale in terra ostile, ha un esercito e una  intelligence adeguati alla bisogna e al rischio che corre…”
 
 Strano modo di commentare i fatti,  ad essere assediati e costretti a vivere in una prigione a cielo  aperto, sono i palestinesi, non gli israeliani! E’ il popolo palestinese  che si trova sotto occupazione e che ha il Diritto di difendersi e di  ribellarsi all’occupante israeliano.
 
 I Gazawi non possiedono le stesse armi  degli israeliani, hanno solo i razzi e le pietre. Non possiedono i  bunker per proteggersi, mentre la popolazione israeliana ha un rifugio  in ogni casa. Eppure è Israele che si deve proteggere e tutti lo gridano  e chiedono la fine delle incursioni da Gaza verso Israele e non il  contrario. Il Ministro italiano degli Esteri Giulio Terzi  si dice molto preoccupato per “questo contesto di forte tensione”  generato dal lancio di “missili qassam con seri rischi per la  popolazione”, quella israeliana,  s’intende! La diplomazia italiana si  affida al ruolo moderatore dell’Egitto. La reazione di Terzi è la prima  reazione ufficiale del governo italiano, dopotutto la “sicurezza di  Israele” è una delle priorità dell’agenda Monti.
 
 Israele non ha risposto solo ora al lancio  dei missili da Gaza, ma lo fa di continuo, anche senza scusanti. Non ne  ha bisogno perché il mondo occidentale lo assolve sempre.
 Se prendiamo le varie notizie, a partire  per esempio dal mese di giugno 2012, relative ai movimenti israeliani  verso la Striscia di Gaza, possiamo ben comprendere la terribile  situazione in cui vive Gaza, un milione e mezzo di persone assoggettate  ad un selvaggio terrore continuo. Gli accordi di Oslo nel 1993  hanno decretato Gaza e la Cisgiordania due singole entità territoriali  e, da allora, Israele e gli Stati Uniti hanno iniziato il loro programma  per separarli completamente.
 
 I Gazawi sono stati oggetto di una punizione crudele. Israele e gli Stati Uniti hanno deciso di punirli, come sostiene Noam Chomsky,  in un suo documento redatto dopo aver visitato Gaza dal 25 al 30  ottobre scorso, per aver votato “nel modo sbagliato” per Hamas nel 2006  alle prime elezioni del mondo arabo. Puniti per aver fermato, un anno  dopo, il colpo di stato preparato dagli Stati Uniti per instaurare  l’ordine e la sicurezza d’Israele. Questo però ha portato  all’intensificazione degli attacchi militari israeliani, raggiungendo  l’apice a fine dicembre 2008 e gennaio 2009, con l’operazione “Piombo Fuso”.  Da allora si continua  con la chiusura dei confini, un estenuante  embargo e bloccando tutti i tentativi da parte di molti attivisti  internazionali di arrivare a Gaza per tentare di rompere questo lungo ed  illegale assedio. (vedi Alkemia alla Gaza Freedom March).
 La cronaca di guerra “omessa” a Gaza di questi ultimi mesi:03- 04 giugno 2012  –  l’aviazione israeliana ha colpito diverse aeree nella Striscia: una casa  abitata nel campo profughi di Nuseirat (7 persone ferite fra cui 4  bambini), tre aree disabitate, una fattoria a Khan Younis e a Beit  Lahia, una fattoria che produce formaggi nell’area di Zaitoun.
 Gli  israeliani hanno comunicato di aver  colpito obiettivi militari. Molti media internazionali hanno riportato  questa dichiarazione. La verità è un’altra. La verità è fatta di case  civili ridotte in macerie, di soffitti crollati di notte, di famiglie  ridotte in povertà, di bambini spaventati e feriti.
 
 23 giugno 2012  – sesto  giorno di attacchi israeliani su Gaza, sale a 16 il numero dei morti,  fra cui un bimbo Ali Moutaz Al Shawaf  di 5 anni e mezzo, e più di 60  sono i feriti.
 
 27-28 agosto 2012  –  attacco israeliano su Gaza: l’aviazione ha bombardato diversi siti di  Hamas e della resistenza palestinese ed inoltre carri armati hanno fatto  irruzione nel campo di Al Burej. Israele ha dichiarato di aver colpito  questi siti in risposta ad alcuni missili lanciati qualche giorno prima  da Gaza verso il sud di Israele. Questi missili non provocano danni e,  in questo caso, sono stati lanciati da gruppi di salafiti . Il  bollettino degli attacchi: 7 feriti.
 
 19-20 settembre 2012  - l’aviazione israeliana ha attaccato il sud di Gaza, nella zona ad est  di Rafah: due cittadini sono morti ed un terzo è clinicamente morto. Le  vittime sono l’ufficiale Ashraf Saleh Abu Marana, 33 anni e  l’assistente Anis Abu Enein, 36 anni , entrambi lavoravano per il  Ministero degli Interni e della Sicurezza al confine di Rafah. Il terzo  Nedal Nasrallah è ricoverato all’ospedale. Successivamente all’attacco, i  droni hanno continuato a sorvolare durante la notte su tutta la  Striscia di Gaza.
 
 30 settembre 2012 – la  resistenza palestinese risponde alle aggressioni. Le Brigate del martire  Abu Ali Mustafa hanno dichiarato di aver attaccato una torre militare  israeliana sul confine a nord-est di Beit Lahia con un ordigno  esplosivo.
  Le brigate rivendicano il diritto alla resistenza contro l’occupazione. La  resistenza ha colpito una delle torri da cui gli israeliani hanno fatto  irruzione in territorio palestinese due giorni prima, sparando sui  pescatori ed uccidendo il giovane pescatore Fahmy Abu Ryash di 23 anni  con proiettili “ad espansione” o “dum dum” (proiettile che, in una  convenzione internazionale, ritenendolo troppo barbaro, ne era stato  limitato il suo uso nelle guerre, ad eccezione dell’impiego verso le  bestie e nei movimenti coloniali) 07-08 ottobre 2012 – raid  aereo israeliano sul campo profughi “Brazil” a sud di Gaza: 1 morto e 9  persone ferite, di cui 5 bambini, una madre Sabrin Hussein Al Magossi  di 23 anni con una figlia di un mese e un figlio di 2 anni e mezzo.
 Sono state anche colpite due moschee. Il  07 ottobre,  4 pescatori sono stati arrestati dalla marina militare  israeliana mentre si trovavano a circa 2,5 miglia dalle coste di Beit  Lahia a nord di Gaza.
 I pescatori sono stati rilasciati ma non hanno riavuto la barca.
 Israele ha imposto un limite illegale di 3  miglia entro cui i pescatori di Gaza possono pescare. Gli accordi  israelo-palestinesi di Jericho del 1994 concedevano loro 20 miglia  nautiche dalla costa. La stessa Marina Militare non rispetta questo  limite che Israele ha imposto illegalmente, arrivando anche a poche  centinaia di metri dalla costa, impedendo del tutto ai pescatori di  pescare.
 
 12-13 ottobre 2012 –  raids aerei israeliani: sono stati colpiti spazi disabitati nei campi  profughi di Al Bureij e Nuseirat e un sito della resistenza a nord di  Gaza city. E’ stato danneggiato l’asilo di Um Al-Nasser. Un’esplosione  ha ucciso due uomini in motocicletta in Massoud Street in Jabalia, a  nord di Gaza. Il primo uomo è morto sul colpo, Ashraf Sabbaa, arrivato  senza testa all’ospedale. Il secondo Hesham Ali Su’eidani è morto  successivamente all’ospedale.
 
 22 ottobre 2012 – raid aerei a nord della Striscia: 2 morti della resistenza palestinese e 4  feriti.
 
 08-11 novembre 2012 –  nuova offensiva militare israeliana: l’esercito ha bombardato con colpi  di artiglieria pesante molti punti della Striscia: 7 persone uccise, tra  cui 3 bambini, ed almeno 50 feriti, tra cui donne e una decina di  ragazzi e bambini. Giovedì 8 novembre,  un proiettile ha colpito all’addome, uccidendolo un bambino di 13 anni,  Ahmed Younis Abu Daqqa. E’ stato ucciso da colpi sparati da mezzi  corazzati israeliani durante un’incursione nel villaggio di Abassan, a  sud della Striscia. Ahmed stava giocando con i suoi amici a pallone  vicino alla sua abitazione. Ahmed era tifoso del Real Madrid ed ora la  maglietta dei Galacticos madrileni sporca di sangue giace sul suo  lettino vuoto. Sabato 10 novembre  l’esercito ha sparato colpendo alcuni bambini palestinesi che giocavano  a pallone in Shijaia, quartiere est di Gaza city. Due ragazzi sono  stati uccisi: Mohammed Ussama Hassan Harara di 16 e Ahmed Mustafa Khaled  Harara di 17 anni. L’esercito ha poi sparato altri colpi, uccidendo  altre due persone: Ahmed Kamel Ad-Dirdissawi  di 18 e Matar Emad Abdul  Rahman di 19 anni.
 
 Domenica 11 novembre,  aerei israeliani hanno colpito ed ucciso due membri della resistenza  palestinese, Mohammed Obaid, 20 anni, il cui corpo è arrivato in pezzi  all’ospedale e Mohammed Said Shkoukani, 18 anni.  Lo Shifa hospital ha  ricevuto in tutto circa 40 feriti.
 E’ stata una giornata di scontri, una  delle più cruenti degli ultimi mesi al confine tra Gaza e Israele.  Israele afferma di aver centrato obiettivi di Hamas e di aver reagito al  lancio di un razzo contro una jeep militare.
 L’aumento delle violenze giunge vicino  alla preparazione delle elezioni israeliane del 22 gennaio prossimo. Il  premier Netanyahu, alla riunione domenicale del Consiglio dei ministri,  ha dichiarato: “Il mondo deve capire che Israele non starà senza far  nulla mentre cercano di attaccarci. Siamo preparati ad ampliare la  nostra risposta”.
 
 14 novembre 2012 –  “Operazione Pillar of Clouds” : missili al centro della città, è stato  ucciso Ahmed Jaabari, comandante militare di Hamas. Un inferno di  esplosioni, di urla, di terrore.
 I dati dello Shifa hospital: 50 feriti, la  maggior parte donne, bambini e persone anziane, 5 persone morte, tra  cui un bambino di 11 mesi, una bambina di 7 anni ed una ragazza di 19.
 Gli attacchi aerei continuano minuto dopo  minuto. Israele andrà avanti fino a quando Hamas non capirà. Il numero  dei morti palestinesi è salito a 46 e siamo al quarto giorno di  bombardamenti sulla Striscia di Gaza.
 
 Una parte della società civile europea ed  internazionale si sta muovendo con manifestazioni e dichiarazioni per  cercare di fermare questo ulteriore atto criminale nei confronti del  popolo palestinese, con la speranza di riuscire a togliere quella benda  sugli occhi che rende molti occidentali ciechi di fronte alla verità.
 
 (Fonte: blog di Oliva di Rosa Schiano, corrispondente da Gaza)
 Sotto le bombe: La voce di Rosa Schiano  (da:youmedia.fanpage.it)   Intervista a Michele Giorgio a Radio 24  
 Per approfondimenti:
 “Diretta da Gaza” da Nena news Blog di Oliva Ennesima aggressione a Gaza di Cinzia Nachira  
 Dichiarazione di Gilad Sharon  Manifestazione a Modena con foto – VIDEO - volantino Comunicato Mezzaluna Rossa Palestinese 
 Documento di Noam Chomscky
  Mail della volontaria Adriana presente a Gaza Cloud Pillar su Gaza? di Pax Christi Italia  Con i Palestinesi, contro l'indifferenza e le complicità di M. Musolino  Bombardamenti su Gaza  di Alessandro Fontanesi   Report e Video dei cooperanti italiani a Gaza   Testimonianza di un parrocco italiano    
   
	
	
Leggi la 1° parte  VIAGGIO TRA I PROFUGHI PALESTINESI
 CHATILA 2012
 di Mirca Garuti
(2° parte)
 Con il sorriso dei bambini nel cuore e la tristezza negli occhi lascio, con molto dispiacere, il campo di Chatila. Chatila è  un campo speciale. Le condizioni di vita qui sono molto difficili, qui  ci sono le donne che ci aspettano, che sperano in una giustizia, che  ricordano mariti, figli, fratelli, che vivono per ritornare a casa, e  noi? Cosa possiamo offrire? Quale speranza? Possiamo solo rompere quel  muro di silenzio che avvolge ormai un mondo sordo ed indifferente troppo  occupato solo di se stesso, raccontando la verità.
 Lasciamo Chatila per incontrare il direttore del quotidiano libanese As Safir, Talal Salman ed il direttore aggiunto di “Le Monde Diplomatique”, Alain Gresh.
 
 
  L’appuntamento con Talal Salman  è sempre stato il punto fermo di ogni nostro viaggio. Salman è  importante per noi, come noi lo siamo per lui. Le sue parole ci  trasmettono l’energia e la forza necessaria per poter continuare la  lotta per i diritti del popolo palestinese. Ogni anno, attraverso il suo  resoconto, possiamo sia conoscere la situazione attuale del Libano e  sia avere una visione globale della realtà della regione medio  orientale. Si scusa, e questo purtroppo succede spesso negli ultimi  anni, per non avere buone notizie. Salman ricorda i trenta anni della  strage di Sabra e Chatila attraverso il lavoro minuzioso svolto dalla  professoressa Bayn Nuwayhed raccolto nella pubblicazione di “Sabra e Chatila: settembre 1982”. Salman continua la sua esposizione parlando della preoccupante situazione in Libano.
 “L’occidente – dice - ha  chiamato le rivolte nei paesi del medio oriente “Primavere arabe”. Un  termine non troppo preciso, ci sono stati troppi e grandi errori. La  rivoluzione nello Yemen e in Siria non è compiuta.” E’ preoccupato per le nuove forze politiche che stanno avanzando, come i Fratelli Musulmani ed i salafiti e dichiara che “ è chiaro che c’è una relazione tra l’islam politico e l’amministrazione americana”.  Il Libano sta vivendo un anno d’insicurezza, il clima politico è  ritornato sul conflitto degli anni passati perché l’estremismo islamico  ha provocato l’estremismo cristiano. Salman non tralascia di parlarci  della visita del Papa Benedetto XVI e del dispiacere che, i  palestinesi e quella parte di libanesi che lottano al loro fianco hanno  provato per l’assoluta mancanza, nei suoi discorsi e messaggi, di un  qualsiasi riferimento verso la tragedia del popolo palestinese ed il  massacro di Sabra e Chatila. Continua parlandoci delle elezioni del  prossimo anno, temendo che si possa aprire una campagna elettorale  razzista nei confronti dei “nostri fratelli palestinesi”. Conclude parlando del momento molto tragico che sta vivendo la Siria: “Nessuno  sa come finirà. La Siria era il punto forte per la stabilità della  regione. Il destino della Siria si ripercuoterà su di noi. Qualcun altro  deciderà per noi. Tutti i paesi che vivono sul mediterraneo sono  soggetti a dei cambiamenti, ma il non sapere quale sarà il nostro  futuro, ci blocca, ci spaventa”. La paura per le sorti della  Palestina è maggiore rispetto a quella degli anni passati per la  divisione del popolo palestinese e per la situazione del mondo arabo. I  palestinesi sono sempre più soli a combattere la loro lotta.
 Infine, ci ringrazia ancora una volta per la nostra continua presenza, definendoci come “la sveglia del mattino”.
 
  Alain Gresh,  cittadino francese, ma di famiglia copta (la madre d’origini ebraiche  russe ed il padre egiziano) si trasferisce con la famiglia a Parigi nel  1962. In Francia ha partecipato alle lotte del ’68 e nel ’72 diventa  membro permanente dell’Unione Studenti Comunisti francesi. Il suo  interesse si concentra verso la questione palestinese e prepara la sua  tesi di laurea sull’Organizzazione per la Liberazione della Palestina  (OLP). Lascia gradualmente il partito comunista, la prima fase a causa  dell’invasione russa dell’Afghanistan nel ’79, poi nel ’83 e, in modo  definitivo nel ’86. Attualmente è il direttore aggiunto di “Le Monde Diplomatique”. Alain Gresh parlerà, in quest’occasione, d’Israele per capire chi è e quale è la sua posizione nelle questioni internazionali. Gresh  rifiuta le etichette che normalmente tendono ad identificare una  posizione politica di fronte a varie problematiche, come per esempio se è  pro o contro Palestina o Israele. Gresh specifica che lui è per la  legalità internazionale. Il massacro di Sabra e Chatila è uno dei tanti  massacri compiuti dalle forze sioniste, come Cana, Piombo Fuso e le  varie invasioni del Libano, ma l'estrema violenza di quel massacro ha  scatenato, subito dopo, grandi manifestazioni all'interno dello stesso  stato d'Israele e un dibattito molto forte, ma poi sia l'opinione  pubblica israeliana e sia quell’occidentale hanno dimenticato in fretta  quanto accaduto. L'intento di Gresh in questa discussione è quello di  dimostrare il motivo per il quale gli stati occidentali, via via negli  anni, hanno sempre assolto lo stato d'Israele. La sua prima affermazione  è che Israele è uno stato democratico. A questo punto si avvertono  chiaramente vari mormorii di disapprovazione nella sala ma Gresh  continua affermando che, la reazione da parte d'Israele nel lasciare  fare le manifestazioni di protesta e di accettare l'inchiesta sulla  strage, è una dimostrazione di quella democrazia sostenuta, sempre in  ogni occasione, da Israele stesso.
 La Francia, per esempio, ha condotto in  Algeria una guerra durata sette anni, ma è una democrazia con delle  regole, delle legislazioni e con dei dibattiti al suo interno. Il suo  stato democratico però non può cancellare i crimini commessi durante  quella guerra. E' così questo vale anche per lo Stato d'Israele.
 Gresh continua il suo discorso  sottolineando un periodo storico molto importante. Dopo la seconda  guerra mondiale con la sconfitta del nazismo, c'è stato un cambiamento  da parte della legislazione internazionale che ha influito sui paesi  occidentali e le loro relazioni rispetto ad Israele e alla questione  palestinese. In questo periodo si fecero leggi di guerra,  come quelle del 1949 e 1977 che non entravano nel merito se una guerra  era giusta oppure no, ma stabilivano criteri con i quali si dovevano  fare le guerre, rispettando la popolazione civile. Le parti in conflitto  dovevano quindi differenziare gli obiettivi civili da quelli militari  ed i civili dai combattenti. Negli anni 2000 è stata istituita la Corte Penale internazionale  per crimini di guerra e contro l'umanità, ma la sua creazione ha subito  delle limitazioni perchè Stati come la Russia, Cina e USA non hanno  aderito. L'altro cambiamento che si può definire “epocale” è quello dovuto all'attentato del 11 settembre 2001  alle torri gemelle del World Trade Center di New York. Da questa data è  iniziata la guerra al terrorismo. Questa nuova guerra non poteva più  sottostare alle vecchie leggi di guerra, a quelle limitazioni imposte,  perché se si fosse continuato a dover distinguere gli obiettivi civili  da quelli militari, si sarebbe persa la guerra al terrorismo. A questo  punto non esistevano più limiti!
 Prima del 2001, la guerra al terrorismo era difesa dal Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che la definiva la guerra del ventesimo secolo che doveva avere regole speciali d’ingaggio. Dopo il 2001, il governo Bush  teorizza questo cambiamento. Gresh illustra poi il nuovo pensiero di  alcuni pensatori liberali appartenenti al neoconservatorismo americano,  per i quali le leggi belliche e le regole della moralità umana devono  adattarsi a questa nuova realtà (guerra al terrorismo senza regole) e si  chiedono se il futuro della società civilizzata non sia troppo  condizionata da troppa libertà civile. Queste argomentazioni tendono  quindi a giustificare il comportamento aggressivo d’Israele e di altri  paesi. In questi atteggiamenti c’è un’involuzione dell’essere umano, è  stato fatto un passo indietro rispetto alle leggi di guerra degli anni  ’40, è il ritorno alla visione coloniale del mondo. Gresh descrive com’è  stato possibile questo brutale regressivo comportamento da parte della  politica e del potere. Alla fine del 19esimo secolo, il governo inglese  ha ideato un proiettile chiamato “Dum Dum” molto invasivo al contatto di un corpo. In una convenzione internazionale  “i bianchi” decidono di limitare nelle guerre l’uso di questo  proiettile ritenuto troppo barbaro, ad eccezione di due casi  particolari: le bestie ed i movimenti coloniali. E’ importante  dunque osservare questo cambiamento di valori perché rappresenta una  nuova prospettiva accettata dagli stati in particolare da quelli  occidentali: il proprio nemico non è più considerato un essere umano. In  questa logica ci si può assolvere per qualsiasi azione s’intraprenda,  anche illegittima. I valori cambiano secondo i vari punti di vista e di  chi sei. Si sta diffondendo nel mondo occidentale la visione che si sta  combattendo una guerra contro dei terroristi estremisti islamici che non  condividono i nostri valori, quindi il nostro modo di operare è  completamente giustificato.  E’ un ritorno all’idea del colonialismo.  Israele sta  facendo pressione agli altri stati europei affinché si capisca questa  necessità di cambiamento per poter giustificare al mondo occidentale la  sua guerra. Gresh cita a questo punto il Rapporto Goldstone.  Si tratta di un buon rapporto, anche se gli USA hanno sempre messo il  veto. L’intenzione d’Israele era quella di fare pressione su Goldstone  stesso, fino ad arrivare al punto di fargli ammettere di aver svolto il  lavoro in modo superficiale e non bene. Secondo Gresh, se queste nuove  interpretazioni venissero accettate e diffuse dalla comunità  internazionale, sarebbe una catastrofe.  Conclude dicendo che occorre  dimostrare che non servono leggi forti per arrivare alla soluzione dei  problemi, ma bisogna ritornare alle leggi internazionali di guerra, al rispetto dell’essere umano e alla convivenza pacifica.  Risponde alle due domande del pubblico che riguardano la responsabilità  del governo libanese, quell’internazionale ed individuale diretta ed  indiretta, in merito sia al massacro di Sabra e Chatila e sia alle altre  guerre israeliane in territorio libanese e palestinese.
 

   Conferenza al sindacato dei giornalisti   
 
  
   Il Presidente della stampa  rivolge al Comitato i suoi saluti e ringraziamenti. Dopo aver ricordato  il massacro di Sabra e Chatila che non potrà mai essere dimenticato,  lancia un appello, in nome della stampa libanese, a tutti palestinesi  affinché trovino un’unità. L’unità del popolo palestinese è molto  importante per combattere la grave fase di difficoltà in cui si trovano  oggi tutti i palestinesi.             Terminata la presentazione, prende la parola Stefania Limiti del “Comitato Per non Dimenticare Sabra e Chatila”.  Per prima cosa Stefania accoglie subito l’appello lanciato dal  Presidente della stampa.  Fa presente che, il momento del ricordo del  massacro rappresenta uno dei rari momenti d’unità dei palestinesi,  mentre l’unità del popolo palestinese dovrebbe essere la forza che li  sostiene. Non è solo importante per loro stessi, ma è anche necessaria a  chi esprime solidarietà a questo popolo. Stefania spiega i motivi per i  quali il Comitato, ogni anno, torna in Libano nei campi profughi. Il  Comitato non vuole che il massacro sia dimenticato perché rappresenta il  simbolo della sofferenza e non può nemmeno accettare che le persone che  hanno voluto ed eseguito questo crimine non siano ancora state  giudicate. Persone che ancora oggi usano gli stessi mezzi e che  ritengono il popolo palestinese qualcosa da cacciare ai margini del  mondo, in nome di un’ideologia sionista. Il Comitato non può e non  vuole accettare questa forma di razzismo che è contro la civile  convivenza, legalità, giustizia internazionale e democrazia. Stefania, infine, in nome del Comitato  chiede alle forze politiche che considerano amici i palestinesi, un  impegno maggiore perché insieme all’inalienabile diritto al ritorno dei  profughi palestinesi, reclamino per loro il diritto ad avere condizioni  migliori di vita all’interno della società libanese.
 La Conferenza al sindacato dei giornalisti  termina con i ringraziamenti di Talal Salman che si dice dispiaciuto  nell’affermare che i politici libanesi sono più impegnati in altre  questioni, come per esempio la divergenza fra le varie confessioni  religiose, l’arricchirsi o l’aumentarsi il proprio stipendio, piuttosto  che occuparsi della questione palestinese. L’assenza di questi politici  alla commemorazione della strage di Sabra e Chatila ha però il beneficio  di rendere il clima più “pulito”.
 
 
 
  
     Testimonianza di Ellen Siegel, infermiera ebrea americana, testimone del massacro.            Saluto, ancora una volta, i familiari delle vittime di Sabra e Chatila, specialmente Kemal Maruf.  E’ un uomo molto dolce, sempre presente ai nostri incontri con la foto di suo figlio Jamal,  scomparso nei giorni del massacro di Sabra e Chatila. Kemal l’ha visto,  per l’ultima volta, su un carro dei falangisti, ma poi ha perso le  tracce del figlio e non ha mai saputo la sua fine. Da quel giorno, Kemal  a Chatila è conosciuto con il nome di Abu Jamal.  Lo vorrei abbracciare, rincuorare, ma la sua semplicità e riservatezza,  mi bloccano. Riesco solo a sorridere e ad accarezzare il viso di suo  figlio Jamal. Scappo via, giù per le scale per raggiungere il gruppo e,  il nostro viaggio, continua.
 Ora ci troviamo al quartier generale di Hezbollah e, per la prima volta, sono presenti anche tutti i partiti politici palestinesi e libanesi.
 
 
 
 Un rappresentante del partito di Hezbollah ci dà il benvenuto: “Benvenuti  insieme a Hezbollah e alla resistenza. Hezbollah che ha scelto di  resistere, di proteggere questo paese, di respingere quello che ha fatto  il nemico sionista, di dare un significato sacro a questa resistenza e  di come resistere contro le ingiustizie.”          ll Presidente del Consiglio esecutivo, Sheick Nabil Kaouk  prende la parola subito dopo. Ricorda i 30 anni del massacro di Sabra e  Chatila, lo definisce il più grande e grave massacro avvenuto con la  piena responsabilità americana che ha poi permesso agli israeliani e ad  una parte di libanesi di metterlo in atto. Nessuno ha ancora pagato. Lo  scandalo maggiore è vedere, ancora oggi, quei criminali che, senza  nessuna vergogna, sono liberi e tranquilli. “Non ci sarà giustizia  finché la Palestina rimane occupata, non ci sarà giustizia finché  continua l’esilio del popolo palestinese”, conclude Nabil. 
        Maurizio Musolino,  membro del Comitato, ringrazia il partito Hezbollah per l’ospitalità e,  non perde l’occasione di rivolgersi ai vari partiti presenti per fare  un appello. Un appello per i vivi, per le donne e gli uomini che vivono  nei campi. Chiede ai partiti di lavorare di più per dare diritti  concreti e immediati a quei palestinesi che vivono in Libano, anche se  la responsabilità della loro situazione si chiama “sionismo” ed  occupazione israeliana delle terre arabe palestinesi. Una  responsabilità però che è anche internazionale ed europea. Musolino  ricorda inoltre che in Italia, trenta anni fa, c’era un Presidente della  Repubblica diverso da quello attuale, che veniva dalla resistenza  italiana e che condannò apertamente il massacro di Sabra e Chatila, era Sandro Pertini. Il 31 dicembre 1983 Pertini rilasciò questa dichiarazione:
 “Io sono stato nel Libano. Ho visto i  cimiteri di Sabra e Chatila. E’ una cosa che angoscia vedere questo  cimitero dove sono sepolte le vittime di quell’orrendo massacro. Il  responsabile dell’orrendo massacro è ancora al governo in Israele. E  quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto. E’ un responsabile cui  dovrebbe essere dato il bando dalla società.”
 Musolino ripete, ancora una volta, le parole del Sindaco di Ghobeiry.  Parole di preoccupazione e di denuncia per lo stato indegno ed in  vivibile in cui si trovano i campi profughi, che richiedono una risposta  immediata da parte delle autorità libanesi.
 Il giornalista de “Il Manifesto”, Michele Giorgio  chiede a Nabil Kaouk se si aspetta una provocazione da parte d’Israele  in Libano per avere così il pretesto per attaccare l’Iran e cosa farà  Hezbollah nel caso in cui Israele dovesse attaccare l’Iran.
 Nabil risponde che Hezbollah non ha paura  delle minacce d’Israele e che la loro resistenza continua ed è forte. Un  attacco verso l’Iran è una possibilità ancora molto lontana perché se  questo avvenisse ne sarebbe coinvolta tutta le regione medio orientale  e, Israele non avrebbe la forza per sostenere tutto questo.
   Mentre scrivo del viaggio nei campi profughi in Libano, a Gaza, riprendono le incursioni selvagge da parte d’Israele. Occorre ricordare che Gaza dal 2006, anno in cui Hamas  vinse le elezioni per il Consiglio legislativo palestinese, è  sottoposta ad un assedio brutale ed a ripetuti e frequenti attacchi  militari da parte del governo israeliano. Gaza è una prigione a cielo  aperto, sottoposta ad embargo, non entra o esce niente e nessuno senza  l’autorizzazione israeliana, i pescatori sono spesso oggetto  d’incursione anche all’interno del limite illegale imposto da Israele,  spesso è loro sequestrata la barca, impedendogli così di pescare e, di  conseguenza, di provvedere alla propria famiglia. Ai Gazawi gli viene  sottratta l’acqua e la luce. Israele, invece, riesce sempre a trovare un  pretesto credibile per intensificare la guerra contro i palestinesi,  com’è successo per esempio a dicembre 2008 con l’Operazione “Piombo Fuso”.  E oggi è capitato ancora! Ma quando finirà tutto questo? Finirà forse  quando tutti i palestinesi con la forza o non saranno buttati, come una  scomoda e pesante zavorra, fuori dalla loro terra per sempre? Israele  continua a dir, fino alla nausea, che fa tutto questo perché è  costretta, costretta per ragioni di sicurezza, per difendere i suoi  cittadini dai terroristi palestinesi che desiderano solo cancellarla  dalle cartine geografiche del mondo. 
 Sono più di 60anni che il popolo palestinese vive sotto occupazione!
 Vorrei solo ricordare alcune frasi o affermazioni di diversi esponenti del governo israeliano, rilasciate nel corso degli anni:
 David Ben Gurion (Primo ministro d’Israele 1949-1954, 1955-1963) “Dobbiamo  usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca delle  terre e l’eliminazione di ogni servizio sociale per liberare la Galilea  dalla sua popolazione araba” (maggio 1948 agli ufficiali dello Stato Maggiore).
 Golda Meir (primo ministro d’Israele 1969-1974) “Non  esiste una cosa come il popolo palestinese. Non è come se noi siamo  venuti e li abbiamo cacciati e preso il loro paese. Essi non esistono” (15 giugno 1969 dichiarazione al The Sunday Times) - “Come possiamo restituire i territori occupati? Non c’è nessuno a cui restituirli.”  (8 marzo 1969) -  “A  tutti quelli che parlano in favore di riportare indietro i rifugiati  arabi devo anche dirgli come pensa di prendersi questa responsabilità,  se è interessato alla stato d’Israele. E’ bene che le cose vengano dette  chiaramente e liberamente: noi non lasceremo che questo accada.” (ottobre 1961 in un discorso alla Knesset)
 Benjamin Netanyahu (primo ministro d’Israele 1996-1999, dal 2009 ad oggi) “Israele  avrebbe dovuto approfittare dell’attenzione del mondo sulla repressione  delle dimostrazioni in Cina, quando l’attenzione del mondo era  focalizzata su quel paese, per portare a termine una massiccia  espulsione degli arabi dei territori.”  (24/11/1989 discorso agli studenti della Bar llan University)
 Ariel Sharon (Primo ministro d’Israele 2001-2006) “E’  dovere dei dirigenti d’Israele spiegare all’opinione pubblica,  chiaramente e coraggiosamente, un certo numero di fatti che col tempo  sono stati dimenticati.  Il primo di questi è che non c’è sionismo,  colonizzazione, o Stato Ebraico senza lo sradicamento degli arabi e  l’espropriazione delle loro terre.” (15/11/1998 dichiarazione in una riunione di militanti del partito di estrema destra Tsomet) – “Israele  può avere il diritto di mettere altri sotto processo, ma certamente  nessuno ha il diritto di mettere sotto processo il popolo ebraico e lo  Stato d’Israele.” (25/03/2001 BBC news)
 Riprendiamo il nostro viaggio, anche se in questo momento molto sofferto, la narrazione si fa difficile.
 Ci troviamo al campo di Mar Elias dove incontriamo tutte le organizzazioni della resistenza palestinese (Fronte Democratico, Fatah, Hamas, Fronte Popolare ecc.)
 Riceviamo i saluti ed i ringraziamenti per  la nostra continua presenza. Se il mondo ha dimenticato la strage di  Sabra e Chatila, il Comitato invece prosegue la sua lotta per  ricordarla.  La speranza di una giustizia è alimentata fin a quando la  questione palestinese sarà nel cuore di tante persone libere.  Promettono, inoltre, di fare il possibile per unire tutte le loro forze  per prepararsi ad affrontare il nemico comune, Israele, che continua la  sua politica d’aggressione non solo contro i palestinesi, ma anche  contro la terra e Gerusalemme. Il rappresentante di Hamas ci chiede di  essere gli ambasciatori della causa palestinese nelle nostre rispettive  città, di riportare quello che abbiamo visto: la sofferenza del popolo  palestinese, la vera immagine e non quella deformata dalla forza  politica sionista d’Israele. Rileva che non sono terroristi ma  combattenti per la loro terra rubata, occupata, per i loro diritti.
 I rappresentanti delle varie forze  politiche rispondono alle nostre domande: situazione di campi, il  rapporto con l’Egitto, il memorandum relativo a come risolvere i  problemi dei palestinesi in Libano, il rinnovamento dell’OLP, il  movimento BDS, il rapporto Israele-Libano, le elezioni palestinesi, il  passaporto palestinese, …
 Si parla spesso del diritto di avere il passaporto palestinese, ma  per questo bisogna fare una distinzione tra quei palestinesi che vivono  nei territori occupati e quelli che sono profughi nel mondo. Il  passaporto è un documento che richiede la presenza di uno stato, quindi i  palestinesi che vivono in Cisgiordania hanno tutto il diritto di  chiederlo. I profughi invece, se chiedono il passaporto palestinese,  diventano automaticamente cittadini stranieri del paese in cui vivono,  con l’obbligo di sottostare alle sue leggi. Per questi, quindi, è meglio  mantenere il “documento di viaggio” in quanto riconosce la condizione di “profugo” e quindi della protezione dell’UNRWA.
   
  
     L’incontro con i partiti politici  palestinesi in Libano termina con la loro affermazione che, in caso  d’aggressione da parte d’Israele, si schiereranno, senza alcun timore o  perplessità, con il popolo e l’esercito libanese. Sono inoltre, da  sempre, contrari a qualsiasi intervento esterno e neutrali, ma in modo  positivo, nelle questioni interne del Libano.
 
 Continua…
 
 19/11/2012
 
 
	
	
VIAGGIO TRA I PROFUGHI PALESTINESICHATILA 2012
 
 di Mirca Garuti
  Beirut, 16 settembre 2012 - Papa Benedetto XVI ha terminato il suo viaggio in Libano. Il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”  invece inizia il suo viaggio nei campi profughi palestinesi. Le strade  che dall’aeroporto portano al centro di Beirut sono piene di manifesti  che danno il benvenuto al Papa.
Lo scopo ufficiale del viaggio del Papa era quello di consegnare e firmare l’Esortazione Apostolica “Ecclesia in Medio Oriente”.  Un documento, o meglio un vademecum sulla convivenza fra le varie  religioni, che riguarda circa 15 milioni di cristiani, ma che è anche  riconosciuto dalle altre religioni. Le comunità cristiane e musulmane,  nell’attesa della stampa del documento in lingua araba, hanno stampato  l’esortazione dal sito web vaticano. “E’ una lettura fatta con avidità e fortissimo interesse” spiega il laico cattolico Wissam Lahham, membro dell’Ong cristiana “Assembly of Eastern Christians” con sede a Beirut. Lahham continua la sua esposizione: “Comunità  musulmane la stanno studiando e l’apprezzano. Cristiani di tutte le  confessioni, cattolici, ortodossi, protestanti, ne rimarcano un punto  molto importante: l’invito a ‘Non avere paura, a vivere in Medio Oriente  costruendo la pace e la convivenza. E’ una frase fondamentale che resta  impressa nelle menti dei cristiani nel contesto in cui oggi viviamo. E’  un documento che dà molta speranza ai cristiani in questa regione.” 
Mai come in questo momento, il Capo della  Chiesa Cattolica deve proteggere la presenza dei cristiani in M.O. dando  loro sicurezza e speranza cercando di fermare la continua fuga da  queste terre. Presenza importantissima, perché qui, ci sono le radici  del cristianesimo. Questo viaggio, infatti, terminava i lavori del  Sinodo e la fine di un percorso di sostegno morale e spirituale alla  presenza dei cristiani. L’arcivescovo di Cipro dei Maroniti, Monsignor Youssef Soueif, d’origini libanesi, nel concludere il dibattito attorno alla questione mediorientale, aveva affermato che “adesso  è il momento giusto per essere presenti, per dialogare, per lavorare  attraverso le istituzioni sociali, culturali e l’esercizio della  cittadinanza. Occorre fare presto perché i due terzi della comunità  cristiana sono sotto minaccia in Iraq, Siria ed altrove. Spesso sono  costretti a lasciare le proprie case in cerca di una maggior sicurezza,  per cercare lavoro, per sentirsi anche psicologicamente più protetti.” 
Sempre secondo l’arcivescovo, uno dei  frutti del Sinodo è stato che Benedetto XVI abbia scelto come motto per  il suo viaggio in Libano, ” La pace sia con voi”, ad indicare che nella regione “è necessaria la pace politica, ma soprattutto è necessaria la pace dei cuori, interiore.” 
L’esortazione post-sinodale Ecclesia in Medio Oriente non usa mai il termine “democrazia”,  ma fa riferimento ai valori di libertà, cittadinanza, rispetto della  dignità umana e dei diritti fondamentali, anche presenti nelle altre  culture e religioni. Ma allora perché nel suo viaggio in Libano, Papa  Benedetto XVI non ha mai parlato del popolo palestinese che vive sul territorio libanese come profugo senza avere nessun diritto, al quale è negata semplicemente una dignità umana? 
Durante il viaggio aereo da Roma a Beirut, il Papa ha incontrato i giornalisti del Volo Papale. Alla domanda: “Santo  Padre, in questi giorni ricorrono anniversari terribili, come quello  dell’11 settembre, o quello del massacro di Sabra e Chatila; ai confini  del Libano vi è una sanguinosa guerra civile, e vediamo anche che in  altri paesi il rischio della violenza è sempre attuale. Santo Padre con  quali sentimenti affronta questo viaggio? E’ stato tentato di  rinunciarvi a motivo dell’insicurezza o qualcuno Le ha suggerito di  rinunciarvi?”. Il Santo Padre ha risposto: “Posso dire che  nessuno mi ha mai consigliato di rinunciare a questo viaggio e, da parte  mia, non ho mai contemplato questa ipotesi, perché so che se la  situazione si fa più complicata, è più necessario offrire questo segno  di fraternità, di incoraggiamento e di solidarietà. E’ il significato  del mio viaggio: invitare al dialogo, invitare alla pace contro la  violenza, procedere insieme per trovare la soluzione dei problemi.”
Non ha volutamente accennato all’anniversario della strage di Sabra e Chatila  e del significato che questa ha ancora oggi per i quasi cinquecento  mila palestinesi costretti a vivere qui, in un paese straniero perché  “qualcuno” (Israele) ha occupato la propria terra. Non ha voluto  interferire con il suo pensiero su delle questioni ritenute  evidentemente “interne” di un paese sovrano, ha semplicemente  ringraziato per essere in Libano, un paese che può essere considerato un  modello di convivenza tra musulmani e cristiani per tutto il  Medioriente, un punto d’incontro tra le civiltà e le culture. La  pluralità del Libano, unico stato multi confessionale della regione per  statuto costituzionale, può essere una fonte di ricchezza ma purtroppo  anche la causa di divisioni e guerre. 
I cristiani rappresentano il 35% della  popolazione ed i musulmani, il 65%, divisi tra sunniti e sciiti. Il  Vaticano, alla vigilia di questo viaggio, per evitare problemi con le  varie comunità e con lo stesso paese ospitante, ha sottolineato che “il pontefice in Libano sarà solo un messaggero di pace e non un capo politico” e, che le parole che pronuncerà vanno intese, ha così riferito il suo portavoce Padre Lombardi, come riflessioni rivolte a tutte le 18 confessioni religiose. 
Il Vaticano ha anche evitato prudentemente qualsiasi giudizio sulla questione “Hezbollah”,  sollevata dal ministro britannico William Hague e l’olandese Rosenthal,  all’interno di un dibattito all’Ue, se inserire o no il braccio armato  di Hezbollah nella lista dei gruppi terroristici, per non incrinare il  clima di collaborazione riscontrato in Libano. 
L’altro difficile argomento “tabù” riguardava invece la questione palestinese. Il patriarca Melkita, Gregorio III di Laham,  incaricato di dargli il benvenuto nella sede del patriarcato, aveva  espresso la speranza di sentire una parola da parte del Papa sulla  questione dello Stato palestinese, ma il Vaticano, anche su questa  questione, aveva deciso di mantenere il silenzio. 
Padre Lombardi ha poi anticipato che i sei  discorsi che pronuncerà il Papa si concentreranno sul ruolo e la  missione di pace che spetta ai cristiani e sul bisogno d’armonia da  costruire nel rispetto di tutti. 
Morale, niente interventi politici,  nemmeno sulle vicende siriane che stanno contagiando il Libano. Come  capo politico del Vaticano si può capire il silenzio imposto di fronte a  tutte queste problematiche, ma come capo spirituale non è possibile  accettare l’indifferenza dimostrata dal Papa nei confronti dei profughi  palestinesi costretti a vivere in condizioni indegne per qualsiasi  essere chiamato “umano”. Non si può rimanere incuranti davanti alle  continue stragi subite e che subiscono ancora oggi i palestinesi per  l’occupazione delle loro terre. 
L’ex capo di governo italiano Silvio Berlusconi, nel suo viaggio in Israele, non ha “visto” il muro di separazione costruito dal governo israeliano per una sua “difesa”, come Papa Benedetto XVI, nel suo viaggio in Libano, non ha “visto” i campi profughi palestinesi. 
Il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”  è ritornato invece in Libano per trasmettere la sua testimonianza sulle  condizioni di vita all’interno dei campi e, attraverso il dialogo tra  le varie forze politiche libanesi e palestinesi, di poter svolgere un  importante lavoro d’informazione affinché la questione dei profughi  palestinesi non sia dimenticata dal mondo.* Il viaggio inizia nel sud del Libano,  punto di partenza di ogni invasione da parte dell’esercito israeliano,  con la deposizione di una corona in onore al martire Maarouf Saad,  simbolo della Resistenza e del Movimento di Liberazione Nazionale di  tutto il mondo arabo. Saad, difensore di tutte le classi sociali più  deboli e povere, è stato ucciso nei primi anni ’70 dalle forze fasciste  di destra libanesi durante una manifestazione di protesta di pescatori.
    Lasciato Sidone, ci dirigiamo verso la collina di Mlita che domina il Sud del Libano per visitare il Museo della Resistenza  inaugurato il 21 maggio 2010. Il museo offre un inedito percorso di  combattimento nel cuore di una vecchia base segreta di Hezbollah e  rappresenta il luogo del ricordo della resistenza per la liberazione di  questa regione avvenuta 10 anni fa.     
 
 Pochi chilometri infine ci separano dal  confine che divide la Palestina occupata dal sud del Libano. Ci  troviamo, infatti, nel parco, situato sulle colline, della città di Maroon El Ras,  dove tutte le famiglie di questi territori, anche se appartenenti a  religione diverse, possono usufruire gratuitamente di tutti i servizi. Questa  splendida struttura composta da 33 gazebo, uno per ogni giorno della  guerra del 2006, è un dono della Repubblica islamica iraniana al popolo  del sud del Libano.
 Il sindaco di El Debeyye accoglie la nostra delegazione con un sincero benvenuto:
 
                       Il ricordo del massacro di Sabra e Chatila
 La giornata ha inizio al Centro culturale della municipalità di Ghobeiry,dove dopo l’inno nazionale libanese e palestinese,
   
            si sono susseguiti numerosi interventi:  i famigliari delle vittime del massacro, il saluto di Antonietta  Chiarini, l’ambasciatore della Palestina in Libano Mr.Ashraf Dabbour  e  il Sindaco di Ghobeiry Mr. Abou Said Al Khansaa:         Familiari delle vittime                                                                       Antonietta Chiarini                 Ambasciatore della Palestina in Libano, Mr.Ashraf Dabbour                                Sindaco di Ghobeiry Mr. Abou Said Al Khansaa              Foto manifestazione per non dimenticare
  
 Sono passati 30anni da quella terribile invasione del Libano da parte dell’esercito israeliano.
 Invasione (la quinta) iniziata a giugno 1982 nel Sud.
 Robert Fisk, corrispondente inglese per il quotidiano “The Independent”, si trovava in quei luoghi e, nel suo libro “Il martirio di una nazione” racconta:
 
 “Gli attacchi israeliani erano stati –  almeno fino a quel momento – i più feroci che fossero mai stati  sferrati contro una città libanese. Nella zona sud di Sidone, sembrava  che un tornado avesse sconquassato i palazzi, portando via balconi e  tetti, abbattendo muri e facendo crollare interi edifici sulla testa dei  loro occupanti. Molti morti erano rimasti incastrati tra le macerie.  Nelle strade, da dove i bulldozer israeliani avevano spazzato via  detriti con militare efficienza, gli abitanti di Sidone camminavano come  storditi. Non rispondevano ai soliti saluti e fissavano stupiti i  palazzi rimasti ancora in piedi perché non avevano mai visto la loro  città in quelle condizioni . La morte è spaventosa. I morti del Libano –  la vista continua di cadaveri gettati come sacchi sulle strade, nei  fossati e nelle cantine – ci ricordavano costantemente quanto fosse  facile essere uccisi.”
 
 Mi mancano veramente le parole per poter  continuare a descrivere tutto quello che accadde in quel lungo assedio,  dal sud fino a Beirut. Fisk si fa una domanda che preannuncia il  massacro che sarebbe accaduto di lì a pochi mesi:
 
 “Se gli israeliani a Sidone e a Tiro  si erano comportati a quel modo – se avevano potuto uccidere tanti  civili in un periodo di tempo così breve – quanti ne avrebbero uccisi a  Beirut, dove almeno mezzo milione di persone vivevano ammassate nel  settore occidentale accerchiato della città?”
 
 La Croce Rossa e la polizia libanese, alla  fine della prima settimana dell’invasione (14 giugno 1982),   dimostrarono che in Libano erano morte 9.583 persone e ferite 16.608.
 Sidone è stata la città  più colpita dopo Beirut. Su Beirut Ovest caddero anche le bombe al  fosforo e i medici, non conoscendo la composizione chimica di quelle  bombe, furono impreparati ad affrontarne le conseguenze.
 Il fosforo bianco è stato usato fin dalla  Prima guerra mondiale per riempire proiettili di mortaio e granate e nel  bombardamento di Amburgo durante la Seconda guerra mondiale. Le bombe  sono fabbricate in Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania,  sono  considerate “munizioni ordinarie” anche se non rientrano nelle convenzioni internazionali e tuttavia sono ritenute “molto utili per sgomberare gli edifici”.  Il loro fumo rimane nell’aria per parecchio tempo e brucia la pelle per  ore nonostante l’immersione in acqua nel tentativo di spegnere il  fuoco.
 Tra il 4 giugno ed il 10 luglio  all’ospedale Barbir, che si trovava vicino al Museo Nazionale di Beirut  Ovest, arrivarono 200 morti e la Dottoressa Shamaa ricorda:
 “Il personale non poteva lasciare  l’edificio a causa degli attacchi aerei e del cannoneggiamento. Per  quattro o cinque giorni c’è stato odore di morte dovunque. Poi siamo  finalmente riusciti a seppellirli in una fossa comune. Ancora non  sappiamo chi fossero.”
 L’artiglieria israeliana non risparmiò  neppure l’ospedale che fu colpito! Gli israeliani cercavano di censurare  le notizie sulle sofferenze dei civili a Beirut Ovest trasmesse dalle  varie troupe televisive presenti sul territorio libanese. Le  registrazioni inviate dai corrispondenti oltre le linee di Beirut Est  arrivavano a Tel Aviv per poi essere trasmesse a New York. Qui  arrivavano però censurate dagli israeliani, sempre per “ragioni di sicurezza” e “risparmiando al pubblico statunitense gli orrori della guerra”.  I produttori televisivi di New York infuriati per l’interferenza  israeliana mandarono in onda i vari filmati offuscando lo schermo per la  durata dei pezzi tagliati per far capire agli utenti che quella parte  era stata volutamente tolta dalle autorità israeliane. Alla fine i  filmati non furono più inviati a Tel Aviv ma si preferì usare la strada  di Damasco.
 Le troupe televisive ed i giornalisti che  si trovavano a Beirut avevano quindi  iniziato a  raccontare in modo  molto dettagliato questa terribile escalation militare. Gli israeliani  non potevano permettere che tutto questo arrivasse al mondo intero, così  il 21 giugno in un comunicato affermavano che: “L’Operazione Pace  in Galilea” non era diretta né contro la popolazione libanese né contro  quella palestinese … Se c’erano delle vittime civili la colpa era dei  terroristi, che avevano installato i loro quartieri generali e le loro  posizioni militari in zone fittamente popolate da civili e tenuto  prigionieri uomini, donne e bambini.”
 
  L’obiettivo del governo d’Israele era l’Olp ed i suoi guerriglieri. Il 30 giugno l’Olp aveva  annunciato che avrebbe lasciato la città, ma i dettagli della loro  evacuazione non erano ancora stati decisi. I negoziati si prolungavano e  Israele continuava l’assedio. Ariel Sharon il 2 luglio nella sala dell’hotel Alexandre di Beirut Est annuncia ai giornalisti che: “l’unico motivo per cui siamo qui è annientare i terroristi dell’Olp…”
 Terroristi, ma chi sono i  veri terroristi? La loro qualificazione dipende dai diversi punti di  vista e dalla giustificazione che si vuole dare a delle reazioni  violente. In nome della  guerra al “terrorismo” si tende, anche  oggi come allora, a legittimare qualsiasi azione. Tutto diventa   ammissibile con la licenza di uccidere indiscriminatamente.
 Sia  Arafat che gli israeliani sapevano  che l'Olp avrebbe presto lasciato Beirut, ma si doveva contrattare  'quando' e a quali garanzie. Ognuno quindi cercava di anticipare o  ritardare il momento giusto a seconda del proprio interesse. Arafat era  disposto a consentire l'allontanamento dei suoi uomini solo sotto la  protezione di una forza multinazionale che comprendesse oltre ai  marines  americani anche i soldati francesi ed italiani. Arafat inoltre  aspettava ancora il riconoscimento dell'organizzazione da parte degli  Stati Uniti in cambio del suo ritiro. Intanto i bombardamenti  continuavano e, verso la fine di luglio,  le incursioni si  intensificarono sfrecciando nel cielo quasi tutti i giorni.
 Il 4 agosto 1982 piovevano  bombe su tutta Beirut Ovest, le vittime erano tutte civili e Robert  Fisk si chiedeva che fine avesse fatto la precisione chirurgica dei  piloti israeliani:
 “Cadevano al ritmo di una ogni 10  secondi. Alcune bombe al fosforo esplosero su Hamra. Definire quel  bombardamento indiscriminato sarebbe stato poco, anzi una bugia. Il  bombardamento israeliano fu, come avremmo scoperto in seguito,  discriminato: aveva come obiettivo ogni zona di abitazione civile e ogni  istituzione di Beirut Ovest – ospedali, scuole, appartamenti, negozi,  alberghi... Al culmine del bombardamento, corsi all'ospedale  dell'Università americana. C'era sangue dappertutto. Trovai un centinaio  di uomini, donne e bambini stesi nel loro sangue sul pavimento o che si  lamentavano sulle barelle nei corridoi. Corsi all'obitorio. Braccia e  gambe – a decine – erano state accatastate contro la parete. Sul  pavimento c'erano diversi neonati morti chiusi in sacchi di plastica”. Il 26 settembre 1987 Fisk incontra in Inghilterra Philip Habid,  rappresentante del presidente Reagan nonchè suo inviato speciale, che  presente in quel giorno poteva parlare con gli israeliani. Perchè non  aveva fermato quella carneficina? “Ero a Baabda. Vedevo tutto. Dissi  agli israeliani che stavano distruggendo la città, che la stavano  bombardando senza tregua. Loro dissero che non era vero, che non lo  stavano facendo. Chiamai Sharon al telefono. Mi disse che non era vero.  Quel maledetto mi disse al telefono che quello che vedevo non stava  succedendo. Così misi la cornetta fuori dalla finestra per fargli  sentire le esplosioni. Allora mi disse: Come facciamo a parlare se tieni  il telefono fuori dalla finestra?”
 I protagonisti di questa guerra hanno  sempre mentito al riguardo delle loro vere intenzioni ed azioni:  dovevano avanzare solo 40 chilometri all'interno del Libano, invece  erano arrivati fino a Beirut. Hanno mentito sulle vittime civili, sul  taglio dell'acqua e corrente elettrica a Beirut Ovest; sull'uso delle  bombe a grappolo ed al fosforo bianco nelle zone civili.
 Il 12 agosto, senza  preavviso, decine di cacciabombardieri israeliani erano apparsi nel  cielo di Beirut. Il loro obiettivo: i campi profughi. Tonnellate di  esplosivo ad alto potenziale caddero per nove ore su Sabra e Chatila. Ma  perchè tutto questo dal momento che erano state accettate tutte le  richieste per procedere all'evacuazione dell'Olp e stabilito anche i  percorsi che doveva seguire? Quella sera il portavoce ufficiale  dell'esercito israeliano disse:
 “Abbiamo appena completato il  rafforzamento delle nostre postazioni intorno a Beirut in vista di una  grossa operazione militare.. se e quando attaccheremo.”
 C'era quindi la possibilità di un  avanzamento  su Beirut Ovest , mentre, in realtà, avrebbero dovuto  andarsene non appena l'Olp avesse lasciato la città. La guerra era finita.
 A Beirut la guerra aveva fatto 3.983 vittime e in tutto il Libano erano morte 11.492 persone. Il campo profugo palestinese di Burj al-Barajne praticamente non esisteva più, sembrava un paese lunare dove si camminava su tetti sbriciolati.
 Il 19 agosto il governo  libanese aveva presentato ufficialmente la richiesta scritta di una  forza multinazionale di ‘'disimpegno’', senza accennare che fosse stata  l'invasione israeliana a renderla necessaria.
 
  Il 23 agosto ci furono le elezioni presidenziali dove gli israeliani avevano assicurato la vittoria al loro uomo, Bashir Gemayel (figlio  di Pierre Gemayel il fondatore delle Falangi),  capo delle milizie al  comando del più grande esercito privato del Libano. L'accordo per l'evacuazione dell'Olp  comprendeva la clausola dell'allontanamento di tutti gli eserciti  stranieri dal Libano. I libanesi ora si sentivano più tranquilli perchè,  come sostenevano in molti, i loro problemi erano dovuti dall'arrivo dei  guerriglieri palestinesi dalla Giordania nel 1970 e non dai civili  esuli palestinesi del 1948. L'esercito israeliano lasciò la sua  postazione nel terminal dell'aeroporto internazionale all'esercito  libanese.
 
 
  Arafat  lascia Beirut su una nave greca per andare in esilio in Tunisia, sotto  il controllo dei marines americani, degli uomini della legione straniera  francese e dei bersaglieri italiani. Più di 10mila guerriglieri  palestinesi e soldati siriani lasciarono con le loro armi Beirut Ovest. La partenza dell'Olp era condizionata dalla garanzia che le decine di migliaia di civili palestinesi rimasti nei campi di Sabra, Shatila e Burj al Barajne  non avrebbero corso nessun pericolo, come aveva assicurato Philip  Habid. Washington, Parigi e Roma in questa operazione avevano dato la  loro parola. Il distacco però delle donne, dei vecchi e dei bambini dai  loro mariti, padri, fratelli, figli in partenza per l'esilio non è stato  facile, è stato un momento molto doloroso e di paura. Paura per il loro  futuro, ora che erano rimasti soli, orfani di tutto. La guerra era  finita, tutti se ne stavano andando, anche i giornalisti si preparavano a  tornare nei loro paesi o andare in vacanza.
 
 La situazione in Libano però si presentava  ancora molto fragile, perché c’erano troppi interessi diversi che  dovevano essere bilanciati e nessuno voleva perdere. Da una parte, il  nuovo presidente Bashir Gemayel con la sua  dichiarazione di non volere la presenza di stranieri sul territorio  libanese, che significava anche gli israeliani e dall’altra il Primo  Ministro israeliano Begin e il Ministro della difesa Sharon, che durante un incontro a Gerusalemme reclamavano, entro la fine dell’anno, un trattato di pace tra il Libano ed Israele.
 La Siria, dopo l’elezione  del nuovo presidente libanese, aveva dichiarato che avrebbe ritirato le  sue truppe dal Libano solo quando i soldati israeliani se ne fossero  andati dal paese. Un alto funzionario dell’esercito siriano aveva  inoltre dichiarato che se Gemayel avesse firmato quel trattato, “La Siria si sarebbe considerata in stato di guerra con lui”.
 Gemayel dunque si trovava in mezzo tra  Israele e la Siria, senza dover dimenticare però anche gli Stati Uniti  che lo avevano appoggiato.
 Dalla fine della guerra al 16 di settembre ci sono stati alcuni episodi che potevano presagire quello che poi accadde dal 16 al 18, ma nessuno diede importanza a quegli “annunci” anche perché non si poteva immaginare che la malvagità umana potesse arrivare ad un tale livello.
 Arafat lasciò il Libano il 30 agosto e l’ultima nave carica di guerriglieri palestinesi, il primo di settembre. Le truppe siriane dovettero anche sfilare davanti al Maggiore Sa’d Haddad, militare libanese fondatore dell’esercito "Armata del Sud del Libano" totalmente sostenuto da Israele, che non mancò di prodigare con gesti osceni e di disprezzo i suoi “saluti” verso i militari che stavano lasciando il paese. Ma perché gli israeliani erano ancora a Beirut?
 Le truppe di pace l’11 settembre avevano  iniziato ad abbandonare il Libano con quindici giorni di anticipo  rispetto agli accordi presi. Il quotidiano “Daily Telegraph”  riportava la notizia che Sharon aveva fatto una visita di sorpresa alle  sue truppe alla periferia di Beirut ed aveva dichiarato che, dopo  l’evacuazione dell’Olp erano ancora rimasti in città “duemila terroristi”. Ma chi erano questi misteriosi terroristi? Intanto le truppe israeliane stavano, molto lentamente, avanzando verso la città.
 Il 14 settembre viene assassinato Bashir Gemayel  e gli israeliani iniziano ad invadere Beirut Ovest. Inizia la caccia ai  terroristi ed il cerchio intorno ai palestinesi si chiude. Un  colonnello israeliano aveva detto a Robert Fisk poco prima che partisse  da Beirut:
 “Il nostro grande problema non sarà  liberarci dai palestinesi, sarà impedire ai falangisti di entrare a  Beirut Ovest per regolare qualche vecchio conto”.
 Il 16 settembre le Falangi entrarono a Beirut Ovest con gli israeliani e per questo, Fisk decide di ritornare a Beirut. Inizia il massacro: ancora nessuno è consapevole di quello che sta accadendo.
 Il 17 settembre corre  voce che qualcosa di terribile sta succedendo dentro i campi profughi di  Sabra e Chatila. Fisk ricorda quella sera che dal suo balcone guardava  gli aerei, i cacciabombardieri che volavano basso nell’oscurità:
 “Uno dei jet lasciò cadere un  tracciante, poi un altro ed il cielo opaco della città si illuminò di  una luce dorata che si diffuse sui campi. Era di un giallo argenteo come  la luce del giorno. Avrei potuto leggere un libro sul mio balcone con  quella luce. I traccianti scendevano lentamente, quasi tutti sulla zona  di Sabra e Chatila… L’alba a mezzanotte”. 
   Quello che trovarono i primi giornalisti nel campo palestinese di Chatila alle 10 di mattina del 18 settembre  è stato qualcosa di irreale. Una cosa atroce, uno sterminio di massa,  un crimine di guerra avvenuto sotto gli occhi vigili e totalmente  indifferenti di un esercito regolare.
 Chi sono in questo caso i terroristi? Le vittime o i carnefici?
 La certezza era che gli israeliani  sapevano quello che stava succedendo, avevano illuminato i campi,  guardavano da lontano i loro alleati, i falangisti ed i miliziani di Haddad  mentre mettevano in atto il loro sterminio di massa. Gli israeliani  erano al comando di tutto, dovevano sorvegliare l’area di Chatila da  tutti i lati e dai tetti degli edifici più alti, ma non dovevano vedere,  sentire e testimoniare.
 I soldati israeliani in uniforme e agenti  segreti dello Shin Bet in borghese, sorvegliavano anche il lato ovest  dello stadio dove erano stati portati centinaia di uomini, per lo più  libanesi, per essere “interrogarti”. Gli israeliani lasciavano  fare tutto alle milizie senza interferire in nessun modo. Questa era  solo una caccia ai “terroristi”. Una parola che suonava oscena in bocca a  loro, ma che gli dava carta bianca su tutto.
 Quello che è successo a Sabra e Chatila non è stato definito da tutti come “massacro”,  ma allora da cosa dipende questa definizione? Dal numero delle vittime?  Dal modo in cui sono state uccise? O da chi sono state uccise? La  responsabilità israeliana è palese, dimostrabile e uguale a chi  materialmente ha commesso il fatto, ma nessuno ha mai pagato per questo.
 Gli israeliani alla fine avevano rivelato  che i responsabili della strage fossero i falangisti guidati dal  comandante Elie Hobeika. Ma come hanno potuto gli eredi dell’Olocausto  aver consentito che venisse commessa quell’atrocità?
 Il tenente Avi Grabowski  vicecomandante della compagnia dei carristi che in seguito testimoniò  sul massacro davanti alla Commissione d’inchiesta israeliana, riferì che  quel venerdì a mezzogiorno l’equipaggio del suo carro aveva chiesto ai  falangisti perché uccidessero i civili. Loro risposero: “Le donne incinte partoriranno dei terroristi, quando cresceranno i bambini diventeranno terroristi”.
 Begin, ai giornalisti che  gli fecero notare che Israele aveva, in qualità di paese occupante, la  responsabilità di quello che succedeva nei campi, rispose: “Nessuno  ha il diritto di farci prediche sui valori morali e sul rispetto della  vita umana, sono i principi in base ai quali siamo stati educati e  continueremo ad educare generazioni di combattenti.”
 Le manifestazioni in tutto il mondo contro  questo massacro costrinse Israele ad aprire un’inchiesta sui fatti, ma  come al solito usò questo sua atto “democratico” a suo favore: “Quale  paese arabo aveva mai pubblicato un rapporto come quello che condannava  sia il suo esercito e sia i suoi leader politici?”.
 Nel rapporto della Commissione Kahan (1983) è stata evitata la parola “palestinese”, si parla di “fatti” e non di “massacro”. I  giudici non erano riusciti a portare prove dell’esistenza di quei 2000  terroristi che si dovevano trovare all’interno dei campi e chiamava “soldati” gli unici veri terroristi presenti, i miliziani cristiani mandati dagli israeliani. La Commissione alla fine giudicò Sharon “personalmente responsabile dei fatti” e suggerì a Begin di rimuoverlo dal suo incarico. Qualche anno dopo però Ariel Sharon, ritorna al governo israeliano come Primo Ministro e nessun processo ha mai punito gli artefici del massacro di Sabra e Chatila.
 La professoressa Bayan Nuwayhed al-Hout docente di Scienze politiche all’Università di Beirut nel 2003 ha pubblicato in arabo il libro “Sabra e Shatila: settembre 1982”, tradotto in inglese nel 2004, mentre ad oggi non è stato ancora possibile farlo conoscere in Italia.
 Il libro ripercorre la storia del massacro e, attraverso varie interviste ai familiari delle “vittime viventi”  e ai sopravvissuti, l’autrice ha impostato il suo progetto come una  storia orale per conservare le testimonianze. Questo libro è quindi un  coraggioso tentativo di rendere il senso di ciò che è accaduto. Un  documento politico molto importante.
 La docente di Beirut scrive: “Più  tardi, un grande inaspettato evento avvenne diciotto anni dopo il  massacro, nel settembre 2000. Senza preavviso, una delegazione italiana  giunse all’aeroporto di Beirut per commemorare Sabra e Chatila… Le  vittime viventi non avrebbero osato sognare che la visita si sarebbe  trasformata in un appuntamento annuale, ogni settembre, e che i loro  nuovi amici non li avrebbero mai abbandonati… Il Comitato presieduto da  Stefano Chiarini, noto come “Per non dimenticare Sabra e Chatila” si è  assunto la responsabilità di commemorare Sabra e Chatila per tutti i  sette anni scorsi.”
 
  Questo è il motivo per il quale il “Comitato Per non dimenticare” dal 2000  si reca ogni anno sui luoghi del massacro. Il Comitato vuole  rappresentare quella parte dell’Italia che non ha perso la memoria, che  anzi si ostina a renderla pubblica e che si schiera al fianco del popolo  palestinese per sostenere la sua lotta ed i suoi diritti. Per il Comitato ritornare a Chatila anno  dopo anno è un dovere e un onore. Raccontare, per i familiari delle  vittime, rappresenta sempre un dolore ma può diventare anche un modo per  dare giustizia a chi non c’è più. A rendergli omaggio, a non  dimenticarli.
 Sono trascorsi 30 anni da quelle 43 ore  terribili e noi siamo ancora una volta a Chatila ad abbracciare quelle  persone, a guardarle negli occhi per rassicurarle che noi ricordiamo.  Dopo la cerimonia ci inoltriamo nel campo.
 Chatila è il campo che ancora continua ad esistere e a crescere, mentre Sabra,  per chi l’abitava non è mai stata considerata un vero “campo” ma solo  una strada che iniziava nel quartiere Tariq al-Jdideh di Beirut e finiva  all’ingresso del campo di Chatila, oggi si presenta come un mercato  dove si può trovare di tutto. Camminando tra banchi di frutta e verdura  si arriva ad un certo punto in una strada con vari "palazzi". Uno di questi è il Gaza Hospital.
 Era un ospedale gestito dalla Mezzaluna  Rossa Palestinese, un luogo emblematico testimone di eventi che hanno  segnato la vita dei profughi palestinesi, come quello del massacro di  Sabra e Chatila. Una struttura oggi occupata da molte famiglie  palestinesi, libanesi e di altre nazionalità rimaste senza casa. Un  rifugio per i più poveri.
 Chatila oggi è abitata da circa ventimila persone.   
 I suoi vicoli stretti, tortuosi,  sembrano tanti infiniti labirinti spesso bui perché le case troppo alte  impediscono al sole di illuminare e di scaldare. Le fognature, vecchie  ed insufficienti per il numero di abitanti, si lasciano scorrere  liberamente lungo le vie, specialmente quando piove.           I rifiuti abbondano neivicoli, nelle piazzette, ovunque perché chi dovrebbe raccoglierli (UNRWA) non ha più le risorse per continuare a svolgere questo compito.         Sopra  le nostre teste un groviglio di cavi elettrici e di tubi corrono tra le  case, creando una fitta ragnatela. La prima causa di morte nel campo è  la folgorazione. Le famiglie palestinesi continuano a vivere in queste  condizioni con la speranza di poter ritornare, un giorno, nella loro  terra. Condizioni che, anno dopo anno, diventano sempre più difficili  perché, da una parte diminuiscono gli aiuti e dall’altra il governo  libanese non vuole apportare miglioramenti, non vuole accordare ai  rifugiati palestinesi anche quei minimi diritti per poter avere una vita  dignitosa. Nonostante tutta questa sofferenza però riescono a mantenere  la dignità di un popolo che è consapevole di essere nel giusto, di aver  subito un’ingiustizia storica e aspettano che gli venga riconosciuto il  diritto di essere uno Stato e di poter ritornare nelle loro case occupate dai sionisti israeliani. Un diritto che è sancito dalla Quarta convenzione di Ginevra,  ma da sempre, disatteso da Israele che non accetta nemmeno di  discuterne. Non è facile continuare questo cammino, specialmente per i  giovani che non hanno la prospettiva di un futuro migliore, la  possibilità di studiare, di avere un lavoro regolare o di una casa. Non è  facile neppure per noi continuare a lottare con e per loro perché siamo  tutti circondati dal silenzio generale. Il mondo non parla, fa finta di  niente, è indifferente. Quando si parla di rifugiati palestinesi, anzi,  spesso veniamo definiti come “gli amici dei terroristi”,  antisionisti che desiderano solo la fine d’Israele. Per fortuna ci sono i  bambini che nella loro innocenza ed inconsapevolezza riescono ancora a  sorridere. 
 Foto campo Chatila
 
 Continua …   30/10/2012
 * L'Osservatore Romano – Blog “Il Magistero di Benedetto XVI
 
 Fonte: Robert Fisk (Il martirio di una  nazione) – Libro “Sabra e Shatila: settembre 1982” di Bayan Nuwayhed  al-Hout traduzione di Vincenzo Brandi con la collaborazione di Marta  Turilli -
 
 
	
	
PER NON DIMENTICARE VIK IL PROCESSO
 di Mirca Garuti
  
 
La notte tra il 14 e 15 aprile 2011 nessuno potrà dimenticarla. Una notte, durante la quale alcuni giovani appartenenti ad una cellula del gruppo qaedista Tawhid wal Jihad, rivale di Hamas, misero fine alla vita di Vittorio Arrigoni (http://nuke.alkemia.com/MedioOriente/RestiamoUmaniinonorediVittorioArrigoni/tabid/1015/Default.aspx)  gettando nel dolore una madre, una sorella e migliaia di palestinesi e  italiani. In questi lunghi mesi si è assistito ad un procedimento  sostanzialmente regolare, aperto al pubblico e alla stampa, ma non si  può tacere sul fatto che la corte è stata troppo accondiscendente nei  confronti delle strategie degli avvocati della difesa. Per quasi un anno  si sono visti testimoni chiamati di fronte ai giudici solo per  confermare le deposizioni fatte durante le indagini. Il dibattimento  quasi non c’è stato. Il percorso delle 16 udienze 08/09/2011  Il processo ha inizio. Gli imputati: Mohammed Salfiti, 23 anni di Karama, Tarek Hasasnah, 25 anni di Shate, Amer Abu Ghoula, 25 anni di Shate e Khader Jiram. Gli altri due elementi del gruppo dei rapitori, il giordano Breizat e il palestinese Bilal Omari,  considerati i «capi» della cellula salafita, non possono raccontare la  loro versione: sono stati uccisi un paio di giorni dopo il ritrovamento  del corpo di Vik, durante il blitz effettuato nel loro rifugio di  Nusseirat da un’unità scelta di Hamas. Dopo cinque mesi dall’assassinio  di Vittorio, è la prima volta che viene reso noto, anche se solo in  parte, il file delle indagini svolte dalla procura militare di Hamas  (tutti e quattro gli imputati sono membri con compiti diversi delle  forze di sicurezza) e mai consegnato ai legali della famiglia Arrigoni.  Il presidente della Corte, nemmeno quarantenne, non ha ammesso fra le  parti l'avvocato Eyal al-Alami, il quale aveva ricevuto in extremis un incarico di patrocinio dalla famiglia della vittima dopo che il legale italiano, Gilberto Pagani, non era riuscito ad entrare dall'Egitto nella Striscia. La prima udienza è terminata in uno sbrigativo rinvio al 22 settembre. 22/09/2011 Ore 10:  L’aula è piccola, sporca, spoglia. Nessuna scritta, nessun simbolo  politico o religioso. Lo scranno del Tribunale è molto sopraelevato, per  il pubblico ci sono delle panchette, le persone presenti sono una  trentina, molti gli italiani. I banchi dell’accusa e della difesa sono  uno di fronte all’altro, la cattedra della Corte è perpendicolare a  loro; il banco dei testimoni è di fronte ai giudici, il teste volta le  spalle agli avvocati ed al pubblico. Sulla destra, la gabbia nella quale  sono fatti entrare i quattro imputati. Un militare in tuta mimetica,  barbuto come tutti, ricopre la funzione di usciere, è lui che batte con  forza il palmo della mano sul banco dei testimoni e lancia un urlo, “entra la Corte”.  Il presidente della Corte avrà circa 30 anni, così come i giudici a  latere, il Pm e i suoi assistenti. Tutti vestono camicie militari senza  alcun distintivo o grado. L’udienza è brevissima, è interrogato un  agente che conferma i filmati con le confessioni degli imputati. Poi a  turno gli imputati sono interrogati dalla Corte. Uno è accusato di aver  aiutato gli assassini, gli altri tre di sequestro di persona ed  omicidio; questi ultimi si riconoscono nelle immagini che sono mostrate  solo a loro e non al pubblico, ma affermano che le confessioni sono  state estorte con vessazioni e minacce. Viene reintrodotto l’agente, che  nega ci siano state pressioni. Di nuovo un colpo sul banco e un urlo da  parte dell’usciere: l’udienza è rinviata al 3 ottobre per ascoltare il  medico legale che oggi non si è presentato. L’avvocato della famiglia  Arrigoni, Gilberto Pagani racconta: “Alla fine di questa prima udienza vado ad incontrare il Procuratore militare, nel suo ufficio. Gli pongo tre domande: Possiamo accedere agli atti delle indagini?
 Risposta «L’inchiesta è militare, il processo è pubblico, venite al processo e saprete quello che c’è da sapere».
 Sono state fatte indagini sulla morte dei due sospettati nel conflitto a fuoco con la polizia?  Risposta «Un’inchiesta della polizia ha appurato che tutte le regole  sono state rispettate, per altre informazioni potete leggere quel che è  stato scritto dalla stampa».
 La Procura chiederà la pena di morte per i colpevoli?
 Risposta «La punizione prevista dalle nostre leggi in questo caso è la pena di morte».
 Sono assolutamente stranito. Mi  aspettavo una procedura da Corte militare, rapida, forse spietata,  comunque finalizzata a cercare una ricostruzione dei fatti, se non la  verità, che sia la base per una decisione. Assisto ad un processo in cui  i tempi sono dilatati senza ragione, la Procura imprecisa e svogliata,  gli avvocati assenti, l’interesse pubblico nullo, la Corte inutilmente  autoritaria. Non è plausibile che in una situazione (anche territoriale)  come questa, il medico legale non si presenti per quello che è il primo  atto di un processo per omicidio, cioè illustrare le cause della morte  di una persona".
 03/10/2011 L’udienza è durata meno di un’ora. Sono stati ascoltati due testimoni, tra i quali il Dottor Alaa al Astal,  il patologo di Gaza che ha esaminato il cadavere di Vittorio ed ha  effettuato l’autopsia.  Astal ha confermato la morte avvenuta per  strangolamento e che la vittima aveva subito percosse ed un violento  colpo alla testa mentre era con le mani e i piedi legati. In apertura  d’udienza si apprende che uno degli imputati non è più detenuto. Si  tratta di Amer Abu Ghoula, che aveva dato rifugio ai  due «capi» in fuga. Viene processato, ma è a piede libero. Inoltre, è  emerso un dato errato verbalizzato durante le indagini...  17/10/2011 Udienza  lampo, verità lontana. Nessuno ha ancora chiesto agli imputati perché  Vittorio fu rapito e poi ucciso. Venti minuti ed un altro rinvio. 03/11/2011 Un’udienza  con pochissimo pubblico. Alcuni amici palestinesi e italiani di Vik e  qualche parente degli imputati, mentre a nord di Gaza, lungo la «zona  cuscinetto» creata da Israele, un missile di un elicottero ha ucciso due palestinesi:  un contadino che si trovava nel suo campo ed un militante delle Brigate  Ezzedin al Qassam che aveva preso parte poco prima ad uno scontro a  fuoco con reparti israeliani. La quinta udienza del processo è finita  dopo 50 minuti. La delusione è cocente. A due mesi dalla prima udienza,  il dibattimento rimane incagliato su questioni procedurali e su aspetti  secondari. 24/11/2011 La sesta udienza è durata pochi minuti. Il processo è stato subito aggiornato. Un altro nulla di fatto. 05/12/2011  “Nella  casa di Vittorio c’erano tante donne?”. Con queste parole l’avvocato  della difesa si è rivolto all’unico testimone ascoltato oggi durante la  settima udienza del processo ai rapitori e agli assassini di Vittorio  Arrigoni. Anche questa volta la sessione, durata 45 minuti, si è  concentrata su aspetti secondari e forvianti e l’accusa non ha ancora  investigato sul reale motivo che ha spinto i quattro imputati a rapire  ed uccidere Vittorio. 19/12/2011 È stata  un’udienza breve ma di una certa importanza. Finalmente, il processo in  corso a Gaza city per l’assassinio di Vittorio Arrigoni ha fatto un  passo in avanti dopo tre mesi trascorsi a dibattere spesso solo di  questioni procedurali. La Pubblica accusa militare ha portato in aula  l’hard disk del computer dove sono state ritrovate le immagini del  rapimento di Vittorio. L’udienza si è svolta, mentre era diffusa in  rete, la lettera di risposta della madre e della sorella di Vittorio  alla «richiesta di perdono» inviata dalle famiglie di tre dei quattro  imputati.  Il processo Arrigoni a Gaza è giunto ad una fase di stallo. 05/01/2012  Le  indiscrezioni annunciavano un’udienza di particolare importanza. Si  sperava perciò di assistere ad un dibattimento concreto. Le cose però  sono andate nella direzione opposta a quella desiderata. L’ultima  udienza è stata la più breve delle nove che si sono svolte dallo scorso 8  settembre ad oggi ed anche la più inutile e, per certi versi,  paradossale. La prima sorpresa è venuta da Amer Abu Ghoula,  uno dei quattro imputati, agli arresti domiciliari perché accusato di  reati minori.  La corte, registrata la sua assenza, ha subito spiccato  un mandato d’arresto, ma fino a ieri sera di Abu Ghoula non si sapeva  nulla. La seconda sorpresa è stata la rapidità con la quale la stessa  corte, dopo aver appreso che la difesa non aveva ricevuto alcuni  documenti relativi alle prove prodotte dalla procura militare, ha  aggiornato il processo. La durata dell’udienza, solo quattro-cinque  minuti in tutto.  È inaccettabile. 16/01/2012 Per la  seconda volta consecutiva, l’udienza è durata pochi minuti. Il processo è  stato subito aggiornato. Non si sono presentati in aula i testimoni  della difesa, pare per motivi di lavoro, e uno degli avvocati ha  prontamente chiesto il rinvio. Intanto resta un mistero l’assenza in  aula di Amer Abu Ghoula, uno dei quattro imputati. (Eppure le corti  militari di Gaza, quando vogliono, sanno essere rapide e terribilmente  spietate. Questo mese hanno emesso una nuova condanna a morte, la prima  del 2012, la 36ma da quando Hamas ha preso il potere a Gaza nel 2007.  L’11 gennaio scorso un tribunale ha condannato a morte per impiccagione  un palestinese di 48 anni, colpevole di collaborazionismo con  imprecisate forze ostili e di complicità in un omicidio.) 30/01/2012 Anche  quest’udienza è terminata nel giro di pochi minuti, come le altre di  gennaio. I testimoni della difesa, per l’ennesima volta, non si sono  presentati e la corte ha aggiornato il processo. 13/02/2012 Sarà merito  delle sollecitazioni alla corte promesse un paio di settimane fa dal  capo della procura militare, o degli echi a Gaza dell’insoddisfazione  degli italiani per la lentezza del processo, che dopo le ultime tre  udienze «lampo» questa è stata per così dire «normale», almeno nello  svolgimento e nella durata (circa un’ora). Sono finalmente apparsi in  aula i testimoni convocati dalla difesa, che non si erano presentati  alle ultime udienze. Nessuna traccia ancora di Amr Abu Ghoula, agli  arresti domiciliari perché accusato di favoreggiamento e non  dell’assassinio di Vittorio. Di Abu Ghoula non si sa più nulla. Ha  violato l’ordine della corte di partecipare alle udienze e contro di lui  è stato spiccato un mandato d’arresto. Al tribunale però nessuno sa o  vuole dire dove sia finito. La strategia della difesa è chiara.  L’obiettivo è quello di scaricare ogni responsabilità sul capo della  presunta cellula salafita che ha rapito e ucciso Vittorio, il 22enne  giordano Abdel Rahman Breizat, morto in un conflitto a fuoco con la  polizia di Hamas. 27/02/2012 Cinque  minuti.  I giudici, dopo aver esaminato la lettera inviata a fine 2011 a  Gaza dalla famiglia Arrigoni – come risposta all’appello alla clemenza  lanciato dalle famiglie dei quattro imputati, nella quale si esprime  netta opposizione ad un’eventuale condanna a morte – hanno aggiornato il  processo al prossimo 15 marzo, per la richiesta di uno degli avvocati  della difesa che lamentava di non aver ancora potuto esaminare tutti gli  atti (è accaduto più volte in questi mesi).  15/03/2012 L’allerta che da una settimana regna nella Striscia di Gaza per i raid aerei israeliani (26 morti palestinesi),  è la causa del rinvio dell’udienza. Le autorità di Hamas hanno ordinato  l’evacuazione di tutte le strutture militari e di sicurezza. La corte  perciò è rimasta chiusa.  02/04/2012 Si  annunciava un’udienza affollata questa mattina alla corte militare di  Gaza city. Ci si attendeva una ripresa nel segno della concretezza, e  invece le cose sono andate come sempre. La solita udienza-lampo.  Stavolta in aula non mancavano i testimoni convocati dalla difesa, com’è  spesso capitato in passato, ma gli stessi avvocati dei quattro  imputati. E’ stato nominato un avvocato d’ufficio che, però, non avendo  seguito il “caso”, ha chiesto e ottenuto il rinvio per poter leggere gli  atti.  12/04/2012  Si avvicina la data del primo anniversario della morte di Vittorio (15/04/11),  ma il suo assassinio resta in gran parte senza risposte. Troppi sono i  lati oscuri di questo crimine. Se la procura di Gaza è stata in grado di  risalire in poche ore ai responsabili del rapimento e dell’uccisione di  Vik, i giudici della corte militare invece non sono stati altrettanto  solleciti. Il processo è stato segnato sin dal suo inizio, lo scorso  settembre, da udienze lampo, dall’assenza frequente dei testimoni e  dalle manovre della difesa volte unicamente a guadagnare tempo. Dopo una  quindicina d’udienze, agli imputati è stato chiesto di spiegare i  motivi del rapimento di Vik. Ed ecco il colpo di scena: nel giorno della  prima vera udienza del 2012, tre dei quattro imputati per l'assassinio  di Vittorio hanno lanciato un insidioso tentativo di gettare fango sulla  figura dell'attivista e giornalista italiano. Ritrattando in buona  parte le confessioni che avevano reso negli interrogatori seguiti  all'arresto da parte della polizia di Hamas, i tre hanno recitato,  davanti ai giudici della corte militare di Gaza city, la parte dei  giovani difensori delle tradizioni sociali «minacciate» da un presunto stile di vita troppo «liberal» di Vittorio. «Volevamo dargli soltanto una lezione, gli altri intendevano ucciderlo ma noi non lo sapevamo»,  hanno proclamato i tre cavalieri della moralità. Un passo vergognoso,  vile, frutto di una strategia precisa degli avvocati della difesa, che  mira a macchiare l'immagine di Vik che di Gaza aveva fatto la sua  bandiera e che ai diritti dei palestinesi aveva dedicato, negli ultimi  anni, il suo impegno politico ed umano. Inoltre gli imputati hanno  sostenuto di aver confessato la loro partecipazione al rapimento e  all'assassinio dell'italiano «sotto la forte pressione» degli  inquirenti. Hanno quindi smentito di aver preso parte al sequestro allo  scopo di ottenere la scarcerazione dello sceicco Al Maqdisi e,  più di tutto, hanno negato di essere stati a conoscenza di un piano per  uccidere l'attivista italiano. A loro dire questo piano era stato  concepito dai due «capi» del gruppo di rapitori, il giordano Breizat ed  il palestinese Bilal Omari, rimasti uccisi poco dopo l'assassinio di  Vittorio in uno scontro a fuoco con la polizia. È evidente il tentativo  degli avvocati della difesa di far ricadere tutte le responsabilità su  Breizat e Omari che non possono raccontare la loro versione dei fatti. Prossima udienza 14 maggio 2012 e, secondo alcune voci, potrebbe essere l’ultima prima della sentenza. 14/05/2012  Niente di  fatto. L’udienza slitta ancora. Il Presidente della Corte militare, per  presunti altri impegni, non si è presentato nell’aula del tribunale  allestito presso la Prefettura. Questa doveva essere un’udienza  importante dove il Pubblico ministero avrebbe dovuto riassumere e  precisare i capi d’accusa contro gli imputati e presentare la sua  richiesta di condanna e gli avvocati della difesa avrebbero invece  dovuto persuadere la corte della loro innocenza o almeno di una loro  “parziale” responsabilità. Nessuno era stato avvisato in tempo  dell’aggiornamento del processo al 28 maggio. 28/05/2012 La Corte militare di Gaza City oggi è rimasta chiusa. Il Giudice capo è “in vacanza”.  Nessuno delle autorità di Hamas ha comunicato il rinvio dell’udienza,  neppure al Centro palestinese per i diritti umani che segue, come  osservatore, il processo Arrigoni. Prossima udienza: 27 giugno. Ancora  un altro mese. E’ uno scandalo! Il governo di Hamas aveva promesso un  processo vero, ma, l’unica cosa vera in tutto questo, rimane solo la  completa indifferenza di tutti verso una giustizia alla quale non si  vuole arrivare.  27/06/2012 Sedicesima  udienza. I due avvocati difensori hanno chiesto che i 4 fossero  riconosciuti non colpevoli, causa assenza di prove e testimoni ed  inoltre, hanno presentato richiesta di scarcerazione per l’avvicinarsi  del Ramadan (inizierà il 21 luglio), periodo sacro per i musulmani. La nuova udienza è prevista tra oltre 2 mesi, il 5 settembre,  data la chiusura della corte militare per la festività musulmana. In  quella data spetterà all'accusa presentare le proprie richieste, per poi  arrivare finalmente alla sentenza. 05/09/2012 L'attesa di  italiani e palestinesi è risultata vana. La sentenza è slittata al 17  settembre. L’avvocato Gilberto Pagani, giunto a Gaza su incarico della  famiglia Arrigoni, ed i suoi colleghi del Centro palestinese per i  diritti umani, hanno sperato, per ore, in un possibile cambiamento della  decisione del rinvio da parte dei giudici della Corte militare.  Speranza vana. Si attendeva la sentenza e tanti si preparavano ad  affollare la piccola sala che ospitava i giudici militari di Hamas. Lo  slittamento di date non ha però rappresentato una totale sorpresa.   Dalla data della prima udienza, il procedimento ha preso, mese dopo  mese, una brutta piega. Diverse udienze sono state aggiornate solo un  paio di minuti dopo il loro inizio, per l’assenza dei testimoni  convocati dalla difesa o per motivi apparentemente banali. Non c’è mai  stato un vero dibattimento. Rare volte sono state ascoltate le voci  degli imputati. Non è stato un processo irregolare, ma tanti punti  rimangono oscuri. Non sorprende perciò che sulla sentenza regni una  forte incertezza. La verità resta lontana. 17/09/2012 La Sentenza: Ergastolo“La Corte militare chiude con pesanti  condanne il processo per l'omicidio di Vittorio Arrigoni. Giustizia è  fatta, ma troppi interrogativi restano in sospeso sulla regia del  sequestro. Carcere a vita e lavori forzati ai due esecutori, 10 anni all'ex amico del pacifista.”
 
 La sentenza ci raggiunge in Libano durante  la settimana di commemorazione del massacro di Sabra e Chatila.  Sollievo, gioia, tristezza, dolore, sofferenza, rabbia, sono i  sentimenti provati da noi tutti a questa notizia. Michele Giorgio nel suo articolo che chiude il “Dossier Vittorio Arrigoni” su “Il Manifesto” parla anche a nome nostro:
 
 “Giustizia è fatta, commenterà  qualcuno. Che amarezza però. Ci sarebbe più di un motivo per essere  soddisfatti. Gli imputati sono stati condannati per il delitto che  avevano confessato eppure la tristezza è tanta in queste ore. Nessuna  condanna potrà ridarci Vik. Neppure quella severa inflitta ieri dalla  corte militare di Gaza city ai quattro giovani palestinesi accusati del  sequestro e dell'omicidio del giovane attivista e giornalista che, come  nessuno nella sinistra italiana di questi ultimi anni, aveva saputo  attirare tanta attenzione verso la causa dei palestinesi di Gaza. Il  pensiero corre in queste ore alla madre e alla sorella di Vittorio. Come  hanno accolto la sentenza, ci chiediamo. Due donne che con fermezza e  dignità, nel rispetto degli ideali di Vik, si erano subito espresse  contro la condanna a morte degli assassini. «Vogliamo giustizia» non vendetta scrissero in una lettera inviata ai famigliari degli imputati che imploravano clemenza.
 I giudici ieri hanno inflitto il carcere a vita e un periodo di lavori forzati a Mahmud Salfiti e Tamer Hasasna,  due esecutori materiali del sequestro ideato assieme al giordano Abdel  Rahman Breizat e al palestinese Bilal Omari, entrambi rimasti uccisi in  un conflitto a fuoco con la polizia di Hamas. Ad un anno di carcere è  stato condannato Amr al Ghoula, il fiancheggiatore che aiutò tre membri del gruppo a nascondersi dopo l'assassinio. Al Ghoula è già a piede libero da mesi.
 Dieci anni di prigione dovrà scontare Khader Jiram, vigile del fuoco e amico di Vittorio Arrigoni,  accusato di aver fornito informazioni decisive ai killer sui movimenti  dell'italiano a Gaza. Questa condanna se da un lato può apparire  adeguata al reato commesso da Jram - che non ha preso parte diretta al  rapimento e all'assassinio - dall'altro provoca tanta rabbia. Jram  a ben guardare è il più colpevole di tutti perché conosceva Vik che lo  aveva anche citato in uno dei suoi racconti, dopo un attacco aereo alla  stazione dei vigili del fuoco sul lungomare di Gaza city. Jram avrebbe  dovuto respingere la richiesta di Hasasna di «tenere d'occhio»  l'italiano per capirne i movimenti e le abitudini. Si prestò invece  all'organizzazione di un crimine contro un attivista impegnato a  diffondere le ragioni dei palestinesi sotto occupazione, che  quotidianamente andava nei campi coltivati della «zona cuscinetto» per  proteggere, con la sua sola presenza, i contadini dagli spari  israeliani. Un giovane coraggioso che aveva passato mesi assieme ai  pescatori di Gaza tenuti sotto tiro dalla Marina militare israeliana.  Durante l'interrogatorio Jram spiegò agli investigatori di aver  accettato di seguire i movimenti di Vittorio «perché non poteva  respingere l'insistenza di Hasasna». E per quella insistenza ha tradito e  fatto uccidere un amico. Certo anche Bilal Omari, che pure conosceva  Vittorio, merita disprezzo ma lui ha pagato con la vita il crimine che  ha commesso.
 Vittorio fu rapito da una  cellula del gruppo qaedista Tawhid wal Jihad, rivale di Hamas, la sera  del 13 aprile 2011. Abdel Rahman Breizat, il capo della cellula, sperava  di convincere il governo di Hamas a rilasciare un leader salafita,  Hisham al-Saidni, un teorico del salafismo jihadista arrestato a Gaza  qualche settimana prima. Vik fu mostrato il giorno successivo bendato e  gravemente ferito alla testa in un video postato in internet dai  sequestratori. Nelle ore successive la polizia fu in grado di inviduare  la casa dove l'italiano veniva tenuto ostaggio ma prima che le forze  speciali di Hamas facessero irruzione nell'appartamento a nord di Gaza, i  rapitori uccisero Vittorio, peraltro ben prima dello scadere  dell'ultimatum fissato per il rilascio di Saidni. Hasasna e Jmar furono  arrestati subito. Breizat, Omari e Salfiti provano a fuggire ma furono  individuati in un appartamento di Nusseirat dalla polizia. Dopo un lungo  assedio Breizat e Omari morirono in uno scontro a fuoco con le forze di  sicurezza dai contorni mai chiariti del tutto. Salfiti, rimasto ferito  ad una gamba, fu arrestato e incarcerato. Saidni è stato recentemente  liberato senza imputazioni dopo essersi impegnato a non disturbare  l'ordine pubblico, ha annunciato Hamas. Il gruppo Tawhid wal Jihad non  ha ancora commentato la sentenza.
 La severa condanna per due dei quattro  imputati ha parzialmente legittimato le autorità giudiziare di Gaza,  dopo un processo zoppicante, segnato da udienze brevissime e da rinvii  inattesi e dall'assenza di un vero dibattimento. Forse Hamas ha voluto  dare un segnale all'Italia e ai tanti amici e compagni di Vik che  chiedevano giustizia. Questa sentenza però chiude solo una parte della  vicenda. Troppi interrogativi rimangono senza una risposta. I rapitori hanno agito per conto di un regista esterno? Avevano deciso di eliminare in ogni caso Vittorio? Sono gli unici colpevoli? A  noi resta una sola certezza: la scomparsa di un giovane che amava Gaza -  non Hamas come ha affermato ieri un giornalista italiano -, che credeva  nella giustizia, nella legalità, dei diritti di tutti i popoli. Nel  rispetto della dignità dell'uomo. «Restiamo Umani» ci diceva sempre. Sì, Vik, resteremo umani, anche grazie a te.”
 05/10/2012
 
 Fonte: Il Manifesto- Dossier Vittorio Arrigoni – Agenzia Nena News
 
 
	
	
SABRA E SHATILAIL SILENZIO E L’INGIUSTIZIA NON CANCELLERA’ IL RICORDO DI QUEL MASSACRO
 
 
di Mirca Garuti  
 Alkemia si sta preparando a ritornare a Beirut con il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”.  Sono trascorsi 30 anni da quei due giorni terribili. Giorni in cui la  belva umana ha dato il meglio di sé. Non si tratta di morti in battaglia  o durante un conflitto armato, ma si tratta di migliaia di donne,  bambini, uomini, vecchi, torturati, violentati, calpestati, trucidati  nel più totale silenzio. Nessuno ha ancora pagato per quel crimine.  Nessun governo vuole ricordare. 
 Igor Man, dieci anni dopo la strage, scriveva  "L'assedio di Beirut, Sabra e Chatila: di là dalla nebbia del tempo  resiste la memoria di quell’insulto alla vita. Un incubo, le fitte che  dà una vecchia ferita quando si fa sera e di colpo piove e t’accorgi che  è finita l’estate. E allora pensi ai vivi e ami i morti rimasti laggiù.  A Beirut”.
 
 Non tutti però restano in silenzio! E’  bello scoprire che ci sono giovani scrittori sensibili alla causa del  popolo palestinese che vogliono capire. Spesso ci troviamo a parlare di  questo eterno e sofferto conflitto solo tra militanti. Ragionare sulla  questione palestinese è molto difficile. La prima reazione è quella di  essere sempre accusati d'antisemitismo e di voler cancellare Israele e,  quindi di essere considerati  terroristi, come i palestinesi. Così  quando si legge sulle pagine di un importante giornale, come il Corriere della Sera, nell’inserto culturale della domenica “La Lettura”, il coinvolgente reportage di Paolo Giordano “Una notte di 40 ore”, si accende una piccola luce di speranza. “Nel settembre del 1982 ero ancora immerso nel tepore del liquido amniotico, dentro il ventre di mia madre”,  scrive Paolo nel suo articolo, mentre, i bambini di Sabra e Chatila,  sia quelli nati e sia quelli non nati,  non sono stati altrettanto  fortunati. Paolo, con le sue parole, riproduce anche una fotografia  della società italiana degli anni ’80 –’90, specialmente quella dei  giovani liceali e del loro modo di porsi di fronte ad una questione così  complessa e lontana dal loro mondo.
 Forse non c’era una profonda conoscenza  del problema, ma non c’era indifferenza verso la situazione disastrosa  dei palestinesi, e questo ha contribuito a far crescere, dentro l’anima  di Paolo, questo piccolo seme che l’ha portato poi, in età adulta, a  mettere piede a Chatila. Occorre vivere Chatila per  comprenderla, è necessario camminare tra i suoi vicoli stretti e bui,  guardare dove e come vivono i suoi abitanti, annusare l’aria che si  respira, sorridere, stringere le mani, abbracciare ed accarezzare i  volti di tutte quelle persone che, giorno dopo giorno, da più di 60anni,  sopravvivono nei campi senza mai perdere la speranza di poter ritornare  nelle loro case d’origine.
 
 Leggendo il racconto di Paolo si capisce  che non conosce Stefano Chiarini ed il suo impegno nella causa  palestinese. Paolo parla che “il solo luogo di memoria del massacro si trova in un garage”, ma non è così. Prontamente, Michele Giorgio,  giornalista del “ Manifesto”, riprende, sul sito di Nena News, quanto  riportato da Paolo e chiarisce l’equivoco. La guida di Paolo,  evidentemente, non è stata molto chiara e non ha condotto il suo gruppo  al memoriale fatto costruire proprio da Stefano. Le sue parole: “La  più grande e nota delle fosse comuni, situata all’ingresso del campo di  Chatila, a pochi passi dall’ambasciata del Kuwait, è ridotta ad uno  squallido campo polveroso nel quale vengono gettate le immondizie di un  vicino mercato e detriti di ogni genere. Non una lapide, un segno che  ricordi la presenza delle fosse comuni che inviti al loro rispetto.” (anno 2000) Per questo motivo nasce poi in Italia il “Comitato Per non dimenticare”  e Stefano riuscirà nel suo intento, trasformando quell’area in un luogo  di ricordo e di dignità per tutte quelle vittime. Un luogo che, a settembre di tutti gli anni,  è diventato la meta delle nostre visite. Una grande manifestazione,  alla quale partecipano la popolazione di Chatila, le rappresentanze dei  vari campi, le varie forze politiche e le delegazioni straniere, dà  inizio alla cerimonia di commemorazione della strage.
 
 Ora Stefano non c’è più, ma il lavoro del  Comitato continua e la sua presenza nei giorni in cui si ricorda il  massacro è molto importante perché si fa portavoce, verso tutte le forze  politiche del Libano, dei diritti dei rifugiati palestinesi che  continuano a chiedere giustizia, migliori condizioni di vita ed il  riconoscimento del diritto al ritorno alla loro terra:
 
 “Se tutti accettano come normale che  gli ebrei “tornino” in Palestina dopo 2000 anni – e il diritto al  ritorno è il fondamento dello Stato d’Israele  - perché un palestinese ,  con ancora in mano le chiavi della sua casa e il certificato di  proprietà della vigna, è considerato un pericoloso estremista, o un  potenziale terrorista, se sogna, chiede e lotta per “tornarvi” dopo  qualche decina d’anni?”  (Stefano Chiarini, da Il Manifesto 16/09/2003)
 
 I rifugiati chiedono di non essere  dimenticati dalla comunità internazionale. L’impegno del Comitato e di  tutti i numerosi partecipanti alle sue iniziative è proprio quello di  creare una rete  d’informazione su tutto il territorio che può  contribuire a ricordare, a dialogare, a capire e a pensare.
 11/09/2012
 http://nuke.alkemia.com/MedioOriente/LastoriadiSabraeChatila/tabid/756/Default.aspx
 
 http://lettura.corriere.it/una-notte-di-40-ore/
 
 http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=33655
 
 
 
	
	
Lasciato con il cuore colmo di tristezza e rabbia il villaggio di Roboski, il nostro viaggio prosegue verso Hakkari per partecipare al Newroz (vedi 2°parte “NEWROZ PIROZ BE).  
Dopo il Newroz di Hakkari ripartiamo per Yuksekova.  Arriviamo di sera e troviamo una città deserta immersa nel buio. Per le  strade transitano solo camionette della polizia. Usciamo più tardi  dall’albergo per fare un giro in questa città militarizzata. Fa molto  freddo, le strade sono ghiacciate, non incontriamo nessuno a parte una  macchina della polizia che punta i fari verso di noi per un controllo. 
Il motivo di questo coprifuoco è sempre lo stesso: il rifiuto della Prefettura di concedere l’autorizzazione a celebrare il Newroz il 20 marzo.  La giustificazione: la data della festa deve essere sempre solo quella  del 21 marzo ed il luogo è stabilito dalle autorità turche. Il popolo  curdo di Yuksekova non accetta quest’imposizione e scende ugualmente  nella piazza decisa dal suo partito BDP il giorno 20 marzo. Il Newroz di  quest’anno è stato dedicato al loro leader Ocalan;  chiedono la cessazione del suo isolamento e la ripresa di un dialogo per  la risoluzione del conflitto. La polizia ha usato misure molto violente  per impedire alla gente di raggiungere il luogo prestabilito: gas  lacrimogeni, getti d’acqua e proiettili veri. Gli scontri sono  continuati tutto il giorno. Il giorno successivo sono rimasti chiusi  tutti i negozi ed ogni attività si è fermata. La serrata è stata una  dimostrazione di protesta contro il comportamento della polizia che ha  provocato alcuni feriti tra la gente ed i poliziotti stessi, ma anche  contro l’attacco al Deputato Vice Presidente del partito BDP, Ahmet Turc, ferito a Batman  dai poliziotti. L’opinione pubblica turca non ha protestato, anzi il  Ministro degli Interni ha elogiato i poliziotti per il buon lavoro  svolto. Il Sindaco Ercan Bova  ci conferma che, negli anni scorsi, il Newroz è sempre stato festeggiato  tra il 15 e il 25 marzo. La politica del governo è quella di impedire  l’unità del popolo curdo. Il premier Erdogan, prima  delle elezioni, aveva riconosciuto ad Akkari l’esistenza del problema  curdo ed aveva affermato che doveva essere risolto, che avrebbe  costruito infrastrutture e che turchi e curdi erano fratelli. Dopo aver  vinto le elezioni, Erdogan ha in realtà negato tutte queste promesse ed  affermazioni. La situazione è molto difficile. L’estrema ostilità nei  confronti del Newroz si esprime non per negare una semplice festa, ma  per paura di quello che rappresenta: un simbolo, una speranza d’unità contro la continua repressione.  Il popolo curdo, attraverso il Newroz, manifesta il desiderio di poter  esprimere liberamente la propria lingua e cultura. Il governo turco  invece dimostra solo di essere un governo reazionario, ha paura  di tutti quelli che non sono veri turchi distruggendo, per esempio, ad  Istanbul baraccopoli, associazioni e locali di ritrovo. Tutto questo  però non fermerà il popolo curdo che continuerà la lotta per ottenere i  suoi diritti. Yuksekova, continua il sindaco, come  prova della discriminazione che subisce ogni giorno, non essendo un  comune appartenente al partito di governo, ha ricevuto la cifra di 55lire turche (circa 25,00 euro) per pulire le strade dalla neve durante i mesi invernali. Bitlis, invece, che è una municipalità amministrata dal partito di governo, ha incassato, sempre per pulire le strade dalla neve, 7milioni di lire turche.  Il bilancio del comune di Yuksekova è molto ridotto, possono fare solo  piccole cose e non esistono infrastrutture. Le spese complessive  necessarie risultano essere pari a 150milioni di lire, ma le casse sono  praticamente vuote e non arrivano soldi perché il comune di Yuksekova  appartiene al partito BDP, mentre il governo centrale a quello dell’AKP Il sindaco Bova termina l’illustrazione  della situazione del suo comune dandoci gli ultimi dati della  composizione della giunta: 5 consiglieri arrestati e 5 ricercati perché  sono fuggiti.   Ora sono rimasti in 15. L’accusa è quella di appartenere  all’organizzazione del KCK. Sono state fatte  intercettazioni telefoniche, attribuendo a parole semplici con un  significato innocuo un contenuto del tutto diverso trasformato in  attività illegali.
 L’ex sindaca di Yuksekova, Ruken Yetiskin si trova nuovamente in carcere.
   
 
 Dopo l’incontro con il Sindaco, andiamo presso la sede di Meya Der, Associazione dei martiri di Yuksekova, per consegnare le borse di studio ad alcune ragazze. L’Associazione Onlus “Verso il Kurdistan” ha avviato il progetto “Berfin”  (Bucaneve) rivolto solo alle ragazze in quanto vivono situazioni più  disagiate e difficili rispetto ai loro coetanei maschi. La donna è  sempre considerata solo utile alla famiglia per i lavori domestici e per  procreare, non ha bisogno quindi di studiare o intraprendere  professioni particolari. Le borse di studio per Yuksekova sono dieci,  mentre quelle per Van dodici.  Yuksekova è la città con più alto numero di martiri (700), così dice il Presidente del partito BDP,  mentre le famiglie che fanno parte dell’associazione sono poco più di  400 e questo perché molte famiglie hanno più martiri. Lo scopo è quello  di sostenere, unire ed aiutare le famiglie più bisognose, spiegando  perché i loro figli sono diventati martiri e perché questa lotta che  dura da 35anni è importante per il futuro.
   A quest’incontro sono presenti anche  quattro ragazze destinatarie delle borse di studio. Tre ragazze  frequentano la seconda classe del liceo ed il loro sogno è diventare  architetto ed avvocato. L’ultima invece è la più piccola, frequenta la  6°classe delle elementari e vuole fare l’insegnante. Tutte hanno o il  padre, zii, o sorelle morti in montagna. Alle scuole elementari, medie e  superiori hanno normalmente insegnanti curdi (non possono, però parlare  la lingua curda), i problemi discriminatori iniziano all’università.  Nel momento in cui però ci sono insegnanti turchi cominciano a sorgere  alcuni problemi e quando il governo decide di erogare un po’ di soldi  alle famiglie più povere s’informa prima di tutto se in quei nuclei  familiari ci sono martiri.    
 
 Siamo quasi arrivati al termine del nostro  viaggio. Ci lasciamo alle spalle la città martire di Yuksekova e  raggiungiamo la città di Van tra alte montagne innevate  a quota 2200metri, sulle sponde dell’omonimo lago. Attraversiamo  velocemente la città che porta ancora i segni del violento terremoto del 23 ottobre scorso, per incontrare la Vice Sindaca, sig.ra Bahar Orhan.  La nostra visita purtroppo sarà molto breve: verificare la situazione  odierna e consegnare le 12 borse di studio alle ragazze.
 Il 22 marzo scorso non avevo ancora  vissuto sulla mia pelle la “sensazione” del terremoto che avevo invece  provato il 29 maggio a casa mia. Il coinvolgimento è diverso. Parlare di  cose vissute o viste avvicina di più le persone. Sentire prima il boato  che accompagna il terremoto, poi quasi in contemporanea, un forte  movimento sussultorio od ondulatorio che non finisce mai, è veramente  qualcosa di sconvolgente. La paura ti avvolge, ti senti completamente  inerme, impotente, non puoi difenderti da niente e da nessuno e speri  solo di avere fortuna e di salvarti. E’ questa sensazione di paura che  ti rimane dentro e che non puoi dimenticare.     Il terremoto di Van  non è certo paragonabile con quello avvenuto un mese fa in Emilia  Romagna, ma avendo provato la stessa situazione, la posso ampliare ad un  massimo livello per entrare così nell’animo di quelle persone, tenendo  però anche in considerazione la situazione politica e geografica in cui  vivono. In Turchia si registrano in media 20mila scosse l’anno.  Il 66% del suo territorio si trova in aree sismiche di primo e di  secondo grado. Il 70% della popolazione abita in queste zone dove sono  anche situati il 75% dei maggiori stabilimenti industriali del paese.  L’ultima regolamentazione sulle norme antisismiche è del 1998,  ma purtroppo normalmente non rispettata. Il partito AKP da quando è  arrivato al potere nel 2002, come del resto anche i suoi predecessori,  ha continuato a chiudere un occhio sulla costruzione d’abitazioni  abusive sui terreni statali. Erdogan ha affermato, dopo la devastazione  causata da questo terremoto, che saranno abbattute “tutte le abitazioni abusive” del paese anche “a costo di perdere voti alle elezioni”. Il Vice Preside della facoltà d’ingegneria edile dell’Università tecnica d’Istanbul, Alper Ilki spiega che esistono diversi livelli d’abusivismo edilizio: quelli che non hanno il rogito, che comprendono il 70% dei  palazzi d’Istanbul e che, quindi, non hanno un certificato  d’abitabilità; quelli che non hanno il permesso per costruire e sono  privi di un progetto, quindi completamente abusivo con un rischio più  alto di cedimento.  Per Ilki non c’è dubbio che “in tutta la Turchia  ci siano edifici fragili come a Van. E’ sicuro che il verificarsi di un  altro sisma di questo tipo, in qualsiasi località, il risultato sarebbe  simile”. Il terremoto di Van ha dimostrato che non solo le case  fuori regola dei privati sono a rischio di crollo, ma anche le strutture  statali. A Van sono rimasti in piedi solo due edifici pubblici: la  prefettura ed il centro di gestione di crisi. Tutti gli altri hanno  ceduto. Il Presidente del Consiglio d’amministrazione della Camera degli ingegneri edili, Serdar Harp  afferma che le strutture statali sono esenti da un controllo esterno e  gli ingegneri che approvano l’applicazione del progetto non hanno  nemmeno l’obbligo di far parte dell’Ordine degli ingegneri edili che ha  una funzione di vigilare sulla categoria. Dopo il sisma di Van, sono  stati presentati vari rapporti nei quali la ragione principale dei  cedimenti sembra dovuta all’utilizzo del materiale scadente: dalla  sabbia non lavata adeguatamente, alla quantità di cemento armato,  all’insufficienza delle staffe nei pilastri ed al mancato controllo  finale da parte degli ingegneri responsabili del progetto.
   L’aspetto di Van è quello di una città in  costruzione: tende, lavori in corso e strade completamente distrutte. In  questo completo disastro c’è però una nota curiosa: il simbolo  nazionale, il “Turco Van”, ossia il gatto di Van. In  mezzo ad una piazza, infatti, notiamo un’imponente statua alta 4 metri  che lo raffigura. Van è la patria d’origine di una particolare razza di  gatti abilissimi nuotatori. Il Turco Van è un gatto di stazza  grande: il maschio può arrivare a pesare 8 o 9 kg e la struttura del  corpo è lunga e robusta. La pelliccia è priva di sottopelo, setosa e  soffice. La caratteristica principale è la colorazione che prevede un  mantello bianco calce, con coda colorata e macchie di colore sulla  testa. Ha occhi grandi e ovali, molto espressivi ed il loro colore può  essere azzurro, ambra chiara o impari (uno azzurro e un’ambra chiara),  mentre la palpebra deve sempre essere rosa. Il simbolo nazionale però è a  rischio d’estinzione in quanto solo a Van sono rimasti gli unici  esemplari ufficialmente riconosciuti al mondo. L’allevamento del Turco  Van, che si trova in un edificio a due piani affiancato da due gabbie  con tettoia, non ha subito danni per i due terremoti del 23 ottobre e 10  novembre scorsi. Fetih Gulyuz, direttore del Centro di  ricerca sul gatto di Van dell'Università del Centenario, ateneo che si  trova nella città affacciata sull'omonimo e azzurrissimo lago nell'est  della Turchia, quattro ore dopo il primo terremoto ha riferito che: "I gatti si comportavano come il solito, normalmente” ed  ha aggiunto che non sono mai stati abbandonati. La Turchia è così  orgogliosa di questo gatto che pure Ankara ha scelto i suoi occhi  bicolori per un recente logo turistico.
 La vice sindaca Bahar Orhan  ci riceve in un prefabbricato che funziona come Municipio, dal momento  che la sede non esiste più. Il nostro interesse è capire, come la città  di Van, vive dopo il terremoto dello scorso anno. Molte famiglie sono  state mandate nelle città vicine, a Sirnak, Diyarbakir, Batman, ma dopo  la ricostruzione, vogliono che ritornino nelle loro case. Dopo il  terremoto, la città di Van è stata divisa in cinque parti dove sono  state allestite delle tende di coordinamento per le donne, i bambini, i  volontari provenienti da altre città ed un presidio sanitario. La terra  però continua a tremare, infatti anche il giorno prima del nostro arrivo  c’è stata una scossa di magnitudo 4.2 Richter. Sono arrivati aiuti da  tutte le città della Turchia, ed è stato anche avviato un centro di  terapia psicologica per traumi subiti dal terremoto. La gente però ha  paura di tornare alle proprie abitazioni, anche se sono agibili ed ad un  solo piano.  Reazione del tutto normale in situazioni come questa. Un  momento simile lo stiamo vivendo anche noi ora qui in Italia nella Regione dell’Emilia Romagna a  mesi di distanza dal terremoto, anche perché le scosse, anche se di  bassa entità, continuano e la paura spesso non è controllabile. Oltre  alle tende sono stati installati anche 35 container, ma il  governo ha dato la priorità al loro uso prima di tutto ai poliziotti, ai  militari e per ultimo alla gente comune. La vice sindaca ci fa presente  che il budget del comune è in estrema difficoltà, ha pochissime risorse  e non riesce a far fronte alle necessità della sua gente, come per  esempio, costruire un luogo da adibire ad una lavanderia collettiva,  nonostante abbia ricevuto i macchinari, ma manca un posto dove  collocarli e metterli in funzione. Il governo centrale, infatti, come  regola, invia gli aiuti alla Prefettura non al Comune interessato e,  quando deve effettuare dei versamenti ai Comuni, si trattiene il 40% come acconto sui debiti che ogni municipalità ha nei confronti del Governo. Van,  vista la situazione d’emergenza, ha provato a chiedere la sospensione  di questa prassi, ma purtroppo la risposta è stata negativa. Per quanto  riguarda, per esempio, l’uso dei container, spetta alla municipalità  farsi carico dei vari allacciamenti per i necessari servizi.  La  popolazione non è in grado di pagare l’acqua o la luce, e di  conseguenza, il Comune non può pagare quest’erogazione ed ha provato a  chiedere alla Prefettura un rinvio del pagamento, fino alla fine  dell’emergenza. La risposta è stata negativa. I quartieri dove sono  stati collocati i container, sono stati militarizzati dalle forze di sicurezza: nessuna organizzazione, o Ong o la stampa può entrare e parlare liberamente con la gente. Per entrare ed uscire serve un’autorizzazione.  La Vice sindaca ha inoltre chiesto alla Prefettura di poter ricostruire  le strade rese impraticabili dal terremoto e dal gelo, ma anche questa  volta la risposta è stata un No. A Van molti palazzi non esistono più:  non c’è il Municipio, non c’è la stazione dei vigili del fuoco, non c’è  l’azienda dei trasporti e delle 76 scuole esistenti, 35 sono  andate distrutte. I corsi scolastici continuano all’interno dei  container. La municipalità è in grado d’intervenire solo sulle  emergenze. Per quanto riguarda le strutture ospedaliere, ne funziona una  sola, è stata negata l’autorizzazione d’impiantare un ospedale da campo  proposta da una delegazione iraniana, preferendo il trasferimento dei  feriti in strutture in diverse città turche. La gente colpita dal  terremoto stanca ed arrabbiata per la mancanza d’aiuti ha organizzato  anche una manifestazione di protesta davanti alla  prefettura ma la polizia ha reagito con lacrimogeni e violenza. Il  governo ha praticato una terribile censura sulla distruzione della  regione di Van e riesce a bloccare tutti gli aiuti provenienti  dall’estero. La Prefettura sostiene che qui rappresenta il governo e  quindi,  ha il diritto di prelevare tutti i soldi inviati per poi  decidere cosa farne. L’alternativa resta dunque solo quella di  consegnare gli aiuti direttamente nelle mani della popolazione colpita.  La nostra associazione è riuscita a portare a Van, oltre ad aiuti  materiali, anche una somma in denaro che potrà servire alla costruzione  di un forno collettivo, evitando così alle donne di doversi recare nei  loro vecchi quartieri per fare il pane ed alla struttura necessaria per  la lavanderia.    
   
  
 Al termine di questa visita incontriamo anche due bambine dell’associazione dei detenuti politici di Van, Tuyad Der  e consegniamo al Presidente dell’associazione il corrispettivo delle 12  borse di studio. La breve visita è finita.    Ritorniamo a Diyarbakir.
     Racconto della delegazione italiana in visita nella città di Van dopo il terremoto:
 http://azadiya.blogspot.it/2011/12/2-report-delegazione-italiana-in.html  Racconto di Giacomo Cuscunà da Van:  http://www.canedariporto.it/Cane_da_Riporto/SVE/Voci/2012/5/18_LAquila_turca__Van.html
 
 Siamo ritornati a Diyarbakir per l’ultimo giorno. Una breve visita alla città e gli ultimi due incontri. Il primo, con i componenti di Tuhad Fed, Federazione delle associazioni impegnate nella difesa e nell’assistenza dei detenuti politici e delle loro famiglie. L’associazione Onlus “Verso il Kurdistan” dal 1999 ha attivato il progetto “Oltre le sbarre”  che permette il sostegno a trenta famiglie che, dopo l’arresto del  capofamiglia o dei figli, si trovano in condizioni economiche  particolarmente difficili.  All’appuntamento sono presenti una dirigente di Tuhad Fed, Latice Makas  ed un uomo, ex detenuto politico, che ha raccontato la sua storia.  Questa persona, per motivi di sicurezza, ha chiesto di rimanere anonimo.  Oggi ha 49 anni e ne ha trascorsi 30 in carcere. E’ stato incarcerato, per la prima volta, con l’accusa di appartenere ad un’organizzazione “terroristica”  a 17 anni, per un periodo di 15 anni. Dopo solo due anni è stato  nuovamente condannato con le stesse motivazioni ad altri 15 anni. Il suo  compito oggi è quello di far sapere al mondo la verità sulle carceri  turche. Dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980, la tortura divenne prassi quotidiana in tutte le carceri del paese. Nella “prigione 5” di Diyarbakir  c’era una tortura molto pesante ed in quel periodo quattro detenuti  famosi curdi si diedero fuoco per protestare contro le inumane  condizioni carcerarie. Raccontare, parlare delle torture vissute è molto  difficile, spesso si preferisce restare in silenzio, è troppo grande il  dolore provato, sembra impossibile essere sopravissuti in  quell’inferno. (Forum della Mesopotamia)
 Lo Stato turco, come membro della Nato e fedele alleato degli Stati Uniti d’America,  nella guerra al terrorismo doveva adeguarsi a Stato moderno  democratico, anche nell’organizzazione delle carceri, introducendo, per  esempio, l’isolamento. L’esempio lo poteva trovare osservando il sistema  carcerario americano e spagnolo, non ignorando neppure la vecchia ma  sempre moderna e praticata tortura, ottenendo così anche il rispetto del governo americano che regalò ad Ankara armi ed elicotteri di propria fabbricazione. Nel 1996 fu introdotta la prima cella di tipo “F”. Quest’innovazione  aveva l’obiettivo d’isolare i prigionieri politici da quelli comuni,  cosa impensabile con il vecchio sistema dato, l’altissimo numero di  prigionieri nelle celle comuni. I detenuti, contrari a questo nuovo  ordine, protestarono con uno sciopero della fame che coinvolse 69 persone. Morirono in 12,  ma riuscirono a far chiudere il carcere appena sorto. Le rivolte furono  numerose e tutte violentemente represse dai secondini, dalle forze di  sicurezza rapida, dalle squadre anti-sommossa, con armi da fuoco e  liquidi infiammabili. I casi più eclatanti furono le ribellioni del ’95– ’96 e ’99  che causarono la vita a molti detenuti ed il ferimento di centinaia di  altri prigionieri che furono torturati, stuprati, mutilati, resi  irriconoscibili. Per le lotte contro un carcere fuori d’ogni regola, lo  strumento utilizzato dai detenuti in Turchia è lo sciopero della fame.
 Il Signor X continua il  racconto molto sofferto della sua vita, sente la necessità di farci  partecipe di tutte le brutalità subite con la speranza che tutta questa  violenza possa un giorno terminare. In queste carceri – afferma – lo scopo è arrivare all’isolamento totale della persona fino al suo completo annullamento. Oggi in Turchia ci sono 12 carceri speciali (il carcere di Van è stato evacuato a causa del terremoto). I  prigionieri vivono in totale isolamento, senza nessuna possibilità di  comunicazione neppure tra loro e sono quindi esposti a tutte le più  distruttive pratiche esistenti di tortura. I detenuti quando arrivano  qua, per prima cosa sono obbligati a spogliarsi completamente,  nonostante abbiano già superato capillari controlli. Il mettere a nudo i  prigionieri, era la tattica usata dai nazisti nei campi di  concentramento. Rappresenta il modo più diretto per far sentire il  detenuto che, da quel momento in poi, non sarà più considerato un essere  umano, ma solo una “cosa” senza nessun diritto e nessuna dignità.   I detenuti spesso oppongono resistenza, rifiutano di spogliarsi,  incuranti della reazione violenta dei poliziotti che, per prima cosa, li  picchiano furiosamente con i bastoni, poi li mettono in totale  isolamento in una cella singola per tre settimane. In queste carceri non  possono esserci né minorenni né donne, ma in realtà i minorenni ci sono  perché l’età è stabilita dai giudici e non risulta dalla carta  d’identità. In Turchia esiste un ergastolo normale, che significa una pena fino a 36anni, e quello grave che va fino alla morte. Le donne sono maltrattate e violentate spesso durante i trasferimenti nelle carceri o negli ospedali e sono più di mille.
 La politica di tipo F è  una politica di totale spersonalizzazione. Il detenuto è obbligato a  presentare per qualsiasi richiesta una domanda scritta che sarà  soddisfatta solo se ha rispettato scrupolosamente tutti gli ordini della  direzione carceraria. In carcere sono previste attività sociali, ma i  detenuti politici hanno paura perché è sufficiente cantare una canzone  ritenuta popolare per ricevere una punizione che può essere il divieto  di comunicare con i propri familiari anche per tre mesi. I detenuti  politici sono spesso costretti a chiedere ai loro familiari di  interrompere le loro visite per non dover sempre subire molteplici ed  umilianti perquisizioni da parte delle guardie. La vita d’inverno nelle  carceri speciali è molto dura, non c’è riscaldamento e manca l’acqua  calda. I medici sono scelti tra i militari che hanno prestato servizio  in Kurdistan, sono molto giovani con poca esperienza e, per qualsiasi  problema dispensano ai detenuti psicofarmaci. Il signor X, per  esempio, in carcere ha avuto problemi di cuore, ma è stato mandato in  cura dallo psicologo. La cosa positiva è quella che, in una situazione  simile, si è creata una rete importante di solidarietà tra i detenuti  politici e quelli comuni. X continua a ripetere che è  molto difficile raccontare in modo capillare la vita d’ogni giorno  vissuta in carcere perché troppe sono le cose che succedono. Le autorità  turche, attraverso questi sistemi, vogliono principalmente separare i  detenuti dalla famiglia e, per questo, prima di tutto sono inviati in un  carcere che risiede in un’altra zona rispetto alla propria residenza.  In questo modo per la famiglia diventa molto difficile e costoso poter  continuare le visite ai propri detenuti.
 Secondo i dati del Ministero di Giustizia nel 2011 sono morti in carcere per mancanza di cure 364 prigionieri e negli ultimi 10anni sono morti 1752 persone. Oggi ci sono più di 100 detenuti malati di cancro ed altre malattie gravi. Nel 1992 il totale dei detenuti tra politici e comuni era di 52.000, oggi di 126.000, di cui 12.000 politici e tra questi 6.400 appartenenti all’organizzazione del KCK.  Gli aderenti al KCK non sono guerriglieri, ma sono sindaci,  consiglieri, insegnanti, deputati, professionisti, semplici cittadini,  tutti della società civile. Alcuni studenti per aver fatto uno  striscione con la richiesta d’istruzione gratuita sono stati condannati a  due anni di carcere con l’accusa di terrorismo e di separatismo. (IHD)
   La nostra conversazione continua esaminando anche l’aspetto legato alla situazione dei 95 giornalisti che si trovano in carcere. La Turchia, in fatto d’arresti della carta stampata, riesce a superare anche la Cina. Le autorità turche, secondo una recente dichiarazione del Ministro degli Interni, in 60anni hanno vietato più di 22.600 libri. Secondo il rapporto dell’IHD, 11.994 persone, nel 2010, hanno subito un processo per “propaganda d’organizzazioni terroristiche” e 6.504 siti Internet, nel 2011, sono stati bloccati peggiorando notevolmente la situazione della libertà d’espressione. Secondo l’agenzia Bianet,  sono stati confiscati sette quotidiani per 11 volte, vietati o  confiscati tre libri, nove manifesti e due banner, ed un libro è stato  oggetto d’indagine. Inoltre, le Autorità hanno ammonito 33 canali  televisivi 41 volte e 3 volte una radio. La polizia, sempre secondo l’IHD, nel corso del 2011, ha fatto irruzione in ben sedici sedi dei mass media in Turchia. La Piattaforma per la Libertà dei Giornalisti  ha rilasciato il 26 giugno scorso una dichiarazione scritta per  annunciare una marcia per chiedere la libertà per più dei 100 esponenti  dei media incarcerati in Turchia. La marcia ha avuto luogo il 29  giugno ultimo scorso. La Turchia si è quindi trasformata nella più  grande prigione per giornalisti, così come per esponenti dei sindacati,  avvocati, rappresentanti eletti, studenti, donne e bambini. Il silenzio dei governi occidentali ha certamente aiutato quest’operazione.  Lettera di un giornalista arrestato: http://kurdistanturco.wordpress.com/2012/06/17/lettera-da-un-giornalista-arrestato/ Parlare d’ingiustizia in Turchia  si è rivelato un lavoro immenso, poche pagine scritte sono certamente  insufficienti, ma sono abbastanza da far capire, a chi ritiene la  Turchia un paese democratico, a chi la vorrebbe in Europa ed a chi la  crede difensore dei Diritti del popolo palestinese o meglio, come dice Erdogan, di tutti i popoli oppressi, il vero volto di questo paese, osservando cosa sta facendo al popolo curdo ed ai difensori dei Diritti Umani curdi. La Turchia è un paese pericoloso anche per i lavoratori, nonostante la situazione economica vantata dal governo ed osannata dall’Occidente, perché si continua a morire per lavorare: 238 morti dall’inizio del 2012, e in nove anni, quasi 10.300. Secondo l’Ufficio Internazionale del Lavoro, ogni anno muoiono 2,2milioni di lavoratori in tutto il mondo, per infortuni sul lavoro o per malattie professionali, quasi 5000 persone il giorno. La Turchia si trova al primo posto nella lista tra i paesi europei ed è classificata terza al mondo.   Il 9 marzo, undici lavoratori sono morti in un incendio che ha  distrutto la tenda che utilizzavano per trascorrere la notte, presso la  sede di un importante centro commerciale di Esenyurt, ad Istanbul. Il 27  aprile, il deputato del BDP Ertugrul Kurkcu,  ha chiesto la creazione di una commissione parlamentare d'inchiesta per  determinare le cause della recrudescenza di tali incidenti: "Bassi  salari, tempi di lavoro estenuanti che si spingono fino a 14 ore, la  mancanza di sicurezza sociale, l’assenza di tutela della salute e  sicurezza sul lavoro, si abbattono su più di 10 milioni di persone", ha detto l’Onorevole....I  settori più colpiti sono l'edilizia, l’energia, l’industria  metallurgica e il settore dei servizi……Il dipartimento non sta facendo  il suo dovere, evitando di proteggere la vita dei lavoratori, al  contrario, sta cercando di indebolire e sciogliere i sindacati. La vita  di un uomo non può ridursi a numeri o statistiche, nulla è più  importante della vita umana”.  Attualmente, quaranta sindacalisti sono “ospiti” nelle prigioni turche. Il Ministro della Giustizia, Ergin ha pubblicato questi dati: al  31 dicembre 2000 sono stati registrati 49.512 detenuti nelle carceri  turche, nell’aprile 2012 il numero è salito a 132.060 (95.652 detenuti e  36.408 detenute). A questo punto, la famosa frase di Voltaire “ Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri perché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione” è la risposta più semplice alla domanda: la Turchia è un paese democratico e libero?    L’ultimo argomento che affrontiamo con il signor X è lo sciopero della fame in corso, all’interno e all’esterno delle carceri in Turchia e, come solidarietà, a Strasburgo.  Lo sciopero della fame in carcere in Turchia è uno strumento ricorrente  e molto utilizzato per avanzare legittime richieste, anche se non  ottiene quasi mai dei risultati positivi. X conferma che ormai siamo  arrivati al 123esimo giorno. Questa è la risposta alla  totale indifferenza del governo turco nei confronti degli scioperi della  fame a tempo determinato, avvenuti tra il 1° dicembre 2011 ed il 15 febbraio 2012 da circa 8.000 prigionieri politici curdi.  Il movimento di protesta si è poi rafforzato, trasformandosi in uno sciopero della fame ad oltranza.  Dal 15 febbraio, anniversario della cospirazione internazionale che ha portato alla cattura di Abdullah Ocalan, più di 400 prigionieri politici – continua X – hanno aderito allo sciopero.  Fuori delle mura delle prigioni, dal 20 febbraio in poi circa 20 parlamentari del BDP si  sono uniti ai prigionieri, così come anche numerosi sindacalisti,  sindaci, membri della società civile e familiari dei detenuti. Centinaia  di persone in tutto il paese,  in particolare ad Hakkari, Diyarbakir,  Batman,  Istanbul,  Van e Sirnak,  hanno deciso di aderire allo sciopero. Decine di curdi provenienti da tutta Europa sono in sciopero della fame ad oltranza dal 1° marzo a Strasburgo  per chiedere il rilascio di Abdullah Öcalan e la fine delle strategie  d’annientamento che il governo dell'AKP sta attuando ai danni della  popolazione curda. Gli 8000 militanti del PKK hanno annunciato che non  abbandoneranno lo sciopero se il Governo non risponderà positivamente  alle loro richieste. Il Governo turco ed Abdullah Ocalan sono gli attori  principali e gli elementi chiave per una soluzione politica della  questione curda in Turchia. Nel corso degli ultimi anni, ci sono state  delle fasi di negoziazione, ma dal luglio 2011 lo stato turco ha  ripreso una politica di totale isolamento nell'isola prigione d’Imrali,  in cui è rinchiuso dal 1999 Ocalan ed altri 5 detenuti.  A seguito  di tali provvedimenti, tutte le visite ad Ocalan, incluse quelle dei  suoi avvocati, sono state negate. Le possibilità di comunicazione verso  l’esterno sono estremamente limitate. I suoi avvocati difensori sono  sistematicamente sottoposti a processi penali. Fino a questo momento, le  Autorità Turche hanno scelto di affrontare la questione Curda, tramite  l’uso della violenza e dell’annientamento, rifiutando il dialogo e la  negoziazione. Negli ultimi mesi  le operazioni militari  transfrontaliere hanno provocato la morte di ben 41 civili e l’Esercito  Turco ha utilizzato armi chimiche (in violazione della Convenzione di  Parigi), contro le forze della guerriglia Curda.  Le potenze  occidentali, che non esitano ad intervenire in Medio Oriente in nome dei  diritti umani e della democrazia, improvvisamente diventano cieche,  sorde e mute quando si tratta curdi. E lo stesso vale per le  Organizzazioni Internazionali. La diversità con la quale i  governi europei hanno reagito di fronte alla notizia dell’inizio dello  sciopero della fame il 20 aprile dell’ex primo ministro ucraino Yulia  Tymoshenko, è un esempio concreto del detto “due pesi e due misure”.Il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle ha minacciato di bloccare la ratifica dell'accordo d’associazione UE / Ucraina, il governo austriaco,  in un'intervista del 3 maggio, ha deciso di boicottare le partite del  campionato europeo di calcio 2012 che si terrà in Ucraina. Per la Tymoshenko si sono tutti mobilitati, dai governi alla stampa e mass media, per i 15 curdi a Strasburbo, che hanno portato avanti lo sciopero per 52 giorni, per i 2000 prigionieri politici curdi che hanno partecipato allo sciopero lanciato dai 400 detenuti dentro le carceri turche e per i 1200 prigionieri palestinesi che  hanno iniziato uno sciopero della fame illimitato il 17 aprile per  ottenere diritti fondamentali, niente, nessuna reazione, silenzio  totale.
 L’Onorevole Selma Irma,  deputata del BDP, che ha iniziato uno sciopero della fame ad oltranza in  carcere, ha spiegato la sua tragica e coraggiosa decisione con queste  parole: "per coloro che hanno menti e cuori aperti le sbarre della  prigione o la limitazione nello spazio non significano niente. D’altra  parte, coloro che si pongono al servizio della libertà e della  democrazia, prima o poi finiscono sempre in prigione. La questione curda  è giunta ad un punto in cui solo un processo democratico basato sul  dialogo e sulla negoziazione può portare alla pace. Siamo consapevoli  che questo sarà un processo lungo e delicato. Da trent’anni a questa  parte il nostro popolo sta chiedendo una soluzione democratica.  Rispondere a tale domanda è insieme facile e difficile. Ogni processo di  pace ha bisogno dei suoi attori e la persona che ha assunto il ruolo di  leader del nostro popolo è l’onorevole signor Öcalan. In quanto  rappresentanti eletti dal nostro popolo, siamo pronti a svolgere il  nostro ruolo in questo processo, mettendo le nostre vite a servizio  della causa. Sono preoccupata quanto voi per l’interruzione del processo  di pace e dei negoziati con il signor Öcalan. Sono allarmata al  pensiero che il genocidio politico contro i curdi messo in atto tramite  gli arresti di massa, le esecuzioni, i massacri e le pressioni  psicologiche, causerà attriti che porteranno a nuovi scontri fra i  nostri due popoli”.
 L’Europa ha inoltre dichiarato che le carceri di tipo F sono compatibili con il sistema carcerario europeo.
 La presidente di Tuhad ha  poi ricordato che gli avvocati dell’associazione sono in carcere e che  tre loro dirigenti sono stati messi in libertà da tre giorni, ma il loro  processo è ancora in corso. Ci presenta anche una donna che ha 7  familiari in carcere, di cui 5 hanno subito una condanna a 36 anni  ciascuno.
 Al termine dell’incontro, la delegazione  italiana consegna al Presidente di Tuhad–Der, (associazione dei  familiari dei detenuti politici) Latice Makas il denaro corrispondente a 30 affidi a distanza, mentre ad un responsabile di Sthay Der di Siirt  (associazione dei detenuti politici e dei martiri) il corrispondente di  14 affidi. Adottare a distanza significa dare un aiuto concreto alle  vittime della repressione.
     L’ultimo incontro è con le “Madri per la Pace”, associazione di donne curde che organizzano conferenze stampa, sit-in, manifestazioni per diffondere il loro ideale: mettere fine a questa guerra. Un  fazzoletto bianco posto sulla testa rappresenta il simbolo del loro  lutto per un morto avuto in famiglia a causa del conflitto in essere.  Nel 1996 nasceva l’associazione “Madri di Piazza Galatasaray” le parenti dei "kayiplar" (desaparecidos): ogni  sabato mattina si raccoglievano in questa piazza ad Istanbul per  chiedere chiarezza sulla sorte delle migliaia di detenuti politici e di  militari uccisi negli scontri. Dopo l’arresto di Ocalan nel 1999, decidono d’impegnarsi in prima persona. Nasce così nel 1999, da un gruppo di donne curde e turche che avevano perso i loro figli d’ambo le parti in guerra, l’associazione legalmente costituita in Turchia, chiamata “Iniziativa delle Madri della Pace”,  erede dell’esperienza di Piazza Galatasaray.  Un movimento in linea,  inserito anche nell’ambito della proposta di pace avanzata e praticata,  unilateralmente dal movimento kurdo negli ultimi due anni. Le "Madri  della Pace" hanno una sede centrale ad Istanbul e sedi locali nelle  città turche di Adana e Izmir e nelle città kurde di Diyarbakir e Van e  stampano una rivista con una notevole attività pubblicistica. La  base del loro movimento è il rifiuto della violenza e della  rassegnazione, impegnandosi quotidianamente per la pace, la democrazia e  i diritti umani. In ogni città le “madri” hanno acquisito un vasto protagonismo anche con forme autonome d’organizzazione in seno al partito democratico filokurdo DEHAP ed il loro punto di riferimento è l’associazione per i diritti umani IHD.  Sostenere quindi queste donne tramite l’associazione IHD, mediante  l’affidamento a distanza, significa dare un aiuto concreto alle vittime  di questa repressione. La delegazione al termine di quest’incontro  consegna il denaro corrispondente a 12 affidi con la speranza che per il  prossimo anno questo numero sia aumentato.
 
 Parliamo con due donne, la prima Raife Ozbey  ci riferisce che sua figlia si trova in montagna tra i guerriglieri, ha  35 anni ed è laureata. Per nove anni ha lavorato in una fabbrica di  tabacco ed è stata in carcere due anni. Quando è arrivata la sentenza  della sua condanna a molti anni, ha scelto la montagna. La sua famiglia  viveva a Mus, avevano casa e giardini ma l’esercito turco bruciò tutto e per questo furono costretti a scappare a Silvan.  I tormenti non erano finiti: i figli erano umiliati a scuola, spesso  l’esercito faceva incursioni e portavano in caserma o i figli o il  marito e sparavano contro la casa. Altro trasferimento quindi a Adana,  dove sono rimasti per due anni, ma anche qui la situazione non  cambiava. Un’altra figlia che frequentava un corso da infermiera, subì  un’aggressione con il tentativo d’impedirle di continuare gli studi e fu  medicata con 25 punti di sutura in testa.  Altro trasferimento a Antalya dove  rimasero per 4 anni, ma sempre nella stessa situazione d’oppressione.  Il marito ed il figlio spesso erano arrestati e, per questo motivo si  stabilirono infine a Diyarbakir. In questa guerra Raife ha perso 7 familiari.     La seconda donna, Adalet Yasayul è un ospite dell’associazione, è stata in carcere molti anni fa ed ha subito torture per 45 giorni. Ora suo figlio e sua figlia si trovano in montagna. La sua famiglia è stata esiliata prima ad Istanbul e poi a Mersin. Si trova ora qui a Diyarbakir,  scappata con il marito dal villaggio in cui viveva per i soprusi da  parte dei “guardiani”, ma anche perché si deve sottoporre ad una terapia  fisica riabilitativa e psicologica per i postumi lasciati dalle torture  subite. Le torture, infatti, le hanno causato lo strappo dei muscoli  delle spalle e delle ginocchia e le hanno lasciato traumi psichici per  l’atroce esperienza vissuta. Continua il racconto la figlia. Dopo il  colpo di stato del ‘80, la famiglia di Adalet è stata minacciata e ha  dovuto lasciare la sua casa. “Nel 1992 e 1993 – racconta la figlia –  i poliziotti hanno assaltato la nostra casa, i miei fratelli erano  piccoli, 4/5 anni, hanno arrestato mia madre e l’hanno torturata per 45  giorni continuativi.  All’inizio è stata sottoposta ad una tortura  psicologia facendole credere di aver ucciso un suo bambino, ma poi sono  passati alle torture fisiche: è stata ripetutamente e selvaggiamente  picchiata ed infine stuprata con un bastone. Era una maschera di sangue.  Si è salvata per le cure delle sue compagne di cella”.  In quel periodo la  famiglia era dispersa. Alla sua liberazione si trasferirono ad Istanbul  dove, oltre ad affrontare i traumi della violenza subita, dovevano anche  far fronte alla miseria e alienazione della vita in una grande città,  alla quale non erano abituati essendo solo dei contadini. Sono rimasti  ad Istanbul 10 anni. Anche qui le arrestarono due figli perché curdi.  Non sentendosi sicuri sono tornati al loro villaggio, ma la loro casa  non c’era più, era distrutta. Erano rimasti soli e per questo soffrivano  molto. La figlia lavora qui con le “Madri della Pace” e, per questo, Adalet ed il marito si trovano a Diyarbakir.  
 Qui finisce il nostro  viaggio. E’ stata un’esperienza molto forte, toccante che certamente non  potrà esaurirsi perché anche noi, al fianco del popolo Curdo,  continueremo a denunciare, a lottare, a sperare per una soluzione  pacifica di quest’eterno conflitto.  
Per dovere di cronaca, il 9 marzo scorso le Madri della Pace, provenienti dalle province d’Istanbul, Diyarbakır, Smirne, Batman, Siirt e Yüksekova / Hakkari, si sono recate nel villaggio di Roboski,  dove il 28 dicembre 2011, l’aviazione Turca ha ucciso 34 innocenti. La  prima tappa della delegazione è stata dedicata ad una visita presso le  tombe delle 34 vittime, su cui hanno deposto simbolicamente dei  garofani. La portavoce della delegazione d’Izmir ,  Behiye Yalcin,  ha duramente criticato la recente visita della moglie del Primo  Ministro al villaggio. Yalcin a tal proposito ha fatto la seguente  dichiarazione: “La Signora Emine Erdogan, in occasione della visita  alle madri delle 34 vittime, avrebbe dovuto fornire l’elenco dei  colpevoli di tale massacro. Oggi ci troviamo nel villaggio dove lo Stato  ha ucciso 34 innocenti tramite l’uso d’armi chimiche. Noi, condanniamo  questa strage e crediamo che tutte le madri curde dovrebbero unire le  forze allo scopo di porre fine a questo spargimento di sangue. Non ci  daremo pace finché non cesseranno queste esecuzioni”. La portavoce delle Madri della Pace di Diyarbakır, Havva Kiran,  ha dato sfogo alla sua frustrazione in merito al silenzio omertoso  adottato dall’opinione pubblica internazionale sui fatti accaduti a  Roboski: "Chiediamo la democrazia per il mondo intero, non solo per i  curdi. Tuttavia, a tali richieste, lo Stato ha risposto con il massacro  dei nostri figli. Mi chiedo come avrebbe reagito il Primo Ministro se i  corpi dei suoi figli fossero stati ridotti a brandelli dalle armi  chimiche, senza la possibilità di distinguere le parti dei corpi dei  figli da quelle degli asini. Non abbiamo cresciuto i nostri figli per  vederli uccisi. Se le autorità intendono collocare i loro militari e le  stazioni di polizia nei nostri villaggi,  dovrebbero almeno contribuire  ad un processo di pace ma se questo non avverrà, dovranno lasciare il  nostro territorio ". La Signora Kiran ha sottolineato che è arrivato il  momento di dire basta: "Se non sarà garantita una soluzione pacifica  entro la primavera, il fuoco annienterà tutto”. I soldati turchi hanno attaccato il 28 giugno scorso la “Veglia di Giustizia per Roboski”. Il motto del raduno e della veglia affermava: “Non abbiamo dimenticato Roboski e non lasceremo che avvenga”. I soldati, come risposta, hanno usato getti d´acqua a pressione per disperdere la folla che stava raggiungendo la marcia. Alla  marcia, guidata dal Congresso della Società Democratica (DTK), hanno  aderito i rappresentanti di numerosi partiti politici e organizzazioni  non-governative. I dimostranti, che  chiedono giustizia a fronte dell´assenza di qualsiasi processo  giudiziario contro gli autori della strage, sono stati sottoposti a  pressioni da parte delle forze di sicurezza del regime AKP (Partito per  la Giustizia e lo Sviluppo). La marcia, partita dal villaggio, si è  conclusa nell’area della tragedia dove 34 civili, inclusi 19 minorenni,  sono morti a causa del bombardamento d’aerei da guerra turchi il 28  dicembre 2011.
 30/06/2012
 Fonti: ANF News Agence, IHD, Firat news, Secondo Protocollo, Nuce Tv, ActuKurde, Sguardo sul Medioriente,Azadiya.blog
 
 
	
	
Il 17 dicembre 2010 inizia la rivolta del  popolo tunisino contro il suo dittatore, una sommossa popolare  conclusasi il 14 gennaio 2011 con la cacciata del vecchio presidente Zine el-Abidine Ben Ali dal palazzo del potere.
L'effetto scatenante di una situazione già  da tempo insostenibile, la morte di Mohamed Bouaziz. Un giovane  laureato che per vivere faceva l'ambulante abusivo a Sidi Bouzid  e che per protestare contro la polizia comunale che gli aveva  sequestrato la merce, moriva dandosi fuoco nella piazza principale del  suo paese.
Una serie di manifestazioni di piazza del  tutto spontanee scuotono molte città  del centro sud della Tunisia. La  paura che, fino a questo momento,  aveva immobilizzato il popolo, ha  trovato la forza e l'energia di trasformarsi, dissolvendosi in un onda   travolgente contro la frustrazione per la disoccupazione, la corruzione  dei poteri, l'indifferenza delle autorità  e per la mancanza di libertà  d'espressione e di stampa. La reazione della polizia è molto dura. L'8  ed il 9 gennaio rappresentano la fase più nera: 25 morti, ma la forte  repressione non ferma i dimostranti, anzi la protesta si amplifica e si  diffonde nelle altre città  arrivando fino a Tunisi.
“Dégage!” (vattene!) urla la gente dal sud al nord della Tunisia. 
La maggior parte sono giovani che chiedono  democrazia e libertà. Gli stessi, per lo più laureati senza uno sbocco  per il futuro e condannati già  ad una sicura immigrazione, che hanno  deciso, attraverso Facebook e la rete dei blogger, di dare nuova  speranza a tutti i popoli arabi oppressi. 
Dégage  la parola d'ordine della rivolta:  dall'Egitto, ancora non conclusa e dai continui scontri e martiri,  all'Algeria, al Marocco, alla Libia ed alla Siria.
Tutte diverse tra loro e tutte non spurie  dall'ingerenza straniera, sia essa islamica, come Arabia Saudita e Qatar  o laico-judaico-cristiana come Francia, Regno Unito, Usa e Israele.
 Tunisia 14 gennaio 2012UN ANNO DOPO LA RIVOLUZIONE
 Viaggio in un paese libero
 di Mirca Garuti e Flavio Novara
 
 
  
A che punto è quindi ora, il processo di  democratizzazione e come si sta evolvendo la questione della laicità  dello stato? E la questione immigrazione, come è stata risolta dal  governo italiano? Quanta responsabilità ricade sulle spalle dell’Italia?
Per questo ancora una volta, la redazione  di Alkemia ha deciso di provare a dare una testimonianza diretta di ciò  che sta avvenendo in quel paese del dopo elezioni, per la prima volta  democratiche, e che ha visto uscire trionfante il partito En-Nahdha di  ispirazione islamica.
Un viaggio non solo tra i partiti,  movimenti politici e di opinione per sentire i loro progetti e  programmi, ma sopratutto con il popolo della capitale Tunisi, o di  Regueb, nel cuore contadino del paese. Unica voce mancante il Sindacato,  impegnato in un importante congresso, che con la tattica e sciopero  generale come sviluppo e continuità  del movimento, ha consentito e  contribuito a dare corpo e azione ad una mobilitazione spontanea e senza  un vero progetto politico.
 Dalla conclusione dei  movimenti di quei giorni, poco si è saputo e il silenzio mediatico ha  impedito di comprendere senza strumentalizzazioni cos'è stata la rivolta  tunisina di quei giorni e cos'è oggi la nuova Tunisia liberata. A metà  luglio 2011 a Tunisi c'è stata infatti una nuova ondata di  manifestazioni, fermata in modo violento dalla polizia. Qualcuno ancora  chiede perché continuano a scendere in piazza dal momento che la  dittatura è  finita. La libertà senza una vera giustizia sociale non può  essere considerata una vera libertà .        TUNISIA UN PAESE IN MOVIMENTO di Mirca Garuti  TUNISIA: I GIOVANI ASPETTANO ANCORA di Maurizio Musolino  LA TUNISIA UN ANNO DOPO LA RIVOLTA di Gustavo Pasquali  A CHE PUNTO SONO LE RIVOLUZIONI  di Gilbert Achcar  IL RACCONTO DI QUEI GIORNI  di Fabio Merone (http://www.facebook.com/itinerari?sk=wall&filter=2)         IL PARTITO DI MAGGIORANZA ISLAMICO EN-NAHDHA
  
 La differenza che subito si percepisce  nell'incontro con i rappresentanti del partito di maggioranza islamico   En-Nahdha rispetto a quelli della sinistra, delle donne democratiche e  del popolo tunisino è nel luogo dell'incontro stesso. Non è una cosa  irrilevante avere a disposizione un intero edificio di otto piani, nuovo  e moderno, con  uno staff di persone adibite all'organizzazione  ed al  controllo. E' una dimostrazione di forza e di potere.  Le altre forze, divise e frammentate,  hanno accolto la nostra visita in appartamenti in edifici o addirittura  presso uno studio professionale messo a nostra disposizione per questo  speciale evento.
 L'incontro è stato molto interessante e  pieno di promesse verso un'evoluzione del potere islamico, attraverso  la costruzione di uno “stato di diritto”. Il partito En-Nahdha esite da  40 anni ma è sempre stato  in clandestinità, fortemente represso sotto  la dittatura di Ben Ali.  Il grosso punto interrogativo per noi  occidentali  è sempre quello legato alla laicità  dello stato. Riuscirà  il nuovo governo tunisino ad andare verso una democrazia senza obblighi  di religione? Riuscirà la nuova Tunisia a non subire le pressioni di  altri stati arabi come il Qatar o l’Arabia Saudita? A questa domanda risponde, Rached Ajmi Lavorimi Resp. Dipartimento Cultura del partito En-Nadhdha alla presenza anche del loro leader spirituale Rached Ghannouchi. 
  
 
  Rached Ghannouchi - Guida Spirituale del Partito di ispirazione islamica        Rached Ajmi Lavorimi - Resp. Dipartimento Cultura         LA VOCE DELLA RIVOLTA: I BLOGGER TUNISINI
 
 
  
 
 Il primo impatto con la società tunisina avviene con l'incontro alla “Casa Sicilia” dei vari blogger che hanno avuto la capacità  di far arrivare la voce della rivolta tunisina fuori dai suoi confini.   Per la prima volta  sentiamo anche parlare di problemi legati alla droga. Un fenomeno che ha  avuto un'impennata improvvisa poco prima dell'inizio della rivoluzione.  Solo un caso?  Si tratta di droghe molto economiche e quindi diffuse  nei quartieri poveri: 15 dinari per una dose sufficiente per 4 persone.   Una testimonianza  diretta degli avvenimenti di quei primi giorni di rivolta e, nello  stesso tempo, una accesa discussione su come deve essere portato avanti  questo processo di democrazia.   1° Parte   
   2° Parte  
     LA VOCE DELLA RIVOLTA: I CITTADINI DI REGUEB Il movimento di rivolta ha avuto il suo  epicentro iniziale, in una regione (circoscritta tra Sidi Bouzid,  Kesserine e Tahla) dove la crisi si è mostrata dai profili netti: alta  disoccupazione e sfruttamento. Un sottosviluppo del comprensorio agrario  da anni abbandonato dai grandi finanziamenti destinati alla costa  turistica. Una società contadina che pur sviluppando un alto livello di  formazione delle giovani generazioni, ha subito solo politiche di  gestione repressiva della povertà. Quale sviluppo agrario per queste  zone? Quali nuove proposte dal popolo per il rilancio dell’occupazione?   
 LA RIVOLTA CONTADINA di Fabio Merone
 
   
   
  IL CONVEGNO DI REGUEB      
 TAVOLA ROTONDA: QUALE PROGETTO PER UNA NUOVA TUNISIA    
  LA VOCE DELLE DONNE: ATFD 
  In un appartamento addobbato di  manifesti di lotta e di diritto delle donne, incontriamo Monia Benjemia,  rappresentante de l'Association Tunisienne des Femmes Démocrates che  esiste da più di 20anni e lotta per il miglioramento della donna  all'interno di un codice di famiglia. In Tunisia non esiste la poligamia  ed il ripudio, ma la situazione femminile è molto difficile. Non le  troviamo contente, si sentono molto preoccupate per un governo ancora  molto conservatore, forse più di prima. Da anni reclamano una legge  specifica sulla violenza della donna. Si interrogano sul perchè molte  donne hanno iniziato a mettere il velo, anche a bambine piccole. Sotto  il regime di Ben Alì il velo era vietato, lo stato dittatore era  fortemente laico, oggi,  con il partito En-Nahdha al potere la società  maschilista  tunisina si sente autorizzata ad esprimere il proprio  sentimento religioso.  Il diritto al divorzio e all'aborto  ottenuto nel 1956 e 1967 (prima quindi che in Italia!) non mette le  donne tunisine al riparo di una forte discriminazione nella loro vita  sociale.  Sono un'associazione di sinistra e finora hanno sempre rifiutato di entrare a far parte di un qualsiasi partito politico.   Ovunque si vada,  la strada per una  vera parità di diritti per la donna è sempre molto lunga e tortuosa.  All'apparenza sembra sempre che non ci siano problemi, ma la realtà è  ben diversa e, queste donne ne sono una precisa testimonianza.  
  Monia Benjemia - portavoce Ass. delle donne democratiche tunisine
 
          INCONTRO CON I PARTITI DELLA SINISTRA TUNISINA 
 La sinistra tunisina è formata da  diversi partiti che alle ultime elezioni del 23 ottobre 2011 si sono  presentati divisi e con una campagna elettorale che è servita, oltre a  condurli verso la sconfitta, a mettere in evidenza solo le differenze  tra le varie correnti politiche lasciando cadere nel vuoto il vero  obiettivo che era quello di dare ad un paese per anni sotto dittatura,  una base costituzionale e legale.  Oggi dopo quella sconfitta, forse  qualcosa sta cambiando. Incontriamo il Pcot (partito comunista dei  lavoratori tunisini), El-Ettajdid (partito democratico dei lavoratori),  il Watad (movimento patriottico nazionale) e la rete Destourna. 
 Il Pcot non  ha i connotati storici di un partito, nasce infatti solo nel 1986 in  clandestinità ed è stato riconosciuto solo dopo la rivoluzione.
  Affermano che gli islamisti furono presenti solo nell'ultima fase della rivoluzione.   Quello che è successo è stata una vera  rivoluzione perchè ha colpito il potere politico, ma il vecchio sistema  è ancora ben presente anche perché non esiste ancora un progetto  politico chiaro per questo paese.  Questo partito ha proposto la  costruzione dell’Assemblea Costituente ed il suo segretario, analizzando  le ultime elezioni, afferma che il Pcot non è in effetti un partito  elettorale ma rivoluzionario. Questa è stata un'esperienza unica ed  importante, ora il partito si deve preparare per la seconda fase. 
   Hamama Hanmami - segr. generale del PCOT (Partito comunista dei lavoratori in Tunisia)  
     
       Il Partito democratico dei lavoratori El-Ettajdid  è il partito più importante in Tunisia dopo quello islamico En-Nahdha.  Dopo la caduta di Ben Ali sono sorti in Tunisia 111 partiti, 81 dei  quali hanno partecipato alle elezioni. Si trovano dunque all'opposizione  dentro l'assemblea costituente ed il loro obiettivo ora è quello di  costruire un largo coordinamento democratico del centrosinistra per  potersi  presentare uniti alle nuove elezioni, per parlare di  costituzione e per recuperare quel 1.300.000 di elettori rimasti senza  rappresentanza. Così inizia il suo discorso il segretario generale del  partito storico della sinistra tunisina, Ahmed Ibrahim evidenziando che  il partito vincitore, in realtà , rappresenta solo il 25% della  popolazione. Il segretario continua la sua esposizione facendo  un'analisi sul fallimento delle elezioni per poter creare una  presa di  coscienza da sviluppare in questo periodo di transizione, in attesa di  nuovi probabili elezioni, dopo una nuova legge elettorale. Elemento  fondamentale per questa costruzione è il sindacato, istituzione molto  legata ai lavoratori, artigiani e contadini. Altra parte importante è la  massa giovanile che si trova coinvolta nelle piazze, nelle  manifestazioni, nei presidi ma è assente nelle forme strutturali della  vita dei partiti. In fondo i destinatari di questa rivoluzione sono  proprio loro, i giovani!
  Termina questa chiacchierata il Sig. Tarek Chaaboune  che conosce molto bene la situazione della comunità  tunisina in  Italia, la seconda per grandezza all'estero. Comunità  più vittima di  tutte le altre, abbandonata dalla  stessa ambasciata, lasciata a se  stessa in balia degli eventi nel silenzio più totale. Tra l'Italia e la  Tunisia ci sono solo forti interessi economici, occorre recuperare  quelli culturali e politici.  
 
 Ahmed Ibrahim - segr. generale del El - Ettajdid (Partito Democratico dei lavoratori) e Tarek Chaaboune - resp. esteri del partito 
     Il Watad,  movimento patriottico nazionale di sinistra democratica, ha come  riferimento politico Antonio Gramsci. Sono in Parlamento con un  parlamentare.   Parliamo con il Sig. Chokri Belaid.  La crisi attuale mette in evidenza la  necessità  di una mobilitazione generale con vari partiti di sinistra  nel mondo per creare un fronte unico democratico nel Mediterraneo.  Bisogna creare un'alleanza per contrastare l'avanzata della destra  religiosa in questo paese. Elenca i tre punti fondamentali che questo  partito intende portare avanti, sperando anche con l'aiuto dei sindacati  per ottenere così una forza maggiore all'interno dell'assemblea  costituente: diritti economici e sociali - civili e donne - sviluppo.  Vuole sottolineare che la rivoluzione all'inizio è stata spontanea, ma  dopo il 14 gennaio, con l'apporto dei sindacati, tutto è diventato di  sinistra, mentre è passato solo il messaggio  che  tutto “era spontaneo”  e questo ha indebolito le forze di sinistra a livello elettorale.   Oggi tutto è in trasformazione.  
  
 Chokri Belaid -  EL-WATAD (Movimento dei nazionalisti democratici)  
         Incontriamo il leader della Rete Destourna,  Jaouhar Ben Mbarek nello studio della sorella avvocato. La situazione  odierna si presenta meno gloriosa di un anno fa, è un momento molto  difficile da un punto di vista economico e il dibattito che oggi c’è  all’interno dell’assemblea costituente non è rivolto alla costruzione di  un patto sociale ma alla spartizione del potere politico all’interno  del nuovo partito costituito. Continua il suo discorso spiegandoci come è  stato ottenuto il risultato elettorale e non nasconde la sua  preoccupazione per la legittimità della rivoluzione e per un  suo futuro  democratico. Per tutto questo è importante mettere insieme tutte le  forze progressiste, avere un vero programma politico condiviso e partire  dai comitati locali. La grande frustrazione che avvolge i tunisini non è  solo legata al risultato elettorale ma anche al fatto che il partito  En-Nahdha è riuscito ad imporre la propria agenda. Il movimento  Destourna non vuole far parte delle future alleanze, ma vuole essere una  massa critica per evitare gli errori del passato. Occorre una presa di  coscienza più profonda e non si può pensare solo di unirsi sotto alcune  sigle senza il coinvolgimento delle masse con progetti propositivi. La  coalizione strategica dei 3 partiti che presiedono l’assemblea  costituente, chiamata del leader della rete Destourna, la troika,  è  dominata dal partito islamico En-Nahdha con 89 seggi con il  primo  ministro Hamadi Jebali, dal Congresso per la Repubblica (CPR) con 29  seggi e Presidente della Repubblica Moncef Marzouki e dal partito  socialdemocratico Attakattol  con 21 seggi ed il capo della costituente  Mustafa Ben Jafar.  La troika non ha rispettato i termini del contratto  per il quale il popolo della Tunisia è andato a votare: la costituente  doveva durare un anno. Questo patto è stato cancellato, ora non c’è più  un limite di tempo. Il Destourna non è un partito ma una rete laterale,  un movimento volontario, una rete di lavoro ed aggiunge che tutta la  sinistra è andata verso il popolo mentre invece doveva andare con il  popolo. Qui sta la differenza con il partito islamico.      Jaouhar Ben Mbarek - portavoce del RETE DESTOURNA (Nuovo Movimento di Sinistra)  
       
 
	
	
SIRIA: LA MILITARIZZAZIONE, L'INTERVENTO MILITARE E L'ASSENZA DI STRATEGIA  di Gilbert Achcar
   Ho potuto assistere alla riunione dell’opposizione siriana che si è svolta l’8 e il 9 ottobre scorsi in Svezia,  nei pressi della capitale Stoccolma. Un certo numero di oppositori,  uomini e donne, attivi in Siria o all’estero, si sono riuniti con degli  importanti membri del Comitato di coordinamento (CC) venuti appositamente dalla Siria per l’occasione, con la partecipazione dell’esponente più significativo del Consiglio Nazionale siriano [CNS, l’altra fazione della opposizione siriana, quella maggiormente riconosciuta all’estero], Burhan Ghalioun, il suo presidente.
 Gli organizzatori della conferenza mi  avevano invitato a parlare del tema dell’intervento militare straniero  nell’attuale situazione in Siria. Il mio intervento è stato accolto con  interesse e mi era stato chiesto di scriverlo (avevo pronunciato il mio  discorso basandomi su brevi note). Mi sono impegnato a farlo, ma diverse  incombenze mi hanno impedito fino ad oggi di mantenere l’impegno.
 Gli eventi in Siria in questi ultimi  giorni sono precipitati, dando vita a un dibattito sempre più vivace  intorno alle questioni dell’intervento militare e della militarizzazione  della crisi, i due argomenti del mio intervento in Svezia. Questi  sviluppi mi hanno spinto a ottemperare al mio impegno prima che fosse  troppo tardi. Svilupperò, quindi, le tesi che ho sostenuto in Svezia,  con un commento sugli sviluppi più recenti relativi a queste questioni.
 Il mio intervento alla conferenza di ottobre era stato preceduto da una domanda rivolta da un partecipante a Burhan Ghalioun  relativamente alla sua posizione, o quella del CNS, riguardo agli  appelli per un intervento militare in Siria. Ghalioun aveva risposto che  questa questione non era attualmente in discussione, poiché nessun  Paese esprimeva una qualsiasi volontà di intervenire militarmente e che «quando saremo di fronte a una simile volontà d’intervento, adotteremo la posizione appropriata».
 Ho iniziato il mio intervento  sottolineando che l’opposizione siriana doveva definire una posizione  chiara sulla questione dell’intervento militare straniero, perché è  evidente che questa ha un’influenza importante sulla prospettiva di un  intervento del genere. La reticenza che oggi possiamo osservare da parte  degli Stati occidentali e regionali rispetto a un intervento diretto  potrebbe cambiare domani se le richieste d’intervento fatte  dall’opposizione dovessero moltiplicarsi.
 È stata la richiesta del Consiglio Nazionale Transitorio libico per un intervento militare internazionale, formulata agli inizi di marzo, che ha spianato la strada alla Lega araba per fare un’eguale richiesta, seguita dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.  Se l’opposizione libica avesse rifiutato ogni genere di intervento  militare diretto (invece, come ha fatto, di opporsi solo a un intervento  terrestre e di chiedere un sostegno aereo), la Lega araba non avrebbe  potuto chiedere l’intervento e l’ONU non avrebbe potuto avallarlo.
 
 
 La Libia e i costi dell’intervento militare straniero
 
    Avendo partecipato alle discussioni  relative a quest’argomento, ho preso spunto per il mio intervento dalle  lezioni dell’esperienza libica. Come la grande maggioranza dell’opinione  pubblica araba, avevo espresso la mia comprensione per il fatto che i  ribelli libici fossero stati costretti a chiedere un sostegno straniero  per evitare il massacro di massa che avrebbe potuto essere commesso se  le forze di Gheddafi avessero assaltato i bastioni della rivolta a Bengasi, a Misurata e altrove, non essendo in quel momento i ribelli in grado di respingere un simile attacco con le proprie forze.Abbiamo addossato a Gheddafi tutta la  responsabilità d’aver creato le condizioni che hanno portato  all’intervento straniero, mettendo in guardia i ribelli verso ogni  illusione relativamente alle intenzioni delle potenze occidentali che  evidentemente intervenivano in loro favore. Infatti, l’intervento  militare straniero in Libia si è realizzato ad un costo elevato, che può  essere riassunto in questo modo:
 
 -  Il prezzo politico immediato  dell’intervento straniero è stato quello che ha permesso a Gheddafi di  rivendicare che in qualche modo egli rappresentasse la sovranità  nazionale e di poter accusare i ribelli di «essere agenti dell’imperialismo occidentale». Ciò ha influenzato una parte della società libica, seppure limitata.
 -  Il prezzo politico più importante è  stato che le potenze che sono intervenute si sono sforzate di togliere  ai ribelli libici il loro potere decisionale. Esse non si sono limitate a  fermare l’attacco contro i bastioni della sollevazione e a impedire a  Gheddafi di usare la sua forza aerea. Sono andate ben oltre,  distruggendo le forze aeree libiche (gli Stati occidentali, in  particolare la Francia e la Gran Bretagna, aspettano con impazienza di  poter vendere armi alla Libia del dopo-Gheddafi) così come parti  importanti delle infrastrutture e degli edifici pubblici del Paese (gli  Stati occidentali e la Turchia hanno iniziato a farsi concorrenza per  [accaparrarsi] il mercato libico della ricostruzione anche prima della  caduta del regime di Gheddafi). Le potenze occidentali hanno rifiutato  di fornire ai ribelli libici le armi che chiedevano urgentemente e  insistentemente per poter proseguire la liberazione del loro Paese senza  intervento straniero diretto. Delle armi sono state fornite (dal Qatar e  dalla Francia) solo nella fase finale della battaglia. Questi invii  limitati hanno accelerato la caduta del regime di Gheddafi, dopo un  lungo periodo di impasse sui fronti.
 -   L’obiettivo delle potenze occidentali era quello di imporsi come attori principali nella guerra contro Gheddafi in modo da poterla dirigere. Hanno voluto stabilire una mappa per la Libia del dopo-Gheddafi;  a questo scopo hanno creato anche un comitato internazionale. Esse  hanno anche cercato, ad un certo momento, di concludere un accordo con  la famiglia Gheddafi, alle spalle del Consiglio Nazionale libico. In  conseguenza, il destino della Libia stessa veniva elaborato a  Washington, Londra, Parigi e Doha più che in Libia, prima della  liberazione di Tripoli. Certo, il desiderio degli Stati occidentali di  controllare la situazione in Libia dopo Gheddafi era del tutto  illusorio, come avevamo previsto. Ma ciò avviene oggi mentre in Libia  regna il caos, aggravato dall’ingerenza occidentale e regionale.
 
 
 La Siria: tra la Libia e l’Egitto
 
     Tuttavia, l’impressione che oggi prevale  è che l’intervento straniero ha evitato che la sollevazione libica  venisse schiacciata, cosa che, se fosse avvenuta, avrebbe posto fine al  processo rivoluzionario in tutta la regione araba. L’intervento ha  permesso ai ribelli libici di liberare il loro paese dalle grinfie del  brutale dittatore ad un costo che è stato comunque ben inferiore a  quello che gli iracheni hanno dovuto pagare per essere liberati dal  regime tirannico di Saddam Hussein da un’invasione straniera. L’occupazione dell’Iraq  giunge al termine dopo otto anni terribili, durante i quali il Paese ha  toccato il fondo ed ha pagato un prezzo umano e materiale esorbitante,  tutto questo per trovarsi oggi di fronte un futuro oscuro e minaccioso.
 La conseguenza di questa differenza tra la Libia e l’Iraq  è che, mentre il secondo è un esempio piuttosto repellente per i  siriani, l’esempio libico ha instillato in molti il desidero di  imitarlo. Ciò si riflette nei crescenti appelli a un intervento militare  dopo la liberazione di Tripoli, al punto che la giornata di  mobilitazione di venerdì 28 ottobre è stata contrassegnata dalla  richiesta di una no-fly zone.
 Tuttavia, chiunque immagini che uno  scenario simile a quello libico possa ripetersi in Siria, si sbaglia  crudelmente. L’opposizione siriana deve essere cosciente che un  eventuale intervento militare diretto in Siria (a causa dell’opposizione  a un intervento indiretto, come la fornitura di armi) sarà più costoso  del caso libico e questo per diverse ragioni che si possono così  riassumere:
 
 -  La situazione militare in Siria è molto  diversa da quella che c’era in Libia. Quest’ultimo paese è  caratterizzato dall’esistenza di concentrazioni urbane separate da spazi  territoriali quasi desertici, spesso vasti. In queste condizioni la  forza aerea diventava essenziale, tanto più che le zone controllate dai  ribelli libici erano pressoché prive di sostenitori del regime. Per  questo il regime ha fatto ricorso alla forza aerea nella sua offensiva  controrivoluzionaria. E questo ha anche reso il sostegno aereo straniero  molto efficace per la protezione delle zone ribelli e la limitazione  del movimento delle forze del regime al di fuori delle zone abitate,  tutto ciò ad un costo in perdite di civili relativamente contenuto.
 
 Invece, la densità di popolazione in Siria  è molto più elevata che in Libia e oppositori e sostenitori del regime  molto più mescolati fra di loro, cosa che ha impedito al regime siriano  di usare la sua forza aerea in modo massiccio. Di conseguenza, una zona  di esclusione aerea sulla Siria avrebbe solo degli effetti molto  limitati se dovesse riferirsi solo al suo significato effettivo. Oppure  avrebbe conseguenze devastanti in termini di vite umane e di  distruzione, se dovesse assumere l’aspetto di una guerra aerea  generalizzata contro il regime, come è stato nel caso della Libia. Dato  che le capacità difensive dell’esercito siriano sono ben più  significative di quelle di Gheddafi, il livello e l’intensità dei  combattimenti sarebbero molto più elevati in Siria – senza dimenticare  che il regime siriano non è isolato come lo era quello di Gheddafi e che  un intervento militare straniero in Siria infiammerebbe l’intera  regione, che è altamente esplosiva.
 D’altronde, attualmente nessuna città siriana corre il rischio di un massacro su vasta scala come lo correva Bengasi, e nessuna si trova di fronte a un destino paragonabile a quello della città siriana di Hama nel 1982, quando il regime di Assad*  riuscì a isolarla dal resto del Paese. La forza dell’insurrezione  siriana risiede nell’essere largamente estesa e che i ribelli non hanno  commesso l’errore di prendere le armi, cosa che, se fosse avvenuta,  avrebbe considerevolmente indebolito lo slancio della sollevazione e  avrebbe permesso al regime di sopprimerlo molto più facilmente.
 I ribelli siriani fino ad ora hanno  fatto ricorso a delle forme di lotta come le proteste notturne e le  manifestazioni del venerdì (e ciò non per ragioni religiose, ma perché  il venerdì è il giorno ufficiale di vacanza ed è difficile per il regime  impedire alle persone di riunirsi nelle moschee), in modo da preservare  l’anonimato della maggioranza dei manifestanti. Questo metodo di  manifestare che si coniuga alla guerriglia è il più appropriato quando  una sollevazione popolare deve far fronte a una repressione brutale  messa in atto da una forza militare di una superiorità schiacciante.
 * Qui si riferisce a Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente siriano Bashar al-Assad. [NdT]
 -  Al contrario del caricaturale regime di  Gheddafi – che si era da anni rivolto a diversi Stati occidentali con i  quali aveva stabilito una stretta cooperazione in ambito economico, in  quello della sicurezza e dei servizi segreti – il regime siriano resta un ostacolo per gli Stati Uniti nella realizzazione dei loro progetti nella regione, a causa della sua alleanza con l’Iran e con gli Hezbollah  libanesi e a causa del suo sostegno a diverse forze palestinesi che si  oppongono alla loro capitolazione sotto l’egida degli Stati Uniti.
 
 Riconoscere questa realtà non deve in  nessun modo suggerire l’astensione dal sostegno delle rivendicazioni  popolari per la democrazia e i diritti umani, sia che ciò avvenga in  Siria o in Iran. Tuttavia, occorre prenderla in considerazione nel modo  in cui lo fa l’opposizione iraniana che si è categoricamente opposta ad  un intervento militare straniero negli affari interni del Paese e  difende il proprio diritto a sviluppare l’energia nucleare di fronte  alle minacce israelo-americane che tentano di impedirlo sostenendo che  l’Iran costruisce delle armi nucleari.
 L’opposizione siriana giustamente  critica il regime per il suo opportunismo, ricordando tanto l’intervento  in Libano contro la resistenza palestinese e il movimento nazionale libanese nel 1976 quanto la sua adesione alla coalizione sotto la direzione degli Stati Uniti nella guerra del 1991 contro l’Iraq.  Coloro che criticano la doppiezza del regime siriano rispetto alla  causa nazionale non devono consentire a quest’ultimo di apparire  credibile quando pretende di combattere «agenti» di potenze occidentali,  chiedendo l’intervento di queste stesse potenze occidentali. L’opposizione nazionale  non deve consentire al regime di scavalcarla nella difesa della causa  nazionale. Essa deve comprendere che, poiché il territorio siriano è  parzialmente occupato da Israele con il sostegno degli  Stati occidentali, non deve chiedere aiuto rivolgendosi ai nemici e agli  oppressori della Siria. Se queste potenze intervenissero, sicuramente  cercherebbero di indebolire la Siria, così come hanno indebolito l’Iraq.
 -  Rovesciare un regime, qualunque esso  sia, è un obiettivo strategico per raggiungere il quale i mezzi cambiano  secondo i casi e i Paesi. La strategia dipende dalla composizione del  regime che i rivoluzionari decidono di abbattere.
 Prendiamo in considerazione, per esempio, le differenze tra il caso dell’Egitto e quello della Libia.
        In Egitto, l’esercito regolare in quanto istituzione era e continua ad essere la spina dorsale del regime. Il potere di Mubarak ne era il prodotto e si basava sull’esercito, ma non lo «possedeva».  Per questo motivo la sollevazione popolare si è sforzata di preservare  la neutralità dell’esercito per rovesciare il despota. Questa strategia  si è rivelata vincente, anche se ha creato nelle masse l’illusione che  l’esercito in quanto istituzione e i suoi comandanti potessero mettersi a  disposizione del popolo in maniera disinteressata. Invece di stimolare  lo spirito critico del popolo e dei soldati e di avvertire che le alte  sfere dell’esercito avrebbero fatto in modo da preservare i loro  privilegi e il loro controllo sullo Stato, le  principali forze del movimento di opposizione hanno in realtà  contribuito a diffondere delle illusioni fra le masse. Il risultato è  stato che la rivoluzione egiziana è rimasta incompiuta; vi sono infatti tanti elementi di continuità quanti sono gli elementi di cambiamento, se non di più.In Libia, invece, Gheddafi aveva dissolto l’istituzione militare e l’aveva ricostruita sotto forma di brigate collegate  alla sua persona attraverso legami tribali, famigliari e finanziari.  Era dunque impossibile contare sulla neutralità dell’esercito ed era  ancora meno possibile far si che si unisse alla rivoluzione. Il regime  libico poteva essere rovesciato solo attraverso la sconfitta delle sue  forze armate; in altri termini, per mezzo della guerra. Dato che  l’equilibrio militare tra le forze di Gheddafi e i ribelli, che erano  quasi disarmati, era in maniera schiacciante sfavorevole a questi  ultimi, l’intervento di un fattore esterno era inevitabile: armando  l’insurrezione (lo scenario migliore) o sotto forma di un intervento diretto nella guerra tra i ribelli e il regime attraverso l’occupazione del Paese (lo scenario peggiore)  o ancora attraverso dei bombardamenti aerei senza invasione, come è  stato il caso della Libia. Il risultato è stato che in Libia il  cambiamento è stato molto più profondo rispetto all’Egitto visto  l’affossamento generalizzato delle istituzioni del regime di Gheddafi.  Oggi, la Libia è un Paese senza Stato, ossia senza un apparato che monopolizza le forze armate e nessuno sa quando uno Stato sarà ricostruito, o a cosa assomiglierà.
     Dove si situa, quindi, la Siria  in questa equazione strategica? Essa si situa in un certo modo tra il  caso egiziano e quello libico. In Siria, come nel caso della Libia, il  regime si è circondato da forze speciali che sono tenute insieme da  legami famigliari e confessionali e da privilegi. È necessario battersi  contro questa guardia pretoriana per far cadere il regime. In questo  senso, il comandante dell’Esercito libero siriano, il colonnello Riyad al-Assaad, ha fatto bene lo scorso 5 novembre a dichiarare al giornale Al-Sharq Al-Awsat [un quotidiano arabo con sede a Londra] che «chiunque pensi che il regime cadrà pacificamente sogna semplicemente».Tuttavia, dato che Israele occupa una  parte del suo territorio, la Siria, contrariamente alla Libia, dispone  anche di un esercito regolare basato sulla coscrizione generale di  giovani e i cui soldati e sotto-ufficiali riflettono la composizione del  popolo siriano da cui provengono. Di conseguenza, uno degli assi  principali della strategia rivoluzionaria siriana deve essere quello di  associare i ranghi dell’esercito alla causa della rivoluzione.
 
 Il ruolo dell’esercito nella strategia dell’opposizione
 Se l’insurrezione siriana  avesse avuto una direzione dotata di una visione strategica (qui  possiamo osservare chiaramente i limiti delle «rivoluzioni Facebook»),  avrebbe cercato di estendere le reti dell’opposizione all’interno  dell’esercito insistendo allo stesso tempo perché i soldati non  disertassero individualmente o in piccoli gruppi, ma invece lo facessero  nel più gran numero possibile. In assenza di direzione e di strategia,  soldati e ufficiali hanno iniziato ad abbandonare i loro ranghi in  maniera disorganizzata. In questi ultimi due mesi la portata delle  defezioni si è estesa. Queste defezioni hanno messo in imbarazzo  l’opposizione politica, alcuni membri della quale  rimproverano ai  militari dissidenti di rappresentare una minaccia e di far deviare la  sollevazione dalla via pacifica, mentre altri li salutano chiedendo loro  contemporaneamente di non impugnare le loro armi contro il regime.  Quest’ultimo appello è una proposta suicida della quale i dissidenti  hanno buoni motivi per infischiarsene.
 Il compito strategico di  convincere i soldati siriani a unirsi alla rivoluzione non deve  contrapporsi alle manifestazioni popolari e alla loro natura non  violenta. Qui, ancora una volta, il caso siriano combina fra loro  elementi dell’esperienza egiziana e dell’esperienza libica, ossia folle  di manifestanti pacifici e scontri armati. La non-violenza  delle manifestazioni popolari era, e resta, una condizione fondamentale  dello slancio di questo movimento e del suo carattere di massa, con la  partecipazione femminile. Questo slancio è esso stesso un fattore  decisivo nell’incitare i soldati a ribellarsi contro il regime.
 Così, la questione strategica più complicata in Siria  è quella di poter combinare le mobilitazioni pacifiche di massa con  l’estensione del dissenso militare e degli scontri armati senza i quali  le forze del regime non saranno mai sconfitte e questo mai accadrà. A  meno che, ovviamente, non si aspetti che degli ufficiali di alto rango  del vertice della gerarchia del regime escano allo scoperto e forzino la  famiglia regnante a fuggire dal Paese e a rifugiarsi in Iran. Se ciò  dovesse accadere, la Siria si troverebbe in una situazione simile a  quella dell’Egitto, dove una parte del vertice della piramide è caduta  senza che questa crollasse completamente.
 Quanto a un intervento diretto in  Siria, sia che questo assuma la forma di un’invasione o si limiti a dei  bombardamenti a distanza, esso metterebbe fine alla tendenza verso la  dissidenza all’interno dell’esercito e compatterebbe i suoi ranghi  causando uno scontro che convincerebbe i soldati che è stato sempre vero  ciò che il regime non smette di ripetere dall’inizio della  sollevazione, ossia che esso è di fronte a un «complotto straniero» che cerca di asservire la Siria. Le richieste avanzate da Riyad al-Assaad,  il dirigente dell’Esercito siriano libero (nell’intervista citata  precedentemente), per un intervento internazionale che miri a «imporre una no-fly zone o una zona interdetta alla navigazione» e a creare una «zona di sicurezza al nord della Siria che verrebbe amministrata dall’Esercito libero siriano»  sono, nei migliori dei casi, prove ulteriori della mancanza di una  visione strategica nella direzione della sollevazione siriana.  Queste  sono anche un effetto della miscela fra miopia e reazione emotiva di  fronte alla brutalità del regime, un effetto che porta alcuni suoi  oppositori a sperare che ciò arrivi a determinare una catastrofe ancora  maggiore in Siria e in tutta la regione.
 Coloro che auspicano la vittoria della  sollevazione per la libertà e per la democrazia del popolo siriano in  modo da rafforzare la propria patria invece che indebolirla, devono  elaborare una posizione più chiara su queste questioni cruciali. Non è  possibile limitarsi ad ignorarle in nome dell’unità contro il regime,  perché da queste dipendono sia il destino della lotta che quello del  paese stesso.
 
 Questo articolo è stato pubblicato in arabo nella sezione «opinione» dal giornale libanese Al-Akhbar il 16 novembre 2011. È stato tradotto in italiano a partire dalla versione francese pubblicata da A l’Encontre   (http://alencontre.org/moyenorient/syrie/syrie-la-militarisation-l%E2%80%99intervention-militaire-et-l%E2%80%99absence-de-strategie.html).
 
 Traduzione di Cinzia Nachira
 28/11/2011 
 
	
	LA CATTURA E L'UCCISIONE DI MUAMMAR GHEDDAFI di Cinzia Nachira
 
 La cattura e l'uccisione di Muammar Gheddafi hanno sollevato uno strano ed inquietante coro di scandalo nella sinistra italiana.È bene fare luce su alcune note cruciali del coro per evitare  equivoci e perché la discussione non si concentri sulle parole, anziché  sulla sostanza degli eventi. È evidente che se Muammar Gheddafi fosse  stato processato sarebbe stato meglio per tutti. Le immagini della  cattura e del linciaggio di Muammar Gheddafi sono tremende e le zone  d'ombra sulle sue ultime ore di vita sono molte e inquietanti. Lo sono,  visto che vi è stato l'intervento determinante della NATO (grazie ai suoi «corpi d'élite») per individuarlo e consentire ai ribelli la sua cattura.
 È necessario, però, cercare di capire come è possibile che la  sinistra italiana si sia dimostrata ancora una volta per un verso priva  di memoria storica e per un altro verso cinica, pur mascherando il suo  cinismo con riflessioni umanitarie. Forse è il caso di ricordare che  quando Benito Mussolini fu giustiziato, uno degli  argomenti principali dei giustizieri fu che in caso contrario sarebbe  stato probabile che, invece di essere processato per i crimini commessi,  Mussolini venisse riciclato in un modo o nell'altro nel nuovo sistema  politico-istituzionale italiano. Questo per riflettere sulla percezione  che in Italia, soprattutto negli ambienti politico-culturali della  sinistra, si è avuto di ciò che sta avvenendo nel mondo arabo.
 Le reazioni scomposte di molta parte della sinistra italiana hanno  dimostrato in modo evidente quanto poco fosse conosciuta la storia dei  popoli dell'Africa del Nord e del Medioriente. Tranne rari e lodevoli  casi, le analisi partono dal nostro punto di vista e non dal loro.  Possono esserci dittatori di serie A e dittatori di serie B?  Evidentemente no, se ci si pone dalla parte dei popoli che quelle  dittature subiscono. Assolutamente sì, se invece si cercano facili e  rassicuranti scorciatoie per evitare di ammettere che la Primavera araba ha sorpreso la sinistra europea per il buon motivo che il Maghreb e il Mashrek sono stati lo specchio delle nostre sconfitte politiche e culturali.
    Nelle ore convulse che hanno seguito l'uccisione di Gheddafi  e la diffusione dei video amatoriali del suo assassinio, si sono  sovrapposte moltissime versioni della traduzione in italiano di ciò che  Gheddafi gridava contro i ribelli. Per rendersene conto è sufficiente  ripercorrere le immagini sottotitolate dalle varie emittenti e poi  riportate dai giornali. Una di queste versioni era quella secondo cui  Gheddafi avrebbe detto ad uno dei ribelli: "Perché mi fai questo? Che ti ho fatto?".  Se fosse vera (il condizionale è d'obbligo) sarebbe per un verso molto  sconcertante, ma per altri versi anche quella più congeniale ad un  dittatore che dopo quarantadue anni di potere assoluto sul suo  popolo considerava ancora indiscutibile il suo potere. Quale despota  oppressore ha mai ammesso che chi era oppresso potesse pensare che  l'oppressione non fosse a fin di bene invece che il detonatore dell'odio  contro la sua persona? Nessuno.Gheddafi non ha fatto eccezione. Ma, quanto al mondo  arabo, vi erano dittature riconosciute come tali dalla sinistra  italiana ed altre no. Nella seconda categoria sono state inserite la Libia e la Siria. Ma se la caduta di Ben Ali e di Hosni Mubarak  è stata esaltata e si sono definiti questi eventi come l'esito di un  processo rivoluzionario, quanto alla Libia e alla Siria si è parlato di  manipolazioni esterne. Questo perché a loro giudizio sia Muammar  Gheddafi che Bashar el-Assad non  potevano non essere diversi da Mubarak e da Ben Ali. Per poter  dimostrare questa tesi si sono portati ad esempio molti episodi. Nel  caso libico si è sostenuto che la rivolta armata anti-gheddafiana  provava che la Libia non faceva parte del processo complessivo delle  rivolte arabe, ma che i ribelli erano al soldo dell'Occidente per dar  vita ad un colpo di Stato cruento. Strana affermazione questa, visto che  viene da una sinistra che giustamente negli anni passati si è schierata  a favore di molte lotte armate di liberazione: dal Nicaragua  alla Palestina. Sostenere la legittimità della lotta armata significa  forse non riconoscere il valore delle masse che, smettendo di avere  paura, scendono in piazza? Evidentemente no. Significa invece cercare di  capire come e perché ci siano rivolte armate e rivolte pacifiche. E  significa soprattutto non dimenticare che anche in Tunisia e in Egitto  il costo umano della rivolta è stato altissimo e che se non c'è stata la  guerra civile lo si deve al fatto che gli eserciti di quei paesi hanno  scelto di non difendere i dittatori.
 Chi ha seguito la vicenda egiziana ha capito fino in fondo la logica  della rivolta. Il tentativo di assalto da parte di una folla di  sostenitori di Mubarak (mentre l'esercito rimaneva passivo) contro Piazza Tahrir  occupata da decine di migliaia di persone accampate da giorni,  disarmate e senza possibilità di difendersi è stato il momento in cui la  deriva della guerra civile era dietro l'angolo. Soprattutto c'era la  consapevolezza dell'equivoco in cui erano caduti gli egiziani, in  particolare a causa di quelle forze politiche che, pur essendo  all'opposizione, speravano di accordarsi con Mubarak: l'equivoco di pensare che l'esercito fosse parte integrante, se non il motore, della rivolta.
 In realtà, e questo era chiarissimo, il ruolo «super partes»  dell'esercito derivava dalla spaccatura verticale dell'apparato del  regime che aveva compreso una cosa molto semplice: per potersi salvare  dall'ondata imprevista e possente delle proteste doveva abbandonare al  suo destino il presidente Mubarak e tutti coloro che erano compromessi  con gli aspetti peggiori del regime. Ma tra il 28 e il 30 gennaio niente  e nessuno poteva essere certo che questo atteggiamento non cambiasse.  Tutto era appeso ad un filo fragilissimo. Ciò che ha evitato una strage  di proporzioni superiori è stata la capacità degli occupanti di Piazza  Tahrir di difendersi malgrado tutto dall'attacco, non certo la sua  «bontà».
 Il fatto che da questo episodio sia scaturito uno scontro non armato  ma comunque molto forte - i morti furono decine e migliaia i feriti - e  ne sia derivata la caduta di Mubarak, ha portato la sinistra italiana a  considerare autentica la rivolta egiziana. C'è da chiedersi quale  sarebbe stata la reazione se invece gli eventi avessero preso un'altra  strada, più dolorosa se non tragica. Se si fosse aperto uno scenario  diverso, non sarebbe stato possibile mettere in dubbio l'autenticità  delle proteste del popolo egiziano e la sua volontà di sbarazzarsi della  dittatura. Lo slogan che da Tunisi si era esteso all'intera regione: "Il popolo vuole la caduta del regime" non avrebbe perso di significato e di efficacia.
 Sicuramente il caso libico è stato diverso dagli altri soprattutto  perché l'Occidente ha deciso di intervenire direttamente, nell'unico  modo che conosce: militarmente. Nei casi degli altri paesi arabi (sia in Nord Africa che in Medioriente) l'Occidente era riuscito, in primis  gli Stati Uniti, a fare pressione perché i dittatori fossero  abbandonati. Non è un caso se, sempre in Egitto - uno dei paesi più  importanti per gli interessi statunitensi in Medio Oriente - Barak Obama  ripetesse come una cantilena che era necessaria la «transizione  nell'ordine», dove evidentemente l'ordine era il mantenimento e la  salvaguardia degli interessi degli USA.
 
 Che l'intervento in Libia, anche prima della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite  del marzo scorso, fosse dettato principalmente dalla volontà di  difendere i propri interessi era chiaro a tutti. Ma nel caso della Libia  non esisteva un apparato statale o militare che si potesse conservare  pur eliminando il dittatore. Per altri versi, inoltre, se l'Occidente  avesse lasciato a Gheddafi la possibilità di schiacciare la rivolta nel  sangue, si sarebbe trovato nell'impossibilità di gestire un processo di  cambiamento radicale. Per questo motivo, inizialmente Francia e Gran Bretagna e poi la NATO  hanno approfittato della richiesta di aiuto da parte del Cnt (Consiglio  nazionale transitorio) e dei rivoltosi. E questo è stato uno degli  elementi principali per screditare da sinistra l'opposizione libica,  assumendo questa richiesta come la «prova» che in Libia la rivolta era  eterodiretta dall'Occidente. Questo è stato l'alibi anche per nascondere  ciò che realmente Gheddafi era da molti decenni. In modo sorprendente  una buona parte della sinistra italiana ha rispolverato il Gheddafi del  pan-arabismo e del pan-africanismo degli anni '70 e del Libro Verde  (bizzarramente ribattezzato come una interpretazione originale di un  tentativo di uscita dal sottosviluppo) per sostenere che chi sosteneva  che la rivolta libica era parte della Primavera araba si era venduto alla NATO o in procinto di vendersi.Tutto questo però significava non soltanto voler ignorare ciò che il  regime aveva significato per il popolo libico, ma soprattutto  dimenticare, o meglio occultare, i discorsi insolenti di Gheddafi e di suo figlio Saif al-Islam: per loro il popolo libico era una massa di topi, ovvero cani drogati e pagati da al-Qaeda.  Infine la sinistra italiana che giustamente si era mobilitata da favore  del popolo palestinese durante l'aggressione israeliana tra il dicembre  2008 e il gennaio 2009, non è stata colpita dal fatto che Gheddafi, in  un'intervista trasmessa da una rete satellitare francese, per  giustificare gli assedi di Misrata e Bengasi aveva sostenuto di "averlo dovuto fare così come Israele aveva dovuto bombardare Gaza per sradicare Hamas".
 
    In definitiva, se  anche solo per puro esercizio intellettuale si rileggessero e si  riascoltassero i discorsi che Gheddafi ha pronunciato dal 17 febbraio 2011 fino alla lettera che ha cercato di far pervenire a Silvio Berlusconi  il 5 agosto scorso, una cosa sarebbe chiara: il dittatore libico ha  cercato in tutti modi di ricordare all'Occidente e ai suoi governanti,  da Barak Obama al governo italiano, i servizi resi durante gli anni in  cui si era nuovamente allineato. Non è certamente un caso che due  argomenti prevalessero in modo ossessivo: in caso di attacco alla Libia  di Gheddafi nessuno più avrebbe controllato i flussi di migranti e  avrebbe vinto l'opposizione anche perché pagata e infiltrata da  Al-Qaeda.Al di là di ogni possibile giudizio sul Cnt, queste dichiarazioni  avrebbero dovuto quantomeno indurre a domandarsi a quali miti era legata  la sinistra italiana. Spesso l'attaccamento a questi miti è sfociato in  un aperto, pericoloso eurocentrismo.
 Inoltre, nessuna delle accuse contro i libici in rivolta era fondata  su analisi serie e non a caso non una di queste accuse ha poi trovato  una qualche conferma sul terreno.
 Ovviamente, sottolineare questi aspetti non significa nel modo più  assoluto voler credere che improvvisamente il diavolo sia diventato un  angelo, nel senso che non è possibile in nessun caso adombrare un ruolo  «progressivo» dell'Occidente e tanto meno della NATO. Anzi, proprio  l'annuncio della fine degli attacchi NATO subito dopo la cattura e  l'uccisione di Gheddafi dimostra che per l'ennesima volta il mandato del  Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è stato utilizzato solo per  una copertura «legale» di un intervento militare altrimenti difficile da gestire.
 Ma in questa sede ciò che più interessa capire è perché proprio negli  ambiti politici e culturali di rilievo è mancato un approccio  approfondito e complessivo su ciò che accadeva nel mondo arabo. È  prevalso invece un senso comune sparso a piene mani proprio da coloro  che attaccavano Gheddafi in armi in nome della «loro democrazia». Giustamente Danilo Zolo in un articolo pubblicato dal Manifesto il 14 ottobre scorso ha scritto:
 /*Un minimo realismo ci suggerisce che è notevole il rischio che  prevalgano gli interessi di  quella che Luciano Gallino ha chiamato la  «nuova classe capitalistica transnazionale». Dall'alto delle torri di  cristallo delle più ricche metropoli del mondo questa «nuova classe»  cercherà di dominare i processi dell'economia globale, quella  occidentale inclusa. In sostanza, «democrazia» finirà per essere  definita la somma degli interessi delle grandi imprese produttive e  degli enti finanziari, come le banche d'affari, gli investitori  istituzionali, le compagnie di assicurazione e così via. Attendersi che  in questo contesto la democrazia possa rapidamente fiorire nei paesi  arabi come una istituzione politica aperta ai giovani, agli operai, ai  disoccupati, ai poveri, ai migranti rischia di essere generosa retorica./
 
     Ma anche queste parole, che fanno da controcanto al facile ottimismo, non negano che ciò che è avvenuto nel Maghreb e nel Mashrek dal gennaio scorso ad oggi sia una svolta da cui sarà impossibile tornare indietro. In Tunisia e in Egitto  la strada del cambiamento dopo la caduta dei dittatori è già percorsa  da mesi e tuttavia le strutture dei vecchi regimi sono ancora in piedi.  Ciò che è profondamente cambiato, però, è il popolo egiziano e quello  tunisino. Ed è con questo cambiamento che tutti noi dobbiamo fare i  conti. Questo cambiamento viene tuttavia negato dalla sinistra italiana  al popolo libico. Per cui la fine cruenta di Gheddafi viene assunta come  il momento in cui la Primavera araba è morta. Ancora una volta si chiudono gli occhi su ciò che avviene nel contesto generale: la Siria, lo Yemen continuano la loro lotta contro despoti sanguinari; la Tunisia conta i voti delle prime elezioni libere dopo ventitre anni di dittatura, con un esito elettorale carico di incognite; l'Egitto prosegue il suo cammino irto di difficoltà e di pericoli. Perché identificare la fine di Gheddafi con la fine di tutto questo?
      È tuttavia difficile  poter credere che la fine del dittatore libico porti a un'inversione  della rivolta araba. Non è certamente un caso se dopo la morte di  Gheddafi in Siria decine di migliaia di persone affrontavano a mani nude  la repressione sanguinosa del regime di Bashar el-Assad e ritmavano lo slogan: "Bashar ora tocca a te".  È bene chiarire che non si auspica la morte per linciaggio di Bashar  el-Assad. Ma è necessario constatare che genere di eco ha avuto la fine  di Gheddafi in Siria, in cui la repressione, secondo le stime più  credibili, ha già mietuto 3.000 vittime, delle quali 200 bambini.  Inoltre, non è da trascurare che sulla reazione dei siriani alla morte  di Gheddafi ha probabilmente influito anche il fatto che a partire dalla  caduta di Tripoli, nell'agosto scorso, Gheddafi ha avuto come unica  cassa di risonanza la radio e la TV siriane, dalle quali ha potuto  lanciare i suoi ultimi proclami.Certo, non si dimentica facilmente il monito che scaturisce dalle  parole di Zolo, ma ciò non significa poter accettare il ragionamento  secondo il quale, caduto un mito al quale la sinistra italiana si era  appesa, tutto sia ormai finito. Il fatto che le rivolte negli altri  paesi stiano continuando, a dispetto delle aspettative deluse della  sinistra italiana, invece, è la prova della ininfluenza di quest'ultima  rispetto a questi popoli, che per fortuna non la ascoltano, impegnati  come sono in uno dei momenti più difficili della loro storia. Se noi  italiani, dal nostro comodo punto di osservazione, invece di giudicarli  saccentemente riuscissimo ad avere quel tanto di capacità empatica  necessaria, potremmo condividere questo cambiamento radicale del volto  del Mediterraneo. Invece, ci stiamo negando questa possibilità.
 Nell'immensa manifestazione del 15 ottobre per le strade di Roma,  tra le tante bandiere di altri popoli c'erano anche quelle della nuova  Libia e della Siria che inneggiavano alle due rivolte. Ci dovremmo  chiedere che tipo di rapporto intendiamo stabilire con quelle persone  che in piazza a Roma, e non a Bengasi o a Damasco, hanno tentato di  mettere in assonanza eventi diversi. È doveroso anche osservare, a  questo proposito, che sulle pagine dei giornali che fanno riferimento  alla sinistra (anche in quelli in formato elettronico) nel gran numero  di articoli dedicati alla morte di Gheddafi non vi è stata nessuna voce dei diretti interessati,  i libici. In alcuni casi vi è un silenzio molto significativo ma  preoccupante sulla morte stessa di Gheddafi, come se non fosse mai  avvenuta.
 
        In questa  prospettiva non possiamo chiudere gli occhi sul futuro incerto che si è  aperto in Libia all'indomani della scomparsa del dittatore e sul fatto  che ora, probabilmente, si potrà avere un quadro ben più chiaro di ciò  che è avvenuto. L'incertezza del futuro della Libia è determinata in  gran parte dal ruolo della NATO e dagli interessi occidentali che in  quel paese sono enormi. Nessuno può credere ad un ruolo «positivo» della NATO  ed è per questo ancora più grave che dall'inizio dell'intervento in  Libia non vi sia stata la capacità di dar vita ad una minima opposizione  a quell'intervento. Ma questa incapacità è largamente dovuta a tutte le  contraddizioni che abbiamo fin qui illustrato e che hanno portato  fatalmente ad allontanare la sinistra italiana dagli eventi libici.È evidente che ora gli esponenti del Cnt si trovano con più problemi  interni da affrontare di quanti probabilmente immaginavano di avere.  Questi problemi, peraltro, sono già emersi nei mesi scorsi con delle  rese dei conti tutt'altro che rassicuranti. Uno dei problemi più gravi  sarà senz'altro quello di giustificare agli occhi dello stesso popolo  libico non tanto la morte di Gheddafi, quanto ciò che sta emergendo  dall'ingresso nella città di Sirte delle agenzie internazionali, come Human Right Watch  e il rientro di coloro che erano fuggiti durante i combattimenti.  Sembra chiaro che in quella città la popolazione sia stata presa in  ostaggio non solo dalle milizie gheddafiane, ma anche dal Cnt e dalla  NATO, pagando un tributo umano altissimo. Nei giorni successivi alla  fine del dittatore e alla «liberazione» di Sirte, Mohammed, un vecchio conducente di taxi, intervistato da una agenzia di stampa francese, dichiarava:    « Sono  desolato di vedere la mia città ridotta in queste condizioni. I thowar  (rivoluzionari) avrebbero potuto prenderla distruggendola molto meno. Ma c'era una forte resistenza da parte degli uomini di Gheddafi e penso che i thowar volessero punire Sirte». Lo  stesso intervistato ammetteva che in città c'era un consenso  maggioritario verso il regime e che, da una parte e dall'altra, si  praticavano le punizioni sommarie e collettive. E ammetteva anche che  questa spaccatura attraversava la sua stessa famiglia e che lui era  stato l'unico a rifiutare questa logica e per questo motivo aveva  abbandonato la sua città. Non può, però, essere messo in dubbio che  questo meccanismo purtroppo è tipico di ogni guerra civile, non una  «caratteristica» libica.
 Ora, ovviamente, la posta in gioco è aumentata, è diventata enorme. In  gioco c'è la necessità di non assecondare il meccanismo delle  rappresaglie. Le incognite che si addensano sul futuro della Libia sono  moltissime e tutte pericolose. In questo senso, la richiesta da parte  del governo transitorio della prosecuzione della missione della NATO è  molto preoccupante, perché è chiaro che le forze fedeli al vecchio  regime non sono in grado di ricominciare a combattere.
 
 Questa richiesta sembra  dunque legata alle contraddizioni interne al Cnt che nessuno nega o  nasconde. Inoltre, non è un dettaglio il fatto che questa richiesta dia  la possibilità alla NATO e all'Occidente di presentarsi come un paladino  in «soccorso della democrazia». Non è un caso se Anders Rasmussen,  il segretario generale della NATO, si è precipitato a Tripoli con un  triplice obiettivo: 1) confermare la fine delle operazioni alla  mezzanotte del 31 ottobre; 2) confermare, comunque, la disponibilità  della NATO per una nuova missione se lo chiedono le nuove autorità  libiche. Questa disponibilità è stata annunciata con la seguente  dichiarazione: «Se le nuove autorità lo richiedono, la NATO è pronta a fornire aiuti per la trasformazione del paese verso la democrazia»; 3) dichiarare che la NATO  non ha alcuna intenzione di stabilire delle basi in Libia. Molto  probabilmente quest'ultima dichiarazione è stata suggerita dalla volontà  di non finire in un pantano simile a quello iracheno o a quello  afghano. Inoltre, non è un caso se, tramite il suo segretario, la NATO  non ha confermato la dichiarazione del primo ministro libico  dimissionario, Mahmoud Jibril, circa il ritrovamento di  un arsenale di armi nucleari in possesso della Libia. La scarsa  verosimiglianza di questa affermazione emerge dal fatto che queste armi  prima sarebbero state nucleari e poi chimiche. Quello che è certo è il  riecheggiare di un vecchio argomento, quello delle armi di distruzione  di massa, che poi non vengono mai trovate.Ma, sia la richiesta per la prosecuzione della missione della NATO fino a fine anno fatta dal primo ministro uscente del Cnt, sia l'annuncio del «ritrovamento»  di un arsenale di armi non convenzionali che Gheddafi avrebbe  accumulato fin dal 2004 - venendo meno agli impegni presi con i governi  occidentali - sono un regalo tanto inaspettato quanto immeritato per  quei paesi occidentali che invece hanno portato, soprattutto negli  ultimi vent'anni, alla devastazione di tanti Stati e non solo in  Medioriente. In altri termini, se il futuro della Libia sarà determinato  dalle «vocazioni democratiche» della NATO si può essere certi che sarà  un futuro tutto in salita. Insomma, tutto ha senso tranne che fidarsi  della NATO o delle «buone intenzioni» di paesi come gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna e, naturalmente, l'Italia.
 Ma in questo contesto tanto denso di incognite e pericoli, vi è un  attore che non può essere ignorato e tantomeno cancellato dagli eventi: il popolo libico.  Tornando all'inizio di queste riflessioni, è il caso di sottolineare  che in Libia la rivolta è stata innescata dagli stessi motivi che hanno  dato vita alle altre rivolte arabe: la volontà di liberarsi dalle dittature.  Questa è stata la priorità. Il popolo libico ha dovuto confrontarsi con  un regime che per difendersi ha preferito la guerra civile  all'abbandono del potere. L'intervento armato occidentale che  inizialmente ha impedito che la rivolta finisse schiacciata nel sangue,  non era né «umanitario», né «democratico», ma puntava a  non perdere il controllo del petrolio libico. In questa fase in cui  sembra che il governo transitorio libico stia cadendo nella trappola di  puntare sull'aiuto della NATO per costruire il futuro della Libia, vi è  la negazione della tesi di chi riteneva che il «caso libico» fosse  estraneo alle rivolte che stanno ridisegnando il volto del Mediterraneo.  Si può star certi, al contrario, che un popolo che ha tanto sofferto in  quarantadue anni di dittatura e che ha pagato un prezzo così alto per  liberarsene, si impegnerà perché il suo avvenire non venga confiscato da  chi fino al 17 febbraio 2011 ha sostenuto la dittatura che lo ha  oppresso.
 In questo senso, dare oggi per scontato il futuro della Libia sarebbe  un errore gravissimo. E sarebbe anche una notevole responsabilità  etica, prima ancora che politica, di cui tutti noi porteremo il peso. E  porteremo ancora una volta il peso di non aver saputo ascoltare l'altro e  di non aver capito. E a pagare il prezzo più alto saranno di nuovo i  giovani, le donne e gli uomini che si sono fidati nel nostro esempio.
 
 14/11/2011
 
 
	
	
I Profughi Palestinesi in Libanodi Mirca Garuti
 
 Alkemia è tornata, anche quest'anno, in  Libano, nei campi profughi palestinesi con il Comitato “Per non  dimenticare Sabra e Chatila”, nella settimana del ricordo del massacro  del 1982.
 
 Alkemia, anno dopo anno, insieme ai  compagni attivisti di tutto il territorio nazionale, continua a  raccontare ed a ricordare le sofferenze e le speranze di questo popolo.   Lo dobbiamo a loro ed a Stefano Chiarini che ha creato il Comitato,  proprio per essere con i profughi palestinesi, per non dimenticare e per  lottare affinché sia fatta giustizia e sia riconosciuto il loro diritto  al ritorno, di avere una terra su cui vivere ed un proprio Stato libero  ed indipendente.
 
 Speriamo sempre di trovare, come ogni  anno, anche solo un piccolo miglioramento, ma la realtà è ben diversa!  Tante promesse, ma tutte ancora volteggiano nell’aria del Paese dei  Cedri.
 
 Le visite si susseguono incalzanti tra i  campi dei profughi palestinesi ed i vari rappresentati della società  civile, giornalisti, esponenti di governo e di partiti.
 L’anno scorso l’argomento centrale di ogni  incontro o discussione era la trattativa di pace in corso tra Abu Mazen  e Netanyhau, quest’anno invece è stata la richiesta, da parte del  Presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) all’Assemblea Generale  dell’ONU, del riconoscimento dello Stato Palestinese.
 

 Il primo incontro è con  il ricercatore indipendente, Jaber Suleiman, specializzato nella causa  dei profughi palestinesi, docente universitario, attivista della società  civile con il movimento “Il Ritorno”, membro fondatore in Libano del  gruppo “Ritorneremo”, coordinatore del centro “Aidoun” e del comitato  che ha cercato di portare Ariel Sharon davanti ad un tribunale  internazionale. Senza indugio evidenzia, contrariamente a quello che  sostiene Israele, che i palestinesi non hanno lasciato le loro terre per  libera scelta ma unicamente a causa dei massacri, delle minacce e  dell’occupazione del 1948, che ha dato inizio alla pulizia etnica della  Palestina. I palestinesi che vivono in Libano sono poco più di 400.000  ed il 52% vive distribuito nei 12 campi esistenti sul territorio  libanese. Affronta e confronta la situazione dei palestinesi in Libano  rispetto agli altri paesi arabi. Parla direttamente, senza indugi, sul  loro stato d’emarginazione totale, considerati, dalla legislazione  libanese, come una categoria a parte, meno dei normali stranieri. Suleiman continua a parlarci dei diritti  negati ai palestinesi qui in Libano, argomento, purtroppo già conosciuto  da molti di noi, ma, resta comunque molto drammatico dover sentire,  sempre, Tutto quello che non possono fare e, non essere in grado di  contribuire a cambiare la situazione. Prosegue il suo intervento con “il  diritto al ritorno” sancito dalla Risoluzione Onu n. 194, spiegandoci  il perché della sua importanza ed il rischio che si corre, oggi, con  l’approvazione del Riconoscimento dello Stato Palestinese (N. d’ordine   194) alle condizioni d’Israele.
 Suleiman, infine, chiude il nostro  incontro rispondendo ad alcune domande che riguardano la  scolarizzazione, il sistema sanitario e l’economia palestinese in  Libano.
  
               
 - 2° GIORNO    
 
	
	
UNO STATO PALESTINESEdi Wasim Dahmash
         A proposito del riconoscimento preventivo dello Stato palestinese, mi limito ad osservare che almeno dalla morte di Arafat in poi, le azioni dell'ANP  (Autorità Nazionale Palestinese, alias OLP o Fatah) non sono più solo  indotte da Israele, ma piuttosto coordinate con gli organi dello Stato israeliano,  vedi ad esempio l'organizzazione e il ruolo della polizia palestinese, e  in politica internazionale basti ricordare il caso del rapporto Goldstone.  Non vedo perché un'azione politica piuttosto rilevante come quella  annunciata non debba essere come altre preventivamente concordata. I  funzionari che guidano l'ANP (OLP-Fatah) non sono affatto  persone stupide e sanno benissimo che non potranno disporre, come  vorrebbero, di uno Stato palestinese autonomo in accordo con Israele.  Allora a che cosa mirano? Si accontentano di uno Stato "temporaneo", come è nei programmi israeliani, o più modestamente di continuare a gestire l'ANP, così com'è, o più realisticamente di “tirare a campare” per qualche anno ancora.Tutto l'establishment israeliano ha più volte ripetuto che uno Stato palestinese entro la cosiddetta "linea verde" vale a dire le linee di armistizio del 1949 (leggi Cisgiordania e Gaza) non è possibile, ma uno Stato palestinese sarebbe accettabile, anzi auspicabile, entro confini da stabilire, perché nei territori occupati nel 1967 delimitati dalla "linea verde" vivono oggi oltre 500.000 ebrei israeliani  che non accetterebbero di essere cacciati via o di diventare cittadini  palestinesi. La soluzione? Consisterebbe in uno scambio di territori. I territori cisgiordani abitati da israeliani andrebbero annessi ad Israele e i territori abitati da "arabi israeliani" sarebbero attribuibili al costruendo Stato palestinese.  Ovviamente questo dovrà essere un processo da concordare tra le parti  attraverso un negoziato che sarà, difficile, complesso e soprattutto  molto lungo.
 Tappa obbligatoria di questo negoziato è definire chi sono i soggetti della cittadinanza palestinese e della cittadinanza israeliana. Il passaggio dei coloni israeliani  in Cisgiordania alla cittadinanza palestinese sarebbe escluso perché  non lo vogliono e perché quei territori sono destinanti, nell'ambito  dello scambio, a Israele. Il passaggio degli "arabi israeliani" alla "cittadinanza palestinese"  sarebbe necessario perché loro sono palestinesi, così si realizzerebbe  l'unità del popolo palestinese, e perché quei territori sarebbero  destinati al virtuale "futuro Stato palestinese". In caso di  mancato raggiungimento di un accordo globale di pace e sul futuro  assetto dello Stato palestinese, come è nei programmi israeliani, i  palestinesi, oggi cittadini israeliani, che nel frattempo avranno perso  la cittadinanza israeliana, avranno bisogno di un permesso di soggiorno per continuare a soggiornare in "Israele". In altre parole Israele acquisisce una carta legale per espellere i palestinesi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1947-49.
 La nascita virtuale e il riconoscimento di uno Stato palestinese, sotto il profilo legale, è necessario ad Israele perché abbassa il tetto delle rivendicazioni palestinesi. A tutt'oggi, secondo il diritto internazionale, i profughi palestinesi hanno diritto a ritornare alle loro terre (risoluzione 194). Il riconoscimento di un "futuro" Stato palestinese  limiterebbe questo diritto ai confini (virtuali) del costruendo Stato  (virtuale). La proclamazione di uno Stato palestinese su una parte del  territorio della Palestina mandataria renderebbe automaticamente legale l'esistenza sul rimanente territorio dello Stato coloniale tuttora illegale  secondo la carta delle Nazioni Unite, anche se riconosciuto da molti  Stati membri dell'ONU ed è ammesso alla stessa organizzazione alla  condizione di applicare la 194 (Il ritorno dei profughi). Israele è l'unico Stato ammesso all'ONU in modo condizionato. Infatti la 181, presa a pretesto per "legalizzare" lo Stato d'Israele, non è una "risoluzione", ma è una "raccomandazione" di un "comitato ad hoc"  indirizzata all'Assemblea Generale ed è in aperto contrasto con la  carta delle Nazioni Unite. Si tratta semplicemente di un escamotage   legale.
 La "legalizzazione"  dell'assetto politico del territorio palestinese legalizzerebbe  l'assetto geopolitico vicino orientale scaturito dagli accordi Sykes-Picot.  Ad esempio, lo Stato che potrebbe vantare maggiore legittimità nella  regione siriana sarebbe quello sorto per esclusiva volontà dei suoi  abitanti in un momento di lotta popolare ed è quello che oggi non c'è,  cioè il Regno di Siria proclamato dal Congresso popolare pansiriano di Damasco nel 1918  in cui deputati eletti in rappresentanza di tutte le regioni siriane  (oggi Siria, Libano, Palestina/Israele, Transgiordania, parte della  Turchia) e di tutte le comunità confessionali, linguistiche, rurali e  urbane, avevano proclamato l'indipendenza della Siria dall'Impero  Ottomano. L'assetto odierno garantisce  un'instabilità permanente, una frammentazione progressiva, una  dipendenza economica crescente e una sudditanza politica delle comunità  della regione (non più una nazione, non più un popolo, non più popoli)  nei confronti dell'Impero e delle sue manifestazioni corporative e  statuali. La frammentazione politica agisce da acceleratore della  frammentazione sociale e si nutre di essa, vedi lo scontro giordano-palestinese del 1970  e quello latente che ogni tanto riesplode, oppure gli infiniti  conflitti libanesi, e così via. Il laboratorio siriano è stato poi  esteso all'Iraq, ecc. La trattativa per uno Stato palestinese  dovrebbe inoltre includere un ventaglio di forze palestinesi, perché si  è visto che trattare con una sola parte non ha portato alla pace  desiderata. In altre parole bisognerà coinvolgere, oltre a Fatah anche Hamas, la quale organizzazione, per essere ammessa, dovrà però preventivamente soddisfare alcune condizioni che OLP-Fatah aveva a suo tempo fatto sue prima di essere ammessa al tavolo dei negoziati. Tra queste condizioni primeggiano il riconoscimento dello Stato d'Israele e la rinuncia al terrorismo. Vale a dire la rinuncia al 78% del territorio palestinese e la rinuncia al diritto alla resistenza  sancito dalle Nazioni Unite. Tuttavia il coinvolgimento di Hamas sarà  possibile solo in un quadro di accordo con ANP-Fatah, un accordo dal  quale resteranno esclusi quelli che non accetteranno le condizioni  imposte (ci sarà sempre qualcuno) e che diventeranno il nemico da  combattere con beneficio di Israele e della sempre più accelerata  frammentazione palestinese.L'establishment israeliano sa benissimo che l'idea dello Stato è corrosiva del concetto di "liberazione". A questo è servita negli anni e a questo serve oggi. La stragrande maggioranza dei palestinesi oggi vorrebbe uno Stato.  Pochi i palestinesi che non lo vogliono. E' mia opinione che i maggiori  rappresentanti dei palestinesi dei territori occupati nel 1967, vale a  dire, Fatah e Hamas, pur con tutti i distinguo del caso e con tutte le  dovute differenziazioni, sono due organizzazioni di indirizzo populista.  Questa situazione è decisamente favorevole a Israele che cerca di  trarne tutti i possibili vantaggi. Tuttavia, questi non sono gli aspetti  della questione per cui dubito dell'opportunità di chiedere il  riconoscimento di uno Stato palestinese virtuale. Un aspetto più  importante, a mio avviso, è questo: uno Stato che si fonda in base a un accordo tra governi (se non è frutto della lotta popolare) non per azione dei suoi cittadini, non può realizzare il diritto all'autodeterminazione,  né quella nazionale, né comunitaria e tantomeno individuale. Altro  elemento non meno importante del precedente è questo: il diritto  all'autodeterminazione è un diritto inalienabile, cioè,  come ci insegnano i giuristi, non frazionabile, e questo significa che  non è negoziabile, non può essere oggetto di negoziato, va solo e  semplicemente realizzato.
 
    Appare sempre più evidente che le  azioni della politica internazionale, come i grandi cambiamenti a  livello economico-finanziario, si realizzano lungo direttive dove non esiste nessun controllo pubblico  di nessun tipo, né popolare (stampa, partiti, associazioni, ecc.), né  rappresentativo parlamentare, e a volte nemmeno statuale. Cioè si agisce  al di là delle sedi istituzionali palesi. Esiste un divario sempre più  profondo tra la realtà e la rappresentazione che ne viene data. Gli esempi sono ormai innumerevoli. Un esempio immediato può essere quello della guerra in Libia.  L'opinione pubblica delle nazioni coinvolte nella guerra non ha la  percezione di vivere uno stato di guerra, non solo per l'enorme divario  nelle armi impiegate  - il controllo dei cieli rende scontato l'esito -  ma anche per il totale controllo delle informazioni per cui viene celato il ruolo degli eserciti delle nazioni coinvolte, come sono celati le cause e gli obbiettivi della guerra. In altre parole: una realtà virtuale si sovrappone a una realtà tangibile fino a coprirla del tutto. Una cosa simile si presenta nella situazione palestinese. Il cosiddetto processo di pace (realtà virtuale), ha coperto la strisciante colonizzazione  del territorio palestinese e la progressiva sostituzione della  popolazione autoctona (realtà tangibile). Allo stesso modo, le manovre  politiche dell'ANP-OLP-Fatah si svolgono su un piano di realtà non  tangibile. Esempio: la lotta popolare contro il muro, contro il  sequestro delle terre, contro le demolizioni delle case, ecc. si svolge  sullo stesso piano reale sul quale si svolgono le azioni repressive,  cioè nella realtà tangibile, anche se viene coperta sempre più dalla  realtà virtuale. E' altamente probabile che la richiesta di  riconoscimento di uno Stato palestinese non sarà presentata alla  prossima sessione dell'Assemblea Generale dell'ONU. In caso contrario è  probabile che la richiesta stessa non venga immessa  nell'ordine del  giorno. In ogni caso entra a far parte della realtà virtuale.
    L'occupazione e la spartizione dei  territori dell'Impero Ottomano è avvenuta con la guerra. La spartizione,  avversata dalle popolazioni, ha acquisito veste legale per imposizione.  I territori del Regno di Siria sono stati divisi tra  la Francia e l'Inghilterra. Le due potenze hanno frammentato  ulteriormente il territorio, creando nella Siria meridionale due entità  statuali: Palestina e Transgiordania. Nel 1922 L'Inghilterra legalizzò il nuovo assetto presso la “bottega legale” della Società delle Nazioni. Nel territorio tra il Mediterraneo e il fiume Giordano è nato lo Stato di Palestina. Il territorio di questo Stato continua ad essere occupato da una potenza occupante che è espressione e continuazione della potenza occupante madre, nata per sua dichiarata volontà. I palestinesi, cioè la comunità umana che ha modellato la storia e il paesaggio culturale di quel territorio, hanno diritto a reclamare tutto il loro territorio.  La legalizzazione di una spartizione della Palestina è ovviamente a  spese del popolo palestinese, nega i suoi diritti fondamentali,  riconosciuti a tutti i popoli. La raccomandazione 181  dell'Onu non legalizza la spartizione della Palestina ed è contraria  allo spirito e alla lettera della Carta delle Nazioni Unite (Ogni popolo  ha diritto all'autodeterminazione).        L'Autorità Nazionale Palestinese (leggi OLP-Fatah) è nata in base agli accordi tra il governo israeliano e l'OLP-Fatah, detti Accordi di Oslo. Questi accordi sono stati dichiarati “decaduti” da una delle due parti contraenti, il governo israeliano. Sono quindi legalmente nulli. L'ANP non ha nessuna veste legale, ma cosa ben più importante, non è un'autorità legittima,  nemmeno sul piano rappresentativo degli abitanti delle regioni occupate  nel 1967 che sono circa il 30% dei palestinesi. Infatti, i deputati  eletti nelle liste di Hamas al Consiglio Legislativo Palestinese, sono  quasi tutti nelle carceri israeliane! Per non dire che le elezioni  furono vinte da Hamas e non da Fatah e che il mandato del capo dell'ANP-Fatah, Mahmud Abbas Abu Mazen, è scaduto da anni. A maggior ragione l'ANP non rappresenta i sei o sette milioni di palestinesi in esilio (di cui 4,820,229 profughi registrati, secondo le statistiche ONU), nemmeno i palestinesi che vivono nei territori dichiarati Stato d'Israele, i cosiddetti “arabi israeliani” (oltre 1.300.000 persone). In poche parole l'ANP non ha nessuna veste, nessun diritto a negoziare a nome del popolo palestinese. E tuttavia nessun governo legittimo e legalmente riconosciuto è autorizzato a ledere i diritti inalienabili della popolazione che governa o quelli di altre, così come nessun organismo internazionale può disporre del territorio o della vita di una popolazione.         Gli Stati hanno ragione di essere in  quanto istituzioni, volute e accettate dai cittadini, atte a realizzare e  garantire i diritti degli stessi cittadini. Uno Stato che “imbroglia” sui diritti fondamentali, perde una parte della sua legittimità. Lo Stato che lede in parte o in toto i diritti dei cittadini, li nega o peggio li cede, perde ogni legittimazione. Uno Stato che compie una “pulizia etnica”  e la perpetua nel tempo, compie un crimine contro l'umanità e come tale  va trattato fino a quando non riconoscerà i propri crimini e cercherà  sinceramente di porvi rimedio. Il diritto dei profughi palestinesi al ritorno in tutta sicurezza alle loro case e nelle loro città e il diritto all'indennizzo dei danni subiti nei sessanta tre anni  trascorsi al loro esilio, è il primo passo da compiere per cominciare  un percorso che porti a una convivenza pacifica, paritaria e civile tra i  cittadini autoctoni, i palestinesi, e i cittadini acquisiti, gli  israeliani. Le formule possono essere di diversi tipi, e tutte possono  rivendicare una uguale legittimità, ma il nocciolo della questione resta  sempre uno e uno solo: il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese.   
 17/07/2011
 
 
	
	
VIETATO L’INGRESSOAGLI AMICI DEI PALESTINESI
 di Mirca Garuti
 
 Israele, con la chiusura di ogni accesso possibile a chiunque si dichiari “amico dei Palestinesi”, continua a mantenere la sua ferrea linea difensiva. Un tempo, neppure troppo lontano, si leggevano i cartelli “Vietato agli ebrei” oppure “Vietato ai meridionali”, ora invece il divieto è rivolto ai Palestinesi ed ai loro sostenitori, in nome della “sicurezza” israeliana.
 Lo dimostrano i fatti delle ultime due settimane relativi alla missione della Freedom flotilla 2 e all’evento “Welcome to Palestine”. La Flotilla  non è riuscita a partire. Il governo greco  ha fatto l’impossibile, tra ispezioni e sabotaggi, per bloccare la  partenza in direzione di Gaza di tutte le navi, compreso anche la  piccola “Dignité”, l’unica che era riuscita a salpare. Mercoledì 6 luglio, la Dignité aveva ormeggiato, nel tardo pomeriggio, ad Ormos Kouremenos, un piccolo porto nella parte più orientale di Creta, per fare l’ultimo rifornimento, prima di ripartire per Gaza.  Dopo aver caricato i primi mille litri di combustibile, è stata  avvicinata da una vedetta e cannoniera della guardia costiera greca.  Inizia così una trattativa tra i passeggeri e gli uomini in uniforme  (una dozzina): i documenti sono sottoposti a più controlli, le  telefonate si moltiplicano e la discussione continua per due ore. Non viene trovato nulla!
 Quentin Girard giornalista del quotidiano “Libération” così racconta : “Il  capitano non ha tenuto  un diario di bordo ed i costi d’entrata nel  porto turistico, 30 euro, non sono stati pagati.  Solo che in questo  piccolo porto di pescatori, non c’era la capitaneria per dichiarare il  loro arrivo –Dobbiamo aspettare”.  Girard continua – “Sono le  22, quando la guardia costiera ci dice che dobbiamo seguirli per andare  in un altro porto per firmare le autorizzazioni e che la Dignitè potrà  ripartire il mattino seguente”. La piccola imbarcazione francese è dunque  costretta a ripartire nella notte, scortata dalla guardia costiera. E’  andata un po’ oltre rispetto alle altre navi, ma non è sufficiente!
 La Grecia, come il resto dell’Europa,  esegue gli ordini del governo d’Israele e non esiste nessuna scusa,  nemmeno la sua crisi economica.
 Si è persa, dunque, la Dignità di agire e di pensare in piena autonomia.
 La prepotenza israeliana non si è espressa solo con la Freedom flotilla 2 ma anche con l’evento “Welcome to Palestine”, bloccando tutti i voli in partenza dall’Europa verso Tel-Aviv, dimostrando così la sua pericolosità non solo verso tutti i Palestinesi ma anche per la democrazia europea.
 L’intenzione delle centinaia di attivisti  internazionali era quella di partecipare alla settimana “Welcome to  Palestine”, organizzata da oltre 40 associazioni palestinesi,  in molti villaggi e città della Cisgiordania, dal 9 al 16 luglio,  portando la loro solidarietà e condivisione per le difficoltà dei  palestinesi di vivere sotto occupazione. La novità, rispetto a tutte le  altre precedenti iniziative, è quella del “non nascondere le intenzioni dei partecipanti” una volta arrivati all’aeroporto Ben Gurion. La trasparenza di questi obiettivi si è trasformata in una “minaccia alla sicurezza”, tanto che, il premier Benyamin Netanyahu ha ordinato alle varie forze di sicurezza di “agire  in modo deciso contro i tentativi di creare una provocazione  all'aeroporto”, evitando però “attriti non necessari con gli attivisti  internazionali”. Il governo d’Israele teme, di fronte a tutte  queste ultime azioni, di perdere per lo più l’immagine che sta cercando  di modificare nei confronti dell’opinione pubblica internazionale.
 Israele, come risposta al  programma degli attivisti, ha aperto una stanza speciale per i  controlli all’aeroporto di Tel Aviv, dove autorità dell’aviazione,  rappresentanti del ministero della sicurezza, degli esteri, della  polizia ed altri opereranno senza sosta fino all’ultimo arrivo degli  attivisti. Tutti i passeggeri prima del decollo ed a bordo degli aerei  saranno controllati, perché tutti potranno essere potenziali  partecipanti a quest’evento.
 
 Israele ha presentato una lista nera con 347 nomi. Il Ministero degli interni israeliano ha inviato una lettera a tutte le compagnie aeree che chiede di ”non imbarcare i radicali pro-palestinesi” definiti “hooligans”, sui voli diretti a Tel Aviv.  Il comunicato continua: “A  seguito delle dichiarazioni degli attivisti pro-palestinesi in arrivo  in Israele per sconvolgere l’ordine e per confrontarsi con le autorità  israeliane” è stato deciso di rifiutare loro l’ingresso nel paese, “secondo la Legge d’Ingresso in Israele del 1952″.
 
 La richiesta di collaborazione delle varie  compagnie aeree ha funzionato! Centinaia di attivisti, infatti, sono  stati bloccati nell’aeroporto francese Charles de Gaulle ed  anche l’Alitalia ha sospeso i voli. L’appello degli attivisti, invece,  non ha avuto riscontro. Chiedevano, in un comunicato stampa diffuso  giovedì scorso, alle compagnie aeree di “non accettare le azioni provocatorie ed illegali e i ricatti del governo israeliano”.
    Olivia Zemor, una dei responsabili dell’organizzazione della missione Welcome to Palestine – Bienvenus en Palesatine, ha affermato “Noi siamo persone pacifiche e non vogliamo sconvolgere l’ordine in Israele. L’aeroporto è sotto occupazione israeliana”.Le proteste negli aeroporti di Londra, Parigi e Ginevra continuano, mentre a Tel Aviv, circa 130 attivisti, che erano riusciti ad arrivare all’aeroporto Ben Gurion,  sono stati arrestati e sono in attesa dell’espulsione dal territorio  d’Israele. Si apprende che qualcuno dei francesi arrestati, prima  dell’interruzione telefonica, sia riuscito ad inviare messaggi che  segnalavano aggressioni fisiche contro di loro e la separazione tra  quelli con sembianze “arabe” da quelle “occidentali”.
 Nello stesso momento, all’aeroporto di  Parigi, i passeggeri in attesa di partire per Tel Aviv sono stati  caricati dalla polizia. Hanno organizzato, senza indugio, un sit-in di  protesta anche perché le compagnie non hanno nessun’intenzione di  procedere ai rimborsi.
 Alcune fonti palestinesi riportano che circa 50 attivisti, eludendo i vari controlli, sono riusciti a raggiungere la West Bank.
 Sophia Deeg, coordinatrice tedesca degli attivisti ha aggiunto: “Molti  dei partecipanti sono famiglie o persone anziane che non sono mai state  in Palestina. Il loro intento è solo quello di mettere in luce la forte  restrizione della libertà di movimento che è in vigore in Palestina”.
 Ugo Volli ha affermato, invece, in un articolo apparso sul sito di “Informazione Corretta”  che queste due iniziative sono da considerarsi due vittorie ottenute  con la collaborazione di Grecia, Cipro, Turchia e di alcune compagnie di  linee aeree internazionali, contro chi continua a non voler riconoscere  la sovranità statuale israeliana.  E’ Israele ad essere “assediato”, Volli continua nel suo articolo a dichiarare: “Ha  scritto qualcuno che stati e società non spariscono mai, a meno che si  suicidino. Questo è particolarmente vero per Israele, che è assediato da  prima della sua nascita da stati e movimenti che provano  sistematicamente a distruggerlo trovando il suo punto debole: prima con  le guerre convenzionali, poi col terrorismo aereo e con quello suicida  portato nel cuore delle città: tutti fortemente ridimensionati, se non  abbandonati, quando hanno trovato una difesa adeguata. Ora da qualche  anno il gioco è la delegittimazione, la guerra giuridica e dell'opinione  pubblica, per cui il sistema politico occidentale è il terreno  privilegiato e i mezzi di comunicazione e gli opinion leader i  principali strumenti di combattimento.  E' possibile e naturalmente  sperabile che il fallimento delle flottiglie marittima e aerea e dei  tentativi di invasione dei confini convinca prima o poi i palestinesi ad  abbandonare anche questa forma di lotta e magari anche a riprendere  seriamente una strategia di pace con Israele abbandonata del tutto, dopo  il breve momento di Oslo, una decina d'anni fa”.   
Israele considera fondamentale solo il suo diritto di autodifendersi in nome della sicurezza e del riconoscimento di Stato Ebraico,  respingendo invece tutte le sue responsabilità per le violazioni dei  diritti umani e del diritto internazionale. L’arroganza di questo  governo non ha limiti e lo dimostra l’ultima legge approvata dalla Knesset, lunedì 11 luglio, con 47 voti favorevoli e 38 contrari. Si tratta della "Boycott Bill". Dopo tre votazioni, da oggi Israele può chiedere un risarcimento di circa 10mila euro  per danni finanziari provocati dal boicottaggio economico, culturale ed  accademico e, può revocare le esenzioni dalle tasse e benefici legali  ed economici a tutte quelle persone, istituzioni o gruppi israeliani che  sostengono il boicottaggio del proprio Stato. Saranno penalizzate anche  tutte quelle società e compagnie israeliane che vorranno lavorare con  compagnie palestinesi. Per mettere in pratica la Boycott Bill, non serviranno prove tangibili, ma, sarà sufficiente, il solo invito al boicottaggio con l’obiettivo di causare danni economici e d’immagine. Si condanna dunque il pensiero, il gesto, l’intenzione!
 La Boycott Bill ha solo un giorno, ma già si vedono i risultati: la compagnia israeliana per l’elettricità e lo sviluppo tecnologico “Arca”, ha cancellato, oggi 13 luglio, il contratto che aveva per la costruzione della nuova città palestinese di Rawabi a nord di Ramallah (prima città pianificata dall’Autorità Palestinese).
 Questa legge è stata presentata dal parlamentare avvocato del partito Likud, Ze’ev Elkin ed è stata approvata da tutta la coalizione di maggioranza e dalle opposizioni, con il voto contrario solo del partito di Kadima e quello d’astensione di “Indipendenza”. I parlamentari di Kadima non si sono risparmiati nei confronti del Premier: “Netanyahu  ha passato la linea rossa della stupidità e dell’irresponsabilità  nazionale. Il suo governo crea problemi ad Israele e dovrebbe essere il  primo a pagarne il prezzo”.
 I dissidenti della società civile israeliana hanno definito la legge antidemocratica  contro la libertà d’espressione e manifestazione. Il governo si è  difeso, come il solito, affermando che questa legge è solo un mezzo per  tutelare lo Stato di Israele contro una delegittimazione globale. Alcune  organizzazioni per i diritti umani hanno già annunciato che  presenteranno ricorso all’Alta Corte, definendo la legge “completamente anticostituzionale perché limita la libertà d’espressione politica ed è contraria al diritto internazionale”. “La  Knesset tenta non solo di chiudere la bocca della protesta contro  l’occupazione, ma anche di impedire alle vittime e a chi si oppone di  lottare contro”, ha detto Hassan Jabarin, direttore generale di Adalah, organizzazione per i diritti umani, certo che il “Boycott Bill” non riceverà mai l’assenso dell’Alta Corte.
 Se però Israele è stato costretto a promulgare una legge ad hoc significa che la campagna BDS (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) messa in atto fino a questo momento, ha dato i suoi risultati.
 Israele non si limita a bloccare la Freedom Flotilla2, la Welcome to Palestine, ad emanare una nuova legge contro il BDS, ma organizza anche viaggi turistici al fine di far conoscere la “facciata buona” d’Israele. L’ambasciata israeliana a Roma, infatti, ha pianificato un tour nello Stato ebraico, senza mettere piede nei Territori Occupati, per un gruppo di giovani politici italiani, da domenica 10 luglio a venerdì 15. Nel giorno in cui era approvata la “Boycott Bill” i giovani italiani erano in visita al Parlamento israeliano. Che tempismo perfetto!
 Il giro turistico in Israele, da Gerusalemme, Nazareth, Tel Aviv prevede incontri con il Sindaco di Sderot, un meeting con i rappresentanti dei Jerusalem Venture Partners(fondi di capitali a rischio), con la società di smaltimento rifiuti Hetz Ecologia, una cena dibattito con Claudio Pagliara (corrispondente Rai da Israele), la visita ad un kibbutz, ai valichi d’osservazione al confine del Libano e della Siria e, per finire, la scoperta di una “Tel Aviv by night”.
 L’invito ufficiale dell’ambasciata ai giovani delegati italiani così declamava: “Riteniamo  che conoscere direttamente Israele e sperimentare la sua realtà  attraverso un viaggio possa essere utile per meglio comprendere la  complessità del paese e della regione”.
 Giovanni Donzelli, consigliere regionale toscano del PDL, invitato in qualità di rappresentante della Giovane Italia, ha dichiarato: “Sarà  un’occasione preziosa per conoscere meglio la complessa realtà  politico-istituzionale e non solo, di un paese verso il quale siamo  legati da profonda amicizia”.
 Sul suolo israeliano, in questi giorni, è presente anche il Segretario del PD, Pierluigi Bersani.  Durante un suo incontro con la cooperazione italiana a Ramallah, ha così commentato la visita dei giovani politici: “Se  i ragazzi che fanno parte della delegazione mi avessero chiesto un  consiglio – anche se non lo hanno fatto – avrei detto loro di andare, ma  di tenere gli occhi aperti, di pensare con la propria testa”
 Naturalmente, il viaggio dei giovani  politici, ha suscitato una pronta reazione da parte di cittadini  italiani, cooperanti e non, che risiedono in Israele e nei Territori  Occupati. Hanno diffuso una lettera, un appello ai giovani politici italiani per  “aprire gli occhi” perché la realtà israeliana non comprende solo  Israele, ma anche un altro mondo, quello palestinese, che deve essere  conosciuto.
 Esiste un altro tipo di turismo: il turismo responsabile che permette di capire quello che invece si tenta di nascondere.
 
 13/07/2011
 (fonti:peacereporter.net - nenanews.com)
 
   
	
	
Sabato 25 giugno è partita dalla Corsica, diretta a Gaza, la prima imbarcazione della seconda Flotilla, dedicata all'attivista italiano Vittorio Arrigoni ucciso il 14 aprile scorso. (La lettera della famiglia di Vittorio Arrigoni)
Si tratta della nave francese “Dignité – Al Karama” (Dignità).  Omeya Seddik, cittadino francese d’origine tunisina, ha dichiarato, in un comunicato stampa, “Noi  speriamo di fare una breccia nel blocco. Questa flottiglia s’inserisce  nella scia naturale delle rivoluzioni per la libertà e la democrazia; ha poi aggiunto imbarcandosi  “Ora sta alla comunità internazionale garantire la sicurezza dei  passeggeri e il loro arrivo col carico di aiuti umanitari da consegnare  alla popolazione di Gaza”.
Il popolo che sostiene la causa  palestinese non si è arreso. Dopo la reazione violenta del 31 maggio  dello scorso anno, da parte della marina militare israeliana, alla Prima Flotilla che ha causato la morte di nove attivisti turchi,  è sorta spontanea la decisione di dare una risposta forte alla continua  repressione israeliana nei confronti del popolo palestinese della  Striscia di Gaza, sotto assedio da più di 4 anni. Nonostante tutti gli  avvertimenti lanciati da Israele, centinaia di volontari (500/600) di 22  paesi s'imbarcheranno a bordo di una decina di navi. 
A questa missione parteciperà  anche una nave  italiana, la “Stefano Chiarini” con una delegazioni di 12 o 15 italiani, tra cui il vignettista Vauro Senesi e il fotografo veterano Tano D’Amico. Vauro, prima di partire, ha scrittoFREEDOM FLOTILLA II: ROTTA VERSO GAZAdi Mirca Garuti
  una lettera all’ammiraglio israeliano comandante delle forze navali d’Israele, nella quale esprime l’orgoglio di “chi ancora crede che valga la pena spendersi per gli altri” senza nascondere la paura d’incontrare le navi da guerra israeliane con i suoi commandos armati. 
Il numero ridotto degli italiani è dovuto  alla volontà di offrire ospitalità a militanti di diverse nazionalità  tra cui un gruppo d’ebrei americani contrari al blocco di Gaza ed alcuni  attivisti della Mavi Marmara che, a causa delle forti pressioni internazionali ricevute da Ankara, non potrà partecipare all'iniziativa. 
Per garantire la massima trasparenza, nei  prossimi giorni al Pireo, con una cerimonia pubblica dovrebbero essere  caricate, sulle navi in partenza per Gaza, gli aiuti umanitari,  giocattoli, materiale scolastico e medicine.
Ricevo, mentre sto scrivendo queste righe, una mail da Alberto Mari  un caro amico pronto a partire sulla nave italiana. 
Non posso fare altro che dire “Grazie.  Alberto… stai attento… in bocca al lupo… porta il mio, il nostro  abbraccio agli amici di Gaza… ai gazawi…
LA REAZIONE D’ISRAELE
“L’iniziativa della Freedom Flotilla – spiega in un comunicato il Coordinamento Nazionale della Freedom Flotilla Italia – è  assolutamente legale e non violenta. Respingiamo con forza le ridicole  insinuazioni della propaganda sionista in merito alle armi od altri  strumenti offensivi a bordo delle nostre navi”.  La tensione è alta. Israele  continua a ripetere che non ha nessuna intenzione di far passare questa  nuova missione, definita, dall'ambasciatore israeliano all'Onu, Ron Prosor, in una lettera inviata direttamente al Segretario generale Ban Ki-Moon, “un'agenda politica estremista”,  accusando, addirittura, le tre principali organizzazioni dietro la  Flotilla – Campagna europea contro l’assedio di Gaza, Free Gaza Movement  e l’International solidarity movement – di mantenere contatti stabili  con formazioni «terroristiche». Prosor ha avvertito che la realizzazione della spedizione navale provocherà «conseguenze gravissime».
Fonti militari israeliane hanno inoltre rivelato che respingeranno gli attivisti  con cannoni ad acqua. "Ci aspettiamo anche di essere fermati e accerchiati", ha dichiarato la coordinatrice italiana della missione, Maria Elena Delia, "ma noi non retrocederemo e, in nessuna maniera reagiremo alle forze israeliane". Il premier israeliano Benyamin Netanyahu,  lunedì 27 giugno ha riaffermato la necessità di impedire alla Flotilla,  organizzata da militanti filo-palestinesi, di raggiungere le coste  della Striscia di Gaza. L’unica concessione possibile è quella di  raggiungere il porto egiziano di El-Arish, dove gli aiuti umanitari potranno arrivare a Gaza attraverso il valico di Rafah. Netanyahu non si limita a voler fermare gli attivisti, ma vuole chiudere la bocca ai giornalisti presenti sulle varie imbarcazioni. Vietato raccontare.  Chi tenterà di arrivare a Gaza, sarà punito con il divieto, per i prossimi 10 anni, di entrare nello Stato ebraico.  Alla giornalista ebrea israeliana Amira Hass , inviata speciale del quotidiano “Ha’aretz”, che dovrebbe imbarcarsi su una nave canadese, sono state fatte minacce di ritiro dell’accredito stampa.
Le minacce israeliane non hanno trovato  riscontro, solo pochi giornalisti hanno scelto di andarsene, la maggior  parte di loro, invece, è rimasta.
L’associazione israeliana della stampa estera ha rilasciato una dichiarazione che definisce questa minaccia “un messaggio raggelante per i media internazionali” e che ''solleva seri interrogativi circa l'impegno d’Israele sulla libertà di stampa".
La difesa israeliana non si limita solo  alle minacce rivolte ai governi dei paesi coinvolti in quest’iniziativa,  agli attivisti e  giornalisti con il tentativo di bloccare tutta  l’organizzazione, ma va ben oltre, arrivando quasi a raggiungere l’  inverosimile. 
Secondo fonti israeliane, sulle navi sarebbero presenti “agenti chimici incendiari”, tra cui lo zolfo, da utilizzare contro i soldati della marina israeliana. 
Il Capo di Stato Maggiore sionista Benny Gantz ha definito, durante una cerimonia ufficiale dell’IDF (esercito israeliano) la flotilla “una provocazione” e che “rafforza la bugia secondo cui la popolazione di Gaza sarebbe affamata, mentre ciò non corrisponde a verità”  e che, secondo il quotidiano Ha’aretz, avrebbe nominato “parchi acquatici e spiagge” riferendosi alla Striscia che Israele tiene sotto assedio da anni. 
Il Jerusalemen Post afferma che Israele avrebbe speso ingenti “risorse di intelligence” per sapere chi parteciperà e cosa ci sarà a bordo delle navi della Flotilla 2. 
Avigdor Lieberman, Ministro degli Affari Esteri, avrebbe definito alla Israel Radio i partecipanti come “terroristi in cerca di provocazioni e di sangue” , mentre avrebbe espresso “estrema soddisfazione” per i ritardi. 
Sempre per il Jpost, è stato creato un sito “flotillafacts.com”, un contenitore di immagini, notizie e video per screditare la Flotilla 2 e presentare i suoi partecipanti come “terroristi”.
Questo sito è stato creato da  “StandwithUs”, un’organizzazione finanziata dalla lobby ebraica americana con un budget da 4 milioni di dollari con base a Los Angeles. 
Le accuse di possedere armi e di avere stretti legami con Hamas sono state smentite, si tratta di “una flottiglia pacifica, diretta a rompere l’assedio illegale su Gaza, non ad attaccare o aggredire alcuno”.
Melissa Lane del convoglio Usa “Hope of Audacity” ha ricordato che “Ogni  passeggero del convoglio ha firmato una dichiarazione di adesione ai  principi della nonviolenza. Non cerchiamo alcun tipo di confronto fisico  con l’esercito israeliano. Vogliamo solo arrivare a Gaza.” 
 
La Germania, la Grecia e gli Stati Uniti,  dietro la forte pressione diplomatica israeliana, hanno cercato di  ammonire con forza i propri cittadini dal prendere parte alla Flotilla 2. Due deputati tedeschi, Annette Groth e Inge Hoeger che, l’anno scorso si trovavano sulla Mavi Marmara, si sono ritirati. Il Dipartimento di stato Usa ha avvertito i 36 cittadini americani della “Audacity of Hope” che le acque di Gaza sono «pericolose e instabili». I coloni israeliani, attraverso il loro sito d’informazione “Arutz 7”,  per contrastare la partecipazione alla Flotilla 2 d’ebrei statunitensi,  si sono invece concentrati sulla figura dell’avvocato ebreo di New  York, Richard Levy che, nei giorni precedenti, aveva dichiarato: “È  importante che ci siano ebrei nella nave, la lobby filo-israeliana nel  nostro Paese è molto potente. Non possiamo sostenere l’assedio  israeliano, moralmente e giuridicamente inaccettabile”.
  Nonostante tutte le minacce da parte del governo d’Israele, il convoglio è deciso a partire!Oltre alle imbarcazioni che trasportano  passeggeri, ci sono anche due cargo con oltre tremila tonnellate d’aiuti  diretti al popolo di Gaza sotto assedio.
 I rappresentanti delle 10 navi della Freedom Flotilla 2 "Stay Human" il 27 giugno hanno tenuto ad Atene una conferenza stampa: «Partiremo  giovedì o venerdì nonostante le pressioni israeliane. E gli ostacoli  amministrativi creati dalla Grecia non ci fermeranno», così promette Vanguelis Pissias, uno degli organizzatori greci della Freedom Flotilla 2.
 «Siamo qui per sfidare la politica  degli Stati Uniti e di Israele verso Gaza e per resistere alle pressioni  diplomatiche (avviati dagli israeliani) per fermare la Flotilla», ha affermato Ann Wright,  un colonnello Usa in pensione ed ex diplomatico che, nel 2003 ha  rassegnato le sue dimissioni come protesta contro la guerra in Iraq  voluta dal governo di Washington, che ora fa parte della delegazione che  salirà sulla nave americana “Audacity of Hope”. La stessa nave  che, nei giorni scorsi, è stata oggetto di un fermo, da parte delle  autorità greche, per un’altra ispezione, perché non ritenuta “atta a navigare”, per un esposto contro la nave da parte di un privato. Secondo il Jerusalem Post, dietro a questa denuncia anonima, ci sarebbe l’Israel Law Center,  un gruppo legale israeliano. I passeggeri della “Audacity of Hope” si  sono appellati al governo greco affinché accelerasse i tempi di  controllo e si sono dichiarati pronti a "sfidare la politica USA e  d’Israele verso Gaza". Ann Wright il 27 giugno aveva dichiarato che "La  nave che abbiamo noleggiato (battente bandiera a stelle e strisce e  registrata in Usa, dr) è stata esaminata ed ha subito ispezioni per mesi  da tecnici qualificati. Non crediamo ci sia la necessità di una nuova  ispezione ma accettiamo che le autorità greche procedano con rapidità in  modo che non ci siano altri ritardi nella partenza”.
 Com’era del tutto prevedibile, il premier George Papandreou, avendo  rapporti molto stretti con Israele (un progetto congiunto per un  gasdotto nel Mediterraneo orientale) cerca di boicottare la flotilla,  per prendere tempo, rallentando la partenza, con la complicità indiretta  degli scioperi di questi giorni, contro le misure pesanti d’austerità  decise dal governo, da parte dei lavoratori greci.Medea Benjamin, uno dei passeggeri della nave e fondatrice del movimento CodePink ha affermato che "Israele  ha dichiarato apertamente che sta facendo pressioni sui governi per  fermare la Flotilla, e chiaramente la Grecia è un attore chiave dal  momento che molte navi partono dalla Grecia".
 Sulla nave americana si trova anche Alice Walker, attivista dei diritti civili, scrittrice e vincitrice di un Premio Pulitzer con "Il colore viola". (Lettera di Alice Walzer alla CNN)
 Le ultime notizie che ci arrivano attraverso solo i siti di “Nena-news.com” e “Peacereporter.net”  riportano  ancora una situazione difficile,  creata  per stancare i militanti in  attesa di partire. La pressione israeliana è continua e si materializza  sotto forma di continue ispezioni, cavilli burocratici e richieste  sempre più gravi alle compagnie di assicurazioni. Quello che è successo  alla “Hope of Audacity” è accaduto al cargo greco-svedese-norvegese – spiega Maria Elena Delia –  che avrebbe dovuto essere caricato il 28 giugno, davanti ai  giornalisti per rispettare il principio di trasparenza. Questo però non è  accaduto, il carico è stato bloccato, causa  la denuncia di essere “troppo inquinante”. E’ chiaro, quindi, che ogni più piccolo pretesto è buono per prendere tempo e portare sconforto tra i partecipanti.
 Le autorità greche hanno ufficialmente  comunicato che nessuna nave può lasciare il porto con l’obiettivo di  raggiungere la Striscia di Gaza.
 Un video sul sito “Ship to Gaza-Sweden” mostra il danno subito dalla nave greco-svedese, la “Juliano”(in  onore di Juliano Mer-Khamis direttore del Freedom Theatre di Jenin,  assassinato il 4 aprile scorso). L’elica è stata manomessa ed ancora non  si sa quando potrà essere riparata.Gli organizzatori, per tutelarsi di fronte  a questi impedimenti burocratici e sabotaggi, hanno inoltrato una  richiesta alle autorità e polizia greche di avvio d’indagini e di  procedure per garantire la sicurezza delle navi.
 Una volta superato questo muro, si potrà constatare quale linea politica vorrà prendere il governo di Atene.
 Due navi sono comunque già in viaggio verso Gaza, quella francese “Dignity”, autorizzata dal Governo francese e quella irlandese “Freedom”.
 
 Notizia dell’ultima ora: “un gruppo di  cittadini giordani ha acquistato in Grecia una barca per 560mila euro  per aggiungersi alla missione e portare medicinali. Per una nave che  viene messa fuori uso dai sabotatori,  un’altra è pronta a sostituirla, a  conferma che le motivazioni dietro la Flotilla «Stay Human» sono  profonde e generano nuovi consensi e iniziative”. (Nena-News.com)
 
 Aspettando la partenza di tutto il convoglio, possiamo leggere ogni giorno su “Il Manifesto” il diario di bordo di Vauro, imbarcato sulla “Stefano Chiarini”
 
 
 Gaza… stiamo arrivando
 30/06/2011
 
   
	
	  
NICHI VENDOLA GUARDA LO STATO D’ISRAELEdi Mirca Garuti
 Il Presidente della regione Puglia Nichi Vendola e l’assessore al Mediterraneo Silvia Godelli hanno  incontrato il 28 aprile scorso, in occasione della  presentazione dello  spettacolo “Lo stesso mare” al Teatro Petruzzelli di Bari,  l’Ambasciatore dello Stato d’Israele in Italia, Gideon Meir.
 
 “Con il Festival della Cultura ebraica – dichiara il Presidente della regione Puglia – abbiamo  prodotto una semina, perché quell’evento conteneva in sé l’idea che i  rapporti economici, commerciali, istituzionali devono essere inseriti in  un contesto di conoscenza delle culture, dei costumi e di amicizia tra i  popoli”. "Ancora oggi, sempre secondo Vendola, in  un’Europa che conosce i veleni dell’antisemitismo, conoscere la cultura  ebraica è un antidoto fondamentale a una delle più odiose forme di  intolleranza”
 “Poi –continua – c’è una gamma assai variegata e ricca di possibilità di relazioni. Israele è un Paese che ha fatto investimenti straordinari sin dalla sua nascita, sull’innovazione. Un  Paese che ha trasformato aree desertiche in luoghi produttivi e in  giardini, un Paese che si confronta col tema mondiale del governo del  ciclo dell’acqua, dell’energia, dei rifiuti con pratiche di avanguardia.  Penso che la possibilità di sviluppare reciprocamente le  attività turistiche e la tutela e valorizzazione del patrimonio  culturale siano altri elementi importanti di una relazione che con la  mia visita in Israele può raggiungere un punto di svolta”.
 
 Nichi Vendola, come il  Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, non vede la realtà  palestinese, non vede il muro, la situazione umana, politica, economica  di un popolo sotto occupazione da oltre 60 anni. Non ha speso nessuna parola  sul colonialismo israeliano, sulle migliaia di  prigionieri palestinesi  rinchiusi nelle prigioni israeliane senza processo ma solo in  detenzione amministrativa, sull’assedio inumano della Striscia Di Gaza  e sui profughi costretti, il più delle volte,  a vivere in situazioni  drammatiche senza diritti.   Nessuna condanna ad un governo che non ha  mai rispettato una  risoluzione dell’Onu.
 E se Vendola quindi si dimostra cieco di fronte a questa dura realtà a poche settimane dall’uccisione di Vittorio Arrigoni a Gaza, per noi, popolo che combatte il colonialismo israeliano in terra Palestina, Vendola non esiste o meglio è da boicottare,  come l’economia di guerra israeliana, compresi quegli accordi e  relazioni che invece il Presidente della Puglia vuole promuovere.
 Rispondono a Nichi Vendola: Miryam Marino   Cinzia Nachia  
 
	
	
GOLDSTONE HA APERTO LA STRADA AD UNA SECONDA GUERRA CONTRO GAZA Gideon Levy*
 
 Chiunque abbia reso onore al primo Goldstone dovrebbe chiedergli: Che  cosa esattamente sa oggi che non sapeva prima? Sa che criticare Israele  significa subire una campagna di pressione e calunnia a cui non può  resistere, lei “ebreo che odia sé stesso”?
 
 Gli ultimi dubbi sono scomparsi tutti in una volta e i punti interrogativi sono diventati punti esclamativi. Ezzeldeen Abu Al-Aish ha scritto un breve libro in cui ha inventato la morte delle sue tre figlie. I 29 morti della famiglia Al-Simoni  sono ora in vacanza ai Caraibi. Il fosforo bianco era solo l’effetto  pirotecnico di un film di guerra. Coloro che sono stati uccisi mentre  sventolavano la bandiera bianca erano solo un miraggio nel deserto, come  lo erano le voci sulle centinaia di civili uccisi, inclusi donne e  bambini. “Piombo fuso” è diventata una frase di una canzone di Hanukkah per bambini.
 Un articolo sorprendente e inatteso di Richard Goldstone apparso su The Washington Post qui  è stato accolto con esultanza, un Goldstone party, qualcosa che non si  vedeva da molto tempo. In effetti, le pubbliche relazioni israeliane  hanno raccolto una vittoria e per questo le congratulazioni sono  d’obbligo. Ma le domande restano pressanti come sempre, e l’articolo di  Goldstone non ha dato loro risposta – se solo avesse cancellato tutte le  paure e i sospetti.
 Chiunque abbia reso onore al primo Goldstone deve onorarlo anche adesso, ma comunque deve chiedergli: Cosa  è successo? Cosa esattamente sa oggi che non sapeva prima? Sa che  criticare Israele significa subire una campagna di pressione e calunnia a  cui non può resistere, lei “ebreo che odia sé stesso”? Questo avrebbe dovuto saperlo prima.
 
 Sono stati i due rapporti del Giudice Mary McGowan Davis a  farle cambiare idea? Se è così, dovrebbe leggerli più attentamente. Nel  suo secondo rapporto, che è stato pubblicato circa un mese fa e che per  qualche ragione non è stato menzionato in Israele, il giudice di New  York ha scritto che niente suggerisce che Israele abbia avviato  un’indagine su coloro che hanno progettato, preparato, comandato e  diretto l’Operazione Piombo Fuso. Quindi come sa quale politica sta  dietro ai casi che ha investigato? E cos’è questo entusiasmo che  l’ha  presa alla luce delle indagini fatte dalle Forze di Difesa israeliane  dopo il suo rapporto?
 
 Deve amare particolarmente Israele, come  dice, per credere che le Forze di Difesa israeliane, così come altre  organizzazioni, possano indagare su sé stesse. Deve essere un cieco  amante di Sion per essere soddisfatto dalle indagini che non hanno  prodotto ammissione di responsabilità e praticamente nessun processo.  Solo un soldato è sotto processo per  assassinio.
 
 Ma mettiamo da parte i tormenti e le  indecisioni del non più giovane Goldstone. Mettiamo da parte anche i  rapporti delle organizzazioni per i diritti umani. Prendiamo in  considerazione le conclusioni delle Forze di Difesa Israeliane. Secondo  l’intelligence militare, nell’operazione sono stati uccisi 1166 palestinesi, di cui 709 terroristi, 162 che potevano essere o non essere armati, 295 testimoni, 80 minori di 16 anni e 46 donne.
 Tutte le altre conclusioni descrivono un  quadro molto più serio, ma diamo credito alle Forze di Difesa  Israeliane. L’uccisione di circa 300 civili, incluse dozzine di donne e bambini, non è una ragione per fare un esame di coscienza nazionale? Sono stati tutti uccisi per errore? Se è così, 300 diversi errori non meritano un giudizio? È questo il comportamento dell’esercito più virtuoso del mondo? Se non è questo, chi si assume la responsabilità?
 
 L’Operazione Piombo Fuso  non è stata una guerra. La differenza di forze delle due parti,  l’esercito fantascientifico contro i lanciatori di missili Qassam a  piedi nudi, non giustifica le cose quando il colpo è stato così  sproporzionato. È stato un duro attacco contro una popolazione civile  stipata e inerme, in mezzo alla quale si nascondevano i terroristi.  Possiamo credere che le Forze di Difesa Israeliane non abbiano  deliberatamente ucciso i civili, non ci sono soldati assassini come in  altri eserciti, ma non hanno nemmeno fatto nulla per impedire che  venissero uccisi. Il fatto è che sono stati uccisi, molti di loro. La  nostra dottrina di nessuna perdita ha un prezzo.
 
 Goldstone ha vinto di  nuovo. Prima ha obbligato le Forze di Difesa Israeliane a avviare  indagini interne e a mettere insieme un nuovo codice etico; ora ha  inconsapevolmente dato il via libera all’Operazione Piombo Fuso 2.  Lasciamolo in pace. Stiamo parlando della nostra immagine, non della  sua. Siamo contenti di ciò che è successo? Siamo davvero orgogliosi  dell’Operazione Piombo Fuso?
 
 * Haaretz – 7 aprile 2011
 Traduzione di Letizia Menziani
 
 
	
	
   JULIANO MER-KHAMIS: L’ARTE COME RE-ESISTENZA  - Nena News  THE FREEDOM THEATER  In questo breve documentario Giuliano Mer-Khamis descrive il suo progetto innovativo a Jenin di Teatro e Cinema  chiamato "The Freedom Theater".
 
 
	
	
COALIZIONE ITALIANA:  STOP THAT TRAIN
 
 Appello  perché la Società Pizzarotti si ritiri dalla costruzione  illegale della ferrovia ad alta velocità Gerusalemme - Tel Aviv che attraversa i territori Palestinesi occupati.
 Il progetto per la realizzazione del treno ad alta velocità Gerusalemme – Tel Aviv, detto anche A1, è  stato messo in cantiere fin dal  1995, ma ha subito interruzioni e cambiamenti in seguito alla opposizione  della società israeliana a causa dei danni, che tale linea avrebbe  comportato all’abitato e all’ambiente, tanto che varie società  costruttrici si sono ritirate. Per questo il  tragitto è stato cambiato  ed ora, nonostante l’allungamento che la tratta subirà, correrà    attraverso le aree vicine alla linea dell’armistizio del 1949 (la “Linea Verde”) e nell’Enclave di Latrun, e passerà attraverso una vasta area situata all’interno dei territori palestinesi occupati nel 1967, dove vivono   comunità palestinesi, tra cui molti rifugiati del ’48 e del ’67.Ciò comporterà, non solo  un danno per l’ambiente (che non  tollerato dalla popolazione israeliana viene  imposto alla popolazione palestinese) ma rappresenta una palese violazione della Legalità Internazionale, in quanto, percorre 6,5 chilometri attraverso la Cisgiordania occupata, contravvenendo alla normativa internazionale sui Diritti Umani, tra cui la IV Convenzione di Ginevra,  che vietano lo sfruttamento delle terre da parte della potenza  occupante. Israele invece, ha espropriato le terre palestinesi, con lo  scopo di costruire infrastrutture permanenti, e per soddisfare i bisogni  esclusivamente della sua popolazione civile. Una volta completata  infatti, la ferrovia ad alta velocità A1 fornirà servizi solo ai pendolari israeliani tra Gerusalemme e Tel Aviv.
 Il progetto dell’A1 si inscrive inoltre nella politica israeliana di lungo periodo, che mira  ad attuare il trasferimento forzato della popolazione palestinese,  che dovrà, ancora una volta, come è evidente dal  tracciato,   andarsene, dal momento che la sottrazione di altra terra, porterà  all’annientamento delle  fonti di sussistenza, già ridotte, a seguito  degli espropri eseguiti dalle autorità israeliane per la costruzione di  infrastrutture a favore dei cittadini israeliani e per la costruzione  del muro di separazione.
 I villaggi maggiormente coinvolti sono Beit Surik e Beit Iksa.
               
 A Beit Surik, i contadini palestinesi pur avendo subito la confisca di molta terra per la costruzione del Muro illegale israeliano erano  riusciti a preservarne una parte essenziale per la   sussistenza della popolazione del villaggio, grazie al parere del 2004 della Suprema Corte Israeliana che la aveva ritenuta  “risorsa fondamentale per la sussistenza della comunità” (1).  Ma  ora rischiano di perderla definitivamente e completamente poiché, nonostante il tracciato pianificato per la ferrovia A1 passi attraverso la loro terra, la Suprema Corte Israeliana (2), in questo caso, non si è attenuta al parere del 2004 della Corte Internazionale di Giustizia.Beit Iksa è un villaggio che ha accolto molti rifugiati palestinesi, vittime della pulizia etnica israeliana nell’area di Ramle-Lydda nel 1948. Poi, con la guerra del ’67 larga parte della popolazione di Beit Iksa è stata indotta nuovamente alla fuga. Oggi, l’80% dei 2.000 abitanti rimasti sono registrati come rifugiati del ’48 dall’UNRWA. Israele ha già confiscato il 40% della terra agricola del villaggio per la costruzione della colonia ebraica di Ramot, mentre il 60% rimasto è situato dietro il Muro illegale israeliano. Il 10 novembre 2010 le Autorità israeliane hanno consegnato al Consiglio del villaggio di Beit Iksa un ulteriore "ordine di acquisizione delle terre”,  che saranno utilizzate per il progetto ferroviario A1, per costruire  una strada di accesso al tunnel e  per la realizzazione di opere  collaterali. Cinquecento alberi di ulivo sono a rischio di sradicamento,  e questo significa la rovina delle famiglie già economicamente deboli,  che soffrono gli effetti della disoccupazione e basano la propria  sussistenza sull’olio di oliva che producono.
 In questo modo il progetto per la ferrovia A1 diventa parte di un  sistema infrastrutturale coloniale e di apartheid, che  mentre provvede alle necessità della popolazione israeliana, nega  quelle della popolazione palestinese che,  su queste terre vive da  secoli.
 Allo stesso tempo costituisce un altro passo nell’implementazione della politica israeliana di trasferimento forzato dei palestinesi che, dopo essere stati privati dei propri beni e cacciati dalle proprie terre, vedono completamente negato il proprio  diritto al ritorno.
 Il coinvolgimento della Pizzarotti S.p.A. in questo progetto, nonostante la sua evidente illegalità, costituisce pertanto complicità nei crimini di guerra e contro l’umanità commessi da Israele. Infatti,  il conseguente  trasferimento forzato della popolazione, (che  è definito come il “sistematico,  coercitivo e deliberato movimento di popolazione da un’area all’altra,  con l’effetto o il proposito di alterare la composizione demografica di  un territorio, in modo particolare quando (la motivazione) ideologica o  politica asserisce la dominazione di un certo gruppo su un altro”) (3),  costituisce un crimine di guerra ed un crimine contro l’umanità in base al Diritto Internazionale.
 
 CHIEDIAMO PERTANTO ALLA AZIENDA PIZZAROTTI S.P.A DI  RITIRARSI IMMEDIATAMENTE DAL PROGETTO
 Al governo nazionale, ai  governi locali e ai consigli cittadini di porre  fine ai contratti con la Pizzarotti S.p.A., e a non stipularne di nuovi se non risolverà  il contratto per la costruzione della A1.Alle persone di coscienza, di avviare effettive campagne di disinvestimento rispetto a titoli ed istituti finanziari collegati alla Pizarotti S.p.A
 Per adesioni: fermarequeltreno@gmail.com Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. Note:
 1.     http://www.whoprofits.org/articlefiles/WP-A1-Train.pdf
 2     http://www.whoprofits.org/articlefiles/WP-A1-Train.pdf.  La Corte Suprema israeliana non ha riconosciuto la sentenza del 2004  della Corte Internazionale di Giustizia ed ha di conseguenza agito in  complicità con i progetti statali di utilizzo del Muro come strumento  per il furto di terra e per il trasferimento forzato della popolazione  palestinese indigena.
 3.   La dimensione dei Diritti Umani nel  trasferimento di popolazione, tra cui lo stabilimento delle colonie,  report preliminare preparato da A.S.  Al Khawasneh e R.Hatano.  Commissione sui Diritti Umani e  Sottocommissione sulla prevenzione  delle discriminazioni e per la protezione delle minoranze, IV-V    Sessione, 2-27 agosto 1993, E/CN.4/Sub.2/1993/17 of 6 July 1993, para 15  and 17.
 
 17/02/2011
 
 
 
	
	
AT-TUWANI: L’INTEGRALISMO COLONIALE ISRAELIANOHafez parla piano.
Sulla collina un ulivo maestoso protegge dal sole d'Agosto, appena sotto lo sguardo c'è At-Tuwani, e alle nostre spalle, nascosta oltre al bosco di pini, l'occupazione israeliana.
Ha mani grandi e affusolate, che si muovono lentamente mentre parla. 
Lo sguardo è fiero, per niente rassegnato, ma senza rabbia.
Quasi a dire che il costruire la pace  passa anche per i nostri gesti, facendo tornare alla mente quel Gandhi  che esortava ad essere il cambiamento che si vuole vedere nel mondo.
At-Tuwani è un piccolo villaggio di circa 200 persone, nelle colline semidesertiche a Sud di Hebron.
E' abitata soprattutto da pastori, fra cui Hafez, portavoce del movimento non violento locale.
Vent'anni fa è stata costruita la prima  colonia, fatta di case a schiere e giardinetti, a poche centinaia di  metri dal villaggio di pietra, dove le case più antiche hanno 500 anni.IN UN VILLAGGIO LONTANO DA OGNI RISORSA E CONFINE
 
 di Alessandro Verona
   Con il passare del tempo e il proliferare delle colonie, At-Twani si ritrova circondata: a Nord-Est Ma’on, ad Est gli avamposti di Havat Ma’on insediati nel 1982,  e a Sud-Ovest Avi Gai.Secondo le ferme condanne della giustizia internazionale ognuno di questi è illegale, come ogni altra colonia o avamposto nei territori occupati, mentre la giustizia israeliana giudica illegali i soli avamposti.
 Dal 1982 ad oggi l’espansione delle colonie ha confiscato agli abitanti di At-Tuwani 1500 dunums   di terre (1 dunum corrisponde a circa 1000 metri quadrati) e mediamente  ogni anno vengono sottratti al villaggio circa 100 dunums.
 La forte presenza coloniale in questo  minuscolo villaggio di pastori dimostra quanto sia assoluta e capillare  la volontà di sradicare l'identià palestinese, investendo ingenti somme  di denaro e forze militari anche dove il numero di abitanti e le risorse  del territorio sono così limitati.
 
 Ma l'intimidazione dei coloni non si  limita affatto alla presenza fisica in  luoghi così aridi, dove pochi  vorrebbero vivere senza esserci nati.
 Dopo l'insediamento delle colonie, le incursioni si sono susseguite con frequenza.
 
 I pozzi e il bestiame avvelenati, i campi  sottratti poco a poco, gli spari dalle colonie verso i campi d'ulivi  durante la raccolta, gli arresti arbitrari, l'abbattimento della moschea  avvenuto a sorpresa nella notte: una politica della violenza e del  terrore che tenta di rosicchiare lentamente l'appartenenza alla terra e  la tranquillità del quotidiano, che Hafez e gli abitanti del suo  villaggio continuano ad stringere con determinazione.
 Così racconta delle pietre lanciate alle  finestre e ai passanti (a volte con la spudorata connivenza  dell'esercito), seguite dalle irruzioni dei coloni che a volto coperto  entrano nelle case per picchiare gli abitanti, nella logica barbara che  continua a susseguirsi in tutti i territori occupati.
 E Hafez queste cose le  conosce meglio di chiunque altro, perché la sua casa, la più vicina  all'avamposto, è la più frequente meta dei coloni.
 
 Ad At-Tuwani due gruppi si impegnano a sostenere la popolazione, operazione Colomba e CPT (Christian peacemaker team).
 Operazione Colomba è il corpo non violento della associazione Comunità Papa Giovanni XXIII,  un esempio di corpo civile di pace.
 Ragazzi e soprattutto ragazze, un gruppo  molto giovane che si presta per lunghi periodi per proteggere il  villaggio in condizioni non agevoli, tanto nei progetti quanto nel  vivere la quotidianità.
 
 Un'attività  importante di queste associazioni è lo school patroling:  i bambini del  vicino villaggio di Tuba, che non possiede strutture  dedicate all'istruzione, devono recarsi a scuola ad At-Tuwani.
 Per farlo utilizzano la strada più breve, che permette un percorso di mezz'ora ma divide l'insediamento di Ma'on dall'avamposto di Havat Ma'on.
 Dal villaggio la strada di ghiaia  abbraccia la collina, per poi passare vicinissima a colonia ed  avamposti. Questo punto dista circa 500 metri dalle abitazioni di  At-Twani, e un centinaio di metri prima le volontarie e i volontari  consegnano i bambini all'esercito israeliano, come è loro imposto.
 Molto spesso la scorta militare arriva in ritardo, a volte tanto da far perdere le lezioni agli studenti.
 Volontarie e volontari controllano la  situazione fino al punto in cui è loro concesso arrivare, nel caso la  scorta non si presenti ne sollecitano l'arrivo, e se alla terza chiamata  non hanno successo si rivolgono all'associazione di avvocati israeliani  a cui fanno riferimento.
 Inoltre, come noto, l'esercito israeliano  obbliga a tre anni di leva tutti i suoi cittadini, così fra quei soldati  che prendono in consegna i piccoli è possibile che ci siano anche  abitanti della colonia stessa, manifestando tutta la perversione di  questo sistema.
 Così a volte i coloni hanno mani libere  per divertirsi, ad esempio facendo correre i bambini fino a scuola,  inseguendoli con i loro enormi pick-up.
 Abbastanza lenti per non investirli, abbastanza veloci per terrorizzarli.
 
 Durante il resto della giornata i volontari restano soprattutto insieme ai pastori palestinesi,  facilmente esposti al pericolo di attacchi da parte dei coloni - a  volte diretti anche verso i volontari stessi - e arresti arbitrari da  parte dei soldati.
 La presenza internazionale, e il suo  potenziale  nel riprodurre sui media quanto vissuto in parte diminuisce  questi rischi, perché tanto le dinamiche mediatiche quanto quelle  politiche, purtroppo, hanno ormai portato i diritti umani ad essere  rispettati in base al peso del passaporto.
 At-Tuwani tiene il mento in alto, e i piedi ben piantati nella terra dei loro padri.
 L'arroganza, la violenza e la tortura  psicologica viene contrastata con l'informazione e la non-violenza,  promossa in tutte le sue forme.
 Fra queste c'è anche la Marcia della Pace, che nel 2010 si è fatta anche qui, nello stesso giorno della nota Perugia - Assisi.
 Quella nelle mani di Hafez e dei  suoi concittadini è una marcia lunga e difficile, ma percorsa sulla  solidità della giustizia e protesa ai diritti umani più elementari, la  libertà e l'uguaglianza.
 E proprio per questo merita di avere voce.
 
 Fotografie: Anna Gigante ( Gigante_Anna@libero.it ) Alessandro Verona ( bellerofonte1983@hotmail.com ) 
	
	GAZA RACCONTATA DA VITTORIO ARRIGONI
 di Nicola Lofoco
 
  
 
 Vittorio Arrigoni arriva a Gaza nell’Agosto del 2008, come inviato de “Il Manifesto”,   ed arriva per raccontare il dramma che vivono i palestinesi della  striscia di Gaza. Alla fine del 2008, durante l’operazione israeliana “Piombo Fuso”,  una orrenda operazione militare che causerà la morte di migliaia di  persone,Vittorio Arrigoni riesce a documentare a tutto il mondo il  dramma di quei giorni. Riesce a farlo con dei memorabili reportage  inviati dai pochi internet point in funzione durante quelle giornate tra  la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Un capodanno che Vittorio  Arrigoni non dimenticherà mai. 
L’operazione militare “Piombo Fuso” è stata successivamente condannata dalle Nazioni Unite  (rapporto Goldstone) come crimine contro l’umanità.
Non è facile riuscire a parlare con  Vittorio. I continui attacchi israeliani e le continue difficoltà di  spostamento rendono difficile un contatto. 
Ma siamo riusciti a metterci in contatto con lui, e con estrema lucidità ci ha raccontato le ultime notizie provenienti da Gaza: 
“Gli attacchi israeliani ci sono quotidianamente, sempre contro i civili della striscia di Gaza.  Ci sono ogni giorno alcuni adolescenti che raccolgono al confine  materiale riciclabile, e sono stati anche oggi “cecchinati”. Ormai sono 4  anni che Israele impedisce l’ingresso di materiali edili per la  ricostruzione. Manca il cemento, manca il ferro, manca il vetro. Per cui  questi ragazzi si recano spesso al confine , a Nord, dove ci sono molti  edifici distrutti dopo “Piombo Fuso”e cercano di riciclare quello che  possono. E questi ragazzi sono sempre le vittime rituali dei cecchini  israeliani. Vi è stata un escalation nelle ultime settimane. Vi è stato  un rapporto di ben 21 organizzazioni  che operano qui a Gaza per il  rispetto dei diritti umani, tra cui Amnesty International e Save The Children, che hanno messo in luce una cosa importante. Lo scorso 20 Giugno Israele aveva dichiarato che l’assedio era stato “allentato”, ma secondo quanto denunciano le organizzazioni, si è trattato solo di un operazione ipotetica e di facciata. Nei negozi di Gaza possiamo trovare 5  tipi di bibite israeliane, 3 tipi di patatine , mentre negli ospedali  mancano le attrezzature mediche. Una lista stilata da alcune  organizzazioni documenta come  mancano 130 tipi di farmaci e di  attrezzature mediche.  A Gaza non si può fare la dialisi, non  si può fare la chemioterapia, mancano le valvole cardiache. Il tanto  ventilato “allentamento” dell’assedio a Gaza non è avvenuto. Per i  progetti delle Nazioni Unite per la ricostruzione degli  oltre 50.000 edifici danneggiati durante l’operazione militare “Piombo  Fuso” erano necessario l’invio di 670.000 camion per iniziare il  progetto della ricostruzione. Di questi 670.000 ne sono entrati solo  700. Parliamo quindi solo dell’ 1% . Si tratta di  progetti di ricostruzione certificati dalle “ Nazioni Unite”. A Gaza  anche se hai i documenti in regola con passaporti  e visti è molto  difficile lasciare la regione. Per 500 malati curabili, l’assedio alla  striscia di Gaza ha rappresentato una vera e propria condanna a morte.  Pur avendo avuto la disponibilità ad essere ospitati al altre strutture  ospedaliere, come quella di Ramallah, non hanno avuto  il permesso Israeliano per uscire e sono deceduti. Anche io ho  conosciuto personalmente un ragazzo che aveva sua madre ricoverata in  gravi condizioni. Non avendo potuto lasciare Gaza, sua madre è deceduta,  pur sapendo che sua madre poteva essere curata anche sole poche decine  di chilometri di distanza.  Senza dare la possibilità di far entrare ed  uscire merci e persone, è chiaro che questo significa l’intero collasso  dell’economia interna. Il 93% dell’Industria ha dovuto chiudere, ed ora il 70% della popolazione di Gaza è disoccupata. I dati Unicef  dicono che  98% della popolazione vive solo di aiuti umanitari. Vi  è  un economia di sussistenza, legata prevalentemente alla pesca Anche su  questo, vi è da dire che i pescherecci di Gaza non possono andare oltre  le 3 miglia dalla costa. Quando ci provano, perché devono farlo, perché  le acque vicino alla costa sono povere di pesce, finiscono sotto tiro  della marina israeliana.  Recentemente anche la Croce Rossa  Internazionale ha definito illegale l’assedio a Gaza.  L’art. 33 della 4 convenzione di Ginevra condanna le punzioni  collettive. Ed i pescatori subiscono ogni giorno punizioni collettive da  parte degli israeliani. I pescatori non possono andare a pescare nel  loro mare, ed i contadini non possono andare a coltivare le loro terre.  Sempre secondo le Nazioni Unite, dopo Piombo Fuso, il 35 % dei terreni  coltivabili di Gaza non sono più accessibili ai contadini perché sotto  il tiro dei cecchini israeliani. Dal 20 Giugno sono stati documentati  ben 59 casi di agguati di militari israeliani a civili palestinesi.  Questa è la realtà che a Gaza si vive ogni giorno".
  Dopo la tragedia  della “Freedom Flotilla” è cresciuto l’isolamento internazionale di  Israele. Quanto potrà durare ancora secondo te , in queste condizioni,  l’assedio a Gaza?  “Il massacro della Freedom Flotilla  ha  scosso l’opinione pubblica di più di Piombo Fuso.  La morte di 9  attivisti è riuscito a fare molto di più del massacro di 1.300 bambini.  Questo ci fa capire che ci sono morti di serie A e morti di serie Z. I caduti della Mavi marmara hanno cambiato molte cose. L’Egitto,  per esempio, ha ceduto su alcune cose, come riaprire subito il valico  di Rafah ed un tantino più permeabile. Da allora alcune centinaia di  palestinesi sono riusciti a passare dal valico, altri invece non ci  riescono, perché il tutto è gestito dal Mukabarak, il servizio segreto  egiziano, che fa il gioco di Israele. Per molti palestinesi questo ha  rappresentato una speranza. Qualcuno di loro è riuscito ad uscire ed a  ricongiungersi con i propi famigliari sparsi per il mondo. Per la fine  dell’assedio, bisognerebbe avere fiducia nella campagna di boicottaggio  verso Israele. Non dimentichiamo che negli anni ’80 Nelson Mandela  veniva definito come un terrorista da capi di stato importanti, come  Margaret Thatcher. Eppure Nelson Mandela ha continuato a combattere  contro l’Aparthaid, anche con il boicottaggio. E qui a Gaza la  campagna di boicottaggio ha avuto effetti migliori in 5 anni di quanti  non ne abbia avuti in 20 anni l’African Congress. L’illegalità  dell’assedio a Gaza è stato percepito anche dal principale sindacato  inglese, che rappresenta 6.000.000 di lavoratori, che ha iniziato una  sensibile campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani. Dopo “Piombo  Fuso “ i governi di Svezia e Danimarca hanno iniziato a convincere le  propie industrie a non investire in Israele, riconosciuto come stato  responsabile di crimini di guerra e violatore dei diritti umani. Anche  molte rockstar si sono rifiutate di tenere concerti in Israele, come  hanno fatto Santana  e gli U2 di Bono Vox".
   Durante “Piombo Fuso” sono state usate armi al fosforo. Che notizie hai in merito? 
“ Durante Piombo Fuso  sono stato personalmente testimone oculare di fosforo bianco usato contro i civili e contro gli ospedali, alcuni dei quali date alle fiamme usando proprio il fosforo bianco. Anche a Jabalia sono  stato testimone dell’uso del fosforo bianco. Durante i bombardamenti  non sapevo ne io ne chi era con me cosa ci stavano tirando addosso. E’  chiaro che nel vedere le assurde ferite che provocava ai civili, era  chiaro che gli israeliani stavano usando armi non convenzionali. Vi è  anche un problema che riguarda i terreni. Essendo Gaza sotto assedio,  Israele proibisce l’ingresso di esperti per analizzare la contaminazione  dei terreni e delle falde acquifere. Per questo motivo anche i  controlli che si devono fare sono molto approssimativi, dato anche che i  laboratori scientifici sono inutilizzabili da 4 anni. Questo è un fatto  gravissimo che va denunciato. Pochi giorni fa ho incontrato una  delegazione di medici turchi che vorrebbero fare chiarezza sui  molteplici casi di cancro e di nascite di bambini deformi che si stanno  verificando nelle zone bombardate. E’ la stessa identica cosa che è  successa a Falluja in Iraq". Tu sei stato  uno dei pochi che è riuscito a raccontare con coraggio l’operazione  “Piombo Fuso”, vivendo in prima persona quei drammatici giorni. Che  ricordo ne hai oggi? "Le ferite sono ancora aperte.  Ogni giorno puoi vedere sempre tutte le 50.000 abitazioni ancora  distrutte. Le sofferenze e le cicatrici le vedi ogni giorno negli occhi  della gente, soprattutto quelle dei bambini. Ricordo che a Gaza city  su 1.500.000 di abitanti  ci sono 800.000 bambini. I drammi psicologici  , soprattutto per loro, sono stati grandissimi. Molti di loro soffrono  di patologie psichiatriche. Non è facile per loro vedere tutto quello  che hanno visto. Non è stato facile per loro vedere tutti quei corpi  letteralmente macellati e a pezzi. I miei ricordi,  insieme a quelli dell’International Solidarity Movement,  sono sempre drammatici. Eravamo gli unici attivisti presenti a Gaza in  quei giorni. Si dice che la verità è la prima vittima di una guerra. Se  pensiamo che Israele ha impedito a tutti i giornalisti  internazionali di entrare nella striscia di Gaza, per “Piombo Fuso” è  stato proprio cosi. L’obiettivo delle operazioni militari israeliane  erano le ipotetiche basi di Hamas. In realtà, hanno  bombardato scuole, ospedali, case, mercati e persino la sede delle  Nazioni Unite. Non hanno avuto neanche scrupolo di colpire le ambulanze,  violando tutte le convenzioni internazionali. Io e quelli dell’I.S.M.  avevamo chiesto cosa potevamo fare ai nostri coordinatori. E ci avevano  detto di scendere dalle ambulanze dove eravamo saliti per aiutare i  feriti, perché non volevano altre Rachel Corrie. Ma ci fu risposto “ con voi sulle ambulanze continuano a sparare. Ma sparano un po’ meno…” E  cosi decidemmo tutti di restare sulle ambulanze. Ho perso un amico che  lavorava all’ospedale di Jabalia. E’ morto al centro di Gaza, mentre  cercava di soccorrere un ferito. Mentre lo soccorreva, un carro armato  israeliano ha fatto fuoco con l’ambulanza, uccidendo il mio amico. Sono  immagini che resteranno sempre impresse in modo indelebile nella mia  memoria. Le ferite peggiori sono quelle interne, che non si chiuderanno più.  Il ricordo più brutto è stato quando ho visto tanti bambini dilaniati  dalle bombe. In ogni caso, dopo tutta questa carneficina, l’opinione  pubblica mondiale ha capito chi è la vittima e chi è il carnefice. Israele continua ad espandersi, la Palestina continua a morire". 
 
	
	
DA QUANDO E' ILLEGALE  ESSERE DI  SINISTRA IN  ISRAELE?  di Gideon Levy   La polizia, il sistema  giuridico, la Knesset, lo Shin Bet e l'esercito si sono uniti ai  propagandisti della destra per fare la parte dei giudici. Senza  processi.
 È giunta l'ora di rendere illegale a tutti gli effetti la sinistra israeliana.  Che senso ha continuare a tergiversare? Che bisogno c'è di mettere in  atto un processo legislativo oneroso ed estenuante, emanando leggi su  leggi? A che servono tante proposte ed emendamenti? Invece di affannarsi  a questo modo, ci sarebbe un cosa molto semplice da fare: proclamare la sinistra entità illegale all'interno dello Stato di Israele. Da quel momento in poi, chiunque pensi “di sinistra”, agisca “di sinistra”, manifesti “di sinistra” o tolleri ciò che è “di sinistra” sarà messo in prigione.
 Ancora un'altra arma per scoraggiare gli stranieri, dunque (anche se questa volta gli stranieri sono “interni”,  sono quelli di sinistra). Un modo, insomma, per ripulire il nostro  campo. Un simile passo sarebbe in perfetta sintonia con lo “zeitgeist”  che si è impossessato della maggioranza degli israeliani e  rappresenterebbe il ritratto fedele della democrazia israeliana.
 In Israele nel 2011 non è più permesso appartenere alla sinistra.  Non è permesso manifestare per i diritti umani, opporsi all'occupazione  o aprire indagini sui crimini di guerra. Azioni simili imprimono sugli  israeliani il marchio della vergogna. Un colono che ruba l'altrui  terra è un Sionista; un guerrafondaio di destra è un patriota; un  rabbino istigatore è un leader spirituale; un razzista che espelle gli  stranieri è un cittadino leale. È traditore solo chi è di sinistra.
 Il nazionalista ama Israele, mentre l'uomo di sinistra lo disprezza.  Il primo non ha bisogno di chiedere scusa per le sue colpe, mentre il  secondo deve darsi da fare per smentire dicerie e false notizie. In  Israele nel 2011 non è più possibile parlare delle opinioni espresse dai  commercianti di mercati e bazaar. Attualmente, una maggioranza di  agenzie governative ed enti giuridici sta prendendo parte a questa  pericolosa catena di delegittimazione.
 La Knesset ha deciso di creare una commissione parlamentare d'inchiesta per controllare le attività dei gruppi di sinistra “e il loro contributo alla campagna di delegittimazione d'Israele”. Un programma del genere farebbe impallidire persino il senatore Joseph McCarthy.
 Nuri el-Okbi, cittadino beduino e attivista per i diritti umani, è stato messo in prigione per aver svolto, secondo il giudice Zecharia Yeminy, un'attività illecita. Il suddetto giudice non ha provato nessun imbarazzo nell'ammettere di aver assegnato al cittadino el-Okbi tale pena solo perché egli aveva manifestato in difesa del popolo beduino, diviso e disperso.Jonathan Pollak, membro degli “Anarchici contro il Muro” e attivista contro l'occupazione, persona di cui ogni società sana sarebbe orgogliosa, è stato mandato in prigione solo per essere andato in bicicletta per strada.
 Mossi Raz, ex membro  della Knesset, era fermo sul marciapiede durante una protesta contro  l'uccisione di un'attivista palestinese a Bil'in, quando è stato picchiato da un agente di polizia, messo in manette e arrestato.
 I pacifisti vengono abitualmente interrogati dal servizio di sicurezza dello Shin Bet e ammoniti prima del tempo dal compiere qualsiasi tipo di violazione. Un gruppo di fisici è “di estrema sinistra”, una fondazione sociale “disprezza Israele”; delle donne che s'impegnano a monitorare i check-points sono “traditrici” e un centro d'informazione è accusato di essere “complice dei terroristi”.
 Coloni che scagliano la  spazzatura contro i soldati israeliani, o i loro amici che danno fuoco  ai campi dei palestinesi, non vengono messi a processo; Pollak, invece, viene sbattuto in galera. Soldati  che hanno ammazzato palestinesi che sventolavano bandiere bianche  aspettano ancora una punizione; coloro che hanno rivelato circostanze  come queste, sono stati denunciati. A tutto ciò si aggiunge un fiume di  proposte di legge – dal Giuramento di Fedeltà alla Legge sulla Nakba. Tutti tasselli che, uniti insieme, formano un unico sconcertante quadro in cui la Sinistra è un nemico per il popolo e un nemico per lo stato.
 Mentre accadono cose come queste, il danno  reale all'immagine d'Israele e alla sua posizione nel contesto  internazionale è causato dalla sua politica ostruzionista e dagli sforzi  del governo per consolidare ulteriormente l'occupazione; deriva dalle  azioni violente delle Forze di Difesa e dei coloni, accanto ai  provvedimenti razzisti dei legislatori e dei rabbini.
 Una sola giornata di Operazione Piombo Fuso  ha reso insopportabile l'aria di Israele molto più di tutti i rapporti  critici messi insieme. Una moschea data alle fiamme ha contribuito a  gettare nel fango il nome di Israele molto più di quanto non abbiano  fatto tutti gli articoli e gli editoriali critici verso lo Stato.
 Eppure nessuno sollecita un'indagine su questi episodi. Poche persone, forse nessuno, è stato processato per azioni simili. Cosa rimane della sinistra, l'unica categoria che continua a difendere la moralità di Israele? I  pochi che tengono accesa la traballante fiamma dell'umanità vengono  accusati, condannati e puniti mentre le parti veramente colpevoli  vengono scagionate da tutte le accuse. La polizia, il sistema  giuridico, la Knesset, lo Shin Bet e l'esercito si sono uniti ai  propagandisti della destra per fare la parte dei giudici (senza  processi), mentre alla sinistra non è nemmeno consentito avere un  avvocato difensore.
 Un'unica legge semplificherebbe la questione: ogni israeliano deve sapere che è vietato. È vietato credere in un Israele giusto, vietato combattere contro le sue ingiustizie, vietato lottare per la sua anima. Ma  un piccolo dubbio cerca ancora di insinuarsi nel cuore: tutti quelli  che hanno intrapreso la lotta alla sinistra – dai capi dello Shin Bet e  della polizia, ai giudici e ai legislatori di destra – vogliono davvero una “democrazia” senza sinistra?
 
 18/01/2011
 (Trad. Teresa Patarnello)
 Versione originale in inglese: http://www.haaretz.com/print-edition/opinion/when-did-it-become-illegal-to-be-a-leftist-in-israel-1.335503   
 
	
	
BIL'IN - PALESTINA: IL DIZIONARIO DELLA RESISTENZA NON VIOLENTA  
di Alessandro Verona 
 
   Nei territori occupati palestinesi vige un vocabolario estraneo alle democrazie compiute. Check points, occupazione, colonie,  coloni, zone A, B e C, muri di sicurezza, strade dell'apartheid, campi  profughi, terre rubate. E si articolano con una sintassi ben precisa.
 Una sintassi lugubre, che si addentra da Israele  con l'incitazione all'odio etnico, l'utilizzo strumentale e  miope  della storia, le religioni segnalate sulle carte d'identità, bollini di  contrassegno sui passaporti degli arabi israeliani, l'esercito a  selezione etnica,  fin dentro alle viscere dei territori palestinesi  occupati, con repressione armata, negazione dei diritti fondamentali,  umiliazione delle tradizioni culturali e religiose, ostacolo al diritto  al lavoro, sottrazione delle terre, disprezzo della diversità e del  dissenso.
 Questo malgrado le voci del nostro governo, dalla senatrice Bianconi al ministero degli esteri, utilizzino proprio il termine "democrazia compiuta" per definire Israele, umiliando un'altra volta la verità per lisciare il pelo viscido delle logiche di potere.
 
 Eppure sotto l'ombra lunga dell'occupazione i palestinesi hanno saputo coniare i neologismi della resistenza, radicati nella dignità, nella promozione della cultura, nella lotta non violenta e nella giustizia internazionale.
 
 Il paradigma di questa lotta pacifica è Bil'in,  un piccolo villaggio nella Palestina centrale, a Ovest di Ramallah,  dove lo stato d'Israele ha si è appropriato del 60% delle sue terre per  costruirvi il muro di separazione  (http://bilin-village.org/francais/xmedia/cartes/bilin-saffa.jpg – Fonte  ARIJ, www.arij.org ).
 Oltre a quella morale, questa lotta ha una base giuridica ben precisa: la risoluzione 242 delle Nazioni Unite e della Corte Internazionale di Giustizia condannano l'occupazione israeliana, e insieme alla risoluzione 338  si condanna anche la sua colonizzazione (legale o illegale secondo  israele), oltre alle sentenze dei due organi internazionali che  definiscono illegale il muro e dell'annessione delle terre per  costruirlo.
 Inoltre la presenza armata in territorio straniero è ritenuta illecita dall’Onu, e punibile con un intervento armato internazionale (come è successo in Kuwait 1991), oltre a violare la quarta Convenzione di Ginevra.
 Fondamentale ricordare anche che le  repressioni armate durante le manifestazioni sono vietate da tutte le  Corti e  da tutte le procedure internazionali in quanto violano i  diritti umani.
 
 La storia di Bil'in è tanto amara quando fiera.
 Erano gli anni '80 quando le prime colonie israeliane si insediarono su una parte delle terre di Bil'in.
 Dopo dieci anni vengono sottratti al villaggio palestinese 200 acri di terreni agricoli e destinati alla costruzione della colonia chiamata Kiryat Sefer.
 Con il passare degli anni Kiryat Sefer si è espensa fino a diventare parte del blocco colonico di Modi’in Illit.
 Nel 2001 quando iniziano le costruzioni  di Matiyahu Est, estensione della già presente colonia di Matityahul, e  mentre nel 2004 continuano le confische di terre ai palestinesi viene  dichiarato  l'inizio di costruzione del muro, che passerà passerà proprio di fronte villaggio di Bil'in tagliandone le terre in due.
 
 La reazione della popolazione non tarda, nel Gennaio dell'anno seguente viene creato il comitato popolare di resistenza contro il muro e le colonie.
 Subito iniziano le manifestazioni non  violente, addirittura quotidiane per il primo mese, successivamente  bisettimanali, fino ad arrivare all'attuale ricorrenza settimanale, ogni Venerdì, giornata sacra per i credenti musulmani.
 La lotta della popolazione di Bil'in si sviluppa anche a livello legale,  il comitato deposita infatti diverse denunce alla Corte Suprema  israeliana richiedendo l'annullamento della definizione di "terra di  Stato" sorta sugli acri confiscati al villaggio fra il 1990 e 1991, ma  anche il blocco della costruzione del muro e delle costruzioni a  Matityahu Est, sottolineando che il muro sarebbe sorto ben oltre alle  abitazioni arabe da cui si vuol dividere Israele.
 Inoltre, come ben visibile nella mappa dell'ARIJ, il muro si addentrerebbe ben oltre la Green Line,  il confine stabilito nel 1967 che divide Israele dalla Palestina, per  l'evidente volontà di annettere col suo percorso le colonie e le risorse  naturali, in particolare le falde acquifere.
 
 La Corte Suprema israeliana  riconosce l'illegalità,  ordinando l'interruzione delle costruzioni, poi richiedendo allo stato  di Israele di giustificare il rifiuto di spostare il percorso del muro.
 Nel 2006 si dirà contraria a nuovi  insediamenti, ma legalizzando allo stesso tempo quelli già esistenti, a  dispetto delle sentenze internazionali.
 Ancora, nel Settembre 2007  giudica all’unanimità che il tracciato del muro danneggi Bil’in e ne  ordina la modifica, nel frattempo però si decreta il mantenimento dei  fabbricati di Matityahu-Est, costruiti sulle terre del villaggio.
 
 Intanto i palestinesi costruiscono capanne sulle terre confiscate, in quella che sarà chiamata "Bil'in Ovest", la prima "colonia palestinese"  sulle terre rubate. In tutta risposta i coloni incendiano la sua prima  costruzione, distruggendola, per poi tentare di installare carovane sui  terreni di Bil'in.
 Nel villaggio si susseguono le incursioni violente, spesso notturne, riproducendo una costante privazione di libertà.
 Si ambisce a dare ai palestinesi la percezione di avere polsi e dignità sotto i piedi del sionismo più crudele.
 
 La resistenza non violenta di Bil’in non viene però scalfitta, e continua a lottare per far valere i propri diritti. Dopo la creazione del Comitato popolare di resistenza inizia un percorso di lotta ben organizzata e non violenta che diventa simbolo del rifiuto dell'occupazione ed per gli altri villaggi, anche attraverso le conferenze sulla resistenza non violenta promosse dal comitato.
 Le iniziative, sostenute dalla  dall'attivismo internazionale civile e giuridico, attirano sempre più i  media, in un'opposizione settimanale così stoica da essere, senza  retorica, commovente.
 
 Le manifestazioni  coinvolgono bambini, anziani, donne di tutte le età, attivisti e  giornalisti da tutto il mondo, e si dirigono verso il percorso che  dovrebbe seguire il muro, ora costituito da una recinzione, ma non per  questo meno tetro.
 Haitham al Khateb,  ragazzo di 34 anni nato e cresciuto qui, coinvolto dall'inizio  nell'organizzazione delle proteste, mi guida all'arrivo a Bil'in in Agosto.
 Da anni, grazie alla sua telecamera e alle  fotografie del Comitato, documenta le gratuite violenze subite dalla  popolazione durante le manifestazioni e nella vita quotidiana, dove le  incursioni tolgono ogni tranquillità.
 La sua telecamera è stata irreparabilmente danneggiata questo Venerdì,14 Gennaio,  e i comitati internazionali hannno già attivato raccolta di fondi per  permettergli di averne un'altra alla manifestazione della prossima  settimana.
 
 Quel Venerdì d'Agosto si ricordava lo scandalo delle fotografie della ragazza israeliana che condivideva su facebook i suoi "giorni più belli nell'esercito israeliano", con le istantanee delle umiliazioni inflitte ai prigionieri palestinesi in manette.
 Due ragazzi palestinesi, uno dei Paesi  Baschi e una ragazza norvegese guidavano il corteo con le mani legate e  gli occhi bendati, e vicino a loro i fotografi della Reuters e di altre agenzie, già muniti di maschere antigas.
 Questo perchè l'iter è purtroppo noto: all'arrivo  alla linea dell'esercito d'occupazione, distante un centinaio di metri  dallla recinzione incriminata, il corteo pacifico rivendica civilmente i  suoi diritti sul territorio, il soldato più alto in grado afferma che  si tratta di zona militare israeliano e deve essere sgombrata, e dai  manifestanti partono i cori di libertà.
 Quindi, senza preavviso nè ragione, inizia una sconsiderata pioggia di lacrimogeni.
 Purtroppo a questi a volte si aggiunge la violenza fisica, fino ai proiettili "rivestiti di gomma", ma potenzialmente fatali.
 Anche quel Venerdì succede lo stesso, Haitham  subisce piccole abrasioni dall'aggressione dei soldati, qualcuno resta  intossicato, ma al disperdersi dei gas nella conca che porta alla linea  militare il corteo ritorna.
 Dopo pochi minuti, il secondo attacco è più forte, i lacrimogeni non si riescono a contare.
 I soldati strattonano la ragazza norvegese, che fingendosi una dei prigionieri palestinesi non aveva fatto altro che restare seduta e bendata ai piedi dei soldati.
 Un manifestante tenta di portarla via  tirandola per un braccio, i soldati la strattonano dall'altra parte,  come fosse un oggetto.
 Dopo aver vinto la resistenza, torcendole  lo stesso braccio dietro la schiena, la trascinano di peso al di là  della recinzione dove sorgerà il muro, senza che più torni al villaggio.
 Intanto esili bambini di non più di 8 anni lanciano  sassi, poco più che solletico per soldati armati non meno di come lo  sarebbero in guerra e li bersagliano di rimando coi lacrimogeni, ma in  quei sassi c'è la rabbia e l'urlo del dirsi ancora vivi, ancora lì,  decisi a non cedere e restare nelle case loro e dei loro padri.
 
 Al ritorno, malgrado la preoccupazione per l'attivista arrestata, il clima è di un'altra piccola vittoria.
 La presenza dei giornalisti e il successo nel far parlare ancora di Bil'in è sufficiente.
 Alla sede del comitato, Haitam mi  mostra i tipi di lacrimogeni e i proiettili usati dall'esercito di  occupazione,  raccolti su quello che è un vero e proprio campo di  battaglia.
 Racconta con sguardo fiero le angherie che  subisce la popolazione di Bili'n, le ritorsioni nei suoi confronti e in  quelle del comitato, i momenti felici, come quello glorioso in cui sono  riusciti a sradicare un pezzo di muro.
 
 Su un manifesto rosso, sorridente, c'è il volto Bassem Abu Rahme, che nel  2009, durante un Venerdì come questo, è stato ucciso con un colpo in testa.
 Stava esortando l'esercito a smettere di  sparare, o avrebbero rischiato di uccidere le capre che erano al pascolo  nelle vicinanze.
 Bil'in ha i suoi martiri, Bassem è uno di loro.
 
 E purtroppo il 31 Dicembre è stato raggiunto da un'altra ragazza: si chiamava Jawaer.
 Jawaer Abu Rahme, la sorella di Bassem.
 In un altro Venerdì di resistenza  all'occupazione, il lancio dei lacrimogeni isralieni è stato tale da  intossicare a morte Jawaer, che ha chiuso gli occhi all'ospedale di  Ramallah.
 Il Venerdì successivo il numero di  manifestanti è stato altissimo e hanno urlato tutta la loro rabbia e il  loro dolore ancora in modo pacifico, e ancora la risposta israeliana è  stata violenta.
 Bil'in versa il suo sangue, ma continua a vivere.E con lei, la speranza di bruciare quel vocabolario d'odio.
 Riscrivendone uno nuovo che inizi con le parole "libertà e pace".
 17/01/2011                       
 
	
	
RICORDARE L’OPERAZIONE  “PIOMBO FUSO”di Mirca Garuti
 
 Il 18 gennaio 2009 terminava l’operazione “Piombo Fuso” iniziata dal governo colonialista d’Israele il 27 dicembre 2008.
 22 giorni di feroci bombardamenti su un piccolo lembo di terra, la Striscia di Gaza, abitata da oltre un milione e mezzo di persone. (v.Bombardamento Gaza dic.08 speciale)
 A due anni di distanza voglio ricordare questa aggressione citando alcuni passaggi del libro “Un Parroco all’inferno”,  un’intervista di Don Nandino Capovilla ad Abuna Manuel Musallam, parroco della chiesa della Sacra Famiglia a Gaza per quattordici anni fino al 2009.
 “Come essere umano, come  palestinese e come arabo, prima che come cristiano e prete, finchè avrò  respiro testimonierò quello che ho visto e vissuto per anni nella  prigione di Gaza. Chi non ha visto e vissuto non può immaginare che  livello di degradazione umana si può raggiungere attraverso  un’oppressione morale e materiale che non è stata compiuta in un singolo  tragico atto criminale, come i bombardamenti dei giorni dell’assedio”.
 Che cosa ha portato nella Striscia il “piano di disimpegno” di Sharon nel 2005?
 “Gaza era una prigione anche prima del  2006, controllata a nord e a sud da confini spesso invalicabili per i  palestinesi. Fino al 2005, al suo interno vivevano quattromila coloni.  Non avevano niente a che fare con noi, non cercavano né contatti né  incontri. Erano considerati come “esterni” agli abitanti ed erano  ovviamente protetti con misure eccezionali dall’esercito. Avevano le  loro strade e tutta l’acqua a disposizione. Generalmente, prima di  installare una colonia, cercavano la fonte e poi la costruivano  esattamente lì. In molti casi nella Striscia hanno scavato pozzi e preso  tantissima acqua portandola fino in Israele, che quindi era al centro  del trasporto dell’acqua”.
 
 E… poi l’inferno è scoppiato!
 “L’attacco del 27 dicembre  non è stato diverso da altri attacchi di Israele in altri posti e in  altri momenti. Intendo dire che l’invasione è stata uguale ad altre, si è  scagliata con la stessa violenza, con la stessa crudeltà, ha avuto la  stessa tipologia di attacco che altrove, con cannoni, armi, missili, e  anche con le stesse armi fuorilegge, quelle per esempio che spezzano in  due sia gli oggetti  sia le persone, sia qualsiasi obiettivo raggiunto,  senza che si veda niente altro. La differenza rispetto ad altri attacchi  israeliani è stata che questo attacco ha coinvolto il territorio della  Striscia nella sua globalità, andando da Rafah a Beit Hanoun, e  soprattutto la vera differenza è stata la lunghezza e l’intensità della  guerra. Il 27 dicembre, all’improvviso, nell’arco di due minuti tutte le  postazioni di polizia sono state colpite contemporaneamente, e sessantaquattro  ufficiali della polizia sono stati uccisi. Ma i poliziotti e i vigili  non sono soldati, non fanno la guerra, non sono militari e tutti questi  morti, questi poliziotti sono civili innocenti”.
 
 Chi e che cosa è stato colpito?
 “In questa guerra hanno ucciso 1396 persone:  64 erano miliziani di Hamas, 320 erano bambini, 111 donne, 9 israeliani  (3civili). I feriti sono stati 5300. Circa 4000 case sono state  distrutte, 5 scuole dell’Unrwa. I raid aerei e l’artiglieria israeliani  hanno distrutto anche decine di edifici pubblici, una ventina di  moschee, 18 scuole, 215 cliniche mobili, 28 ambulanze”.
 Il 6 gennaio viene bombardata  la prima scuola dell’Onu. In Italia si comincia a percepire che non si  tratta di una guerra, ma di un massacro di civili.“Oltre il cinquanta per cento delle  moschee è stato colpito e persino quando hanno dovuto ammettere che  avevano attaccato una scuola dell’Onu hanno affermato che si trattava di  un gesto di autodifesa. Mai avevo assistito a un livello tale di  ipocrisia: i TG occidentali stavano completamente stravolgendo la verità  sui crimini compiuti, mettendo in campo tutte le possibili falsità,  senza attirare su di loro l’indignazione generale e la protesta della  comunità internazionale. I soldati israeliani si sono comportati come se  fossero superman e agivano completamente al di fuori della legge. Dopo  qualche settimana, finalmente alcune voci si sono levate nel mondo, e  anche nello stesso Israele, per ammettere la verità: è stato un crimine,  un crimine contro l’umanità”.
 
 Durante l’attacco l’esercito israeliano ha usato armi illegali e terribili.
 “In questa guerra l’esercito  israeliano ha usato armi proibite, bombe che tagliavano qualunque cose o  persone trovassero. Immagina come migliaia di lame possano sezionare e  tagliare in due un armadio, un frigorifero, un letto o una persona. Così  accadeva:  all’improvviso qualsiasi obiettivo venisse colpito si  divideva in due, fossero corpi oppure oggetti. Scene inenarrabili.
 Hanno lanciato anche bombe al fosforo bianco:  la materia al loro interno è liquida e questo liquido fa fumo. E quando  i medici si illudono di averlo estromesso dal corpo colpito, questo, a  contatto con l’ossigeno, si riaccende. La ferita diventa un fuoco e una  brace che non si consuma. Mi chiedo perché dobbiamo accettare di essere  umiliati fino a questo punto. Io sono convinto e ripeto che nessuna  nazione, nessun popolo e nessun uomo accetta di essere sottomesso a tal  punto da un altro popolo.”.
 
 In quei giorni hai cominciato a scrivere appelli, a far presente al mondo che lì si stavano massacrando persone…
 “Sì, il 13 gennaio ho scritto un  appello per scuotere le persone: Non abbiamo cibo, l’acqua potabile  scarseggia, i bambini sono terrorizzati. In questa grave situazione  musulmani e cristiani si sono ancora più uniti e insieme cercano di  sopravvivere. Siamo tutti palestinesi e siamo tutti vittime… abbiamo  messo a disposizione la nostra scuola come rifugio. All’interno hanno  trovato ospitalità molte famiglie e bambini. Il loro pianto è continuo,  sono terrorizzati. In tanti anni non ho mai visto una cosa del genere…  la popolazione è allo stremo. Il popolo palestinese non merita questo  trattamento di sangue. Imploro tutti di fermare questa guerra e di  riaprire il processo di pace. I palestinesi vogliono vivere in pace”.
 
 Richard Falk, relatore speciale  dell’Onu, il 4 gennaio ha dichiarato che “bombardare quotidianamente una  popolazione indifesa in un’area sovraffollata come quella della  Striscia rappresenta un crimine”…
 “Concordo assolutamente con queste  coraggiose affermazioni… perché a Gaza non ci sono solo terroristi, come  d’altra parte pensano anche qui in cisgiordania. Che siano di Hamas o  di Fatah, sono persone, con tutta la loro dignità di figli di Dio. O  forse, sotto sotto, pensate anche voi che tanto sono di serie Z e che  quindi..”se la sono voluta”. Certamente è duro dirlo, ma la strage degli  innocenti si ripete ancora, proprio qui, come duemila anni fa, e i  nuovi Erode sono più vivi che mai. Sentiamo che in Italia la gente  giustifica e trova perfino legittimazione a questa guerra. Ma voi,  informatevi bene e poi ragionate con la vostra mente e soprattutto con  il vostro cuore. Non è tutto spiegato dal lancio dei qassam: i fatti di  oggi hanno un retroscena che non giustifica per niente l’operazione  “Piombo Fuso”. Andate a leggere la storia di questo Paese. Informatevi  per capire bene come in realtà stanno le cose. Perché si comprende  un’ingiustizia solo conoscendo la storia di questa terra.
 Ma soprattutto, basta! Ci si deve muovere! E’ moralmente obbligatorio muoversi!”.
 
 Ma quando mai allora si arriverà alla pace?
 “Gli israeliani dovrebbero smettere di  pensare di essere in pericolo, di sentirsi perseguitati. Devono  smettere di vedere in ogni palestinese un terrorista. Israele grida  sempre alla necessità di mantenere la sicurezza: solo stando insieme,  palestinesi e israeliani, potranno capire che in realtà non sono gli uni  contro gli altri, ma contro i fondamentalismi di entrambe le parti.  Israele però ci sta continuamente impedendo di realizzare questa strada:  il muro, i checkpoint, l’occupazione vanno nella direzione opposta. Non  vogliono nemmeno che ci guardiamo l’un l’altro. E siccome hanno soldi e  armi, pensano di essere invincibili. L’equilibrio tra Israele e  Palestina non c’è”.
 
 Come prete, come uomo e come palestinese, quale pace sogni?
 “La pace deve essere basata  sull’amicizia, sul perdono, sullo sviluppo, sulla giustizia, sul  rispetto. Solo così potremo riunirci, israeliani e palestinesi, in modo  da creare qualcosa di duraturo. Gli Israeliani dicono che Dio ha dato  loro questa terra:ma l’ha data anche a noi! Questa terra è terra di Dio.  Il cristianesimo è carità e speranza. L’Islam è pietà. L’ebraismo è una  religione, non una nazione, così come il cristianesimo è una religione,  non una nazione. Gli ebrei possono essere arabi, americani e francesi.  Costituire una nazione che sia uno Stato ebraico non può funzionare”.
 
 Nel maggio 2009 il Papa ha visitato la Terra Santa. I cristiani della Striscia di Gaza l’hanno invitato ma egli non è arrivato.
 “Come comunità cristiana, avremmo  desiderato che il papa arrivasse a Gerusalemme passando attraverso la  ferita di Gaza. In vista del viaggio di papa Benedetto XVI  in Terra Santa, per me è stata una gioia grande che la mia lettera  aperta al papa venisse diffusa e tradotta in tante lingue. Ci saremmo  però aspettati che il papa rimandasse la visita in Israele perché lui  era il nostro Padre. Desideravamo che il papa prendesse una  posizione chiara, che protestasse, che dicesse che questi palestinesi  erano ingiustamente oppressi. Però, quando questo non è  accaduto, i palestinesi, che in quanto cristiani dovevano essere  l’obiettivo principale della visita pastorale del papa, si sono  rattristati molto, perché egli arrivava senza prendere una posizione  forte nei confronti di questa guerra. E quando ha deciso di venire  comunque in Terra Santa, abbiamo davvero sperato che venisse a farci  visita. I rappresentanti di Hamas erano pronti a offrirgli sicurezza a  livello ottimale e una straordinaria accoglienza. Eravamo comunque  consapevoli che non sarebbe venuto da noi in questa situazione, perché  avrebbe ricevuto pressioni da Israele, dalla comunità internazionale  (europea e americana in primis) e da Mahmoud Abbas. Ma i palestinesi, e i  cristiani di Gaza in particolare, non condividevano questa decisione.  La prima volta che qualcuno chiese al papa di venire a Gaza, sappiamo  che accettò. Poi però ha cambiato idea. Ma noi, come cristiani e  musulmani palestinesi, avremmo voluto un papa più coraggioso, che  dicesse:”Voglio andare a Gaza perché non ho paura di niente e di  nessuno, neanche delle guerre e delle persecuzioni”. E dicesse che per  questo sarebbe andato lì dove le persone stavano più soffrendo. Io  speravo che il papa volesse condividere con noi fino in fondo la  sofferenza, contro qualsiasi volontà, contro qualsiasi disegno politico:  a costo di andare contro Israele, contro la Palestina, contro tutti.  Avremmo voluto che in quel momento ci avesse messo al centro delle  preoccupazioni della comunità internazionale e di quella cristiana in  particolare. E la Chiesa sarebbe stata segno grande della carità di  Cristo per gli ultimi, i poveri, gli oppressi. La Chiesa è già presente e  viva a Gaza. Essa invece non ha trovato e mandato nessuna personalità  ufficiale a investigare su quello che è accaduto. Tutte le istituzioni  hanno poi mandato qualcuno: abbiamo visto ambasciatori tedeschi,  inglesi, americani. Ma la Chiesa non ha mandato nessuno, nessun gruppo  di cardinali o di vescovi, per difendere i cristiani e soprattutto per  vedere  la situazione reale. Perché sono stati assenti? Quando la Chiesa  era quella di Gesù, dei primi anni del cristianesimo, cercava davvero i  più poveri per offrire loro il suo amore e la sua vicinanza. Ecco  perché siamo stati così rammaricati per la mancata visita del papa. E’  la Chiesa che mi ha mandato a Gaza ed io ci sono andato, io, un semplice  prete. Perché il rappresentante della Chiesa dovrebbe avere paura? Perché  il papa stesso o qualsiasi altra persona di alto livello non mi ha  chiamato per sapere come stavamo? Per dirci :”siete una piccola  comunità, ma non preoccupatevi, siamo con voi”, affinché io potessi  dirlo anche agli altri? Bisogna fare anche dei gesti, non solo parlare  dal sicuro della propria dimora”.
 
 L’operazione “Piombo Fuso” è stata anche ricordata, dopo un anno, dall’iniziativa “Gaza Freedom March” ( v.diario Gaza Freedom March 09)  che doveva condurre 1500 attivisti di tutto il mondo dentro la Striscia  di Gaza per cercare di interrompere lo stretto assedio imposta da  Israele da più di tre anni. Purtroppo la marcia è stata bloccata al  Cairo, ma non la lotta che, nonostante tutte le imposizioni da parte di  Israele, continua.
 La Freedom Flotilla (nove navi con 10.000 tonnellate di aiuti umanitari) in rotta verso Gaza assediata, il 31 maggio 2010 è assalita dalle marina militare israeliana: il bilancio delle vittime è di 9 morti e 45 feriti. (v.freddom flotilla)Fra pochi mesi, una seconda e più grande flotta, la Freedom Flotilla 2, cercherà nuovamente di arrivare alla Striscia di Gaza e, questa volta ci sarà anche la nave italiana “Stefano Chiarini”  con decine di attivisti e tonnellate di aiuti per le scuole ed ospedali palestinesi.
 Ricordare, quindi, per non dimenticare e continuare a portare avanti con fiducia una lotta giusta per la dignità dell’uomo.
 18/01/2011 
 
	
	
ULTIMA LETTERA DALL'AFGHANISTANdi Mirca Garuti
 
 Perché la guerra in Afghanistan? A chi interessa continuare questo massacro? Terrorismo? Interesse economico? Potere militare?  Quante domande per cercare di capire questo enorme conflitto……
 Afghanistan un paese  povero con la sola colpa di trovarsi in una posizione altamente  strategica nell’Asia centro meridionale confinante con Cina, Iran,  Pakistan, India, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. La Rivoluzione d’aprile (27/04/1978) diede vita alla Repubblica Democratica Afgana guidata dal leader del partito democratico, Nur Mohammad Taraki  che portò una serie di riforme di carattere socialista nel paese, come  la riforma agraria, la laicizzazione della società con l’obbligo per gli  uomini di radersi la barba e per le donne con il riconoscimento del  diritto di voto, dell’istruzione obbligatoria ed il divieto di indossare  il burqa e di essere oggetto di scambio nei matrimoni combinati. Queste  riforme però si scontrarono presto con le autorità religiose del paese  e, nel mese di settembre 1979 Taraki fu ucciso su ordine di H. Amin, suo vice primo ministro che immediatamente lo sostituì. L’Armata Rossa il 27 dicembre 1979 invase così il paese. La guerra contro i mujaheddin, finanziati dagli Stati Uniti, fu lunga e violenta e cessò con la ritirata dei sovietici nel febbraio 1989.  La guerra continua dal 1989 al 1996 tra le varie fazioni di mujahedin (tagiki, uzbeki, hazari, pashtun) e dal 1996 al 2002  tra talebani al governo (sostenuti da Pakistan ed Arabia Saudita) ed  Alleanza del Nord o Fronte Islamico Unito per la Salvezza  dell'Afghanistan  (sostenuta da Russia, India, Iran, Tajikistan ed  Uzbekistan). Tutto questo ha causato la morte di un milione e mezzo di afgani, due terzi dei quali civili.
 
 Il 7 ottobre 2001 inizia l'invasione dell'Aghanistan da parte delle forze della Coalizione a guida Usa con la motivazione di una rappresaglia collettiva per l'attacco del 11 settembre, in base al fatto che il regime talebano di Kabul ospitava Osama Bin Laden ed i campi di addestramento di Al Qaeda.
 
 In realtà l'intervento militare americano era stato pianificato mesi prima dell'attacco alle Torri Gemelle,  ma sempre, secondo  fonti ufficiali,  con l’obiettivo di distruggere  solo le basi di Al Qaeda. In base invece a varie interpretazioni  geopolitiche, le motivazioni vere si possono riscontrare sia nella  necessità, da parte del governo americano, di dover  stabilire una sua presenza  militare duratura in un’area molto strategica  legata ai gasdotti, ai  corridoi commerciali ed alla recente scoperta di immensi giacimenti di  uranio e sia nel dover riavviare la produzione di oppio, vietata nel 2000 dal Mullah Omar per  accattivarsi un riconoscimento internazionale. All’inizio degli anni  ottanta, nei territori controllati dai mujaheddin antisovietici, armati  dalla CIA, ci fu il grande sviluppo della coltivazione  dei papaveri da oppio, unica vera ricchezza di questo paese. Il culmine  si raggiunse invece  negli anni novanta sotto il dominio dei talebani  sostenuto da Usa e Pakistan. Dopo l’invasione americana del 2001, la  produzione ed il traffico di oppio afgano tornò a crescere ad alti  livelli superando addirittura quelli del periodo talebano. Non bisogna  dimenticare che il governo Usa e la Nato non si sono mai impegnati  veramente nella lotta al narcotraffico, sostenendo spesso i “signori della droga” come il fratello del Presidente afgano Hamid Karzai, Ahmed Wali, risultato poi essere sul libro paga della CIA.  Dal 2001 ad oggi le truppe Nato (missione Isaf a comando Usa) insieme a quelle governative del governo di Hamid Karzai e milizie paramilitari locali contro i  guerriglieri della resistenza afgana (talebani, miliziani, combattenti  del ‘Hezb-i Islami e bande armate locali) hanno causato oltre 50.000 morti (quasi 2 mila soldati Nato, almeno 27 mila guerriglieri, 14 mila civili e 7 mila militari afgani).  Il numero dei militari italiani morti sul suolo afgano è ad oggi 35.  La maggior parte di essi è rimasta vittima di attentati e scontri a  fuoco, altri invece di incidenti e malori ed uno di un suicidio. Facciamo dunque parte di una guerra e non di una missione di pace!La guerra in Afghanistan non solo ha un  alto costo di vite umane ma anche economico. L’Italia nel 2010 per la  sua partecipazione all’occupazione ha speso almeno 600 milioni di euro.
 La corsa all’aumento progressivo di questo  conflitto è sempre in crescita e lo dimostrano le cifre relative alle  vittime ed alla spesa sostenuta.
 Il costo della guerra: :   nel 2002, 70 milioni di euro; nel 2003, 68 milioni; nel 2004, 109  milioni;  nel 2005, 204 milioni;  nel 2006, 279 milioni;  nel 2007,  336  milioni, nel 2008, 349 milioni e nel  2009,  540 milioni .
 Sorge dunque spontanea la domanda: ma  quanti altri miliardi dovranno essere buttati via, sottratti  a risorse  ben più utili alla collettività,  prima di dire Basta?  Dov’è il  movimento contro la guerra?
 Purtroppo il ministro della Difesa Ignazio La Russa  ha dichiarato, durante un incontro con la stampa a Milano la settimana  scorsa, di essere pronto ad aumentare la presenza militare italiana in  Afghanistan: "A inizio del 2011 ci saranno 4.200 militari in Afghanistan".  L'incremento del contingente che a fine dello scorso anno contava circa  quattromila uomini sarà possibile "perchè è aumentato il numero degli  addestratori".
   Quindi tutto continua….. anche se, da una  attenta lettura dei fatti e situazioni che accadono all’interno  dell’amministrazione americana intorno alla guerra afgana, si può  facilmente comprendere tutta la sua falsità nelle varie motivazioni che  l’hanno spinta a dichiarare guerra all’Afghanistan. Senza dover andare  troppo indietro nel tempo, è sufficiente leggere l’articolo pubblicato  online il 22 giugno 2010 su rollingstone.com (la versione integrale in italiano: http://www.rollingstonemagazine.it/magazine/articoli/stanley-mccrystal-generale-in-fuga/23286         (dal n. 853/2010 settimanale “Internazionale”)
 Il reportage realizzato da Michael Hastings, giornalista freelance, ha sollevato tali polemiche negli Stati Uniti da dover indurre il presidente Obama ad accogliere le dimissioni del generale McChrystal,  nominando al suo posto il generale David  Petraeus, capo del comando  centrale statunitense responsabile delle missioni militari in Medio  Oriente. “Per quanto sia difficile perdere il generale McChrystal,  credo che sia la giusta decisione per la nostra sicurezza nazionale - ha  detto il presidente, la condotta raffigurata in un articolo di recente  pubblicazione non soddisfa gli standard che dovrebbero essere rispettati  da un generale al comando". Il 29 giugno McChrystal ha annunciato di voler lasciare l’esercito.
 “Lo staff del generale – racconta così  il reportage di Hastings – è una banda di assassini, spie, geni,  patrioti, manovratori politici e pazzi scatenati. Ci sono un ex capo  delle forze speciali britanniche, due ex componenti delle forze d’elite  dei marines, un soldato delle forze speciali afgane, un avvocato, due  piloti di caccia ed almeno una ventina di veterani ed esperti di  controinsurrezione. Si sono battezzati scherzosamente Team America,  ispirandosi ad un film dissacrante degli autori di South park. Sono  orgogliosi del loro atteggiamento positivo e del loro disprezzo per  l’autorità. Da quando è arrivato a Kabul nell’estate del 2009, il Team  America ha cercato di cambiare la cultura della International security  assistance force (Isaf), la missione che opera in Afghanistan sulla base  di una risoluzione delle Nazioni Unite”. “L’esempio più  lampante – continua ancora Hastings – del peso politico raggiunto da  McChrystal è il suo modo di gestire il rapporto con Karzai. E’  McChrystal , e non i diplomatici come Eikenberry o Holbrooke, ad avere  il rapporto più stretto con l’uomo su cui gli Stati Uniti contano per  guidare l’Afghanistan. La dottrina della controinsurrezione richiede un  governo credibile, e dal momento che Karzai non è ritenuto credibile dal  suo stesso popolo, McChrystal si è dato molto da fare per rimediare”.
 A questo punto sorge spontanea una  domanda: ma….  distruggere un popolo, morire per queste persone,  Perché?? Non è arrivato forse il momento di dire veramente “BASTA”!?
 15/01/2011 
 
	
	
Il Coordinamento modenese contro l’occupazione della Palestina e Ass. Alkemia
 presenta la conferenza:
 
 ISRAELE:
 DAL COLONIALISMO AL FASCISMO?
 
 coordina: Mirca Garuti – resp. Medio Oriente - Alkemia
 Interventi di:
 Fausto  Gianelli: Giuristi Democratici
 
   
               Michele Giorgio: corrispondente dal Medio Oriente del quotidiano “Il Manifesto” 
   
               Cinzia Nachira: Docente di Storia Univ. Di Lecce 
    
 
 
 
         Le domande del Pubblico:  
                     
 
 14 dicembre 2010
 
 
	
	

  Gli appuntamenti politici della delegazione proseguono con l’incontro del leader della comunità drusa, Walid Jumblatt. E’ presentato da Kassem Aina,  referente del comitato in Libano, come amico da sempre dei palestinesi e  prosecutore del messaggio politico di suo padre, Kamal.Il discorso iniziale di Jumblatt è breve; riconosce che la vita, nei  campi profughi palestinesi, deve essere migliorata ed è necessario fare  pressione affinché l’Unrwa (agenzia delle Nazioni Unite  per l’assistenza dei profughi palestinesi) riprenda a svolgere il suo  compito perchè, negli ultimi anni, il suo aiuto verso i profughi è molto  diminuito. Il leader druso preferisce dare subito la parola ai  componenti della delegazione. Le domande che si susseguono toccano tutti  gli argomenti che riguardono la situazione attuale e futura dei  palestinesi e libanesi.
 
 Jumblatt parla della legge sul diritto al lavoro e  dell’assistenza sociale che, grazie anche all’appoggio del suo partito,  ha avuto l’approvazione del Parlamento Libanese.
 “Ogni palestinese può accedere a qualsiasi lavoro tramite la  richiesta di un permesso – risponde - ma, non bisogna dimenticare che  restano ancora escluse ai palestinesi 63 professioni. In Libano esiste  un sentimento di razzismo nei confronti dei palestinesi. Non siamo stati  capaci di promuovere una legge sul diritto alla proprietà perché su  questo problema esiste una divisione netta. Il Parlamento è questo e  queste sono le sue decisioni. Ci sono arabi che hanno case e terreni,  senza vivere qui, mentre i palestinesi che sono qui, non possono avere  niente, è triste, ma è così”.
 Sulle trattative di pace non ha molte speranze: ”Come si fa a credere alla creazione di uno stato palestinese, quando c’è un governo di destra israeliano, guidato da Netanyahu, che non è disposto nemmeno a congelare i nuovi insediamenti?”
 La discussione ritorna sulle condizioni di vita dei palestinesi in  Libano che, nell’attesa di un possibile ritorno alle loro terre  d’origine, devono migliorare e diventare dignitose, nonostante ci sia un  sistema confessionale molto difficile, dove i partiti della destra  hanno sempre osteggiato i palestinesi.
 Si parla, inoltre, della difficile ricostruzione del campo di Nahr El-Bared per i problemi sempre legati alla mancanza del diritto alla proprietà e del lavoro: “Situazione  difficile e pericolosa per il Libano, dipende da una decisione politica  ed economica, ma, la comunità internazionale deve anche cominciare a  pagare quello che gli compete, conclude Jumblatt”.
 Il dialogo si sposta sulla situazione riguardante la democratica interna libanese ed il suo sistema elettorale.
 La concessione di voto sotto i 21 anni è una prospettiva molto remota,  in quanto esiste un blocco totale dalla parte cristiana. Questa modifica  porterebbe ad un gran cambiamento in ambito elettorale all’interno  delle forze politiche perché i giovani, essendo principalmente figli di  musulmani, andrebbero ad aumentare la divisione esistente, mettendo in  minoranza la parte cristiana, considerando che, dall’ultimo censimento  libanese, i cristiani rappresentano solo il 30%.
 “Noi siamo solo un piccolo gruppo, ma il Libano rimarrà sempre diviso tra queste differenze”, così ripete Jumblatt, chiudendo il discorso.
 Ritorna anche il caso “Hariri”.
 “Le accuse – continua Jumblatt – prima sono state tutte rivolte alla  Siria, mentre ora sono verso il movimento di Hezbollah. Noi abbiamo  chiesto un tribunale internazionale per fare chiarezza, per avere una  giustizia, ma, sembra quasi che ci sia, dietro a tutto questo, un gioco  manovrato dall’esterno per far cadere le responsabilità sul territorio  libanese. Bisogna cercare i responsabili, guardare ovunque, perché non  potrebbe essere stato anche lo stesso Israele? “
 Il tema della resistenza non poteva non essere trattato: “Non si può smobilitare la resistenza – sostiene Jumblatt – la resistenza deve continuare”.
 Infine, alla richiesta di una probabile disponibilità ad offrire i propri porti a navi dirette a Gaza,  Jumblatt, risponde, con molta fermezza, che tutte le forze politiche  libanesi hanno preso insieme la decisione di non inviare nessuna nave,  perché la spedizione potrebbe essere intesa come una dichiarazione di  guerra, in quanto il Libano, dal 1948, è in guerra con Israele.
 A questo punto, Stefania Limiti, come responsabile del  Comitato, ringrazia il leader druso per aver ospitato la delegazione  italiana a casa sua, sottolineando che i membri del comitato chiedono  solo la garanzia della sua volontà politica di stare vicino al popolo  palestinese.
 
   
  Giovedì 16 settembre, anniversario dell’inizio del massacro di Sabra e Chatila (16-18 settembre 1982), il Comitato incontra Sheick Nabil Kaouk, responsabile Hezbollah del Libano meridionale. 
 “In nome di Hezbollah e della resistenza vittoriosa nel sud del  Libano, porgo a voi e all’amico Stefano Chiarini, i nostri saluti –  inizia così il discorso Sheick Nabil - oggi è una giornata triste per  tutta l’umanità, è l’anniversario del massacro di Sabra e Chatila. Sabra  e Chatila è una ferita aperta che continua a sanguinare. Nessuno ha  pagato per quel massacro. Mi trovavo a Beirut nel 1982, ho visto  l’attacco, ho visto, anche, alcuni libanesi partecipare a quel massacro.  I misfatti di Sharon e Begin sono ben  conosciuti, quei libanesi complici sono ben conosciuti, sappiamo chi  sono, ma non sono mai stati accusati o processati. Se non riusciamo a  portare Sharon e Begin davanti ad un tribunale, dobbiamo trovare quei  libanesi complici e condannarli. Tutti quelli che hanno partecipato al  massacro sono complici e vanno processati. Sono più di sessant’anni che i  Palestinesi sono massacrati e la comunità internazionale sta a guardare  senza aiutare nemmeno un profugo”.
 I negoziati, per il responsabile Hezbollah, sono illusioni, non portano a  niente, servono solo ad anestetizzare il popolo. Al popolo palestinese  rimane una sola strada da percorrere: “Quella della strategia della resistenza, che ha dato la sua prova di vittoria sia nel sud del Libano e sia a Beirut”.
 Conclude la prima parte del discorso affermando che Hezbollah sta  subendo una grande campagna di minacce proprio per il suo appoggio alla  causa palestinese, ma, non per questo, abbandoneranno i loro fratelli  palestinesi.
 L’impegno e la presenza costante del comitato sono molto apprezzati da Sheick Nabil che lo definisce “Una candela che illumina tutto il mondo”.
 
 Le domande si concentrano sul disarmo di Hezbollah e sui diritti civili dei palestinesi.
 “Il partito Hezbollah è armato perché si deve difendere - risponde  Sheick Nabil – ogni volta che succede qualcosa, si ripresenta il  problema del possesso delle armi. Abbiamo sempre avuto armi, occorre  però chiedersi perché si devono usare, non da chi provengono. E’ dal  1982 che subiamo queste campagne pianificate da forze internazionali,  ma, la nostra resistenza continuerà. Il nostro obiettivo è quello di  prepararci contro qualsiasi aggressione”.
 Sui diritti civili palestinesi, afferma che prima di tutto il problema  dei profughi è una questione umana, morale e poi politica e  confessionale.  In Libano, però, qualsiasi cosa assume un aspetto  religioso.
 “Hezbollah – sostiene ancora Sheick Nabil – è al servizio dei  palestinesi. E’ stato il primo partito che ha cercato di dare diritti al  popolo palestinese. Tutto questo è una vergogna per tutta l’umanità.  Noi siamo portatori di una strategia che porterà i palestinesi alla loro  terra. Vogliamo anche noi l’unità palestinese, mi spiace dover  affermare che la causa palestinese è assediata a livello arabo,  internazionale ed israeliano. Non stiamo sognando, ma ci stiamo  preparando al giorno della vittoria”.
  
    Stefania Limiti, nel suo discorso, sottolinea due importanti momenti provati dal comitato in questa settimana trascorsa in Libano. Un tempo di dolore  per l’impossibilità di dare, ai familiari delle vittime, la giustizia  che chiedono da sempre, mentre, invece, può solo offrire la solidarietà e  l’impegno di essere sempre al loro fianco nella lotta per i mancati  diritti. Un tempo di speranza, invece, è rappresentato dall’incontro,  molto atteso ed importante, di tutte le forze che rappresentano la  resistenza del popolo palestinese. “Il primo momento – prosegue  Stefania - ci spiega cosa significa la preoccupazione e la prepotenza  del sionismo, il secondo, invece, c’insegna come contrastare quel  pericolo. In occidente si parla della Palestina disumanizzando i  palestinesi e, la resistenza diventa così il primo pericolo per le  democrazie di tutto il mondo”. Stefania dichiara, inoltre, che il  comitato rappresenta quella parte che non è d’accordo con  “quell’occidente”, ma crede invece sia proprio il sionismo il pericolo  più grande della nostra democrazia.
 “Siamo quella parte – spiega Stefania - che crede che le uniche  possibili trattative per la Palestina sono quelle del ritiro delle  truppe militari d’occupazione dai territori occupati. Crediamo nel  diritto alla resistenza dei popoli. Veniamo qui ogni anno per ricordare  che senza il diritto al ritorno non c’è una speranza di pace e veniamo  qui perché qui c’è un pezzo di Palestina e vogliamo così essere al  fianco del popolo palestinese”.
  
   
  La delegazione riparte in direzione del carcere di Khiam verso il confine con Israele.
 Khiam era il centro di detenzione e di interrogatori  che Israele aveva costruito ed utilizzato durante la sua occupazione nel  sud del Libano, dal 1982 al 2000. Venivano qui rinchiusi i militanti  della resistenza libanese e palestinese. Arrivavano incatenati,  incappucciati e narcotizzati per essere poi interrogati.
 Torturati più che interrogati. Venivano denudati, legati, messi a testa  in giù, picchiati ed applicati elettrodi alle dita, ai genitali ed ai  capezzoli. I miliziani cristiani dell’ELS (Esercito del Libano del Sud), alleato degli occupanti, avevano appreso queste tecniche da Israele. Il 23 maggio 2000,  quando l’esercito israeliano si ritirò, le guardie dell’ELS, fuggirono e  la popolazione locale fece irruzione nel carcere, liberando i  centoquaranta prigionieri rimasti.
 La prigione da luogo di detenzione divenne in seguito un museo, un  monumento alla memoria. Un luogo dedicato al ricordo di quelle atrocità  per rendere conto di come questa “segreta” prigione fosse sempre stata  fuori dai controlli e dalle norme internazionali.
 Questa struttura era amministrata dal partito degli Hezbollah, il partito di Dio.
 
 Stefano Chiarini in un articolo pubblicato da “Il Manifesto” il 24 giugno 2000, scrive: “Passati  due cortili nei quali i prigionieri appena arrivati venivano picchiati  sotto il sole o al freddo della notte per giorni e giorni, si entra in  un dedalo di corridoi sui quali si affacciano decine di celle. Tutto è  piccolo, angusto e sporco con un insopportabile puzzo di urina. Ibrahim,  quarantacinque anni di cui cinque passati nel carcere di Khiam, in  questo terribile luogo di detenzione, è tornato a visitare la cella di 4  metri quadrati che ha diviso per cinque anni con altri quattro suoi  compagni e, come molti altri ex prigionieri, si è trasformato in una  sorta di guida agli orrori del carcere e alle gesta della resistenza  "nazionale" libanese. "In una cella così - ci dice Ibrahim indicando una  stanzetta oscura, attraversata dai fili con la biancheria dei  prigionieri rimasta lì appesa come ogni altra cosa, dove si trovava la  mattina della liberazione - eravamo in cinque. Avevamo circa 10 minuti  d’aria ogni 48 ore in quel cortiletto lì accanto con il tetto di sbarre  di ferro coperte da filo-spinato e la possibilità di fare una doccia una  volta al mese. Come cibo, cinque olive a testa e tre uova sode al  giorno da dividere tra noi". "Ma tutto ciò era sopportabile rispetto ai  pestaggi dell'arrivo, alle torture con la corrente elettrica fatte sotto  la supervisione degli "esperti" israeliani e a mesi e mesi nelle celle  di punizione di un metro e mezzo per due, sempre al buio, dove non ci si  poteva neppure stendere. Un vero inferno" La  stanza per le torture, piena di tavoli polverosi e sedie rovesciate con  alle pareti delle griglie di ferro e sul soffitto dei ganci per  appendere i prigionieri, si trova in uno dei torrioni d'angolo. In  queste stanze non sono passati soltanto i militanti della resistenza  islamica ma anche decine e decine di combattenti del PC libanese, molto  attivo nella resistenza fino ai primi anni novanta e tanti giovani della  zona colpevoli solamente di non aver voluto arruolarsi nelle milizie  dell'Esercito del Libano Meridionale”.
 
 Oggi tutto questo non esiste più. Dopo la guerra del 2006 è rimasto solo un cumulo enorme di macerie.
 
 
  Nel settembre 2006 il comitato per non dimenticare Sabra e Chatila incontra, su queste macerie, il responsabile Hezbollah del Sud del Libano, Sheick Nabil Kaouk. Queste sono le sue parole: “Questo carcere rappresenta la violenza  d’Israele. Qui venivano torturati i nostri combattenti ed i prigionieri  libanesi. Colpire questo carcere significa quindi voler cancellare le  tracce di tutta quella violenza. I nostri giovani hanno condotto una  grande resistenza contro Israele che ha attaccato il Libano usando armi  proibite dalle convenzioni internazionali. Israele ha distrutto case,  ponti, ucciso persone, ma, non la nostra determinazione di vivere.  Grazie alla resistenza, il piano degli Stati Uniti e d’Israele è stato  bloccato, volevano eliminarci, ma noi oggi siamo ancora più forti,  volevano disarmarci, ma noi conserviamo ancora le nostre armi, infine  volevano respingerci oltre il fiume Litani, ma noi siamo sempre presenti  a ridosso del confine con Israele”.
 
 Oggi, come negli scorsi anni, il comitato è ancora presente e non  dimentica questi luoghi di memoria, come il partito Hezbollah non  dimentica Stefano Chiarini, giornalista de “Il Manifesto” e fondatore del comitato.
 
  Lasciato il carcere di Khiam, la delegazione si dirige verso Fatima Gate, il confine con Israele. Non è possibile scendere dal pulman e neppure scattare fotografie.
  
 
  La giornata termina con la visita al museo della resistenza di Mlita, inaugurato da Hezbollah il 21 maggio scorso.Mlita rappresenta il luogo dove è nata e si sono svolte  le più grandi operazioni di resistenza contro l’occupazione israeliana  dal 1982 al 2000. La storia della resistenza è così diventata arte.  Hanno collaborato a questo progetto circa 500 persone con circa 150mila  ore di lavoro. Il museo occupa circa 60mila metri quadrati di  superficie. Inizia da un fossato di circa 3000 metri quadri, chiamato “Abisso”, che rappresenta la sconfitta d’Israele, formato da armi, veicoli e carri armati. Vicino c’è la sala “L’esibizione” dove si trovano i vari equipaggiamenti militari israeliani. La seconda zona è chiamata “Il sentiero”, un percorso dentro una foresta con le varie postazioni dei combattenti. Al termine del “sentiero” si trova la “grotta”,  una caverna costruita dagli stessi combattenti per rifugiarsi durante i  bombardamenti, dove si trovano cucine, stanze da letto e varie armi.
 Mlita è il museo realizzato per invitare a comprendere,  di generazione in generazione, il valore della resistenza contro ogni  occupazione.
  
 Dopo la consueta riunione nella sala  stampa libanese di tutte le delegazioni presenti per ricordare la strage  di Sabra e Chatila, quella italiana incontra il responsabile internazionale del partito politico Hezbollah, Ammar Musawi.L’argomento principale è Israele e la sua continua arroganza nel  continuare a commettere qualsiasi azione senza mai renderne conto.  Nessun tribunale internazionale ha mai condannato l’occupazione  israeliana ed i suoi collaboratori.
 Musawi non ha nessuna fiducia verso le trattative in corso tra Israele e Palestina: “Non  siamo di fronte ad un risveglio delle coscienze – dice - in realtà  manca la determinazione di trovare una soluzione e, purtroppo, non sono i  primi negoziati e non saranno nemmeno gli ultimi”.
 “Dove sono le buone intenzioni? – prosegue Musawi – Israele  continua la costruzione di nuovi insediamenti, l’obiettivo non è  raggiungere una pace, Obama ha bisogno, in questo momento difficile, di  avere una buona immagine mediatica, quindi, le trattative continuano,  come la speranza, da 40anni. La resistenza è considerata un ostacolo per  la pace, ma la resistenza si è resa necessaria per la delusione delle  masse arabe, di fronte alle continue promesse mai realizzate. Noi  chiediamo alle grandi potenze di cessare la colonizzazione di altre  parti del mondo, noi possiamo essere amici, ma non seguaci”.
 Musawi richiama poi l’attenzione della delegazione verso il problema, sempre molto discusso, dell’olocausto. Rimarca la condanna, da parte del suo partito, per l’uccisione d’innocenti a prescindere dal numero delle vittime e domanda: “L’olocausto  è successo in Europa, perché ne dobbiamo pagare noi le conseguenze?  Perché non si può discutere su quello che fa Israele senza essere  accusati di antisemitismo? Questa è un’usurpazione mentale! Non può  essere una scusa per poter uccidere altre persone, non c’è  giustificazione, Israele parla sempre di autodifesa, ma da chi si deve  difendere?”. “Hezbollah è un avversario di Israele – continua – siamo sulla lista del terrorismo americano da 20anni, non abbiamo paura”.
 La discussione, a questo punto, prosegue sull’assassinio di cinque anni fa del primo ministro Rafiq Hariri.  Omicidio, come già sentito dire in altri incontri politici, avvenuto in  un momento molto critico per il Libano. In un primo momento la  responsabilità è caduta sulla Siria, senza nessuna prova, ed ora la sua  imputabilità è verso il partito Hezbollah.
 “Abbiamo capito – dice ancora Musawi – che questo assassinio sarà utilizzato per altri motivi politici. Ma perché l’assassinio di una sola persona merita il tribunale internazionale?  Decine di migliaia di palestinesi e libanesi hanno il diritto di avere  un tribunale internazionale, come per esempio, le vittime di Sabra e Chatila, Gaza, Kana…  siamo di fronte ad una giustizia internazionale molto sproporzionata!  L’accusa contro Hezbollah è motivata dalla nostra resistenza contro  Israele e, quindi, siamo un avversario degli Stati Uniti e di quella  parte di Occidente che appoggia Israele. Molti sono stati i tentativi di  farci passare come un partito d’assassini e non di resistenza, siamo  determinati a riaffermarci come un partito di resistenza e lanciamo una  sfida a chiunque pensi di poter trovare anche una sola prova contro di  noi. Abbiamo combattuto un esercito che stava occupando la nostra terra,  ci siamo autodifesi. Se questo è il concetto di giustizia  internazionale, è miserabile come risposta e, le accuse contro  Hezbollah, servono solo a creare un solco tra i palestinesi. E’ un  tentativo per dire ai sunniti libanesi che gli sciiti hanno assassinato  il loro leader, è un invito quindi alla lotta tra le due confessioni.  Noi vogliamo sapere chi ha ucciso Hariri, ma questo non deve essere  strumentalizzato dalla politica. Rafik Hariri è stato ucciso cinque anni  fa, la commissione d’inchiesta ha ascoltato tantissime persone, ma non  Israele. Israele ha invaso tante volte il Libano, ha creato  collaborazionisti, ci sono state uccisioni di uomini politici, ma  nonostante tutto questo è sempre stato sollevato da ogni sospetto”.
   
    
  I componenti della delegazione chiudono l’incontro porgendo a Musawi  alcune domande che riguardano l’unità palestinese, una nuova probabile  guerra, il diritto al ritorno, lo stato unico palestinese ed il  movimento “terroristico” Hezbollah.    Musawi risponde invitando i suoi  fratelli palestinesi ad essere più uniti perché la divisione rappresenta  solo un punto di debolezza. Una nuova guerra? Non esclude niente Musawi perché Israele può  fare qualsiasi cosa, ma, considerando il periodo difficile che sta  attraversando l’America, forse, il pericolo di un nuovo conflitto non è  imminente.
 Il diritto al ritorno è un diritto sacrosanto e qualsiasi passo che si fa per neutralizzarlo è un tradimento verso la causa palestinese.
 Musawi ammette che l’idea di uno stato unico è buona, ma richiede la fine dello stesso progetto sionista. “Si  deve distinguere il popolo ebreo dal progetto coloniale d’Israele. Gli  ebrei hanno sempre vissuto bene con gli arabi, non sono mai stati  perseguitati dall’Islam, ma non possiamo dire che questo può essere lo  stato di tutti gli ebrei del mondo, può esserlo solo per quelli che ci  abitano. Israele è l’unico stato al mondo in cui si parla di diritti ai  cittadini secondo solo la religione e la lingua di appartenenza”.
 Per l’ultima domanda Musawi ribatte che il movimento Hezbollah è  considerato terrorista solo perché si trova sulla lista nera americana.  Molti stati seguono le indicazioni statunitensi, infatti, anche  l’ambasciata italiana in Libano non ha contatti con Hezbollah. Una parte  del popolo italiano è schierata per la pace e per la causa Palestinese,  mentre il suo governo sta con Israele. C’è un’enorme contraddizione in  questi governi perché da una parte si dichiarano a favore della difesa  dei diritti umani, mentre dall’altra offrono amicizia ad uno stato che  non li applica minimamente.
 
 L’ultimo incontro politico del comitato è con il Partito Comunista Libanese.
 Il segretario generale Dr. Khaled Hadada inizia il  discorso puntualizzando che il suo partito non essendo confessionale è  penalizzato perché non può far parte del parlamento libanese. Il Pcl ha  avuto un ruolo molto importante nella difesa del paese con Hezbollah  durante l’ultimo conflitto del 2006.
 “Il Partito Comunista Libanese è stato una delle forze politiche che  si è sempre opposto all’arroganza e all’aggressione israeliana –  afferma il Dr. Hadada - siamo stati i primi a prendere le armi contro  l’invasione sionista del 1982. Ora stanno portando avanti le trattative  con il principio dell’ebraicità dello stato. Tutti spingono perché  queste trattative vadano avanti. Noi crediamo che l’America ed Israele  stiano preparando una nuova guerra al Libano, un attacco al popolo  libanese e palestinese. Il nostro partito ha avuto tanti martiri e  migliaia di feriti e prigionieri. A causa del sistema confessionale non  c’è unità nel popolo libanese, rendendo quindi il paese debole e  soggetto ad incursioni. Quello che indebolisce la resistenza,  indebolisce il sistema stesso. Il nostro piano è la solidarietà di tutti  gli amici del mondo”.
 
 Alla domanda: quando sarà la prossima guerra?
 Hadada risponde: “Ci sono le condizioni per una nuova guerra, ma  prima di attaccare l’Iran direttamente, lo faranno con gli altri paesi  amici (Hamas, Hezbollah, Siria) che non potranno restare a guardare,  quindi potranno colpire il Libano o la Palestina per tagliare loro le  ali e gli aiuti. Non succederà tra due, tre mesi ma più avanti nel  tempo. Dobbiamo essere pronti. Sarà una mina che non scoppierà solo nel  Libano, ma avrà un effetto devastante tra sunniti e sciiti in tutto il  mondo”.
 
 All’ultima domanda: non vi sembra strano che Hezbollah faccia parte del governo?
 “Qualsiasi legge elettorale – risponde Hadada – è il frutto  dell’accordo tra le varie confessioni. Non c’è posto per il Pcl perché è  trasversale e non vuole diventare alleato di qualcuno. Non possiamo  dare il voto e non possiamo stringere alleanze, non c’è posto per noi in  questo tipo di confessione, neppure all’opposizione, non ci vogliono né  qui né lì”.
  
      
 Il comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” non incontra solo partiti politici e giornalisti ma anche uomini, donne e bambini palestinesi e libanesi. Questi sono gli incontri dolorosi,  come diceva Stefania in un suo intervento, in quanto non possiamo  offrire loro una speranza di giustizia, ma solo la nostra più totale  solidarietà ed impegno nel portare la verità di questa situazione a  conoscenza di tutti, fuori da questi confini.  Le condizioni di vita  all’interno dei campi profughi palestinesi in Libano non migliorano con  il passare degli anni, in quanto subiscono l’influenza delle difficili  situazioni politiche sia interne e sia esterne. Non manca solo la così  detta Giustizia per la loro condizione di popolazione aggredita ed  espulsa, ma anche la semplice considerazione che si sta parlando di “esseri umani”  con i loro diritti. Visitare i campi, addentrarsi nelle piccole sporche  viuzze, senza nessun sistema fognario, idrico o elettrico, diventa,  anno dopo anno, sempre più frustrante. Si notano anche alcune diversità,  purtroppo negative, come un maggior numero di donne velate e bambini  che possiedono un’arma giocattolo. La guerra è ormai dentro i loro  giochi. Le loro aspettative per un futuro migliore sono praticamente  uguale a zero. Le bambine invece sono più gioiose, pronte a regalarci un  sorriso.  
  Il programma della delegazione prevede uno spettacolo di musica e ballo con i ragazzi del campo Burji al Shamali.  Questo è il momento più sereno di tutta la settimana. I volti  sorridenti di queste ragazze e ragazzi, attraverso la musica ed i canti  popolari delle terre che non hanno mai conosciuto, rappresentano  l’umanità di tutto il popolo palestinese, la memoria della storia ed il  futuro della Palestina.  
      
  Da un momento di gioia in un campo si passa ad un altro invece carico di tristezza, ricordi, rabbia e dolore: è il campo di Chatila.  L’incontro con i familiari delle vittime del massacro è sempre atteso.  Si ritrovano conoscenze, amicizie fatte solo di sguardi, abbracci,  strette di mano e sorrisi. Il tempo a disposizione è sempre troppo poco  e, spesso si ritorna in piccoli gruppi, per far conoscere, a chi non è  mai stato qui, le persone ed i vicoli di Chatila. E’ diventata una città  dentro un’altra città cresciuta in altezza con più di ventimila  persone. L’aria malsana, l’umidità, la mancanza di luce e la cattiva  alimentazione sono i fattori che determinano le molte malattie tra la  popolazione, dal diabete, al cancro ed alla mortalità infantile.Ci sono altre occasioni per rincontrare le donne di Chatila e, questa  non è solo una settimana di ricordi dolorosi, ma vuole anche essere la settimana dedicata alla causa palestinese visibile a tutte le forze politiche del mondo arabo ed occidentale.
  
  
  La manifestazione per l’anniversario del massacro di Sabra e Chatila  ( v.Storia di Sabra e Chatila  ) compiuto nel 1982 nei due campi  palestinesi alle porte di Beirut dalle falangi libanesi con la  complicità attiva d’Israele è al centro delle iniziative del comitato in  Libano.
 
 Le foto della manifestazione   
  Alcuni componenti della delegazione sono riusciti a tornare, dopo molti anni, anche al Gaza Hospital a Sabra.  Un tempo era stato l’ospedale, gestito dalla Mezzaluna Rossa  Palestinese, dove le palestinesi e libanesi del campo andavano a  partorire i loro bambini, dove i sanitari cercavano di soddisfare le  esigenze sanitarie dei rifugiati e dove sventolava un’enorme bandiera  della Croce Rossa. Era il secondo ospedale più importante del Libano e,  per la sua posizione urbanistica, dominava il campo di Chatila, diventando così il testimone del massacro del 1982. Ora è diventato un luogo inabitabile dove vivono i palestinesi e libanesi rimasti senza casa e senza risorse economiche.  Un campo profughi sviluppato solo in verticale. L’entrata è buia,  maleodorante, per arrivare alle scale e per salire ai piani superiori è  necessario avere una torcia o dei fiammiferi. Le condizioni nelle quali  sono costretti a vivere sono indegne per qualsiasi essere umano.   
    
  La storia di questo campo è raccontata dal documentario di Marco Pasquini “Gaza Hospital” presentato al comitato l’ultima sera di permanenza in Libano. Il racconto è condotto da Youssef,  barbiere palestinese che dal 1987 abita nel cortile dell’edificio  insieme alle testimonianze di chi ha lavorato come personale medico o  amministrativo al Gaza Hospital, come Swee Chai (chirurgo ortopedico di nazionalità malese), Ellen Siegel (infermiera ebrea americana) e Aziza Khalidi (amministratrice palestinese). Swee Chai di religione cristiana era arrivata,  attraverso un’opera di carità britannica, a Beirut per lavorare in un  ospedale durante la guerra e, fino al giorno del massacro, considerava  “terroristi” i palestinesi e la sua solidarietà era rivolta ad Israele.  Nel 1982 lavorava al Gaza Hospital e fu una dei testimoni contro Ariel  Sharon. Dopo quest’esperienza, ha fondato il M.A.P. (Madical Aid for Palesatine).
 Ellen Siegel, all’epoca dell’invasione israeliana, si  trovava come volontaria al Gaza Hospital. Nel 1983 ha testimoniato  contro Ariel Sharon presso la Commissione d’inchiesta Israeliana sul  massacro di Sabra e Chatila.
 Ellen è tornata dopo 21 anni nei campi profughi  palestinesi in Libano ed ha scritto una lettera che è un atto sia di  amore e sia di accusa.
 
 “Miei cari amici, per la prima volta dopo vent’anni, sono  recentemente tornata a Beirut, a Chatila e al Gaza Hospital a Sabra,  dove avevo lavorato come infermiera volontaria quell’estate del 1982.  Sono tornata per ripercorrere quella tragica esperienza… La Commissione  d’inchiesta israeliana decise che Sharon aveva una responsabilità  indiretta – una conclusione contestata da molti al di fuori  dell’establishment israeliano. I falangisti portarono avanti  materialmente il massacro di uomini, donne e bambini e anche di loro si  dovrà tenere conto nella nostra ricerca di giustizia. Di sicuro i  Palestinesi sopravissuti non potranno mai avere un processo equo in  Israele. Basta pensare che il governo israeliano ha respinto ogni  responsabilità anche in un caso come quello della morte di Rachel  Corrie. Sembra che il guidatore del bulldozer non avesse visto la  ragazza che stava davanti al mezzo agitando le mani. Se Rachel Corrie,  cittadina americana non ha potuto avere giustizia in Israele figuriamoci  gli abitanti palestinesi di Sabra e Chatila. In ogni caso, i vostri  amici d’ogni parte del mondo cercheranno ora di aiutarvi il più  possibile e in questo ventunesimo anniversario saranno ancora al vostro  fianco. Scriveremo lettere, faremo telefonate, scriveremo articoli,  manderemo e-mail, organizzeremo dibattiti, invieremo interventi. Mentre  voi ancora aspettate giustizia sappiate che la vostra causa non è stata  abbandonata e non lo sarà mai… (da “Il Manifesto” 16/09/2003)
   
 
 La Verità è Sempre Rivoluzionaria(A.Gramsci)
 13/12/2010  
   
	
	
LE VERITA’ NASCOSTE
     Oggi 29 novembre 2010, l’Onu celebra la Giornata Internazionale di Solidarietà con il popolo palestinese.  La Tavola della Pace  ha elencato, in questa occasione, dieci notizie sui palestinesi che i  media tendono a nascondere. Una buona occasione  per farci riflettere  sulla condizione dei palestinesi profughi nel mondo e di coloro che  vivono sotto occupazione israeliana.
 1. Privati da oltre sessant’anni della libertà, 4 milioni di palestinesi sono costretti a vivere sotto il peso dell’occupazione militare israeliana. 2.2 milioni hanno meno di 18 anni. Più di 1.800.000 palestinesi vivono da rifugiati nella propria terra. Quasi 3 milioni vivono in Giordania, Libano e Siria. Più di 20.000 palestinesi vivono rinchiusi in un campo profughi nel Città Santa di Gerusalemme.
 2. Dall’inizio del 2010, l’esercito israeliano ha ferito 1074 palestinesi  (in prevalenza giovani e bambini) che protestavano contro  l’occupazione, contro l’espansione degli insediamenti e contro la  costruzione del muro. Nel 2009 ne sono stati feriti 764.
 3. Da quando il 26  settembre è finita la moratoria sulla costruzione di insediamenti nei  territori occupati, i coloni israeliani hanno costruito 1650 case nuove, poco meno del totale di quelle costruite nel 2009.
 4. Ai palestinesi invece  non è permesso di costruire o ingrandire la propria casa in tanta parte  della propria terra. Dal 24 novembre le autorità israeliane hanno  abbattuto 18 case palestinesi e una moschea. 54 persone sono state gettate per la strada.
 5. Il 23 novembre un  gruppo di coloni israeliani accompagnati dalla polizia israeliana si  sono impossessati di un palazzo palestinese di tre appartamenti di  Gerusalemme. Tre famiglie palestinesi con 5 bambini sono finiti per  strada. In luglio i coloni israeliani hanno fatto lo stesso con le case  di altre 29 persone e otto famiglie. Osservatori internazionali parlano di “pulizia etnica”.
 6. Nella settimana tra il 10 e il 23 novembre, l’esercito israeliano ha condotto 57  incursioni e arresti di palestinesi nelle città e nei villaggi della  West Bank e a Gerusalemme. Un po’ meno della media settimanale che nel  2010 è di 93 incursioni e arresti.
 7. Dall’inizio dell’anno i  coloni hanno aggredito i contadini palestinesi o distrutto le loro  proprietà agricole, sradicando e bruciando migliaia di ulivi secolari,  in media 6 volte alla settimana. Questa settimana (10 e il 23 novembre) le aggressioni sono state 7, una al giorno.
 8. Nonostante il ritiro del 2005, Israele continua a controllare tutti gli aspetti fondamentali della vita di 1,5 milioni di palestinesi che abitano nella Striscia di Gaza. Dall’inizio del 2010, 58 palestinesi sono stati uccisi e 233 feriti. La maggioranza erano civili. Prima dell’inizio dell’assedio, dalla Striscia di Gaza entravano e uscivano in media 650 persone al giorno. Oggi ne passano 340. I palestinesi di Gaza hanno la corrente elettrica solo per 12 ore al giorno. L’acqua arriva nelle case ogni due giorni, per poche ore. E in alcune zone arriva solo ogni 5 giorni.
 9. Ai palestinesi non è concesso di circolare liberamente nella propria terra. Il muro di 700 km costruito dagli israeliani nella West Bank  separa molti palestinesi dai loro terreni, dai posti di lavoro e dai  familiari. Il resto lo fanno una serie di coprifuoco, circa 600 posti di blocco  e altri ostacoli. Per spostarsi spesso i palestinesi devono chiedere un  permesso che spesso non arriva. A molti palestinesi viene così negata  la possibilità di accedere alla terra, al lavoro, alle strutture  scolastiche e ai servizi di base.
 10. Israele continua a  negare ai palestinesi l’accesso all’acqua, intralciando lo sviluppo  socioeconomico e ponendo a repentaglio la loro salute. Un palestinese  può utilizzare al massimo 70 litri di acqua al giorno, meno del minimo necessario. Un israeliano ne consuma 4  volte di più. L’esercito israeliano ha ripetutamente distrutto le  cisterne di raccolta di acqua piovana usate dai palestinesi con la  motivazione che erano state costruite senza permesso.
 
 
	
	
TERRA SANTA: UNA TERRA IN ATTESA DI PACE E GIUSTIZIAMirca Garuti
 
 intervista: Don Nandino Capovilla - coord. Naz. di Pax Christi e referente per la Palestina e Israele 
conferenza:PIAZZA PULITA: LA NAKBA (TRAGEDIA) PALESTINESE
 con: Don Nandino Capovilla
 
 “Non ci vogliono parole per descrivere 700  Km di muro, … come non dobbiamo dimenticare, quando parliamo del 48'  come anno della nascita dello stato d'Israele, che è stato anche l'anno  della cacciata del popolo palestinese.”
 
 Il dibattito con il pubblico:
 “Cosa possiamo fare noi quando andiamo in pellegrinaggio a Gerusalemme?”
 “E' vero che cacciano i palestinesi dalle loro case per consegnarle ai coloni? Che gli tolgono l'acqua?”  09/11/2010
 
   
 
 
	
	
Negazione della Shoah…e negazione della Nakba (1°)
 Intervista a Gilbert Achcar di Eldad Beck (2°)
 
  
 Questa intervista  è stata pubblicata dal quotidiano israeliano "Yedioth Ahronoth", il principale quotidiano israeliano il 27 aprile 2010.
 
 «Il fenomeno della negazione della Shoah nel mondo arabo è sbagliato, inquietante e danneggia la causa palestinese».
 Nel suo nuovo libro, l’accademico franco-libanese Gilbert Achcar affronta per la prima volta gli atteggiamenti arabi nei riguardi della Shoah.
 Gilbert Achcar ha lasciato il Libano nel 1983, durante la prima guerra di grande portata fatta da Israele nel suo Paese. Circa trenta anni più tardi, Achcar, professore di relazioni internazionali presso la School of Oriental and African Studies  (SOAS) di Londra, militante di sinistra e per la pace, afferma che la  guerra brutale tra Israele e i palestinesi in Libano ha segnato una  svolta nello sguardo che il mondo arabo aveva verso la Shoah. Sostiene  che i paragoni che il primo ministro israeliano Menahem Begin fece all’epoca tra Yasser Arafat e Hitler  e tra i nemici di Israele e i nazisti hanno svalorizzato la Shoah e  spinto molti in campo arabo a paragonare a loro  volta Israele ai  nazisti e anche a pretendere che Israele abbia inventato la Shoah per  giustificare la propria politica in Medio Oriente.
 Il ricercatore francese di 59 anni ha pubblicato un nuovo libro in Francia, il cui titolo rivela il suo contenuto inconsueto: "Les Arabes et la Shoah". In quest’opera, Achcar – che ha già pubblicato dei libri con il militante di sinistra statunitense Noam Chomsky e con l’israeliano Michel Warschawski – affronta per la prima volta un soggetto molto intenso: l’atteggiamento degli arabi nei riguardi della Shoah dall’arrivo dei nazisti al potere fino ad oggi. Il  libro, che non evita gli aspetti più problematici della questione, è  appena uscito in due edizioni arabe, a Il Cairo e a Beirut.
 Achcar è nato in Senegal da una famiglia di emigrati libanesi, ma è cresciuto e ha studiato in Libano. «Ho  frequentato un liceo francese in Libano e ho sentito parlare della  Shoah molto presto. Sono un umanista. La Shoah è stata sempre molto  importante per me». Qualche anno fa, gli hanno chiesto di scrivere  un articolo per una pubblicazione accademica [Storia della Shoah, UTET]  sul rapporto tra gli arabi e la Shoah. La ricerca che ha intrapreso per  l’articolo l’ha portato a scrivere questa voluminosa opera sulla  questione.
 G. Achcar, che ha insegnato a Parigi e Berlino, inizia il suo libro con una citazione del vangelo di Matteo: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?». In questa intervista con Yedioth Ahronoth, la prima che egli abbia mai rilasciato a un giornale israeliano, Achcar spiega: «La lezione di questa parabola è che prima di criticare gli altri, ci si dovrebbe chiedere cosa non va in se stessi». Egli prosegue chiedendo cosa non va in noi: «In  campo israeliano, una serie di accuse sono state mosse contro il mondo  arabo riguardo alla Shoah senza alcuna autocritica. Vi sono alcuni  scrittori  israeliani talmente egocentrici che non riescono a capire che  le loro accuse contro  il mondo arabo potrebbero essere ugualmente  rivolte a Israele – talvolta a più forte ragione. Nondimeno la parabola  si applica anche agli arabi, ben inteso. Nel mio libro, ho cercato di  affrontare alcune vicende attuali che ritengo inaccettabili. Non difendo  alcuno in modo acritico. Penso sia auspicabile avere uno sguardo  critico verso il gruppo cui si appartiene prima di criticare gli altri».
 
 Può essere più specifico?
 G.ACHCAR: Riguardo al campo arabo, non ho alcuna simpatia per ciò che il Mufti di Gerusalemme, Hajj Amin al-Husseini,  ha fatto durante la Seconda Guerra mondiale. Penso anche che la  negazione della Shoah nel mondo arabo sia sbagliato, inquietante, e che  danneggia la causa palestinese. Ma dal lato israeliano, come potete  criticare la negazione della Shoah nel mondo arabo mentre anche Israele  nega la Nakba palestinese?Non sto paragonando l’espulsione del 1948 con la Shoah. La Shoah è stata un genocidio e una tragedia ben più grande della sofferenza palestinese dal 1948. Ma non sono gli arabi e i palestinesi che hanno commesso la Shoah, mentre Israele è responsabile della Nakba.  Degli storici israeliani lo hanno dimostrato. Tuttavia, Israele  continua a negare la sua responsabilità storica in questo dramma. L’ex ministro degli Esteri Tzpi Livni ha protestato presso il segretario generale delle Nazioni Unite per l’uso del termine Nakba, che in arabo significa «catastrofe». Come se si protestasse contro l’uso fatto da Israele del termine Shoah.
 Nel mio libro, denuncio vigorosamente i  negazionisti palestinesi e arabi, che oggi sono più numerosi che trenta o  quaranta anni fa. Si tratta principalmente di una reazione provocata  dalla rabbia piuttosto che negazionismo deliberato. Il palestinese o  l’arabo che pretende che la Shoah sia stata inventata dai sionisti per  giustificare le loro azioni reagisce all’uso della Shoah da parte di  Israele per le proprie necessità
 È una reazione stupida. Credo che la negazione della Shoah sia l’antisionismo degli imbecilli. Ma queste sono persone che negano un evento storico nel quale il loro popolo non ha svolto alcun ruolo. Invece, la negazione della Nakba da parte di Israele è molto più importante, perché è Israele che ne è stato responsabile.  Quello è stato un momento decisivo nella fondazione di Israele. Anche  altri Paesi si sono costituiti in circostanze simili, ma bisogna  riconoscere la realtà e la responsabilità storica. L’oppressione attuale  dei palestinesi aggrava la situazione.
 
 Anche chi non è d’accordo con  tutto ciò che scrive Achcar dovrà riconoscere che ha coraggiosamente  affrontato una questione divenuta tabù nel mondo arabo in questi ultimi  anni.
 Suppongo che se l’argomento non mi  fosse interessato non mi avrebbero chiesto di affrontarlo. Le persone  che me lo hanno chiesto sapevano che capivo l’importanza storica della  Shoah e che avevo la sensibilità necessaria per affrontare questa  vicenda. Sapevo dall’inizio che era un argomento delicato e che tutte le  parti in conflitto avevano un racconto diverso, soprattutto riguardo  l’atteggiamento del mondo arabo verso la Shoah. C’è molta propaganda su  questa questione. Avevo la sensazione che ci fossero descrizioni molto  caricaturali delle posizioni storiche. Nel corso della ricerca, ho  scoperto che è ancora peggio di ciò che pensavo, e che c’erano  deformazioni sostanziali.
 Lei afferma al di là di ogni  equivoco nel suo libro che non vi è paragone tra la Shoah e la Nakba,  contemporaneamente esiste un rapporto tra questi due eventi.
 Il rapporto è evidente. Senza la Shoah e senza l’ascesa del Nazismo, non penso che il progetto sionista si sarebbe realizzato. Se osservate l’immigrazione in Palestina prima del 1933 e la flessione del numero di immigranti dopo lo scoppio degli moti del 1929,  appare chiaro che senza il terribile fenomeno chiamato Nazismo e  l’imperversare dell’antisemitismo in Europa, non vi sarebbe stata quella  massiccia migrazione ebraica verso la Palestina che ha permesso la  costituzione di Israele. L’ascesa di Hitler al potere e tutto ciò che è avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale hanno dato legittimità all’idea sionista. Dopotutto, il Sionismo era un’ideologia minoritaria tra le comunità ebraiche prima dell’ascesa del Nazismo.  La gran parte degli ebrei europei non erano sionisti. Per di più, vi è  stata l’ipocrisia del mondo occidentale che ha chiuso le porte ai  rifugiati ebrei.Vi sono degli accademici israeliani che  sostengono che i palestinesi  abbiano una responsabilità  nella Shoah  perché si sono rivoltati e hanno preteso che i britannici limitassero  l’immigrazione ebraica in Palestina. Avrebbero così impedito a centinaia  di migliaia di ebrei di immigrare in Palestina e causato il loro  sterminio nella Shoah. Si tratta di un argomento molto tendenzioso.  Perché rimproverare ai palestinesi di essersi rivoltati contro un  progetto il cui scopo esplicito era di impiantare uno Stato straniero  nel loro territorio e dimenticare che mentre i britannici restringevano  l’immigrazione ebraica in Palestina, essi stessi avrebbero potuto  permettere agli ebrei di immigrare nel loro Paese e in tante parti del  vasto impero che controllavano?
 Si potrebbe dire altrettanto degli Stati Uniti e di altri Paesi del mondo intero che presero parte alla Conferenza di Evian nel 1938 convocati dal presidente Roosevelt e che rifiutarono di accogliere dei rifugiati ebrei sul loro territorio. Sono questi che sono responsabili della Shoah e non i palestinesi. La  Shoah ha creato le condizioni che hanno permesso la realizzazione del  progetto sionista, progetto che non era possibile realizzare con metodi non violenti. È la realizzazione violenta del progetto sionista che ha creato la Nakba: questi sono i risultati di questi sviluppi.
 
 La cooperazione di alcuni partiti  arabi con i nazisti derivava da un’ideologia comune, o si trattava di  una tattica politica nello spirito del detto secondo il quale: «il  nemico del mio nemico è mio amico»?
 Mi sembra evidente che per quel che riguarda il Mufti al-Husseini  c’era una combinazione di opportunismo politico e affinità ideologica  antisemita. Il Mufti non condivideva la visione del mondo a livello  politico, sociale ed economico dei nazisti. Questi aspetti  dell’ideologia nazista non lo interessavano. Invece, l’odio per gli  ebrei e i britannici costituiva una base comune tra questi e i nazisti.  Non era organicamente nazista, ma piuttosto collaboratore dei nazisti.  Egli ha sviluppato un odio per gli ebrei che convergeva con  l’antisemitismo nazista. Egli, d’altronde, non lo ha nascosto. Nelle sue  Memorie, recentemente pubblicate, esprime una visione del mondo chiaramente antisemita.
 Come spiega l’accoglienza calorosa che ha ricevuto nel mondo arabo dopo la Seconda Guerra mondiale?
 L’idea che il Mufti avrebbe ricevuto  un’accoglienza trionfale nel mondo arabo è un mito. Il fatto che i  palestinesi l’abbiano trattato come un dirigente nazionale perseguitato  dai loro nemici – i britannici e il movimento sionista – è una cosa. Ma  se lei considera la sua influenza reale nel mondo arabo, anche durante  la guerra, vedrà che questa era molto limitata. Il Mufti ha trascorso il  suo tempo a Berlino e a Roma esortando i palestinesi e gli arabi a unirsi all’Asse italo-tedesco contro gli Alleati e sicuramente contro il movimento sionista. Si stima che solo 6.000 arabi si sono uniti alle diverse organizzazioni armate della Germania nazista.Nello stesso periodo, 9.000 palestinesi arabi hanno combattuto al fianco dei britannici.  Un numero ancora più elevato di arabi hanno prestato servizio nelle  Forze alleate, compreso un quarto di milione di nordafricani che hanno  combattuto nei ranghi gollisti. L’influenza reale del Mufti è stata  quindi trascurabile. Oggi il Mufti è poco considerato nel mondo arabo. È  stato associato alla sconfitta anche prima che lo lasciasse per  l’Europa: la sconfitta della rivolta in Palestina, quella della  rivoluzione mancata contro i britannici in Iraq.
 Il fatto che egli abbia scelto il campo  dei tedeschi ha contribuito al rifiuto nei suoi riguardi, anche tra i  nazionalisti arabi.
 
 Allora perché, si chiede Achcar, il Mufti riceve una simile attenzione in Israele?
 Israele e il movimento sionista non  avevano una risposta all’affermazione dei palestinesi che se la Shoah  era stata qualcosa di terribile, essi non ne erano responsabili e non vi  era, quindi, alcuna ragione perché pagassero per gli atti commessi  dagli europei. Allora i sionisti hanno presentato il Mufti come fosse la prova che i palestinesi erano complici della Shoah.  Così si è costruito il racconto che presenta gli arabi come complici  dei nazisti, che permette di dire che la guerra del 1948 era l’ultima  battaglia della Seconda Guerra mondiale contro i nazisti. Ma questa  narrazione non regge alla prova dei fatti storici. È propaganda.
 Ma la collaborazione non è  limitata al Mufti. Molti criminali nazisti hanno trovato rifugio nei  Paesi arabi e diversi partiti arabi, come il Baas, si sono ispirati  all’ideologia nazista.
 Non esistono prove che il Baas sia stato influenzato ai sui inizi dall’ideologia nazista. Anche il tentativo di presentare il Baas e il suo fondatore, Michel Aflak,  come nazisti è propaganda. Aflak è stato influenzato dalla sinistra ed  era in contatto con comunisti e marxisti che si opponevano al Nazismo.  L’unico elemento probatorio contro di lui è che nella sua biblioteca  aveva una copia della traduzione francese di un’opera di Alfred Rosenberg  [il principale ideologo del movimento nazista e autore del suo  programma razzista – E. B.]. Ciò equivale a dire che chiunque avesse una  copia del Mein Kampf a casa era un nazista.  Coloro che leggono dei libri non sono per forza d’accordo con il loro  contenuto. Se lei parla del Baas degli anni ’60 e ’70, il Nazismo non  esisteva più. Se il partito Baas iracheno di Saddam Hussein ha potuto usare degli argomenti antisemitici, ciò non aveva rapporto con il Nazismo.Vi è effettivamente un certo numero di ex  nazisti che hanno trovato rifugio nel mondo arabo, in Egitto e in Siria.  Contemporaneamente, con l’eccezione di Alois Brunner [braccio destro di  Eichmann], che si è rifugiato in Siria, tra questi non vi era alcun  dirigente nazista che fosse stato parte della macchina di sterminio. Ma  perché questo argomento è usato contro gli arabi, mentre degli amici di  Israele, iniziando dagli Stati Uniti, hanno dato rifugio a dei nazisti e  sostenuto l’emigrazione di criminali molto più importanti di coloro che  hanno trovato rifugio nel mondo arabo?
 
 L’assenza di dibattito sul  collaborazionismo con i nazisti nel mondo arabo ha un impatto sulla  negazione della Shoah nei diversi settori della società araba e  musulmana?
 L’accresciuta tensione fra Israele, gli  arabi e i palestinesi nel corso degli ultimi  anni ha radicalizzato le  posizioni di entrambi i campi. Ma neanche Hamas ha mai  creato delle brigate in nome del Mufti al-Husseini. Non vi sono neanche  missili o strade che portano il suo nome. Non interessa alcuno. L’eroe di Hamas è Izz el-Din al-Qassam. Bisogna capire questo per non lasciarsi ingannare dalla propaganda. D’altronde, se la gente si interessasse veramente al Mufti, non vi sarebbe negazione della Shoah.
 Al-Husseini non era un negazionista. Nelle sue Memorie racconta che Himmler gli disse, nel 1943, che la Germania stava sterminando gli ebrei  e ne aveva già ucciso tre milioni.  Il Mufti scrive con soddisfazione che gli ebrei hanno pagato un prezzo  più alto di quello che dovettero pagare i tedeschi e che un terzo del  giudaismo mondiale aveva trovato la morte. Egli, così, conferma il numero conosciuto delle vittime della Shoah.
 Il negazionismo odierno nel mondo arabo  deriva prima di tutto dall’ignoranza. Bisogna contemporaneamente  distinguerlo dal negazionismo in Occidente, dove costituisce un fenomeno  patologico. In Occidente, queste persone sono dei malati mentali,  sostanzialmente antisemiti. Nel mondo arabo, il negazionismo che esiste  fra alcune correnti dell’opinione pubblica, ancora minoritarie, deriva  dalla rabbia e dalla frustrazione provocate dall’aumento della violenza  israeliana, che si accompagna ad un accresciuto uso della Shoah. Ciò è iniziato con l’invasione del Libano del 1982.
 Menahem Begin ha abusato  della memoria della Shoah, compreso in politica interna. È questo che ha  spinto delle persone nel mondo arabo a reagire nella maniera più  stupida che esistesse, dicendo: se Israele cerca di giustificare le sue  azioni riferendosi alla Shoah, allora questa deve essere una  esagerazione o un’invenzione della propaganda. Più c’è violenza, più  troverà questo genere di reazione, perché si tratta di una sfida  simbolica e non di qualcosa di più profondo.
 
 Lei afferma anche che gli arabi  che paragonano Israele ai nazisti reagiscono al paragone fatto da  Israele tra i dirigenti arabi e Hitler.
 La tendenza a vedere nazisti  dappertutto porta alla banalizzazione di questi ultimi. Hitler è una  figura storica talmente negativa che è assurdo paragonargli il Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad.  Si può pensare ciò che si vuole del Presidente dell’Iran, ma il suo  Paese non ha campi di concentramento, come non è in procinto di  perpetrare un genocidio. L’Iran è una società in conflitto politico; non  è una società totalitaria come la Germania nazista. Il paragone con i nazisti e Hitler è molto frequente anche in Israele. Ben Gurion ha paragonato Begin a Hitler. L’estrema destra ha distribuito delle immagini di Rabin nell’uniforme da SS. Gli israeliani vedono Hitler dappertutto: Nasser, Saddam Hussein, Arafat, Nasrallah. Allora perché sorprendersi che gli arabi facciano lo stesso? Si tratta evidentemente di oltranzismi politici inutili.
 Come si potranno superare i numerosi ostacoli se in campo arabo non si riconosce la sensibilità di Israele verso la Shoah?
 Questa sensibilità è compresa in campo  arabo. Non bisogna vedere gli arabi come un blocco monolitico.  Sicuramente, esistono delle correnti che non lo comprendono, ma questa  non è la posizione della maggioranza. Prenda per esempio Arafat, che è stato demonizzato completamente. Dopotutto, negli anni ’70, l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) ha iniziato un serio sforzo per comprendere questa vicenda. Quando il negazionista francese Roger Garaudy è stato accolto con tutti gli onori nel mondo arabo, Arafat comprese il danno che ciò avrebbe recato alla causa palestinese. Allora chiese di visitare il Museo dell’Olocausto a Washington.  Dato che l’amministrazione del museo rifiutò di accoglierlo con i  riguardi dovuti al suo rango, lui si sentì insultato e annullò la  visita. Egli ha visitato nello stesso periodo la casa di Anna Frank a Amsterdam. Ora, salvo che in Israele, la stampa non ne ha quasi parlato.Persone come Edward Said e  Mahmud Darwish comprendevano in pieno la sensibilità israeliana verso  la Shoah. Bisogna smetterla di fare la caricatura dell’immagine del  nemico, ciò avvelena l’atmosfera. Le garantisco che se Israele avesse un  altro atteggiamento verso il mondo arabo e i palestinesi, un  atteggiamento di pace, questi fenomeni, che si sono rafforzati negli  ultimi anni, sparirebbero molto rapidamente.
 
 09/11/10
 
 1° La versione dell’intervista è in  inglese e si può leggere sul sito:  http://www.truth-out.org/the-league-against-denial59474. Questa  traduzione è fatta sulla base della traduzione in francese realizzata a  cura del sito http://www.alencontre.org. 2° Quest’intervista è stata realizzata  in occasione della pubblicazione dell’ultima opera di Gilbert Achcar,  Les Arabes et la Shoah-La guerre israélo-arabe des récits, Actes Sud  Sindbad, Parigi, 2009.
   
   
	
	
Leggi la 1° parte  I DIRITTI DEI RIFUGIATI PALESTINESIRICORDO DI UN MASSACRO
 di Mirca Garuti
 (seconda parte)
   
 La settimana nel Paese dei Cedri della delegazione “Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila” inizia a Sidone, città del sud del Libano, definita, nel settembre 2006, subito dopo la guerra d’aggressione israeliana, dal sindaco Abdul Rahman Bizri, (v.Diario dal Libano) “della fermezza e della resistenza”,  a dimostrazione di quanto la sua città non fosse soltanto una capitale  amministrativa, ma anche, un simbolo dei diritti legittimi del popolo  libanese. Si calcola, infatti, che tra luglio ed agosto 2006, circa un  milione di libanesi fu costretto ad abbandonare la propria abitazione e,  la città di Sidone, sensibile a queste situazioni, reagì prontamente,  dimostrando la sua piena solidarietà. Tutti quelli che ne avevano la  possibilità misero a disposizione le proprie case agli sfollati. Un  esempio di compartecipazione e d’aiuto, arrivò anche dai profughi  palestinesi che aprirono, per la prima volta, il campo di “Ain el Helweh”, ospitando centotrenta famiglie libanesi, pari circa a diecimila persone.
 
 Gli appuntamenti prevedono la visita alla tomba del martire Maarouf Saad,  sindacalista libanese, ucciso, agli inizi della guerra civile  (1975-1989), per il suo impegno sociale e quello a sostegno della causa  palestinese. Nei primi anni settanta, infatti, il movimento dei  pescatori libanesi era riuscito ad unire le proprie lotte sindacali a  quelle dei progressisti palestinesi, che chiedevano diritti e  democrazia.
 
 Prima di partire verso Qana, facciamo una breve sosta per rendere omaggio al Monumento dei Martiri della Resistenza Nazionale Libanese.
 
 A Qana, invece, la delegazione si reca al cimitero dei martiri caduti durante la guerra del luglio 2006.  Questa città del sud del Libano fu, all’epoca, la protagonista assoluta  di tutti i reportage sul conflitto: una pioggia di bombe ad alta  precisione, lanciata da un aereo israeliano, caduta su un edificio di  tre piani, lo aveva subito dissolto nel nulla, trasformandolo in un  cumulo di macerie, sotto le quali erano rimaste una sessantina di  vittime, di cui trentasette bambini (15 erano disabili). Qana, secondo un alto ufficiale israeliano, era considerata un “covo degli Hezbollah”  e, a suo dire, nei giorni precedenti al massacro, proprio da quel  palazzo, erano stati sparati diversi razzi katyuscia verso città della  Galilea. In realtà, nel palazzo vi avevano trovato rifugio solo molte  famiglie spaventate dalla guerra. Il premier israeliano Ehud Olmert, alla fine, fu costretto ad esprimere un "profondo rammarico"  per la strage che era stata perpetrata a Qana, facendo però ricadere la  piena responsabilità di quanto avvenuto sui miliziani sciiti,  accusandoli di aver usato i civili come "scudi umani".
     Qui abbiamo conosciuto Anna,  una superstite di quel massacro! E’ stata meravigliosa, ha raccontato  la sua storia, il suo terrore sotto le bombe, sola, mentre la sua  famiglia era scappata nel tentativo di mettersi in salvo. Ci ha regalato  il suo sorriso per una confidenza molto personale. Era ancora  arrabbiata nei confronti di un fratello per averla obbligata a non  sposarsi per occuparsi della famiglia! La libertà della donna,  purtroppo, in questi piccoli villaggi del sud del mondo, è ancora  lontana!
         La città martire di Qana non va solo ricordata per questa strage, ma anche per quella del 18 aprile 1996.  Il luogo della tragedia e del ricordo si trova dall’altra parte della  vallata. E’ stata, spesso, una meta del “Comitato per non dimenticare  Sabra e Chatila” negli anni scorsi. Questo ennesimo massacro si colloca  all’interno “dell’Operazione Furore” o “Operazione Grappoli d’ira” scatenata dal primo ministro israeliano Shimon Peres l’undici aprile per fermare la resistenza di Hezbollah. Peres, che nel 1994 aveva ottenuto con Yitzhak Rabin e Yasser Arafat  il premio nobel per la pace, era convinto che solo l’uso di un  massiccio bombardamento dal cielo, da terra e dal mare, avrebbe potuto  dissuadere la popolazione locale dall’appoggiare le milizie di Hezbollah  per la liberazione dei territori occupati del Libano.
 
 “il 18 aprile 1996,  alle 14:10, i cannoni israeliani aprono il fuoco sulla postazione del  reparto fijiano delle forze di peace-keeping a Favjiya-Qana dove hanno  cercato riparo i circa 800 abitanti del villaggio che non sono riusciti a  fuggire. Si tratta in prevalenza di bambini, donne e vecchi. Gli  israeliani lanciano sui tre rifugi circa 12 scariche di proiettili da  155mm, donati loro dagli USA. Tali proiettili sono progettati per  esplodere a 7 metri d’altezza per poter uccidere il maggior numero di  persone o produrre amputazioni letali.  7 bombe colpiscono, con voluta  precisione, i ripari del battaglione fijiano. La carneficina è  spaventosa. In ciò che resta dei ripari, distrutti e incendiati,  giacciono i cadaveri di 102 civili arabi, in un ammasso di corpi  irriconoscibili, alcuni dei quali stanno ancora bruciando. I feriti,  molti dei quali in condizioni gravissime, sono 116.
 Nel massacro muoiono anche 4 militari del  battaglioneONU delle Fiji.”(dalla “Diaspora Palestinese in Libano ed i  tempi della guerra civile” di Mariano Mingarelli)
     Gli incontri politici iniziano con la visita ai rappresentanti delle diverse fazioni dell’OLP. La delegazione è accolta dal Dr. Abudallah Abudallah,  ambasciatore dell’Olp in Libano. Una rappresentanza riconosciuta solo  il 15 maggio 2006, dopo ben ventiquattro anni di sospensione, da quando  in pratica Arafat e l’Olp furono costretti ad abbandonare il paese che fino allora li aveva ospitati. 
 Due anni fa, il precedente delegato, Abbas Zaki, rivolgendosi alla stessa delegazione aveva detto: “Nell’ultimo  anno abbiamo dovuto affrontare, a Gaza, il golpe dei nostri fratelli di  Hamas, ma siamo riusciti a non scivolare in una guerra civile,  programmata, invece, dai nostri nemici. Il nostro popolo non vuole un  sistema confessionale, non vuole una nazione con un’unica religione,  dobbiamo invece convincere l’opinione pubblica mondiale che la nostra è  la causa più sacra di tutte le cause in assoluto. Siamo decisi, ora, a  riprendere il cammino verso l’unità nazionale, dopo tutte le sofferenze  dovute alle nostre divisioni interne, perché l’unità è vita, la  divisione è morte e, noi abbiamo scelto la vita”.
 
 Dopo due anni, però, la situazione non è  mutata, anzi il persistere delle divisioni interne tra le diverse  fazioni, separa sempre di più il dibattito politico dai sentimenti e dai  bisogni del popolo palestinese.
 Abudallah Abudallah  presenta alla delegazione i rappresentanti delle diverse fazioni: il  Partito del popolo, il Fronte Democratico per la liberazione della  Palestina, Al-Fatah in Libano, Il Fronte Arabo per la liberazione della  Palestina, l’Olp in Libano, il Fronte popolare per la liberazione della  Palestina ed il Fronte per la lotta palestinese. Nel suo discorso ripete  quasi le parole di Abbas Zaki: “Vorrei che qui ci fossero tutte le  rappresentanze della Palestina. Voi venite qua a portare la vostra  solidarietà a tutto il popolo palestinese senza fare alcuna differenza  tra le varie organizzazioni, speriamo che ciò sia possibile il prossimo  anno. La lotta è di tutti e per tutti. Ogni paese arabo ha una visione  di una sua Palestina, manca l’appoggio, quindi, dei paesi arabi, ma  anche la solidarietà a livello internazionale. Continueremo la nostra  lotta giusta per far cadere il sionismo. Le risoluzioni delle Nazioni  Unite riconfermano i diritti del popolo palestinese, diritti  inalienabili, come il diritto al ritorno. Ci sono punti nelle trattative  di pace che non possono essere separati. Non possiamo accettare una  soluzione parziale. I punti essenziali sono: i territori del ’67,  Gerusalemme, la colonizzazione dei territori occupati, l’Acqua e la  liberazione di tutti i prigionieri”.
 
 Gli interventi delle altre fazioni politiche presenti toccano anche il problema delle pessime condizioni di vita dei palestinesi in Libano.  E’ ribadita la deduzione che la mancata concessione di aiuti al popolo  palestinese rientra nel progetto di voler eliminare tutti i Palestinesi  sul suolo libanese.  Questo è stato, infatti, uno dei motivi che hanno  scatenato il massacro di Sabra e Chatila.
 I componenti della delegazione sono quindi  sollecitati da Abudallah Abudallahi a proseguire nella loro azione di  denuncia, di protesta e di pressione sul governo libanese.
 Esistono tanti altri profughi nel mondo, ma i palestinesi sono un caso particolare, sono profughi sulla loro stessa terra.
     A rendere evidente la divisione delle  forze politiche palestinesi, creatasi con il passare degli anni, sono  gli incontri separati realizzati con i loro leader. La delegazione incontra subito dopo le fazioni dell’Olp, le organizzazioni dell’Alleanza Palestinese (otto organizzazioni in Libano che hanno scelto la resistenza contro il nemico israeliano).
 Il 95% dei palestinesi, secondo  l’Alleanza, non si sente rappresentato da nessuna forza politica  specifica. Le condizioni di vita nei campi non sono cambiate, ancora  nessun diritto. L’ultima legge sul lavoro non riconosce ancora le  professioni più qualificate ed, inoltre, per poter svolgere qualsiasi  altro lavoro occorre l’approvazione di una commissione.
 Le valutazioni sulle nuove trattative di pace, in corso tra Abu Mazen e Netanyhau, sono al centro di ogni incontro con tutte le varie forze politiche presenti nei campi. Nessuno ci crede. Abu Mazen  non rappresenta il popolo palestinese perchè non ha chiesto niente a  nessuno, non ha nessun mandato. Sono trattative che partono con la sola  richiesta ad Israele di sospendere la costruzione di nuove colonie. E’  veramente troppo poco.
 
 Il rappresentante di Hamas concentra maggiormente il suo discorso sul problema dell’unità palestinese e del mondo arabo: “Noi  come Palestinesi abbiamo sempre guardato all’unità del mondo arabo, ma,  siamo consapevoli che è molto difficile. I moderati vogliono spingere i  palestinesi, a causa delle loro difficili condizioni, a firmare accordi  con Israele. C piacerebbe l’unità del mondo arabo, ma non abbiamo il  potere di metterla in atto, diciamo però ai nostri fratelli di Al Fatah  che, quando si accorgeranno che i trattati di pace non hanno mai portato  a nulla, saremo lieti di accettarli di nuovo con noi. Al-Fatah non ha  nessun diritto di trattare con gli americani e israeliani, se prima non  parla con noi per poter definire su cosa andare a discutere”.
 Il loro rapporto con Hezbollah  è di collaborazione, in quanto concordano sul piano della lotta per il  prosieguo della resistenza e sono, quindi, contrari ad una trattativa di  concertazione. Il primo vero problema da risolvere è la riconciliazione  di tutti i palestinesi.
       Lo stesso Talal Salman, direttore del quotidiano Assafir, punta il dito su Abu Mazen,  affermando che esso risulta essere il primo presidente che, accettando  tutte le richieste del governo d’Israele, condurrà il popolo palestinese  verso il totale disastro. Descrive molto bene la situazione negativa in  cui si trova tutto il mondo arabo, Libano compreso, sotto la minaccia  di una nuova probabile guerra. Si scusa, infatti, con la delegazione  perché non ha buone notizie da offrire. La lotta è in arretramento,  mentre l’estremismo aumenta. E’ triste, continua Talal Salman, prendere  atto che, il ricordo dell’inizio del massacro di Sabra e Chatila, non è rispettato dallo stesso Presidente palestinese Mahmud Abbas che preferisce, invece, abbracciare Netanyhau,  in occasione degli incontri delle nuove trattative di pace.  La  delegazione italiana rappresenta per Salman una speranza e paragona il  suo arrivo nel Paese dei Cedri come “la terra che aspetta la pioggia”.
 La prima domanda è sul diritto al lavoro dei palestinesi in Libano.  Talal Salman risponde parlando della paura, diventata quasi tangibile,  generata dalla presenza sul suolo libanese di 450.000 palestinesi. E’  rimarcata sempre più la questione dell’appartenenza alla religione  musulmana, mentre è quasi rimossa la questione principale che si  configura unicamente nell’attivismo del colonialismo israeliano. Tutto  questo porta solo alla divisione della società libanese e ad una  speculazione prima confessionale e poi politica.  È’ stata rimossa la  responsabilità israeliana nell’espulsione di migliaia di palestinesi.  Non è più una questione di profughi, ma tutto diventa una questione  interna libanese. È’ da ribadire il concetto che i palestinesi non sono  turisti venuti a visitare il Libano, ma, sono stati costretti,  dall’esercito israeliano, a cercare in questo paese un rifugio. Si  delinea quindi una responsabilità internazionale, mentre il problema è  stato invece riversato solo sul governo libanese.
   L’assassinio del primo ministro Rafik Hariri,  14 febbraio 2005, è l’argomento con il quale Salman risponde alla  domanda riguardante la situazione odierna della politica libanese. “Questo  tragico avvenimento – continua Salman - è avvenuto in un momento in cui  la situazione politica era molto agitata e divisa. La risoluzione Onu n. 1559  aveva provocato una guerra contro la presenza siriana ed aveva quindi  contribuito all’aumento delle divisioni interne.  Dopo il crimine, è  iniziata una guerra contro la presenza siriana, la resistenza in Libano e  lo scontro contro la corrente “14 Marzo”. Momento di  crisi diventato un momento giusto per le forze americane, d’Israele ed  anche per le falangi libanesi, creando un grande pericolo per la  resistenza.   Le tantissime proteste ed accuse nei confronti della  Siria, hanno, alla fine, costretto la Siria, dopo 29 anni, a ritirare il  suo esercito dal Libano, lasciando così scoperte le forze di difesa”.   La Siria è sempre stata accusata di voler destabilizzare il Libano,  quando invece, chi ha interesse ad avere un Libano debole, sono, sempre,  le stesse forze internazionali alleate con Israele e lo stesso governo  d’Israele che, per la sua sopravvivenza, necessita del perpetuarsi della  debolezza dei paesi arabi.
 Salman prosegue: “Sono state fatte le elezioni  (2009) in un momento in cui tutte le confessioni erano divise tra loro.  La formazione del governo, dopo alcuni mesi, è stata possibile solo  grazie all’intervento sia del mondo arabo sia non arabo. E’ un accordo  molto fragile che può cadere in qualsiasi momento. Saad Hariri è andato  almeno cinque volte a Damasco ed ha cambiato le sue posizioni  riguardanti la Siria. Dopo l’ultimo incontro ha chiesto scusa al governo  siriano per tutto quello che aveva fatto, in pratica, sembra diventato  uno di loro, un lacché della Siria stessa.
 Ora, infatti, le accuse contro la Siria  sono cadute, i testimoni ritenuti inattendibili e le prove false. Il  probabile responsabile dell’attentato è stato individuato nel movimento  di Hezbollah. Quello che si prospetta, dunque, è solo uno scontro, significa un’ulteriore divisione tra sunniti e sciiti”.
 Talal Salman, infine, dice di non credere ad una nuova probabile guerra.
 All’ultima domanda relativa alla possibile creazione di uno stato palestinese, Salman risponde che, data la continua costruzione di nuove colonie, difficilmente si potrà reperire un terreno disponibile per la Palestina.
 Il giorno successivo, la delegazione incontra il Presidente del Forum Internazionale per le cause arabe, Mr.Maen Bashour ed il comandante della nave della fratellanza che ha partecipato alla Freedom Flotilla, Mr.Hani Sleiman.
 Mr. Bashour è anche presidente dell’iniziativa per rompere l’assedio a Gaza e parla subito dell’importanza che la Freedom Flotilla ha avuto sulla causa palestinese. “Netanyhau  consapevole che la forza delle idee sioniste è dovuta al sostegno  internazionale, è stato spinto a dover dire che è in atto una campagna  internazionale con il compito di togliere la legittimità allo stato  d’Israele. Il governo d’Israele da vittima si è trasformato in  massacratore e, questo comporta un cambiamento dell’opinione pubblica  nei suoi confronti. I sionisti sanno benissimo cosa può significare  tutto questo”.
 
 L’obiettivo del centro, continua  Mr.Bashour, è quello di organizzare delle iniziative tra diversi popoli,  religioni e culture per mantenere in vita i rapporti orientati verso un  discorso di pace.
 Il Forum è stato organizzato da un'iniziativa, lanciata dal Centro Arabo per la Comunicazione e Solidarietà, fondato nel 2000, a seguito di una serie di forum simili che hanno avuto inizio ad Istanbul nel 2007, con il Forum di Gerusalemme, capitale della Palestina e luogo di culto per tutti, seguito, poi, dal Forum sul diritto al ritorno a Damasco nel 2008, dal Forum per il Sudan a Khartoum nella primavera del 2009 e dal Forum sul Golan  nella città liberata di Qunaitira nell'autunno del 2009. Ora, è in  preparazione un forum sul problema dei detenuti in carcere, che si terrà  nei primi mesi dell’anno prossimo ad Algeri.
 Nessuno parla del numero di donne, uomini,  bambini e vecchi che si trovano rinchiusi nelle diverse carceri nel  mondo. Nessuno si accorge di loro: i palestinesi che hanno subito il  carcere sono più di un milione, gli iracheni 250.000 ed inoltre, molte  donne partoriscono in carcere. Altri importanti argomenti sono pronti da  mettere in cantiere, come per esempio, i crimini di guerra ed i poveri  nel mondo.
 
 Mr.Sleiman, invece, parla  della sua personale esperienza su una delle navi della Flotilla, nel  momento dell’incursione israeliana. Israele, senza volere, dopo la sua  brutale aggressione, ha reso più semplice il compito di spiegare al  mondo la sofferenza del popolo palestinese. “Sulle navi c’erano solo civili, non armati, diretti a Gaza per cercare di porre fine all’embargo - continua Sleiman - Monsignor Cappucci ed altri fedeli pregavano insieme, c’erano ebrei con il cartello ”siamo ebrei ma non sionisti” e  sparare a loro non è certo come sparare ai musulmani. Io sono stato  colpito dai militari, mentre stavano scendendo dagli elicotteri. Cercavo  di salvare alcuni feriti accanto a me, gli attivisti erano pazienti,  attenti, ma loro continuavano a sparare. I rapporti medici confermano  che le ferite riportate sono state causate da proiettili sparati da  vicino. Ero confuso, avevo perso sangue fino la sera, ma, chiedevo  notizie sulla reazione del mondo esterno per assicurarmi che, in fondo,  la missione era salva. E così è stato”.
 Ms.Sleiman ha scritto un libro su questa vicenda e spera che possa essere tradotto, presto, anche in italiano.
     Nel campo di Mar Elias la delegazione incontra Mr.Marwan Abed El-Aal, responsabile per la ricostruzione del campo Nahr El-Bared,  nel Libano settentrionale, distrutto completamente nel 2007 dopo gli  scontri tra l’esercito libanese e le milizie di Fatah al -Islam. (v.foto del campo 2008)
 Facendo anche uso di un power point  esplicativo, sono state illustrate le modalità della ricostruzione del  campo che procede molto lentamente. Il terreno è stato diviso in otto  lotti, i soldi però che sono a disposizione per la costruzione sono  sufficienti solo per tre di questi. Alla fine dell’anno, sarà pronto il  primo con 512 unità abitative, poi sarà iniziato il secondo. I criteri  di ricostruzione devono anche tenere in considerazione la vecchia  struttura legata ai villaggi di provenienza dei profughi, al fine di  conservare, il più possibile, le abitudini e l’entità palestinese. Un  altro grande problema, legato alla costruzione, risulta essere  determinato dalla legge libanese che vieta il diritto di proprietà ai  palestinesi: “Non possono quindi rivendicare nulla, non possono  dimostrare che la casa era loro, nonostante fosse stata acquistata  davanti ad un notaio, non possiedono nessun documento, certificato, che  attesti la loro proprietà. Il governo libanese sostiene dunque che i  palestinesi si sono impossessati delle case con la forza”.
 Durante gli scontri 90 edifici sono stati distrutti completamente. Al momento, tutto il campo si trova sotto il controllo militare libanese, rendendo,  così, il tentativo di riprendere una vita economica normale, se così si  può definire, molto difficile e complicata. La sicurezza del campo,  infatti, è legata alla ripresa del lavoro e dell’economia.
 E’ ribadita la necessità di continuare  fare pressione sui paesi che possono permettersi di inviare fondi.  Presto, infatti, inizieranno i lavori progettati da due enti italiani  oltre alla costruzione di 101 appartamenti finanziati dalla Norvegia.
 E’ necessario, infine, togliere  l’obbligo di un permesso per poter entrare a Nahr El-Bared, sia per i  palestinesi sia per i visitatori e riuscire a processare e condannare i  responsabili di questa catastrofe.
     Il viaggio di quest’anno riserva alla delegazione una novità: la coalizione politica ”Movimento Futuro” del primo ministro Saad Hariri, figlio di Rafiq al-Hariri, assassinato nel 2005, ha chiesto un incontro con il Comitato. E’ un fatto insolito ma, positivo. Significa che il “Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila” comincia  ad essere politicamente riconosciuto in tutto il paese.  Le continue  visite in Libano hanno dimostrato tutta la serietà e caparbietà dei  componenti la delegazione nel sostenere l’amicizia e la solidarietà nei  confronti della resistenza libanese e dei compagni palestinesi. Tutto  ciò con la speranza di poter rendere, al mondo, sempre più evidente ed  efficace, la comune battaglia per la conquista di quei diritti  che, oggi, non sono riconosciuti. L’incontro è anche il riconoscimento  implicito del fatto che, l’attività della delegazione in Libano, sempre  documentata dal quotidiano “Assafir” e non solo, ha  ottenuto una visibilità ed importanza che è riconosciuta da tutte le  forze politiche in Libano e nei paesi arabi.
 E’ ovvio che, essendo la maggioranza dei palestinesi di fede sunnita,  come la base del partito di Hariri, il Movimento Futuro ha ritenuto  opportuno ed utile avere un approccio al problema dei profughi tramite  un contatto con il Comitato.
 Il portavoce del governo di Hariri  conferma il peggioramento della situazione in Libano e dei campi  profughi. Sostiene che non c’è molta differenza tra loro e l’Europa, non  c’è differenza di religione, c’è solo il mare che divide e non bisogna,  inoltre, mai dimenticare Sabra e Chatila. “Siamo - continua il  portavoce – di fronte ad una terza fase di una trattativa sempre più  debole dovuta all’intransigenza israeliana che continua ad avere sulla  terra palestinese. Non crediamo che ci sia un terrorismo palestinese,  ma, c’è una rivoluzione tra tutti i palestinesi sparsi nel mondo che non  può essere contenuta o risolta senza uno sviluppo e senza neppure un  minimo di vita normale. Per questo abbiamo preso l’iniziativa di emanare  alcune leggi per legalizzare il lavoro dei profughi palestinesi”.
 Stefania Limiti, come  responsabile del Comitato, ringrazia per l’invito ricevuto dalla forza  politica maggiore del Paese dei Cedri, perchè ha così l’opportunità di  poter esprimere l’impegno e la posizione socio-politica dei componenti  della delegazione. “Voi – prosegue Stefania – ricevete la voce forte  del nostro governo, ma non la nostra. Per questo veniamo qui per far  arrivare la voce italiana al popolo libanese.  Una parte del popolo  italiano ama il popolo palestinese e ritiene che la soluzione della  questione palestinese sia anche la soluzione dei problemi in Medio  Oriente. Noi rappresentiamo quella parte.  Per questo siamo vicini a questo popolo e consideriamo nostra la loro sofferenza. Chiediamo  giustizia per loro che non hanno una patria. Non hanno una dignità nel  paese che li ospita, hanno una vita senza diritti. Questo ci riempie di  rabbia e sofferenza, come tutte le volte, quando nel nostro paese, non è  rispettata la dignità degli stranieri. Abbiamo incontrato i  responsabili per la ricostruzione del campo di Nahr El-Bared, volevamo  andare là, volevamo incontrare quelle persone, ma non è stato possibile  per la difficile situazione. Molti di noi negli anni scorsi sono stati  in quel campo. Faremo pressione al nostro governo affinché non abbandoni  quelle persone, come chiediamo a voi stessi di non abbandonarle”. Stefania, inoltre, punta il dito sul “Diritto al ritorno”,  senza il quale non ci può essere una soluzione. Termina il suo discorso  con la speranza che qualcosa possa cambiare veramente, molte sono state  le parole favorevoli e le promesse per un miglioramento! Il  Comitato sarà sempre pronto a raccogliere le buone notizie, così come  sarà sempre in prima linea a denunciare le disattenzioni che  continueranno ad esserci.
 Il portavoce della forza politica di Hariri termina l’incontro citando quelli che sono i tre punti ritenuti di maggior rilevanza. Il primo concerne questo movimento che ha portato alla nascita della corrente “Almustaqbal”  iniziata proprio dalla società civile. Espone quindi, a grandi linee,  il progetto politico del padre per la ricostruzione del paese. Il  secondo punto riguarda invece i diritti civili dei Palestinesi. “Non  basta quello che finora abbiamo fatto – prosegue il portavoce, ma la  cosa importante è che siamo riusciti ad inserire la questione  palestinese per i diritti nel posto giusto, ossia il Parlamento. Oggi si  trova in un piano di lavoro da sviluppare in futuro, secondo le  condizioni politiche del paese. Esiste, quindi, una parte del Libano  sensibile a questo problema. Importante è iniziare, porre la questione e  riuscire a superare gli ostacoli. Stiamo lavorando per dare a tutti i  giusti diritti”.  Infine, il terzo punto riguarda il Diritto al Ritorno.  Richiama, nelle sue ultime parole, l’importanza di mantenere vivo Il  tema del Diritto al ritorno per continuare a parlare della causa  palestinese, per riuscire, infine, a liberare tutto il loro territorio e  poter ritornare così alle loro case d’origine. Afferma, inoltre, che  davanti alla continua prepotenza israeliana, come partito di governo,  hanno il dovere, insieme anche all’aiuto della delegazione italiana, di  riaffermare tutti i diritti del popolo palestinese. Conclude,  parlando dell’importanza di creare un’unità nazionale palestinese ed  abbandonare tutte le divergenze.  La divisione porta solo ad aumentare  la crisi interna, favorendo così solo Israele.
   Terminato l’incontro, la delegazione è stata portata a rendere omaggio alla tomba di Rafiq al-Hariri, vicino alla grande moschea, da lui fatta costruire.
   Continua…
 
 
	
	LA REPUBBLICA EBRAICA DI ISRAELE*di Gideon Levy
 Prestare giuramento ad uno Stato  ebraico può essere determinante per il destino dello Stato stesso. Si  rischia di trasformare il Paese in una teocrazia come l'Arabia Saudita.
   Ricordate questo giorno. È il giorno in cui Israele cambia la sua natura. Di conseguenza, il suo nome potrebbe trasformarsi in “Repubblica Ebraica d'Israele”, proprio come la Repubblica Islamica dell'Iran. La proposta di legge sul giuramento di fedeltà che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu sta cercando di far passare sarà rivolta soltanto ai nuovi cittadini non-ebrei, ma avrà in concreto effetti sul futuro di tutti noi.
Da oggi in poi vivremo in un Paese ufficialmente etnocratico, teocratico, nazionalista e razzista.  Chiunque pensi che ciò non lo riguardi, si sbaglia. C'è una maggioranza  muta che sta accettando tutto questo con preoccupante apatia, come  dire: “Non m'importa in che Paese vivo”. E così, chi pensa che il mondo,  dopo l'approvazione di questa legge, continuerà a trattare Israele come  una democrazia, non ha capito nulla. Questo è un altro passo che  danneggia seriamente l'immagine di Israele.   
  Oggi il Primo Ministro Benjamin Netanyahu dimostrerà di essere in realtà il leader di Yisrael Beiteinu Avigdor Lieberman e il Ministro della Giustizia Yaakov Neeman dimostrerà di essere senza dubbio un fedele membro di Yisrael Beiteinu. Il Partito Laburista dimostrerà di non essere altro che uno zerbino. E Israele oggi dimostrerà di non fregarsene nulla. Oggi la proposta di legge del giuramento di fedeltà, domani la LEGGE sul giuramento di fedeltà.  La diga traboccherà, rischiando di sommergere quel che resta di una  democrazia, fino a lasciarci, probabilmente, in uno Stato Ebraico di cui  nessuno riesce realmente a capire la natura, ma che tutto sarà fuorché  una democrazia. Coloro che spingono per il giuramento di fedeltà sono gli stessi che si stanno appropriando indebitamente della fedeltà allo Stato. 
   Nella prossima riunione, la Knesset discuterà circa 20 altre proposte anti-democratiche. Durante il week-end, l'Associazione per i Diritti Civili in Israele ha stilato una lista nera della legislazione: una “legge di fedeltà” per i membri della Knesset; un “legge di fedeltà” per la produzione cinematografica; un “legge di fedeltà” per le organizzazioni non-profit (ciò pone la Nakba, la Catastrofe Palestinese, oltre il campo di applicazione della legge); il divieto di qualsiasi appello al boicottaggio; e una proposta di legge per la revoca della cittadinanza.  È, insomma, un pericoloso balletto Maccartista da parte di legislatori  ignoranti che non hanno mai compreso appieno cosa fosse la democrazia.  Sarebbe pericoloso anche se solo una fetta delle proposte diventasse  legge, poiché il nostro futuro e il nostro essere risulterebbero  modificati.
 Non è difficile capire la coppia Netanyahu-Lieberman. Non possiamo infatti aspettarci che i due, irriducibili nazionalisti, capiscano che la democrazia non si esprime nel dominio della maggioranza, ma soprattutto nella tutela dei diritti delle minoranze.  La cosa che è più difficile da comprendere è la compiacenza delle  masse. Le piazze oggi dovrebbero essere piene di cittadini che non  vogliono vivere in un paese in cui la minoranza è oppressa da leggi  draconiane, come quella che costringe a prestare  falso giuramento verso  uno Stato ebraico. Ma, sorprendentemente, quasi nessuno sembra curarsene.
   Per decenni abbiamo inutilmente cercato di rispondere alla domanda su Chi sia un Ebreo. Da oggi la questione di Cosa sia Ebraico non ci abbandonerà. Qual è lo “Stato di una nazione ebraica”? Apparterrà più agli ebrei della diaspora che ai suoi cittadini arabi? Saranno loro a decidere il suo destino e potremo ancora chiamarla democrazia? O sarà la setta ultraortodossa Neturei Karta,  che è contraria all'esistenza dello stato, insieme a centinaia di  migliaia di ebrei che si oppongono a fare di questo stato qualsiasi cosa  si voglia? Cosa è “ebraico”? Sono ebraiche le feste?  Le regole alimentari kosher? Il crescente controllo dell'establishment  religioso (come se non ce ne fosse già abbastanza adesso a falsare la  democrazia)? Prestare giuramento ad uno stato ebraico può  risultare determinante per il destino dello Stato stesso. Si rischia di  trasformare il paese in una teocrazia come l'Arabia Saudita. 
 È vero che finora è stata una faccenda di  slogan vuoti e ridicoli. Non esistono al mondo anche solo tre ebrei che  siano d'accordo su come debba essere uno “Stato ebraico”. Ma la storia  ci ha insegnato che anche “vuoti slogan” possono lastricare la via per  l'inferno. Intanto, questa proposta di legge servirà ad aumentare  l'emarginazione dei cittadini arabi israeliani in prima istanza e, in  ultima istanza, di un più ampio segmento di popolazione.
   
Questo è ciò che accade quando il fuoco  cova ancora sotto la cenere; il fuoco della sostanziale mancanza di fede  nella giustizia del nostro patto. Solo la mancanza di fiducia può  dar vita a proposte di legge assurde come quella che viene approvata  oggi (poiché certamente l'approvazione ci sarà). Il Canada, come altri stati, non ha bisogno che i suoi cittadini gli prestino giuramento. Solo Israele lo fa. Ma  chiaramente questo gioco mira a provocare in maniera più decisa la  minoranza araba e spingerla ad un più alto grado di “mancanza di lealtà”  per avere un giorno la scusa per sbarazzarsi definitivamente di loro;  oppure è stato progettato per far naufragare ogni prospettiva di pace  negli accordi con i palestinesi. In un modo o nell'altro, nel Primo Congresso Sionista del 1897 a Basilea lo Stato Ebraico è stato fondato, come dichiarò Theodor Herzl. E oggi sarà fondata la Repubblica Non-Illuminata di Israele.
 
 * Editoriale pubblicato su Haaretz il 10 ottobre 2010
 
 Traduzione dall’inglese di Maria Teresa Patarnello
 
   
	
	I DIRITTI DEI RIFUGIATI PALESTINESIRICORDO DI UN MASSACRO
 di Mirca Garuti
     Tornata dal viaggio in Libano con il  comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, mi  ritrovo, ora, a voler raccontare questa mia sesta esperienza nei vari  campi profughi palestinesi. L’attività del comitato, fondato dal  giornalista del “Manifesto” Stefano Chiarini, è sempre  stata chiara, schierata apertamente con i rifugiati palestinesi, a  sostenere i loro diritti e, quindi, dalla parte della vera giustizia.
       La settimana del nostro viaggio ha  coinciso anche con i giorni nei quali sono state riprese le difficili  trattative tra il governo d’Israele con Netanyahu  ed il presidente dell’Anp (Autorità nazionale  palestinese) Abu Mazen, sotto l’influenza del governo  americano. Sono stati giorni molto intensi, abbiamo  incontrato vari esponenti di partiti politici palestinesi e libanesi,  siamo ritornati sui luoghi segnati dai tanti attacchi israeliani, siamo  stati nei vari campi profughi ed abbiamo incontrato le “nostre” donne  palestinesi.
 Per tutto questo, ho il dovere di  raccontare.  Posso, in questo modo, dire “grazie” ad Anna,  Saura ed a tutte le altre donne che ci hanno accolto a  braccia aperte. So benissimo che noi non possiamo cambiare le cose, ma,  continuare il nostro impegno ad essere con loro, a sostenere la loro  causa sempre ed ovunque, a denunciare le azioni del governo israeliano  contro il popolo palestinese, ci permette di sperare e di andare avanti  nella nostra lotta.
        Sono arrivata a Beirut il  12 settembre scorso. La delegazione è stata accolta, come di consueto,  dal nostro referente in Libano Kassem Aina  dell’associazione Ong palestinese Beit Atfal  Assumoud. Il coordinamento delle Organizzazioni non governative  operative nella comunità palestinese in Libano è stato il primo a  porgerci il benvenuto ed ad illustrarci la situazione attuale dei  Palestinesi nei campi profughi. Il rappresentante del giornale As-Safir  ha volutamente ricordato che la comunità palestinese vive in Libano da 62  anni senza nessun diritto, da quello del lavoro, alla  proprietà, allo studio, alla sanità, all’associazionismo, nel più  completo abbandono. I rifugiati palestinesi in Libano sono quasi 426.000,  di cui 227.000 i registrati  nei campi dall’Unrwa  (agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza dei rifugiati  palestinesi). Sono rifugiati dalle guerre del 1948 e del 1967 in fuga  dall’esercito israeliano e dalla cacciata negli anni settanta dal re  della Giordania. Il Direttorato Libanese degli affari dei profughi  stima, invece, un numero più alto di profughi e questo, perché ha tutto  l’interesse di esagerare nei numeri per aumentare la vastità del  problema. Non dobbiamo però dimenticarci anche di quei palestinesi  registrati solo presso le autorità libanesi, oppure quelli non  registrati da nessuna delle due autorità competenti e quelli che sono  ancora registrati ma che hanno ottenuto la cittadinanza libanese o che  vivono all’estero. Tutti i numeri quindi, non essendo basati su reali  censimenti, sono da considerarsi incerti. La situazione nei campi è  sempre però più drammatica ed i pretesti, da parte delle forze del  governo libanese, per non concedere diritti ai palestinesi, sono tutti  falsi. Permettere di poter fare qualsiasi lavoro, oppure, dare il  diritto alla proprietà, non si corre il rischio di dovere, per forza, anche  riconoscergli la cittadinanza libanese, percepita come una  minaccia di rottura del sottile equilibrio delle forze politiche  interne. I partiti della destra cristiana ed anche quelli sciiti,  infatti, temono che una politica favorevole ai palestinesi, che sono musulmani  sunniti, può incoraggiarli a restare sul suolo libanese,  alterando così l’attuale composizione demografica e confessionale. Gli  stessi rifugiati di vecchia generazione dichiarano, però, di non volere  essere “libanizzati” del tutto, per non perdere la condizione del “diritto  al ritorno”, in base alla Risoluzione 194 dell’Onu.  Chiedono, solo, il diritto di avere una vita  dignitosa, nell’attesa del ritorno alla loro terra d’origine.  Probabilmente, i giovani nati sul suolo libanese, invece, vorrebbero la  cittadinanza per poter avere così più opportunità per una vita migliore.
     
   Da quest’anno, sostiene Laila  El-Ali del coordinamento Ong palestinesi, è  iniziato un serio dialogo tra i libanesi per quanto riguarda i diritti  dei rifugiati. Dialogo portato avanti con fermezza dalle varie  organizzazioni civili palestinesi che, dopo aver fatto ricerche sulla  situazione reale dei campi, hanno potuto presentare delle interrogazioni  al governo libanese spingendolo a fare qualcosa in merito.  Il 27  giugno scorso, infatti, cinquemila tra libanesi e  palestinesi hanno partecipato alla “marcia per i  diritti dei profughi palestinesi” che si è conclusa davanti al  Parlamento, dove una delegazione ha consegnato una petizione popolare. I  promotori degli emendamenti di legge sono stati i deputati Walid  Jumblatt,   Elie Aoun che hanno il sostegno  dei sunniti di Mustaqbal (il partito del premier Saad  Hariri) e degli sciiti dei movimenti Hezbollah e Amal. Si sono invece  schierati contro i deputati cristiani della Corrente dei Liberi  Patrioti (guidata dall’ex generale Michel Aoun, uno degli  alleati di Hezbollah) e quelli della destra estrema cristiana di Forze  Libanesi e Falange. I deputati cristiani avevano inoltre  chiesto che tali proposte fossero decise attraverso il “consenso  nazionale” e non con votazioni in Parlamento. Ciò avrebbe  significato perdere ogni possibilità di poter sperare in qualche novità  legislativa a favore dei palestinesi.Il governo Hariri ha  approvato poi il 17 agosto scorso un disegno di legge  che consente ai profughi palestinesi nati in Libano e registrati al  Ministero degli Interni, equiparati quindi a qualsiasi altro straniero,  di poter praticare solo alcuni marginali lavori che però, in  realtà, sono già, di fatto, di loro appartenenza. Dopo 62 anni il  governo libanese ha dunque riconosciuto ai palestinesi un incompleto  diritto al lavoro! Secondo il testo di legge possono fare questi  specifici lavori, ma con l’obbligo di richiederne il permesso e di  doversi registrare agli ordini ed ai sindacati di categoria. Significa  solo che il lavoro diventa regolare, non più in “nero”, lasciando  spazio, quindi, ad una probabile corruzione da parte di chi dovrà  gestire il passaggio. Restano, in ogni modo, sempre esclusi i  lavori di alta qualificazione come il medico, l’avvocato, l’ingegnere e  quelli legati al settore pubblico. Le leggi libanesi che  riguardano il lavoro considerano gli extracomunitari in base al principio  di reciprocità, ossia, gli extracomunitari ricevono lo stesso  trattamento legale che un libanese riceve nei loro rispettivi paesi. I  territori palestinesi non essendo riconosciuti come “paese”, il  principio di reciprocità, quindi, non vale per i Palestinesi, con la  conseguenza del divieto di lavorare nei settori più professionali.  La situazione è quindi difficile e  drammatica. Restano sempre in sospeso il diritto alla proprietà privata (una legge libanese  approvata nel 2001 stipula che solo gli stranieri provenienti da stati  riconosciuti hanno il diritto di possedere proprietà immobiliari) ed all’assistenza  sanitaria, oltre che al diritto ad un sistema  scolastico pubblico. I diritti dei palestinesi si scontrano con  la dura realtà della negazione anche nelle più piccole cose, nei  bisogni di tutti i giorni, come per esempio, se si deve acquistare un  frigorifero o televisore, bisogna avere l’autorizzazione dei servizi  segreti libanesi!
       La discriminazione in  Libano quindi è molto forte. Esistono 18  confessioni religiose, quindi, qualsiasi decisione che il  governo deve prendere, ha l’obbligo di considerarle tutte.  Si  evidenzia, così, che prima viene l’interesse della propria confessione,  poi, solo in seguito, quello del paese.I cinque milioni di profughi  palestinesi nel mondo rappresentano quindi il problema più  grande e non risolto di questo secolo. Nel 1917 gli ebrei  rappresentavano solo il 10% della popolazione, ma quando fu proclamato  lo Stato d’Israele, la comunità Ebrea in Palestina raggiunse la cifra di  650.000. I profughi palestinesi, come afferma Kassem  Aina, in tutti i paesi della diaspora, sostengono la  loro unità nazionale, riaffermano il loro diritto al  ritorno e all’autodeterminazione, come dalla risoluzione  194 dell’Onu del 11 dicembre 1948 rafforzata dal Manifesto  dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, il 10 dicembre  1948.
 I palestinesi in Giordania hanno  diritti completi, come la cittadinanza ed il passaporto ed in Siria  hanno diritti civili pur mantenendo la loro identità palestinese,  secondo il protocollo di Casablanca firmato nel settembre 1965.  In Libano, come abbiamo visto,  vivono in condizioni estremamente difficili causa la mancanza  dei diritti civili ed umani fondamentali.
   

   continua...   
 
	
	
Lettera  aperta a chi oggi tace sull’antisemitismo e il machismo diBerlusconi
 di Cinzia Nachira  
 
Albert  Einstein, pochi giorni prima di essere costretto a lasciare la Germania e nel momento in cui fu escluso  dall’insegnamento universitario  perché ebreo, disse una frase che ancora oggi non è stata smentita: “Può essere che l’universo sia finito, la stupidità  umana al contrario è infinita”. Può sembrare un eccesso scomodare Einstein  per la «battuta» antisemita e  quella machista con cui Berlusconi ha  sfoggiato la sua infinita stupidità.
 Sottolineiamo che essere stupidi non è  un’attenuante.
 Noi viviamo in un Paese in cui il degrado  culturale, sociale, economico e  politico sta raggiungendo livelli pericolosi. E come in tutti i momenti  di crisi profonda, non è strano che  chi è al potere cerchi di avallare gli istinti più bassi. Non è strano che oggi, in piena crisi  complessiva, in Italia si cerchino  capri espiatori su cui riversare le angosce di chi, la maggioranza, non riesce a riemergere dalla  crisi.
 I migranti sono già nel  mirino del razzismo fattosi legge. Il caso dell’espulsione di massa della comunità Rom  in Francia e il plauso che  questa politica ha ricevuto dall’establishment italiano è testimone  molto esplicito del baratro su cui  tutti siamo in Europa.
 In questo contesto, gli insulti  rivolti agli ebrei e alle donne sono ancora più pericolosi.
 Non è un caso se la «barzelletta»  antisemita raccontata per strada fosse centrata sul mito della ricchezza economica degli ebrei.
 Ciò che colpisce è il silenzio,  pericoloso, di molte, troppe figure  pubbliche di questo Paese che se avessero un minimo di coscienza  storica, dovrebbero insorgere.
 Dal presidente della Repubblica, ai  presidenti dei due rami del Parlamento, ai dirigenti delle comunità ebraiche italiane, tacciono,  rendendosi di fatto complici ed  artefici insieme del degrado, politico, morale e culturale di un Paese come l’Italia, che ebbe un ruolo attivo  nella persecuzione e nello  sterminio degli ebrei.
 L’On. Napolitano, alcuni  anni fa ebbe a sostenere che l’antisionismo è un travestimento dell’antisemitismo (ben sapendo, si spera,  che era un falso da ogni punto di  vista). Oggi non sappiamo cosa pensa delle esternazioni berlusconiane. Non ha trovato il tempo per dire  qualcosa, impegnato a stilare gli  auguri ai nonni e alle nonne d’Italia.
 Fini e Schifani non  perdono occasione per recarsi allo Yad Vashem a rendere un falso omaggio a quelle vittime di cui sono  politicamente e culturalmente  responsabili.
 I dirigenti delle comunità ebraiche  italiane, nelle loro espressioni  pubbliche e parlamentari (Riccardo Pacifici e Fiamma Nirenstein)  il 7 ottobre prossimo si accingono  a dichiararsi amici di Berlusconi,  pubblicamente e spudoratamente.
 Vorremmo dire a tutti costoro di stare  molto attenti: razzismo, maschilismo, antisemitismo e volgarità sono tutti elementi comuni ad  una cultura precisa, non  sono «battute». Che nell’arco di pochi giorni in parlamento venga reiterata l’accusa di tradimento agli ebrei,  venga reiterato il mito negativo  della «ricchezza degli ebrei» e venga, infine ma non ultimo, reiterato l’assioma machista che le donne  intelligenti non sono belle e  quindi poco appetibili per i maschi, è un segnale terribilmente  pericoloso.
 Ogni qualvolta viene criticata la  politica israeliana verso i palestinesi, chi oggi tace è pronto a gridare al pericolo del ritorno  dell’antisemitismo.
 Bene, ora è chiaro che costoro, che  seggono anche sugli scranni parlamentari e rivestono cariche determinanti nel nostro sventurato  Paese, sono i veri antisemiti, non  più celati. E saranno loro i veri e soli responsabili del ritorno di un clima antisemita in Italia e non  chi, invece, è al fianco dei popoli  oppressi, ovunque si trovino e chiunque sia l’oppressore.
 Molti ebrei di Israele e della diaspora,  ormai da molti anni, hanno coniato  il bello slogan "Not in my name", per  non essere additati come corresponsabili di politiche che in fin dei conti sono dannose,  terribilmente, per tutti gli ebrei  nel mondo.
 Noi continueremo a sfidare l’embargo  contro Gaza, continueremo a lottare al fianco dei palestinesi contro l’occupazione,  continueremo a essere al fianco dei  migranti e dei Rom, a denunciare il maschilismo e a lottare contro di esso e continueremo ad essere al fianco degli  ebrei in Italia, e altrove, quando  essi saranno vittime anche solo di «battute».
 Chi è in grado di sentirsi in pericolo, al  di là delle proprie appartenenze  etniche o religiose, quando su queste basi altri vengono attaccati, rappresenta il vero e solo antidoto al ritorno  dell’antisemitismo.
 
 03/10/2010
 
 
	
	
RISPOSTA ALLA MANIFESTAZIONE PRO-ISRAELEdi Giorgio Forti
   Si terrà a Roma il 7 ottobre una manifestazione pro-Israele, promossa dalla deputata del PdL e colona, Fiamma Nirenstein. Vi parteciperanno politici di destra come J.M. Aznar, ex premier spagnolo, il deputato berlusconiano G. Quagliariello, insieme a deputati e dirigenti del PD come W. Veltroni e  Furio Colombo, senatori come U. Veronesi, giornalisti di destra come Giuliano Ferrara e Mario Sechi, insieme a quelli di “sinistra” come Barbara Palombelli, il presidente della Comunità Ebraica romana Riccardo Pacifici, universitari “mediatici”, artisti del varietà ed altri.Ci colpisce come particolarmente incongrua  la partecipazione bipartisan di politici e parlamentari del governo e  dell’opposizione, in nome di una mal intesa solidarietà con lo Stato di  Israele  che si esprime con l’appoggio incondizionato al governo israeliano,  qualsiasi cosa compia, in dispregio dei diritti civili, politici ed  umani dei Palestinesi, che siano cittadini israeliani o abitanti dei Territori Occupati   dal 1967. Giorno dopo giorno viene sottratta loro la terra di sotto i  piedi, distrutte le case per costruirvi quelle dei coloni Ebrei, tolta  l’acqua per darla ai coloni, tolta la libertà di circolazione nel loro  Paese e la libertà personale: circa 6000 persone sono in prigione, quattordicenni compresi, e centinaia di detenuti “amministrativi”,  senza processo.
 Sotto il governo Netanyahu è stata ribadita la validità attuale di una legge ignobile votata anni fa come 'temporanea',  che di fatto vieta a coniugi israeliani Arabi, di convivere in Israele o  nei Territori Occupati con il coniuge non prima residente. La stessa  separazione viene imposta ai palestinesi di Gaza rispetto a quelli di  Cisgiordania. Un provvedimento, quest’ultimo, che neppure il regime  fascista mussoliniano avrebbe osato prendere. L'assedio di Gaza, che impedisce ogni attività produttiva e crea fame, continua. E' di meno di due anni fa l'attacco che ha causato la morte di quasi 1.400 abitanti, la maggior parte dei quali non aveva preso parte alle ostilità.
 Quando una flottilla di pacifisti  ha cercato di rompere l'assedio, prima dell'estate, l'esercito  israeliano non ha esitato a compiere assassinii a sangue freddo, per  fermarla; così il report recentemente diffuso dall'ONU. La “nave degli Ebrei”  che portava generi di conforto e giocattoli per la popolazione civile  di Gaza, (a bordo della quale si trovava un sopravvissuto ai lager  nazisti e un premio Nobel per la pace) è stata sequestrata in alto mare  con tutto il suo carico e il pacifista israeliano  Jonathan Shapira, rappresentante delll’organizzazione pacifista israelo-palestinese “Combatants for Peace”, è stato sequestrato e torturato.
 Ci sembra veramente che questa  manifestazione sia una vergogna per chiunque abbia ancora stima per le  libertà civili e democratiche, e si voglia opporre alla avanzata del  nazionalismo razzista, in Italia come in Israele. Il razzismo oggi si  manifesta soprattutto contro il mondo arabo e contro gli immigranti di  ogni etnia, Rom, Africani e Slavi. La politica del governo Nethanyahu  e l’appoggio che esso pretende di ricevere dagli ebrei della diaspora  hanno  dato fiato anche all'antisemitismo fascista e di una certa  pseudosinistra.
 Il 2 ottobre – quando era ormai nota a  tutti la ripugnante storiella antisemita raccontata dal nostro premier –  l'organizzatrice della manifestazione pro-Israele ha scritto: “Berlusconi (…) ha dichiarato il suo consueto e sincero attaccamento al mondo ebraico”. Altri, di coloro che hanno dichiarato il sostegno attivo all'evento, tacciono. Noi Ebrei di queste amicizie e di queste colpevoli connivenze ne facciamo volentieri a meno.
 Agli Ebrei italiani che vogliano esser  fedeli alla tradizione universalista ed antinazionalista che ha  caratterizzato la cultura ebraica da molti secoli, e alla Memoria dei  morti, chiediamo di rinunciare al nazionalismo sciovinista per il  governo di  Israele, prevedibilmente portatore di colpevoli sventure per  tutti.
 
 Rete-ECO (Rete degli Ebrei contro l’Occupazione)
 
 4 ottobre 2010
 
 
	
	
  
  
  
BREVE STORIA DEL BATTELLO "IRENE" HANNO FERMATO IL BATTELLO “IRENE” 
   
 
 
 «Dieci navi da guerra israeliane hanno costretto il battello a fare rotta verso Ashdod (porto israeliano)», lo ha annunciato all’AFP uno degli organizzatori che si trova a terra a Gaza, Amjad al-Shawa. «Si sono arresi perché erano accerchiati, non avevano scelta», ha aggiunto. «La marina ha preso il controllo del veliero per portarlo al porto di Ashdod». Un portavoce militare israeliano ha  precisato  che l’arrembaggio non ha dato luogo a violenze, né da una parte né dall’altra.
 La portavoce della spedizione pacifista contro il blocco di Gaza, Miri Weingarten, tuttavia non ha potuto confermare la versione delle forze armate israeliane. “Non abbiamo più avuto notizie da coloro che sono a bordo dell’Irene – ha detto Weingarten a Nena News – i telefoni cellulari e satellitari sono stati sequestrati e spenti. Sappiamo solo che i soldati hanno ammanettato tutti i passeggeri e i membri dell’equipaggi. Non abbiamo altre informazioni”.
 «Ci hanno detto che ci avvicinavamo a una zona sottoposta a blocco marittimo e ci hanno chiesto di cambiare rotta», aveva prima spiegato un passeggero del battello, Yonatan Shapira, la “guida” del gruppo pacifista ebraico, un ex pilota di elicotteri dell’aviazione israeliana nonché uno dei refusenik più noti, in una telefonata col telefono satellitare.
 Il battello “Irene”, un piccolo veliero battente bandiera britannica, con a bordo sette militanti ebrei pro-palestinesi e due giornalisti, aveva preso il largo domenica da Famagusta, nel nord di Cipro.
 
 (martedì 28 settembre 2010, con le agenzie di stampa)
 fonte francese: http://www.aloufok.net/spip.php?article2524
 fonte italiana:   http://www.nena-news.com
 
     UNA NAVE EBRAICA E’ PARTITA DA CIPRO VERSO GAZA 
 La nave, battezzata Irene,  è un veliero che batte bandiera britannica. Il tragitto verso Gaza  dovrebbe, in teoria, durare circa 36 ore. «Noi abbiamo una  strategia non violenta e di non scontro, se l’esercito israeliano ferma  la nave, noi non collaboreremo a portarlo al porto (di Ashdod)», ha  dichiarato Yonatan Shapira, un ex soldato israeliano,  membro dell’equipaggio.
 
 Una nave carica di aiuti destinati  alla popolazione di Gaza e noleggiata da gruppi ebraici a livello  internazionale ha preso il largo oggi alle 13.32 ora locale.
 La nave, Irene, che viaggia con  bandiera britannica, ha imbarcato dieci passeggeri e l’equipaggio. Sono  ebrei degli Stati Uniti, del Regno Unito, dalla Germania e da Israele. A  bordo vi sono anche due giornalisti britannici.
 In questo momento di crisi dei  colloqui di pace, degli ebrei, degli israeliani, lanciano un appello  affinché sia tolto l’assedio a Gaza e per la fine dell’occupazione.
 Il carico della nave è composto da  aiuti simbolici in giocattoli per i bambini e strumenti musicali,  quaderni, reti per la pesca per i pescatori di Gaza e protesi per  interventi chirurgici negli ospedali di Gaza.
 L’organizzazione ospite a Gaza è il  Programma di salute mentale, diretta dal Dr. Eyad Sarraj, medico  psichiatra.
 La nave tenterà di raggiungere la  costa di Gaza e scaricare gli aiuti con un’azione simbolica non violenta  di solidarietà e di protesta. Sarà fatto un appello per la fine  dell’assedio di Gaza e perché sia possibile la circolazione di persone e  merci da e verso Gaza.
 La nave issa diverse bandiere  della pace che portano il nome di dozzine di ebrei che hanno  espresso il loro appoggio a questa azione, simbolo del largo sostegno a  questa nave da parte degli ebrei di tutto il mondo.
 Da Londra, Richard Kuper del  gruppo Ebrei per la giustizia per i palestinesi, membro del  gruppo organizzatore, ha dichiarato, oggi, che la nave ebraica per Gaza è  un atto di protesta simbolica contro l’occupazione israeliana dei  territori palestinesi e contro l’assedio di Gaza ed è anche un messaggio  di solidarietà con i palestinesi e gli israeliani desiderosi di pace e  giustizia.
 «Il governo israeliano non ha il  sostegno di tutti gli ebrei» ha detto Richard Kuper.  « Noi ci appelliamo ai governi e ai popoli del mondo perché si  esprimano e agiscano contro l’occupazione e contro l’assedio».
 Riguardo il rischio di  intercettazione da parte della marina israeliana, Richard Kuper ha  precisato: «questa è un’azione non violenta. Noi vogliamo raggiungere  Gaza, ma i nostri militanti non si impegneranno in alcuno scontro  fisico. Non offriremo alcuna ragione né scusa agli israeliani per  ricorrere alla forza o per attaccarli.
 
Reuven Moshkovitz,  passeggero di 82 anni, ha detto di aver dedicato la propria vita dei  nemici degli amici. «Siamo due popoli ma abbiamo lo stesso futuro» Ha aggiunto «Per me è un dovere sacro in quanto sopravvissuto (alla Shoah) di protestare contro la persecuzione, l’oppressione e la reclusione di tanta gente, tra cui oltre 800.000 bambini a Gaza». *** Numero di telefono satellitare per raggiungere i passeggeri a bordo è: 008821668610337Contatto stampa a Londra: Yosh 00 8821668610337
 Contatto JNews in Israele: Miri 00 972 549270796
 Gruppi di sostegno: Organizzazioni ebraiche e singoli in Olanda, Germania, Stati Uniti, Svizzera, Danimarca, Svezia, Belgio, Francia, Austria, Australia e Israele.
 Organizzatori e sponsor: Ebrei Europei per una Pace Giusta (EJJP), Jews for Justice for Palestinians (Regno Unito), Jüdische Stimme Für einen Gerechten Frieden in Nahost (Germania), American Jews for a Just Peace (USA), Jewish voice for Peace (USA), Jews Against the Occupation (Sydney, Australia)
 (Traduzione dal francese Cinzia Nachira)
  (domenica 26 settembre 2010)  
   
	
	
I COMBATTENTI PER LA PACE
 
  
   Ex soldati israeliani ed ex prigionieri  palestinesi, dal 2005, si sono uniti per creare l’organizzazione “combattenti  per la pace” con l’obiettivo di porre fine all’occupazione  militare israeliana riportando la legalità e la giustizia nei Territori  Occupati, attraverso gli strumenti della “non violenza”. Non è facile  credere nella “non violenza, quando, da una parte, c’è il dominio  territoriale di uno stato, mentre dall’altra, ci sono persone costrette a  vivere accerchiate in zone controllate da ogni parte, all’interno di un  muro. A volte, però, i miracoli, sotto la veste della “conoscenza”, si  avverano.    La maggior parte dei soldati  israeliani, fino all’età dei 18 anni, data in cui inizia il servizio  militare, non conosce la realtà palestinese. Gli insegnamenti scolastici  non prevedono certamente uno studio inerente alla “Nakba”  catastrofe palestinese, ma sono indirizzati invece solo verso la Shoah,  inculcando così solo sentimenti di odio e di paura.Capita, quindi, che quando il proprio  cammino è attraversato da chi rappresenta il proprio nemico, si prenda  coscienza della realtà in cui si vive e, a volte, può, quindi, scattare  il dubbio verso il proprio coinvolgimento nella politica del proprio  governo. L’alternativa al servizio militare obbligatorio (tre anni per i  ragazzi, due per le ragazze) in Israele è la prigione. Esistono  comunque alcuni espedienti più semplici, come per esempio, la  possibilità di andare a studiare all’estero almeno fino ai 24 anni, così  si è reclutati solo per un anno, oppure di presentare un certificato  medico falso in cui si attesti un’instabilità mentale. Occorre quindi  maturare una motivazione forte per arrivare ad un’opposizione al  servizio militare, tenendo anche conto delle conseguenze psicologiche,  oltre a quelle sancite dall’esercito, per l’ostilità espressa dalla  maggior parte della società israeliana e dei propri coetanei. Lo stesso  discorso sulla conoscenza dell’altro può essere valido anche per l’ex  combattente palestinese. Dopo un percorso di violenza subita ed  effettuata si può arrivare, a pensare di percorrere una strada non  violenta per arrivare alla soluzione di un conflitto che dura da 64  anni. I
    Combattenti per la Pace, dunque,  promuovono azioni ed iniziative che mirano al dialogo, alla conoscenza e  alla comprensione reciproca. Credono nella necessità di cessare  l’occupazione e di ogni forma di violenza, nell’educazione all’ascolto e  nel rispetto, attraverso letture pubbliche e racconti di veterani di  entrambi gli schieramenti, nella creazione di progetti per l’educazione  alla non violenza, nella richiesta della nascita di uno Stato  palestinese affianco a quello israeliano, con capitale Gerusalemme Est.
 “I palestinesi sono vittime di un  popolo di vittime, ma il messaggio che voglio dare al mio popolo è che  dobbiamo essere forti abbastanza per non essere più vittime di  nessuno.”  Queste sono le  parole di Bassam Aramin, uno dei fondatori palestinesi  dell’organizzazione “Combattenti per la pace”.
   Avner Wishnitzer,  l’attuale coordinatore della sezione israeliana, commenta: “Se  milito in Combatants for Peace non è solo per altruismo o generosità: lo  faccio per la mia società. Combatants for peace non è un gioco a somma  zero”. Gli fa eco Aramin: “Non schieratevi con  un popolo o con l’altro. Non prendete parte per gli israeliani o per i  palestinesi. Prendete parte per l’umanità. E   per la Palestina libera”.
   Modena,  5 luglio 2010  I rappresentanti dei  Combattenti per la Pace 
 
 Ashraf Khader (Palestinese)                 
 Liri Mizrachi (Israeliana)              hanno rilasciato a Modena le loro testimonianze     
 
	
	
“APPELLO DEI SINDACATI PALESTINESI AL SINDACATO INTERNAZIONALE DEI PORTUALI”
 Bloccate il carico e lo scarico delle navi israeliane 
 Finché Israele non rispetti pienamente il diritto internazionale e metta fine al suo assedio illegale di Gaza
 *Il movimento sindacale palestinese*, soggetto chiave del Comitato nazionale per il "boicottaggio, disinvestimento, sanzioni" fa appello ai sindacati dei lavoratori portuali in tutto il mondo perché blocchino il commercio marittimo israeliano in risposta al massacro operato da Israele di lavoratori e attivisti umanitari a bordo della Flotta per la libertà di Gaza, finché Israele non rispetti il diritto internazionale e metta fine al suo illegale blocco di Gaza.
 
 Ubriaco di potere e impunità, Israele ha ignorato i recenti appelli del Segretario generale delle Nazioni Unite e il quasi generale consenso dei Governi del mondo per la fine dell'assedio, scaricando l'onere sulla società civile internazionale di sostenere la responsabilità morale di obbligare Israele a rendere conto di fronte al diritto internazionale, per mettere fine alla sua impunità criminale. I lavoratori portuali nel mondo hanno storicamente contribuito alla lotta contro l'ingiustizia, e in modo particolare contro il regime di apartheid in Sud Africa, quando i portuali hanno rifiutato di caricare/scaricare i cargo da e per il Sud Africa come uno dei mezzi più efficaci di protesta contro il regime di apartheid.
 
 Oggi, vi chiediamo di unirvi al *South African Transport and Allied Workers Union* (SATAWU), che ha deciso di non scaricare le navi israeliane a Durban nel febbraio 2009 per protestare contro la guerra di aggressione israeliana contro Gaza e al sindacato svedese dei portuali *Swedish Dockworkers Union* [2] che ha deciso di bloccare tutte le navi israeliane e cargo per e da Israele per protestare contro l'attacco israeliano alla flotta della libertà e la prosecuzione dell'assedio mortale israeliano della striscia occupata di Gaza //
 
 Il perdurante blocco israeliano di essenziali alimenti, materiali per la salute, la scuola, la costruzione non è solo immorale, è una durissima forma di punizione collettiva, un crimine di guerra rigidamente proibito dall'art. 33 della 4 Convenzione di Ginevra, - che sta provocando povertà di massa, inquinamento dell'acqua, disastro ambientale, malattie croniche, devastazione economica e centinaia di morti. Questo triennale assedio medioevale contro 1,5 milioni di palestinesi a Gaza, è stato apertamente condannato da autorevoli esperti giuristi, incluso il relatore speciale delle Nazioni Unite Richard Falk, che lo descrive come, nella sostanza, un "lento genocidio".
 
 Il deprecabile attacco di Israele a navi disarmate è insieme una violazione del diritto marittimo internazionale e della Convenzione sul diritto del mare delle Nazioni Unite, che stabilisce che "l'alto mare dovrebbe essere riservato a obiettivi di pace". Secondo l'articolo 3 della Convenzione di Roma "per la soppressione degli atti illegali contro la sicurezza della navigazione marittima" del 1988, risulta crimine internazionale per chiunque prendere o esercitare il controllo di una nave con la forza, ed è anche crimine ferire o uccidere persone durante queste azioni. Come hanno recentemente confermato eminenti esperti di diritto internazionale non c'è assolutamente alcuna giustificazione legale per l'atto di aggressione di Israele contro navi civili internazionali, cariche di aiuti umanitari e per lo sviluppo, per civili che soffrono sotto l'occupazione e un blocco palesemente illegale, che ha creato e sostenuto deliberatamente, con mani umane, una catastrofe umanitaria. La nostra risposta deve essere proporzionata a questa crisi.
 
 Gaza oggi è diventato il banco di prova della nostra moralità universale e della nostra comune umanità. Durante la lotta contro l'apartheid in Sud Africa, il mondo è stato ispirato dalle azioni coraggiose e basate su saldi principi, di lavoratori del porto che rifiutarono di gestire cargo sud africani, contribuendo
 significativamente a far crollare il regime di apartheid. Oggi chiediamo a voi, sindacati dei lavoratori dei porti del mondo, di fare lo stesso contro l'occupazione e l'apartheid israeliano. Questa è la più efficace forma di solidarietà per mettere fine all'ingiustizia e sostenere i diritti umani universali.
 
 Firmato da:
 
 - Palestinian General Federation of Trade Unions (PGFTU)
 - General Union of Palestinian Workers (GUPW)
 - Federation of Independent Trade Unions (IFU)
 - Palestinian Professionals Association**
 - Youth Workers Movement (Fatah)
 
 - Central Office for the Workers Movement (Fatah)
 - Progressive Workers Block
 - Workers Unity Block
 - Workers Struggle Block
 - Palestinian Federation of Unions of University Professors and Employees (PFUUPE) – part of IFU
 - Workers Liberation Front
 - Labor Front Block
 - Workers Solidarity Organization
 - Workers Struggle Organization
 
 **Includes the national syndicates of engineers, agricultural engineers, doctors, dentists, pharmacists, lawyers and veterinarians.
 
 
 
	
	

   ATTACCO   ISRAELIANO ALLA FREEDOM FLOTILLA
   Una flotta composta da 9 navi   con 10mila tonnellate di aiuti umanitari per la popolazione di Gaza   ridotta, ormai,  allo stremo dall’assedio che Israele impone dal 2006,  e  con  circa 700 pacifisti, è stata attaccata questa notte dalle forze   armate israeliane. Per il momento, sembra,  siano state accertate 19   vittime ed una trentina di feriti. Riportiamo alcuni significativi articoli   su questo episodio:
   Israele Stato terroristico di Cinzia Nachira      
   
	
	BASTA EMBARGO CONTRO GAZA!di Mirca Garuti
   Sabato 5 giugno Modena  è stata attraversata da una manifestazione di massa in solidarietà con la Palestina, per il diritto all’autodeterminazione, per la liberazione dei pacifisti e per la fine dell’ignobile embargo contro Gaza.                                                          
  
       L’azione contro la Freedom Flotilla, svolta in acque internazionali, ha causato, ufficialmente, la morte di 9 persone ed il ferimento di altre 45, tra cui alcuni in modo molto grave. Le otto navi della flotta che trasportavano materiali di costruzione, scolastici, generatori, impianti fotovoltaici, medicinali e beni di prima necessità, sono stati sequestrati ed i 750 attivisti, arrestati. La notizia dell’attacco è stata immediata, come la reazione nei territori occupati, nelle regioni dei paesi arabi, in Europa e nel resto del mondo. Le Tv, i siti web, i giornali hanno riempito spazi, prime pagine con il racconto di quanto accaduto cercando, con le prime analisi dei fatti, di capire cosa, come e il perché di tutto questo.
 Ci troviamo di fronte  all’ennesimo atto di terrorismo del governo israeliano.
 Israele, come sua prima risposta,  giustifica l’accaduto come “legittima difesa”e così, i pacifisti, messi sotto accusa, sono diventati “Provocatori” e la flotta “la nave del terrore e dell’odio”.
 La reazione dell’Onu è stata molto cauta. Dopo una riunione durata più di dieci ore, ha rilasciato solo una dichiarazione formale con la quale condanna gli atti sfociati nella perdita di vite umane, chiede il rilascio dei civili e l’apertura di un’indagine “rapida, imparziale, credibile e trasparente”(ma non internazionale).  Anche, però, tutta l’indignazione mostrata in questi giorni da parte dei governi occidentali e di quelli arabi non si è tradotta, alla fine,  in nulla di concreto. Nessuno propone di rompere gli accordi di cooperazione economica o militare con il governo Netanyahu. È un’indignazione volta a calmare le rispettive opinioni pubbliche e nella quale l’Italia, nonostante la presenza di suoi sei cittadini coinvolti nella Flotilla, assieme agli Stati Uniti e Olanda, ha votato contro la risoluzione del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite che chiedeva di “inviare una missione internazionale per indagare su violazioni delle leggi internazionali”. Il Ministro degli Affari Esteri italiano Franco Frattini ha spiegato questo NO affermando che “Israele è uno Stato democratico e perfettamente in grado di condurre un’inchiesta credibile e indipendente”.
 In Italia, come nel resto del mondo, soltanto la crescita di una mobilitazione di massa potrà aiutare il popolo palestinese.
 Così è stato: tantissime persone, spontaneamente, sono scese in piazza in tante città, paesi, per protestare contro l’impunità in cui si avvolge Israele! Manifestazioni che, a volte, sono state attraversate da violenze da parte di polizia o da semplici cittadini al grido di “Viva Israele!”.
      E’ successo a Qalandiya, posto di blocco che divide Ramallah da Gerusalemme, una giovane artista americana, Emily Henochowicz, durante la manifestazione, subito dopo l’attacco israeliano alla Freedom Flotilla, è stata colpita in pieno volto da un candelotto di gas lacrimogeno sparato dalla polizia israeliana. Ha subito l’asportazione del bulbo oculare ed altre fratture al viso. L’indagine interna (sempre e solo quella!) ha accertato che è stato solo un incidente: il candelotto ha colpito prima il muro e, poi di rimbalzo, il viso di Emily.
 Sembra, invece, che la guardia di frontiera israeliana abbia sparato in successione tre candelotti ad alta velocità mirando ai manifestanti, Emily era solo ad una quindicina di metri di distanza dalla polizia, quindi, l’impatto è stato molto forte. Un attivista israeliano ha dichiarato che, in questi casi, il gas lacrimogeno dovrebbe essere sparato con una traiettoria di 60 gradi, ma, spesso non succede e, l’esercito spara sui dimostranti a distanza ravvicinata.
   
 A Roma, invece, al termine della manifestazione di venerdì 4 giugno, un ragazzo ed una ragazza,  mentre tornavano a casa, hanno subito un’aggressione, un pestaggio in piena regola,  da quattro ragazzini in motorino. Dieci secondi di terrore, di rabbia, e poi, con il grido “Forza Israele”, tutto finito! Aspettano di colpire due persone isolate, tranquille, non vanno dentro il corteo a confrontarsi con gli organizzatori o con i militanti, no, sarebbe troppo difficile!   
  Anche le notizie apparse sui giornali sono state, a volte, molto pesanti e molto lontane dalla verità. 
     Il titolo migliore va al “Giornale” con il commento di Vittorio Feltri “Israele ha fatto bene a sparare, Dieci morti tra gli amici dei terroristi”, oppure l’articolo che porta la firma di Fiamma Nirenstein : "Dieci morti per una verità capovolta" All’articolo della Nirenstein risponde Miriam Marino, scrittrice ed attivista per i diritti umani: “Rovesciamento della verità , bugie, sono tutti strumenti usati dalla Nirestein in modo eccellente nella sua fervente propaganda per una causa persa. Gli argomenti sono quelli del ladro incallito che accusa gli altri di rubare. Secondo lei a Jenin non fu fatta strage, il piccolo Mohamed Al Dura si sarebbe assassinato da solo e i pacifisti turchi avrebbero provocato le teste di cuoio che hanno fatto l'arrembaggio piratesco in acque internazionali. I civili per lei sono “guerrieri di prima fila”e perciò è giusto ucciderli. La serie di vomitevoli stupidaggini che elenca l'articolo è tale da richiedere un rotolo di scottex, mi soffermerò su alcune perle: siccome la striscia di Gaza è dominata da Hamas che a suo dire perseguita i cristiani, (i quali sono andati via per sfuggire alla vita impossibile sotto occupazione e non ad Hamas) e che condanna a morte tutti gli ebrei (ma pare che non abbia eseguito la condanna visto che gli ebrei ci sono ancora) che usa bambini, edifici allo scopo di combattere l'occidente intero (siamo ancora all'aberrante dottrina dello “scontro di civiltà”) e così abbiamo anche giustificato il crimine di “Piombo fuso” si sa, a Gaza case, scuole, ospedali,bambini, non esistono di per se, ma per essere usati da Hamas di modo che Israele li bombardi. Il piccolo particolare che a Gaza c'è un milione e mezzo di persone, la metà  bambini e minori, oltre Hamas, non sfiora la mente dell'illuminata articolista.
 Da tempo sono disgustata dagli articoli della Nirestein fin dagli anni della seconda Intifada, quando occupava la prima pagina di “Shalom” il giornale nazionale ebraico con articoli pieni di ipocrite e velenose menzogne. Come  donna e come ebrea non posso accettare e tollerare un simile disprezzo per la verità , per ogni criterio di legalità e di giustizia.”
   Nell’agosto 2005 il governo israeliano inizia il ritiro dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza. Le scene che ritraggono le forze militari mobilitate per smantellare gli insediamenti illegali fanno il giro del mondo. Viene solo sottolineata la sofferenza ed il sacrificio dei coloni costretti ad andarsene. In realtà questo “ritiro” non è altro che un trasferimento da Gaza alla  Cisgiordania in alloggi aggiuntivi o in nuovi insediamenti, ma soprattutto, è che i Palestinesi non hanno, in realtà,  nessuna sovranità nella Striscia. Israele mantiene, infatti, il controllo su tutti gli accessi via mare, terra e cielo. Gaza era ed è una prigione isolata e violata. Questo “ritiro” è stata una mossa vincente per Israele, per vari motivi: mantenere quelle colonie era diventato troppo oneroso, attaccare, ora, la Striscia diventava più facile, in quanto non esistevano più ostacoli ed infine il premier israeliano Sharon aveva ottenuto il plauso della comunità internazionale per la sua umanità. 
A fine gennaio 2006 a Gaza, come in Cisgiordania e Gerusalemme Est, ci sono le elezioni politiche. 
Hamas vince a Gaza. “Il popolo palestinese è stanco dell’incompetenza di Fatah e della corruzione endemica che lo corrode. Se la corruzione esisteva fin dai tempi di Arafat, questa era controbilanciata, per così dire, dall’esistenza di una linea politica pressappoco coerente. Con la morte del presidente dell’Olp e dell’Autorità Palestinese, di Fatah  non resta che la corruzione, o quasi.”(Michel Warschawskj in Programmare il Disastro, genn.2009). 
Gaza è attaccata ripetutamente: estate 2006(“Pioggia Estiva”)  febbraio 2008 (“Inverno Caldo”) ed infine  dicembre 2008/gennaio 2009 (“Piombo Fuso”).   Sono molteplici le violazioni del diritto internazionale che Israele ha commesso nell’ultima operazione “Piombo Fuso” denunciate da varie indagini indipendenti e dal rapporto Onu “Goldstone”. Prima di tutto c’è l’embargo, un piano di isolamento economico e politico imposto da Istraele alla Striscia di Gaza, da molto tempo: limitazione di beni che possono entrare a Gaza, il taglio al rifornimento di energia elettrica ed acqua e la chiusura dei confini per persone e cose. Israele, vincolato dalla Quarta Convenzione di Ginevra, dovrebbe assicurare una adeguata distribuzione di cibo ed attrezzature sanitarie per andare incontro ai bisogni della popolazione. L’esercito israeliano ha poi deliberatamente attaccato la popolazione civile,  rifiutando, spesso, anche il legittimo permesso di evacuare i feriti o l’accesso alle ambulanze. Ha usato armi improprie, come il fosforo bianco ed i missili flechettes. Ha distrutto infrastrutture industriali, fabbriche alimentari, impianti idrici, sistema fognario ed abitazioni ( es. attacco al Mulino “Al Bader”, l’unico funzionante all’interno della Striscia, all’azienda di allevamento polli, che forniva più del 10% del mercato di uova, al complesso”Namar Wells di Jabalya” composto da due pozzi, sistema di pompaggio, generatore e deposito carburante).  Tutti questi non erano obiettivi militari, ma, erano indispensabili per il sostentamento della popolazione, così come per le abitazioni. E’ stato dunque violato il diritto, per le famiglie colpite dalle distruzione, ad una residenza adeguata. E continua il divieto assoluto di introdurre cemento per la ricostruzione, in quanto, Israele teme che possa servire alla costruzione di nuovi bunker usati da Hamas. Inoltre, civili palestinesi  sono stati usati come scudo umano, sono stati incarcerati, per un lungo periodo, senza aver commesso nessun reato e sono stati oggetto di  rappresaglie. Secondo le dichiarazioni rilasciate dai leader israeliani, la distruzione di beni civili sarebbe motivata da una risposta al lancio dei razzi (“distruggere 100 case per ogni razzo lanciato”), si tratta, dunque, di rappresaglia contro civili, contrarie al diritto umanitario internazionale. Il sistema sanitario è stato messo a dura prova, anche perché, gli ospedali e le ambulanze erano diventati un obiettivo degli attacchi israeliani. Non sono quantificabili i numeri delle persone che hanno  riportato disabilità permanenti, così come, la previsione relativa al numero di individui con problemi e disturbi mentali, è molto alta. Sono state compiute violazioni delle specifiche disposizioni relative alla protezione dei diritti umani dei bambini, particolarmente di quelli che sono vittime di conflitti armati, ma anche di disabili e donne.
 Israele ha violato obblighi specifici in qualità di Potere Occupante, come chiaramente illustrato nella Quarta Convenzione di Ginevra, quali l’obbligo a mantenere in attività centri medici e ospedalieri e fornire i servizi correlati nonché a concordare programmi d soccorso, nel caso in cui i territori occupati non siano adeguatamente forniti.
 Ma, alla fine, Israele, si considera sempre “l’unica vera democrazia del Medio Oriente”!
 Per fortuna, non tutti sono d’accordo su questa affermazione e, la lotta per chiedere “Diritti” per il popolo palestinese continua …
 Lo dimostra il fatto che stanno arrivando sempre più notizie relative alla possibilità di tentare di arrivare a Gaza da altri convogli o da rappresentanti di altri paesi: la “Barca Ebraica”, il “Viva Palestina”di George Galloway, la Mezzaluna Rossa iraniana, il Segretario generale della Lega Araba, Amr Musa.
   LA "NAVE DEGLI EBREI" (JEWISH BOAT) PER GAZA PARTIRÀ PRESTO   In un porto del mediterraneo (e non diciamo per ora quale) un piccolo vascello aspetta una missione speciale: partirà per Gaza. Per evitare sabotaggi, data e nome esatto del porto di partenza verranno annunciati solo poco prima della partenza. "Il nostro obiettivo è chiedere la fine dell'assedio di Gaza, di questa illegale punizione  collettiva della intera popolazione civile. La nostra barca è piccola, per questo quello che portiamo può solo essere simbolico: portiamo borse per la scuola, piene di regali degli studenti delle scuole in Germania, strumenti musicali e materiali artistici. Per i servizi medici portiamo medicine essenziali e piccole attrezzature mediche e per i pescatori portiamo reti e attrezzature. Siamo in collegamento con i servizi medici, educativi e mentali a Gaza."
 ''Attaccando la flotta della libertà Israele ha dimostrato, ancora una volta, a tutto il mondo la sua odiosa brutalità. Ma io so che ci sono moltissimi israeliani impegnati nella campagna per una pace giusta con passione e coraggio. Dal momento che sulla nostra barca ci saranno importanti giornalisti dei canali radiotelevisivi, Israele avrà una grande occasione per mostrare al mondo che c'è un'altra strada, una strada di coraggio e non di paura, una strada di speranza e non di odio'',dice Edith Lutz, una degli organizzatori e passeggeri della “nave degli ebrei”.
 La ''Jüdische Stimme'' (Voce ebraica per una pace giusta in medio oriente), insieme ai suoi amici della rete “Ebrei europei per una pace giusta in Medio oriente” e “Ebrei per la giustizia per i palestinesi (UK)” inviano un appello ai leaders del mondo perché aiutino Israele a tornare alla ragione, al senso di umanità, alla vita senza paura.
 Le “voci ebraiche” si aspettano che i leader di Israele e del mondo garantiscano un passaggio sicuro verso Gaza per la piccola nave e in tal modo aiutino a realizzare un ponte verso la pace.
 
 Edith Lutz, Ejjp-Germany
 Kate Leiterer, Ejjp-Germany
 Glyn Secker, Jews for Justice For Palestinians (UK)
   Mentre questi ultimi avvenimenti sono ancora alla ribalta delle tv e giornali, un’altra vicenda rimane, invece, in sordina. Si tratta della costruzione della barriera egiziana di acciaio di circa 10km., a prova di bomba, che sta avanzando lungo il confine tra Egitto e Gaza. L’opera del “Muro della vergogna”, tempo un anno, sarà conclusa. Il suo intento è quello di bloccare tutti i tunnel sotterranei, ma invece, costringerà, in realtà, i palestinesi solo a scavare più in profondità. L’embargo illegale imposto da Israele costringe la popolazione di Gaza ad inventarsi sistemi per avere quei beni di prima necessità negati dal governo occupante. Il governo di Mubarak è riuscito a rimanere in silenzio di fronte alle proteste del mondo arabo, anzi, più volte la polizia egiziana ha minacciato i suoi residenti sul confine di Rafah di non parlare con la stampa. Se da una parte l’Egitto dichiara che “Chiuderemo tutti i tunnel, e’ un nostro diritto costruire questa  barriera, ed e’ anche legittimo”, dall’altra, con la sua posizione molta ambigua, vuole dimostrare, ora, la sua vicinanza alla popolazione di Gaza aprendo, a tempo indeterminato, il valico di Rafah, però con la condizione “fino a quando non ci saranno violazioni dall’altra parte”.  
 09/06/2010
 
 
	
	ISRAELE SPARA SU FLOTILLA,UCCISI ALMENO 16 CIVILI
 Gaza 31 maggio 2010  (foto dal sito www.haaretz.com  la nave turca ”Mavi Marmara”) Nena News    Almeno 16 attivisti internazionali sono  stati uccisi e oltre 30 sono rimasti feriti la scorsa notte quando le  Forze Armate israeliane hanno aperto il fuoco contro il convoglio navale  ”Freedom Flotilla” in navigazione verso Gaza, dove  avrebbe dovuto scaricare 10mila tonnellate di aiuti umanitari e far  scendere a terra circa 700 pacifisti. Lo riferisce la televisione  privata israeliana “Canale 10″. Al momento nessun attivista italiano  partecipante alla missione pacifista sembra essere rimasto coinvolto ma  la notizia attende una conferma definitiva.Secondo quanto riferito dagli  organizzatori della “Freedom Flotilla”, nel cuore della  notte, commandos israeliani calandosi dagli elicotteri hanno abbordato,  sparando, la nave passeggeri turca “Mavi Marmara”. Un  filmato visibile in streaming mostra i soldati israeliani  sull’imbarcazione e alcuni passeggeri uccisi o feriti.
 L’attacco è avvenuto in acque  internazionali, a 75 miglia al largo della costa israeliana. Da parte  sua Israele dice di aver preso il controllo delle imbarcazioni pacifiste  che non avevano risposto alla sua intimazione di invertire la rotta. I  suoi militari, aggiunge, si sarebbero “difesi” dai  colpi d’arma da fuoco sparati da alcuni passeggeri della nave turca. Una  versione seccamente smentita dagli organizzatori della ”Freedom  Flotilla” che al contrario parlano di strage.
 La coalizione formata dal Free Gaza  Movement (FG), European Campaign to End the Siege of Gaza (ECESG),  Insani Yardim Vakfi (IHH), Perdana Global Peace Organisation, Ship to  Gaza Greece, Ship to Gaza Sweden e International Committee to Lift the  Siege on Gaza, ha lanciato un appello alla comunità internazionale  per chiedere a Israele di fermare l’attacco contro civili che portavano  aiuti di vitale importanza ai palestinesi di Gaza e di consentire alle  navi di continuare il loro cammino. (redazione Nena news)
     
FLOTILLA…ISRAELE  SI LAMENTA PURE PER COSTI ARREMBAGGIO 
 
  Tel Aviv,  31 maggio 2010 Oggi si contano i morti dell’arrembaggio  israeliano alla Freedom Flotilla diretta a Gaza ma gli amministratori  del ministero della difesa a Tel Aviv sono impegnati in altri conteggi.
 Costa tre milioni di shekel  (circa un milione di dollari) il centro di identificazione e  detenzione allestito al porto di Ashdod,  destinato ad «accogliere» i circa 700 attivisti internazionali  a bordo delle imbarcazioni pacifiste arrestati dai commando israeliani.  Come prevede un portavoce del ministero della difesa, che ha parlato al  quotidiano economico on line «Globes», molti dei  pacifisti stranieri che arriveranno al centro di detenzione Ashdod non  collaboreranno ed attueranno forme di protesta per l’uccisione e il  ferimento di  tanti loro compagni, “allungando” i tempi della detenzione  e, di conseguenza, anche i costi per il loro mantenimento.
 Da parte sua «Globes» aggiunge che lo Stato  di Israele dovrà pagare il costo dei biglietti aerei necessari per  rimandare a casa gli attivisti arrestati e che la Marina militare dovrà  spendere fondi per il mantenimento della flottiglia sequestrata con la  forza e al termine di uno spargimento di sangue in alto mare.  L’Esercito, prosegue il giornale on line, dovrà provvedere a far  arrivare a Gaza almeno una parte delle 10mila tonnellate di aiuti  umanitari a bordo delle navi pacifiste, allo scopo di migliorare  l’immagine internazionale dello Stato ebraico dopo la strage dei  pacifisti.
 (redazione Nena News)
   PIRATI E ASSASSINI!
 

   Israele ha assassinato  un  numero imprecisato di attivisti internazionali in acque  internazionali tra Cipro e Gaza, tra le 19 e le 25 persone. L’attacco  pirata portato questa notte alla nave ammiraglia della Flottiglia  della Libertà era stato pianificato e annunciato da giorni. Le  autorità israeliane, non temendo di cadere nel ridicolo, parlavano di  arrembaggio.Non è la prima volta che  Israele assassina attivisti internazionali, né è sorprendente che  Israele si faccia beffa delle acque internazionali e del diritto  internazionale.
 Questa flottiglia disarmata aveva come  obiettivo quello di tentare di rompere l’assedio che Israele e  l’intera comunità internazionale impone a Gaza fin dal 2006: un  milione e mezzo di civili ostaggi, privati dei più elementari beni di  prima necessità e diritti.
 Mentre scriviamo questo comunicato si  apprende che Israele ha sequestrato l’intera flottiglia  con gli attivisti che la compongono, per dirigerla verso il porto  di Ashdod, dove, preventivamente svuotata, la prigione locale  «accoglierà» gli attivisti internazionali che, dopo l’identificazione,  dovrebbero essere forzatamente rimpatriati.
 Questo atto di palese illegalità  internazionale non ha nessuna giustificazione.
 Israele lo ha commesso forte dell’impunità  internazionale di cui gode e della complicità internazionale su cui può  contare.
 Quello che ora le autorità internazionali  devono fare sono cose elementari:
 
 -    chiedere l’immediata  liberazione delle navi e degli attivisti;
 -    condannare senza appello  Israele per questo atto piratesco senza senso;
 -    portare di fronte a un tribunale  internazionale i responsabili politici e militari di questo atto  barbarico;
 -    imporre a Israele di togliere  l’assedio a Gaza e non solo per motivi umanitari;
 
 Se ciò non verrà fatto semplicemente i  governi occidentali a partire dall’Italia saranno tutti complici della  morte lenta e disperata di un milione e mezzo di civili, corresponsabili  dell’assassinio di tante persone disarmate il cui unico carico è  rappresentato da beni di prima necessità, materiale da costruzione,  materiale medico.
 Mobilitarci immediatamente  in solidarietà con il popolo palestinese di Gaza sotto assedio, con le  vittime,  i feriti e gli arrestati della Flottiglia internazionale è  nostro dovere.
 Ora il governo italiano ha il dovere di  proteggere i propri concittadini in mano agli israeliani e chiederne  l’immediata scarcerazione.
 
 GRUPPO BDS SALENTO
   GAZA, ASSALTO IN MARE 
   Sono almeno venti le vittime  dell’assalto dell’esercito israeliano, avvenuto questa mattina  all’alba, di una delle navi che portano aiuti umanitari nella Striscia  di Gaza. La barca assaltata, la Mari Marmara, fa parte della Freedom  Flotilla, gruppo di imbarcazioni partite da vari paesi per portare  sollievo alla popolazione civile di Gaza.
Impossibile contattare gli altri attivisti  della Flotilla, i cui telefoni sono stati oscurati  nella notte, poche ore prima dell'assalto dei corpi speciali israeliani.  Tutti i membri della Flotilla sono da considerare in stato di  fermo e le unità militari israeliane li stanno portando nel  porto di Haifa, mentre in un primo momento il loro arrivo era previsto  nel porto di Ashdod. L'ultimo comunicato stampa della rete che gestisce  l'iniziativa recita: ''Lo streaming video mostra i soldati israeliani  che sparano a civili, e l'ultimo messaggio diceva "Aiutateci, siamo  stati abbordati dagli israeliani".
La coalizione formata dal Free Gaza  Movement (FG), European Campaign to End the Siege of Gaza (ECESG),  Insani Yardim Vakfi (IHH), Perdana Global Peace Organisation , Ship to  Gaza Greece, Ship to Gaza Sweden, e International Committee to Lift the  Siege on Gaza lancia un appello alla comunità internazionale per  chiedere a Israele di fermare questo brutale attacco contro civili che  stavano tentando di portare aiuti di vitale importanza ai palestinesi  imprigionati a Gaza e di consentire alle navi di continuare il loro  cammino. La diretta dell'iniziativa umanitaria veniva seguita in diretta  sul sito della coalizione, WitnessGaza.
Il numero delle vittime non è accertato,  l'unico numero è stato fornito da un portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri.  Quest'informazione, fornita in una intervista in tv, non ha per ora  altra conferma. 
Le immagini, trasmesse in tutto il mondo  da al-Jazeera, che ha una troupe a bordo di una delle  navi, mostrano elementi delle forze d'assalto israeliane che fanno  irruzione a bordo. La Radio Militare israeliana ha confermato, poco fa,  che le vittime sono almeno 16. Secondo i militari israeliani, gli  incursori avrebebro incontrato resistenza nel tentativo di salire a  bordo, in quanto alcuni membri dell'equipaggio brandivano non meglio  precisate 'armi da taglio'. 
L'assalto è avvenuto a 65 chilometri dalla  costa della Striscia di Gaza, in acque internazionali. Il cargo  batteva bandiera turca e il governo di Ankara ha già  rilasciato una nota nella quale chiede immediati chiarimenti al governo  israeliano. La polizia turca ha protetto dall'assalto di un gruppo di  dimostranti la sede diplomatica israeliana ad Ankara.
Una fonte ufficiale dell'esercito  israeliano, sentito dalla televisione al-Arabiya, ha confermato che che  le vittime sono 19: nove cittadini turchi e diversi arabi, anche se non è  stata fornita la nazionalità di tutte le vittime. Al momento sono stati  inoltre ricoverati 16 feriti, tra cui dieci soldati israeliani colpiti  con coltelli durante l'assalto alle navi dai volontari. Si attende  l'arrivo di tutte le navi nel porto di Ashdod mentre prosegue il  recupero dei feriti da parte della marina israeliana. 
La Turchia ha convocato l'ambasciatore  israeliano ad Ankara dopo l'assalto. Lo ha reso noto un diplomatico  turco. "L'ambasciatore Gabby Levy è stato convocato al  ministero degli Esteri. Faremo presente la nostra reazione nei termini  più perentori". Il vice-premier Bulent Airnc ha convocato una riunione  di emergenza ad Ankara a cui partecipano tra l'altro il ministro  dell'Interno, il comandante della Marina e il capo delle operazioni  dell'esercito
''Proclamiamo per domani uno sciopero  generale a Gaza e in Cisgiordania in solidarietà con i volontari della  flotta attaccata dai militari israeliani", ha annunciato Ismail  Haniyeh, primo ministro di Hamas. Haniyeh ha indetto una  conferenza stampa, in diretta televisiva, questa mattina. ''Quella  di oggi sarà ricordata come la giornata della libertà per il popolo  palestinese - ha affermato - tutte le vittime di questo attacco saranno i  martiri del nostro popolo''. Haniyeh ha invocato la collaborazione  dell'Autorità nazionale palestinese, guidata da Abu Mazen  e che controlla la Cisgiordania, della Lega  Araba e dell'Unione Europea.  La Lega Araba ha reagito subito,  convocando per domani al Cairo una riunione urgente dopo l'attacco di  questa mattina. Lo ha reso noto una fonte della Lega Araba citata da  al-Arabiya.
Alta tensione anche in Israele.  La polizia israeliana, appena è stata diffusa la notizia dell'assalto  alla nave della Flotilla, ha predisposto la chiusura al traffico di  alcune vie di comunicazione sensibili, in particolare in zone dov'è alta  la presenza di arabi-israeliani. Movimenti di polizia si sono, in  particolare, registrati subito nella zona di Wadi Ara, dove la tensione è  alta, in quanto si è diffusa la notizia che una delle vittime sarebbe  lo sceicco Raed Sallah, originario di questa zona. 
La polizia israeliana ha inoltre  deciso di isolare la zona della Spianata delle Moschee a Gerusalemme.
31/05/2010 da PeaceReporter   Christian Elia   Gaza: la CGIL esprime profondo cordoglio, ora ferma  condanna Israele 
 
 Riprendere immediatamente il  processo di pace, con il coinvolgimento della Comunità Internazionale La CGIL, di fronte ai  gravissimi fatti di questa notte che hanno visto l’assalto militare  israeliano al convoglio umanitario nelle acque internazionali di fronte a  Gaza, con un numero elevato di morti e feriti tra gli attivisti  pacifisti, esprime il suo profondo cordoglio alle  famiglie delle vittime e chiede al Governo Italiano, all’Unione  Europea e alla Comunità Internazionale la più ferma  condanna del comportamento di Israele.
 
 Non è più possibile rimanere inerti di  fronte al continuo aggravarsi del dramma della popolazione di Gaza. La  CGIL sostiene con forza la richiesta dell’Alto  Rappresentante per la politica estera europea Catherine Ashton  “dell’immediata apertura senza condizioni del libero passaggio del  flusso di aiuti umanitari, beni commerciali e persone da e per Gaza”.
 
 L’Italia e la UE, coerentemente con tale  posizione, devono essere ben più incisivi rispetto all’insostenibilità  dell’attuale situazione umanitaria di Gaza e devono chiamare in  causa la diretta responsabilità di Israele che continua nel suo rifiuto  del rispetto dei deliberati e dei trattati internazionali, come dimostra  anche la mancata adesione al trattato di non proliferazione nucleare.
 Di fronte alla reiterata politica  unilaterale di Israele, occorre assumere provvedimenti concreti, a  partire dall’invio di una forza di interposizione per garantire ai  Palestinesi normali condizioni di vita. Occorre  riprendere  immediatamente il processo di pace, con il coinvolgimento della Comunità  Internazionale, al fine di evitare l’ulteriore drammatico aggravamento  delle tensioni nell’area medio-orientale che questo episodio violento  rischia di rialimentare.
 
 La CGIL, sulla base di tali  posizioni, promuoverà iniziative su tutto il territorio nazionale.
 31/05/10
 
    Movimento  di liberazione nazionale palestineseFateh – sezione Italia
 
 
   Oggi la marina militare  dell’esercito d’occupazione israeliana, ha commesso l’ennesimo atto di  brutale criminalità, nelle acque internazionali, attaccando  questa volta, i pacifisti solidali con la causa palestinese. Con la loro flotilla erano diretti a Gaza,  trasportando  tonnellate di aiuti umanitarie alla sterminata  popolazione della striscia di Gaza, costretta a vivere, da quattro anni  circa, sotto un criminale assedio. 
 Il movimento di liberazione nazionale  palestinese “fateh” sezione Italia, esprime la sua piena  condanna, di questo crimine, compiuto contro gli attivisti  della solidarietà e chiede, a tutte le forze politiche, sociali,  comitati di solidarietà e organizzazione internazionale, di condannare  questa catena di assassini programmati e l’occupazione  di un popolo che subisce tuttora una pulizia etnica,  iniziata 60 anni orsono.  Chiede, inoltre, alla  comunità internazione, di considerare questo governo israeliano  illegale e fuori dalla comunità internazionale  e di adottare tutte le misure di sanzioni nei suoi confronti.
 Esprime la rabbia e il profondo dolore a  tutti i partecipanti alla flotilla per questo vile atto, che ha causato  la caduta di 19 morti e decine di feriti, e chiede il rilascio immediato  di tutti i componenti della flotilla, per poter proseguire la loro  missione e raggiungere Gaza.
 
 Rivoluzione fino alla vittoria!
 
 Roma 31maggio2010
   
 
	
	
IL 25 APRILE SENZA FASCISTI E SIONISTI ALLE NOSTRE MANIFESTAZIONI 
dal Comitato "Palestina nel cuore"  
 A tutti gli antifascisti
 Ai soci dell’ANPI
 Agli iscritti all’ANPI giovani
 
 
 Oggi a Roma il comizio convocato dall’ANPI a Porta San Paolo è  stata l’occasione per assistere a una serie di gravissime provocazioni  che come antifascisti e democratici non siamo disposti a tollerare e di  cui chiediamo conto alla direzione dell’ANPI nazionale e romana.
 Alla  commemorazione del 25 aprile è stata invitata la neo-presidente  della Regione Lazio Renata Polverini; un invito reso  più grave dall’imminenza del  7 maggio, giorno in cui   il blocco studentesco ha convocato la sua marcia su Roma  insultando la storia di una città  medaglia d’oro della Resistenza:  un merito riaffermato nel corso degli anni dalle lotte antifasciste  delle generazioni di giovani che si sono susseguite.  Renata Polverini è  parte di una coalizione politica reazionaria, promotrice  di politiche  classiste, razziste, clericali e omofobe.
 Come se non bastasse, erano presenti e sono stati invitati sul palco  esponenti dell’Associazione Romana Amici d’Israele,  calata a Porta San Paolo con un delirante volantino inneggiante al  sionismo e a Israele, e sventolando bandiere israeliane, tra cui faceva  bella mostra di sè la bandiera dell’aviazione israeliana; l’aviazione   israeliana l’anno scorso  ha perpetrato – lo ricordiamo a chi se lo  fosse dimenticato -  il massacro di Gaza bruciando  oltre  1400 vite in 20 giorni, e continua a bombardare quotidianamente  la striscia di Gaza stretta in un assedio criminale. Cosa  c’entrano questi sciacalli con la Resistenza? La nostra  Resistenza ha combattuto per dare a tutti la possibilità di emanciparsi e  di vivere in uno stato laico e ospitale: il sionismo è  un’ideologia neocoloniale che mira alla supremazia del  popolo ebraico e alla sopraffazione del popolo palestinese, negandogli  il diritto alla vita, alla terra e alla libertà; “il problema è  la natura etnica del sionismo: il sionismo non ha gli stessi  margini di pluralismo che offre il giudaismo, meno che mai per i  palestinesi. Essi non potranno essere mai parte dello stato e dello  spazio sionista e continueranno a lottare” (da “La pulizia etnica della  Palestina” di Ilan Pappè, docente israeliano rifugiatosi in Inghilterra,  all’università di Exeter).
 
 Contro la politica di  apartheid dello stato israeliano in tutto il mondo sta crescendo  una campagna  di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni: “La stessa  questione della uguaglianza è ciò che motiva il movimento per il  disinvestimento di oggi, che ha come obiettivo la fine dell'occupazione  israeliana da 43 anni e l'iniquo trattamento del popolo  palestinese dal governo israeliano. Gli abusi che i palestinesi  si trovano ad affrontare sono reali, e nessuna persona dovrebbe  essere offesa da atti di principio, moralmente coerente e nonviolenta  per opporvisi. Non è affatto sbagliato accusare Israele in  particolare per i suoi abusi come non lo era accusare il regime  dell'Apartheid in particolare per i suoi abusi”.  (Desmond Tutu,  arcivescovo emerito di Città del Capo). 
 L’ANPI ospita  invece i sostenitori di Israele! 
 A coloro che  ingiustamente vi accusano di slealtà o danno a loro arrecato da questa  vostra richiesta di disinvestimento, vi propongo, con umiltà, che il  danno subito dal confrontarsi con pensieri che sfidano le proprie  opinioni impallidisce rispetto al danno fatto da una vita sotto  occupazione e quotidiana negazione dei diritti fondamentali e della  dignità. Non è con rancore che critichiamo il governo israeliano, ma con  speranza, una speranza che si possa realizzare un futuro migliore per  israeliani e palestinesi, un futuro in cui sia la violenza degli  occupanti che la conseguente resistenza violenta degli occupati  finiscano, e dove una popolazione non domini su un'altra,  generando sofferenza, umiliazione e ritorsioni. In mezzo a loro c’era non solo il neofascista Riccardo Pacifici ma  anche la deputata del  PDL nonché colona sionista israeliana  Fiamma Nirenstein che si è dichiarata sorpresa dalla  contestazione e così farnetica nel suo blog: “E' del tutto sconcertante  assistere ad atteggiamenti di tale aggressività da parte di gente che ancora  osa sventolare bandiere con falce e martello e soprattutto bandiere  palestinesi nel giorno della Liberazione”.
 
 Sono le  nostre bandiere: non tollereremo mai più simili offese nè che una simile  razzista abbia agibilità nei nostri cortei. 
 Chiediamo conto ai dirigenti dell’ANPI di queste scelte:  è chiaro il vostro tentativo di voler  riscrivere la storia e i valori  dell’antifascismo, invitando personaggi come Renata Polverini, Fiamma  Nirenstein e associazioni che sostengono uno stato  guerrafondaio e  razzista come lo stato di Israele. L’apologia di Israele non ha niente a  che vedere con la lotta di liberazione, la politica di Israele  contraddice apertamente l’articolo 11 della costituzione italiana (così  spesso citato dall’ANPI): Israele ha sempre utilizzato la guerra e il  terrore come strumento politico  principale. E’ di questi giorni il  decreto militare di espulsione emesso da Israele, che colpirà decine di  migliaia di palestinesi residenti in Cisgiordania perché privi di  documenti che Israele stessa si rifiuta di dargli.
 
 Ci rivolgiamo  ai giovani iscritti all’ANPI e a tutti gli iscritti all’ANPI perché si  facciano promotori di una protesta  presso i loro dirigenti, colpevoli  di scelte che snaturano i valori di questa associazione! 
 Agli  antifascisti: difendiamo i valori dell’antifascismo! Nessuno spazio per i  sionisti e per i revisionisti! Ora e sempre resistenza a fianco dei  popoli oppressi. 
 Roma, 25 aprile 2010(dal sito:Forumpalestina.org)
 
 
	
	
PALESTINA: DALLA CRISI USA-ISRAELE AD UNA NUOVA  INTIFADA?   
 Le frizioni tra la nuova amministrazione  statunitense e Israele tutto possono essere tranne che sorprendenti.  Compreso lo stile di brutalità con le quali sono emerse.
 
 La brutalità diplomatica, e  non solo,  del nuovo governo israeliano…e dell’ “opposizione”
 
 Tzipi Livni, ex primo  ministro israeliano, criminale di guerra, durante i bombardamenti sulla  striscia di Gaza del 2008-2009 rivendicò, in modo  chiaro, che la politica israeliana sarebbe stata costellata da azioni  “folli”. Lei è una che se ne intende: in 22 giorni,  sotto la sua responsabilità, sono stati assassinati 1.400 civili  palestinesi, di cui un numero intollerabile di bambini.
 La Livni è la rappresentante moderata di un’«opposizione»  al governo il più oltranzista, razzista e xenofobo della storia  israeliana.  Il governo è  peggio.
 In questo quadro, appena abbozzato, non è  sorprendente che il ministro dell'interno israeliano  Eli Yishai,  esponente dell’estrema destra religiosa, abbia contribuito a tendere i  rapporti con gli USA, annunciando, durante il viaggio nella regione del  vice presidente John Biden, la costruzione di 1.600  nuovi alloggi nella colonia di Ramat Shlomo, a Gerusalemme  Est. Tutto questo dopo che l’inaugurazione, in grande stile, di una  restaurata sinagoga, risalente al XVII secolo, sita a poche centinaia di  metri dalla Moschea di Al Aqsa, aveva già prodotto,  agli inizi del mese di marzo, scontri tra palestinesi e esercito  israeliano.
 Si può perfettamente concordare con Gideon  Levy, una delle poche voci rimaste lucide del giornalismo  israeliano, che in un editoriale su Hareetz, il giorno  dopo l’annuncio di Yishai, ringrazia il ministro per aver sollevato la  nebbia della patina dorata con cui si voleva avvolgere la visita di  Biden in Palestina.
 
 L’agenda degli USA non  coincide con quella israeliana
 
 È chiaro che ora, a poco più di un anno  dall’annunciato ritiro dall’Iraq, l’amministrazione USA ha bisogno  urgentemente di allentare la tensione sul dossier palestinese.
 Il tentativo avviato ormai da mesi  dall’amministrazione Obama è quello di tornare al “clima  di Oslo”. Per questo motivo, Biden aveva il  compito di approntare un “negoziato indiretto”.  Indiretto perché è evidente l’impossibilità di poter avviare un  negoziato reale. Sarebbe bastato poco a Obama, Biden e Clinton per  ritenersi soddisfatti.
 In cambio di una loro posizione  intransigente contro l’Iran e il suo nucleare, si sarebbero accontentati  di una promessa di congelamento degli insediamenti a Gerusalemme est.  Ovviamente, anche se ciò è insufficiente, una cosa simile sarebbe  bastata agli USA per imporre all’ANP di Abu Mazen di  accettare dei negoziati.
 Se lo scompiglio prodotto da Yishai ha  provocato una crisi che non possiamo prevedere come si concluderà,  tuttavia conferma un dato: le agende di Stati Uniti e Israele,  oggi, non coincidono.
 A Tel Aviv, durante il  discorso tenuto all’università, Biden ha detto parole precise in questo  senso: « A volte proprio un vecchio amico di Israele, appunto come  me, deve far sentire la sua voce».
 Questo, ovviamente, non significa che  concretamente, come si è già detto, gli USA siano pronti a rimettere in  discussione la politica di colonizzazione della Cisgiordania, che  prosegue indisturbata, né, ancor più, la costruzione del Muro di  separazione e l’assedio feroce alla striscia di Gaza. Ciò significa che,  come ribadito da Netanyahu nel suo viaggio negli Stati  Uniti, il suo governo rivendica il «diritto» a  costruire a Gerusalemme perché si rivendica Gerusalemme come capitale  eterna dello Stato ebraico di Israele. Per altro a Gerusalemme,  compresa la sua periferia, già vivono 200.000 coloni.
 Moshe Dayan, il generale  che nel giugno 1967 conquistò la parte est della città, con questo  slogan attraversò la Porta di Damasco, uno degli accessi alla città  vecchia di Gerusalemme.
 Oggi, nel 2010, Netanyahu  inscrive l’azione politica del suo governo in questa direzione, mai  abbandonata in questi quarantatre anni di occupazione.
 Netanyahu e il governo israeliano si  possono permettere questa disinvoltura perché è chiaro che l’alleanza  di fondo con gli Stati Uniti – soprattutto quella militare – non  è scalfita neanche dalla brutta figura di Biden in Medioriente  e neanche dalla vendetta attuata dallo staff della Casa Bianca che ha  tenuto, la visita di Netanyahu negli USA e soprattutto il suo incontro  con Obama, nell’ombra.
 
 Verso una terza intifada?
 
 L’altra carta in mano a Netanyahu è il  caos che regna sovrano in campo palestinese e arabo.
 Certo, l’ANP di Abu Mazen,  sempre più in crisi, cerca di recuperare credibilità presso il suo  stesso popolo grazie a questa crisi.
 In molti scordano facilmente tre cose  elementari: la subalternità dell’ANP verso Israele, la  complicità dell’ANP nei massacri di un anno fa a Gaza e  il ruolo attivo dei Paesi Arabi, soprattutto dell’Egitto,  nell’assedio di Gaza. I palestinesi, anche di Cisgiordania e di  Gerusalemme Est, non dimenticano, al contrario.
 A guardare la mappa degli scontri esplosi a  marzo, ci si rende conto che essi sono scoppiati lì dove l’ANP e le sue  forze di repressione erano meno presenti. I centri più grandi della Cisgiordania  erano totalmente controllati ed era impossibile una qualsiasi  forma di protesta.
 Questo a dimostrazione del fatto che l’ANP  sta puntando a inserirsi nello scontro tra Stati Uniti e Israele come  elemento passivo. Di questo atteggiamento evidentemente cerca di  approfittare Hamas.
 Con la proclamazione della giornata  della collera, il primo venerdì dopo l’annuncio dei nuovi  1.600 alloggi a Gerusalemme Est, l’organizzazione di  ispirazione islamica ha cercato di inviare un messaggio all’ANP: state  attenti che riusciamo, se vogliamo, a prendere la leadership della  rivolta anche in Cisgiordania. Ma questo, oltre all’effetto  propagandistico, è tutto da dimostrare.
 Ciò che invece emerge in modo chiaro è che  Hamas cerca di riprendere il ruolo che aveva prima del 2006, quando,  anche se può sembrare paradossale, la vittoria schiacciante alle  elezioni legislative, lo ha messo più in difficoltà di quanto si  aspettasse.
 Negli anni precedenti al 2006,  Hamas ha costruito il suo consenso e il suo radicamento tra la  popolazione palestinese, grazie al fatto che si presentava  contemporaneamente come l’unica forza politica in grado di garantire un  sostegno concreto alla popolazione e contraria agli accordi di  Oslo.
 A causa dell’assedio a Gaza sicuramente la  capacità di garantire il sostegno concreto è molto diminuita. Inoltre,  in vari momenti, le conseguenze di questo si sono trasformate in scontri  armati anche all’interno della Striscia prima contro Fatah (giugno  2007) e poi contro altre formazioni politiche di ispirazione islamica  ben più estremistiche di Hamas (2009).
 Inoltre, non è un dettaglio secondario,  Hamas deve far fronte a condizioni di vita a Gaza sempre più  intollerabili.
 Una vera e propria catastrofe economica: nell’arco  di due anni, il 95%  delle imprese hanno chiuso e il 98% degli  impieghi, nel settore privato, sono andati distrutti. L’impossibilità  di importare cemento ed altri materiali edili, impedisce di fatto la  ricostruzione dopo la devastante distruzione del 2008-2009.
 Inoltre, a meno di non volersi bendare gli  occhi, il clima politico a Gaza è tutto tranne che rose e fiori.
 Questo, ovviamente, non significa sposare  l’idea che stia per realizzarsi il progetto israeliano, europeo,  statunitense e arabo di una rivolta della popolazione palestinese di  Gaza contro Hamas. Significa non perdere mai di vista di che  natura è l’organizzazione politica Hamas: un’organizzazione  conservatrice e reazionaria che fa della religione lo strumento  privilegiato di controllo politico, culturale e sociale.
 Il compito di Hamas viene  «facilitato» da Israele che l’assedia e tenta di  «sradicarla» militarmente e dall’ANP che cerca di usare questo assedio e  le aggressioni militari perché non ha speranza alcuna di sostenere il  confronto, dai Paesi arabi e l’Occidente che partecipano a pieno ai  piani di Israele.
 Ma la decomposizione quasi totale delle  organizzazioni politiche in Cisgiordania sia che siano  o no legate  all’ANP e, l’inefficacia assoluta sul piano politico ed economico  dell’ANP,produce anche l’effetto, che, a lungo termine, non può che dare  risultati implosivi, dell’impossibilità di sfruttare in positivo  l’afflusso consistente di aiuti economici che essa riceve dall’estero.
 L’ultima iniezione, 500 milioni di  dollari, l’ha ricevuta in queste settimane dalla Lega  Araba.
 Lega Araba che, riunita d’urgenza dopo le  dichiarazioni israeliane su Ramat Shlomo, non ha potuto che prendere  atto del fallimento del piano lanciato, del tutto ignorato da Israele,  nel 2002 dall’Arabia Saudita e, che consisteva nell’impegno da parte  araba a riconoscere Israele in cambio della restituzione dei Territori  Occupati, compresa Gerusalemme Est.
 Si può osservare che la Lega Araba ha  impiegato otto anni a capire ciò che era chiaro già nel 2002, quando  Sharon iniziò la costruzione del Muro e che aveva come obiettivo quello  di annettersi di fatto gran parte della Cisgiordania, creando l’ennesimo  fatto compiuto.
 Oggi, dopo le enormi  mobilitazioni di un anno fa al fianco dei palestinesi di Gaza, i  Paesi Arabi hanno (come molte altre volte nella storia) la  necessità di far finta di schierarsi per evitare che le proprie  popolazioni scelgano fino in fondo la via dell’opposizione interna.  Tra l’altro, al contrario di ciò che si pensa, nei diversi Paesi arabi  non tutto è piatto e inamovibile.
 Gli scontri di queste settimane in  Cisgiordania, con quattro giovani adolescenti assassinati, in meno di  dodici ore tra il 20 e il 21 marzo, hanno fatto ricordare in parte ciò  che avvenne nel dicembre 1987 allo scoppio della prima  Intifada e nel settembre 2000 allo scoppio della  seconda.
 Ma oltre alla banale constatazione del  mutato contesto generale, le differenze con le due precedenti  rivolte sono abissali, soprattutto con la prima Intifada.
 All’epoca, quello che sembrava un episodio  (un camionista israeliano che investì otto lavoratori palestinesi) di  «  ordinario razzismo e colonialismo»  divenne, invece, la miccia che  avrebbe incendiato tutti i Territori Occupati e, si  rivelò una rivolta auto-organizzata che riuscì  a  mantenere, a lungo, lo scontro con l’esercito occupante,  a coordinarlo  ed a renderlo efficace politicamente.
 Ciò che rese tutto questo possibile furono  diversi fattori, ma tre di essi influirono in modo determinante: la  Cisgiordania e Gaza erano occupate direttamente dall’esercito  israeliano; il gruppo dirigente dell’OLP, nell’esilio  dorato di Tunisi, solo dopo alcuni mesi, riuscì a prendere il controllo  della rivolta; le organizzazioni che, nei Territori  Occupati,rappresentavano la galassia dell’OLP, con l’esclusione di  Hamas, nei venti anni di occupazione avevano sviluppato un  coordinamento  «di base » e una collaborazione politica che non era  assolutamente caratteristica dell’OLP  «dell’esterno».
 Soprattutto il terzo elemento portò alla  nascita del Comando Nazionale Unificato, di fatto una  direzione all’interno dei Territori Occupati che non si contrapponeva  ufficialmente all’OLP, ma, che era comunque alternativa ad essa. Si era  creato quello che si può definire un  «dualismo di potere»  tra interno ed esterno. L’organizzazione interna consentì il  coinvolgimento capillare della popolazione palestinese, sganciando le  rivendicazioni dirette del popolo in rivolta dalle alchimie diplomatiche  in cui era invischiata all’esterno l’OLP.
 Questo  « dualismo di potere » era  inaccettabile per la direzione dell’OLP a Tunisi che riuscì alla fine, a  disarticolare l’auto-organizzazione interna, grazie anche a Israele che  chiuse gli occhi sulla nascita (nel 1988) di Hamas  e sulla sua crescita. Anche se,  è necessario sottolinearlo, la carta  vincente per Hamas fu quella di presentarsi presso i palestinesi come  alternativa all’OLP, di cui non mancava di sottolineare la corruzione.
 Come  è noto, la prima Intifada   « finì  » con gli accordi di Oslo dopo sei anni di  strenua lotta che la popolazione palestinese pagò con un prezzo umano  altissimo.
 Ma sicuramente la pantomima che si svolse  sul prato della Casa Bianca nel 1993 non sarebbe stata  possibile senza la prima Intifada.
 Quegli accordi erano il risultato  dell’incrociarsi di tre interessi: Israele aveva capito  che, nonostante l’OLP avesse determinato lo  « svuotamento »  dell’Intifada, doveva creare le condizioni perché una cosa simile non si  ripetesse; l’OLP aveva bisogno come l’aria di un   «risultato» da esibire al proprio popolo; i Paesi imperialistici,  in primis gli USA, avevano bisogno di un  «risultato» sul versante più  pericoloso del Medio Oriente, soprattutto dopo il fallimento della prima  guerra del Golfo nel 1991.
 I sette anni di tregua che dividono la  firma degli accordi di Oslo e lo scoppio della seconda Intifada nel 2000  rivelano in pieno alla popolazione palestinese l’intreccio degli  interessi di cui prima si parlava.
 La colonizzazione anziché essere fermata, o  anche solo diminuita, raddoppierà.
 Il rientro, con grande clangore di trombe,  della direzione dell’OLP, in primis di Yasser Arafat,  nei Territori Occupati, invece di essere il presupposto per la  costruzione di una direzione politica in loco che avesse come  obiettivo quello di arrivare ad uno Stato indipendente, si trasformò, in  breve tempo, al contrario, nella crescita esponenziale di un apparato  che, di fatto, aveva come compito prioritario il controllo dei  palestinesi, perché gli obiettivi di Oslo, tutti favorevoli a Israele,  si realizzassero.
 Quando Ariel Sharon, nel  2000, con la piena collaborazione del governo allora presieduto da Ehud  Barak, compì la provocazione, passeggiando, attorniato dalla  stampa internazionale e dall’esercito, sulla Spianata delle  Moschee, era chiaro che i palestinesi avrebbero reagito.
 Quella che fu chiamata la seconda  Intifada, però, aveva profonde differenze con la rivolta del  1987.
 Le divisioni all’interno dell’apparato  dell’ANP portarono alla militarizzazione della rivolta, con l’esclusione  della popolazione. Al posto degli scioperi generali, le milizie  dell’ANP che non avevano a disposizione che poche armi leggere,  iniziarono a reagire agli attacchi dell’esercito israeliano, che, non  facendosi sfuggire l’occasione, rispose usando, contro i fucili,tutte le  armi a sua disposizione: dagli elicotteri di guerra ai carri armati. Il  conto è presto fatto se si tiene conto che quello israeliano è  l’esercito più tecnologizzato del Medio Oriente.
 Il costo umano fu enorme e pagato molto  più rapidamente che in precedenza.
 La leadership di Arafat era  sempre più in difficoltà: dal lato militare (cosa scontata visto la  sproporzione dei mezzi in campo), dal lato politico, ancor di più,  perché si sforzava di tenere insieme il «profilo diplomatico di Oslo» e,  contemporaneamente, di apparire comunque a capo della rivolta. Cosa che  ovviamente risultava impossibile.
 La marginalizzazione delle masse portò lo  scontro su un livello insostenibile, ossia quello militare.
 Nel 2002 Sharon lancia l’operazione «Scudo  di difesa» che altro non era che la reinvansione militare  della Cisgiordania.
 In seguito a questa operazione fu iniziata  la costruzione del Muro di separazione, che, in  realtà,  serve solo  ad appropriarsi delle terre palestinesi e alla  messa sotto assedio di Yasser Arafat, nel suo quartier generale alla  Muqata a Ramallah, dove rimase prigioniero e malato in pratica fino alla  fine dei suoi giorni, nel novembre 2004.
 Dopo la sua morte, l’ANP non ha alcun  gruppo dirigente reale e credibile e, la scelta di investire nella  successione, un burocrate scialbo come Mahmud Abbas, non fa che acuire  le contraddizioni.
 Contraddizioni che nel gennaio  2006 si traducono nella vittoria imponente di Hamas alle elezioni  legislative.
 Hamas, nel corso degli anni, si delineò  come un’organizzazione assai pragmatica, ben lontana dall’estremismo  confessionale che caratterizzava altre organizzazioni politiche di  ispirazione islamica in altri Paesi arabi. In altri termini, essa  portava avanti la lotta in nome di Allah, ma  soprattutto contro Israele: infedele, ma anche  occupante, o almeno in questo modo l’ha percepita la maggioranza  della popolazione palestinese, soprattutto a Gaza.
 Questo pragmatismo ha messo in sordina il suo carattere religioso. Anche  perché, a differenza di altri Paesi arabi in cui lo scontro  confessionale è più drammatico (l’Iraq), sia a Gaza che in Cisgiordania,  l’omogeneità religiosa, ossia la stragrande maggioranza sunnita e una  minoranza cristiana, ha permesso a Hamas di presentarsi innanzitutto e  sostanzialmente ancora come l’organizzazione che privilegiava la  resistenza agli accordi a tutti i costi.
 Quando nel giugno 2007 forzando  l’acceleratore dello scontro arrivò a cacciare gran parte dei dirigenti  di Fatah, ancora presenti a Gaza, la situazione mutò radicalmente.
 Questo mutamento consisteva  fondamentalmente in due fattori: Hamas si trovava a gestire e non  cogestire il potere, il blocco imposto da Israele, con la complicità  esplicita di alcuni Paesi arabi, soprattutto l’Egitto, gli USA e  l’Europa diventa totale.
 L’ANP, dal canto suo, cerca di  approfittare della divisione tra Cisgiordania e Gaza, ma nonostante  tutto il conto è ancora sbagliato.
 Da un lato, come abbiamo già detto, c’è  l’incapacità di gestire in modo appropriato le risorse economiche di cui  dispone, dall’altro, la volontà di non uscire dalla «logica di  Oslo» porta l’ANP a restare, di fatto, estranea alla lotta  quotidiana dei palestinesi di Cisgiordania: dal Muro all’espansione  delle colonie, alla sempre maggiore violenza dei coloni e dell’esercito.
 Quando poco più di un anno fa l’ANP  accettò l’aggressione israeliana contro Gaza, sperando le risolvesse,  così, un po’ i problemi, essa per non precipitare nell’abisso dei propri  errori,cercò goffamente di fare marcia indietro, ovviamente, senza  riuscirci.
 E gli scontri di questo drammatico inizio  di primavera lo dimostrano.
 Non possiamo prevedere ora se si andrà  verso una «terza Intifada». Certo, il clima resta incandescente e, come  abbiamo tentato di spiegare, molto più confuso rispetto al passato.
 
 Prospettive
 
 Oggi Hamas è certamente più in difficoltà.
 Da un lato, per le conseguenze  dell’aggressione e dell’assedio, come rilevato sopra, ma anche, se non  soprattutto, perché è chiaro che una «stabilizzazione religiosa»  che le consenta di conservare il controllo della Striscia, non è  scontata.La galassia dei gruppi «jihadisti»,  che si riconoscono nella rete di Al Qaida e che, come  obiettivo, hanno la costituzione a Gaza di un emirato islamico, cresce e  cerca di approfittare del fatto che, dopo la devastante aggressione del  2008-2009, il governo di Hamas a Gaza sta cercando una via d’uscita  politica, non solo militare.
 Questo, ovviamente, passa anche attraverso  il cercare di fermare i lanci di razzi contro Israele, cosa che avviene  utilizzando una forza di sicurezza interna di quindicimila agenti, che  su una popolazione di un milione e mezzo di persone non è poca cosa.
 Hamas cerca anche di edulcorare il proprio  pragmatismo introducendo leggi che impediscono alle donne di andare in  moto e ai parrucchieri di avere clientela femminile.
 Inoltre, per garantirsi i fondi economici  ha imposto una tassa sulle «merci di importazione» che a  Gaza significa solo una cosa: tassare i beni di prima necessità che  riescono ad entrare nella striscia dai tunnel sotterranei che la  collegano all’Egitto.
 Sulle prospettive occorre essere prudenti  perché, nonostante la divisione tra Gaza e Cisgiordania, è chiaro che, è  una pura illusione, poter pensare che queste due porzioni del popolo  palestinese abbiano destini separati.
 Sia in Cisgiordania e che a Gaza vanno  formandosi delle nuove aggregazioni politiche diffuse in cui  confluiscono sempre più persone. Queste non si possono però confondere  con quella che in Occidente amiamo chiamare «società civile»   che significa niente, sia qui che lì.
 L’organizzazione di comitati  in Cisgiordania che nascono sempre più spesso per  lottare contro il Muro, i check-point, la colonizzazione, che non di  rado vedono anche la presenza di israeliani; e, la nascita, a Gaza dei  comitati per la lotta contro la «zona cuscinetto»  imposta da Israele, una vasta zona frontaliera che di fatto impedisce a  molti contadini di lavorare quelle terre, tra le più fertili della  striscia, sono lì a dimostrare, ancora una volta, che nulla si può dare  per scontato in Palestina.
 Ma tutti questi sono segnali da tenere  presenti per poter comprendere  se ci potrà essere o no una terza  Intifada sulle orme della prima.
 Per altro, i giovani palestinesi che, nel  mese di marzo, si sono più volte scontrati con l’esercito israeliano non  fanno certo riferimento organico a Hamas, né, ovviamente, all’ANP.
 Certo, i giovani palestinesi  non hanno alcun timore di scontrarsi con uomini in divisa, siano  israeliani o palestinesi, ma è anche vero che, se non troveranno una  sponda politica adeguata alle loro richieste, ma solo un rimaneggiamento  di vecchi slogan, magari sotto mentite e «nuove» spoglie, i loro  sforzi, e certamente le loro vite, andranno sprecati.
 
 07/04/2010
 
 
	
	IDENTITA’ E CONFLITTO di Cinzia NachiraIl  caso Israeliano-Palestinese
 
 Parlare del conflitto  israeliano-palestinese, il più complicato e complesso nel quadro medio-orientale, non è facile.
 Cinzia Nachira, nel suo nuovo libro, edito da Shahrazad edizioni e presentato a Modena,  il  25 febbraio scorso, presso la sala Circoscrizione del Centro Storico – Piazza Redecocca 1, ci mostra, in modo semplice e diretto, tutta la molteplicità delle basi fondamentali direttamente implicate nel problema.L’obiettivo di Cinzia è quello di far riflettere su quanto è accaduto e sta accadendo in quella terra martoriata. I mezzi di comunicazione si limitano, infatti, ad offrirci unicamente notizie di cronaca, senza mai arrivare alle radici del conflitto.
 
 Cinzia, invece, comincia dall’inizio.  Il suo saggio cerca di far comprendere la complessità delle identità degli attori protagonisti del conflitto ed a cogliere le motivazioni ed i contesti storici che sono alla base della guerra coloniale in Palestina, in particolare l’antisemitismo europeo. Offrendoci una tale analisi, Cinzia Nachira, come sottolinea Michel Warschawski nella sua postfazione, ci aiuta a cogliere le linee possibili di frattura sulle quali possiamo basarci per far avanzare la pace, ossia il diritto.
 
 Un ulteriore approfondimento di tale conflitto, attraverso il libro di Cinzia, è stato anche sviluppato dal Professore di Filosofia del diritto, Danilo Zolo, invitato a partecipare a questa presentazione. 
   La presentazione  Le domande del pubblico        
   
	
	
 
 “GAZA FREEDOM MARCH”
 Mirca Garuti
   
   Il Coordinamento modenese contro l’occupazione della Palestina e ass. ALKEMIA
 Presentano:
 Di ritorno dalla Gaza Freedom March    
 
 Nell'anniversario della guerra “Piombo Fuso” circa 1.300 attivisti provenienti da tutto il mondo, hanno aderito alla manifestazione contro l'assedio israeliano della Striscia di Gaza   che rende impossibile la vita di 1.500.000 abitanti. 
Il governo egiziano ha bloccato gli attivisti internazionali alla periferia del Cairo, proibendo loro di raggiungere Gaza.
Il governo egiziano conferma così la sua complicità nel blocco della Striscia di Gaza.
 Interventi degli attivisti di ritorno dalla marcia per la libertà e l’autodeterminazione del popolo palestinese:
 Mirca Garuti, Flavio Novara, Goretta Bonacorsi, Franco Zavatti   
 
Avv. Fausto Gianelli     
 
	
	
COME POSSONO ESSERE NEGATI GLI AIUTI AI BAMBINI PALESTINI 
 Lettera aperta alla stampa e alle autorità diplomatiche degli Stati Uniti d’America.
 Dr. Mingarelli Mariano
   

 Il Dipartimento di Sicurezza degli Stati Uniti ha il diritto di bloccare le transazioni e di tenere poi sequestrati i versamenti in denaro inviati, tramite la Western Union – Finint, a Betlemme per effettuare adozioni a distanza, finalizzate al sostegno di bambini di famiglie palestinesi molto povere?
 Indubbiamente, qualsiasi persona di buon senso, a mio avviso, non può che rimanere stupita, se non disgustata e indignata di fronte all’assurdità di una tale disposizione, espressione di un comportamento inqualificabile, di totale inciviltà e disumanità, con la quale le autorità governative statunitensi hanno interferito arbitrariamente – e senza darne giustificazione alcuna – su un doveroso atto di generosità con il quale alcuni donatori di buon cuore hanno destinato un sussidio modesto, ma essenziale, a bambini poveri perché con esso fossero in grado di mitigare le privazioni di una vita precaria.
 
 Ad ogni occasione pubblica, si parla di diritti dell’infanzia, di obblighi nei confronti dei bambini e della tutela del loro sviluppo, specie se soggetti alle violenze delle guerre, degli arbitri delle occupazioni militari, del degrado sociale delle comunità o delle istituzioni, ma poi – come nel caso in oggetto – si interviene in modo subdolo per creare barriere invisibili, ma invalicabili, laddove si tenta di creare ponti di solidarietà umana e si vanificano le prospettive di interventi indirizzati al sostegno di questi stessi diritti, che risultano essere così solo parole vuote nelle bocche afone dei potenti di turno!
 
 Il fatto denunciato, che è all’origine di questa protesta, riguarda l’effettuazione dell’invio da parte mia di due commissioni di €.1795,00 l’una - per un totale, quindi, di €.3590,00 – ad un intermediario palestinese di Betlemme, al quale era stato affidato l’incarico di distribuire il denaro ricevuto a bambini espressamente indicati come destinatari di quote predeterminate.
 
 Il denaro, messo a disposizione da alcuni donatori, è stato versato, per le operazioni di trasferimento, presso una sede abilitata della Western Union – Finint di Firenze nei giorni 3 e 4 del mese di agosto 2009.
 
 Contrariamente ad ogni aspettativa, il denaro versato non è mai giunto a disposizione.
 
 Dopo ripetute sollecitazioni e richieste di chiarimenti, in data 25 settembre 2009, la sede centrale di Milano della Western Union – Finint ha fatto sapere che le quote inviate, per le quali era attesa l’autorizzazione al trasferimento da parte della direzione competente con sede negli Stati Uniti, erano state invece trasmesse al Dipartimento di Sicurezza del governo americano, che avrebbe deciso in merito.
 
 Da allora – ed è trascorso quasi un mese – non ho avuto più notizie sul destino dei €.3590,00 sequestrati e trattenuti indebitamente dal governo degli Stati Uniti.
 
 Se non ci fosse il dramma dei poveri bambini destinatari di quel misero sussidio, quanto accaduto non potrebbe apparire che come una farsa che rasenta il ridicolo.
 
 La grande potenza degli Stati Uniti d’America è preoccupata. Essa ritiene pericoloso l’invio di quella quota irrisoria di denaro a Betlemme in quanto potrebbe trasformarsi in una determinante stampella per il terrorismo internazionale!!!!
 
 Se la tanto vantata “civiltà” degli Stati Uniti d’America non è capace di valutare in modo adeguato un problema di questo tipo, che cosa potremo aspettarci da lei quando si tratta di trovare la soluzione per problemi ben più sostanziali e di portata mondiale?
 
 Firenze 19 ottobre 2009
 Per contatti: mariano.mingarelli@tiscali.it
 
 
 
	
	
ONU OSTAGGIO DELL’AMERICA E D’ISRAELEIL TRADIMENTO DI ABU MAZEN
 di  Mirca  Garuti
 Rabbia, sconforto, dolore, sdegno sono i sentimenti provati da tutti i palestinesi e le varie organizzazioni palestinesi in Europa, alla notizia della decisione presa dall’Anp (la scorsa settimana a Ginevra) di accettare il rinvio a marzo 2010, deciso dal Consiglio Onu per i Diritti Umani, sulla discussione ed il voto del Rapporto Goldstone.
 
 Il Consiglio per i Diritti Umani (Unhrc) nato nel 2006, ha sede a Ginevra ed è formato dai delegati di 47 stati membri delle Nazioni Unite, a rotazione per un periodo di tre anni. Il suo compito è quello di “supervisionare il rispetto e le violazioni dei diritti umani in tutti gli stati aderenti all’Onu ed informare l’opinione pubblica mondiale dello stato dei diritti umani nel mondo”. Il Consiglio ha quindi l’autorità per poter istituire “procedure speciali” di verifica, nel caso in cui riconoscesse violazioni di diritti umani in un paese. L’Unhrc può analizzare anche i comportamenti degli stati che non hanno aderito al trattato istitutivo, come Israele e Stati Uniti.
 Il Consiglio aveva già condannato Israele a giugno 2006, sempre per violazione dei diritti umani contro la popolazione civile palestinese, provocando forti polemiche ed anche la condanna, da parte di Kofi Annan, all’operato del Consiglio. Da quel momento il Consiglio ha tenuto le distanze da Israele, ma, l’operazione “Piombo fuso” è stata troppo scandalosa, violenta per far finta di niente.
 
 L’Onu, quindi, aveva affidato in aprile al giudice Richard Goldstone, ex giudice della Corte costituzionale sudafricana ed ex procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda, l’incarico di indagare sui crimini ed abusi subiti dalla popolazione civile di Gaza durante l’ultimo attacco degli israeliani (operazione “Piombo Fuso” 27/12/08 – 18/01/09).
 L’inchiesta, decisa a gennaio scorso a Ginevra da una risoluzione Onu per i diritti umani, è stata anche condotta da Christine Chinkin, specialista di diritto internazionale, Hina Jilani, giudice della Corte suprema del Pakistan ed esperta per i diritti umani e Desmond Treves, colonnello irlandese in pensione. Goldstone, riferisce il Jerusalem Post, rimase “scioccato” da questa nomina, in quanto ebreo e membro del consiglio dei governatori dell’Università ebraica di Gerusalemme. “Seguo con grande interesse ciò che avviene in Israele – ha dichiarato – e credo che potrò svolgere questo incarico con imparzialità – precisando che il suo team “indagherà su tutte le violazioni del diritto umanitario internazionale”.
 Dopo cinque mesi di indagini, Richard Goldstone, dichiara nel suo rapporto, sia Israele che Hamas responsabili di avere commesso crimini di guerra, ma, con un distinguo: Israele è accusata di crimini contro l’umanità, Hamas, invece, di crimini di guerra per aver lanciato razzi contro i territori israeliani.
 Secondo il rapporto, durante le tre settimane del conflitto, Israele ha “deliberatamente fatto un uso della forza sproporzionato”. La commissione afferma di avere delle prove che “indicano che Israele, a Gaza, ha commesso gravi violazioni del diritto internazionale e della legislazione sui diritti umani”.
 La guerra, va ricordato, ha causato 1.366 morti (430 bambini e 111 donne, 6 giornalisti, 6 medici, 2 operatori Onu), 5360 feriti (1870 bambini e 800 donne), 16 strutture ospedaliere colpite (tra cui l'ospedale al-Quds distrutto). Sono state distrutte 3 scuole dell'Unrwa, 19 moschee, 215 cliniche, 28 ambulanze, 20 mila edifici e campi e serre. Durante i 22 giorni di attacchi di cielo, terra e mare, Israele ha utilizzato 1 milione di kg di bombe (di cui il 5% ancora inesplose), di cui ADM (armi di distruzione di massa), e DIME (Dense inert metal explosion).
   Sempre secondo il rapporto, le operazioni militari israeliane “sono state pianificate con attenzione in tutte le loro fasi, come attacchi deliberatamente sproporzionati e volti a punire, umiliare e terrorizzare la popolazione civile”. Ricorda, inoltre, che lo stato sionista si era rifiutato di cooperare con gli investigatori dell’Onu.Il documento Onu, condannando anche Hamas, spiega che “lanciando missili e sparando colpi di mortaio sul sud di Israele, i gruppi armati palestinesi non hanno fatto distinzioni fra gli obiettivi militari e la popolazione civile e, senza un obiettivo militare, essi costituiscono un deliberato attacco contro la popolazione civile”.
 Sia Israele che Hamas hanno quindi criticato il rapporto Goldstone: lo Stato ebraico ha accusato il giudice di avere “scritto un capitolo vergognoso nella storia del diritto internazionale e del diritto dei popoli all’autodifesa” e definito il rapporto “scandaloso, estremista e del tutto sganciato dalla realtà”; Hamas, invece ha parlato di”un rapporto politico, parziale e disonesto, perché mette sullo stesso piano coloro che commettono crimini di guerra e coloro che resistono”.
 
 Goldstone, durante la conferenza per la presentazione del rapporto, ha chiesto, inoltre, al pubblico ministero del tribunale dell’Aja, che il dossier venga esaminato “il più rapidamente possibile”.
 Robbie Sabel, esperto di legge internazionale, ha precisato che dal momento che sia Israele che Palestina non fanno parte della Corte per i crimini internazionali (Cci), gli ufficiali israeliani non possono essere accusati di crimini di guerra. Le possibilità di affrontare queste accuse rimarranno molto basse, finché Israele non diventi membro ufficiale del Cci o finché l’Anp non si costituisca come Stato e s’iscriva alla Corte. Il rapporto, comunque, potrebbe, nei paesi la cui legge permetta di citare in giudizio altri paesi, far sporgere denuncia contro lo stato d’Israele. Ma anche questa possibilità ha il profumo di una semplice utopia, se, infatti, si rammentano tutti i tentativi di processare, da parte della Corte Suprema belga, Ariel Sharon, per il massacro di Sabra e Chatila del 1982, sulla denuncia di 23 superstiti.
 Il rapporto Onu, comunque, composto da 575 pagine basate su 188 interviste, oltre 10mila pagine di documenti e 1200 fotografie, risulta essere la testimonianza più approfondita sul massacro di Gaza.
 Israele, oltre ad attaccare Richard Goldstone, non ha mai cercato di affrontare i contenuti del report. Supportata dal silenzio della comunità internazionale, ha cominciato una massiccia campagna contro la sottoscrizione del documento, cercando di far credere che la sua approvazione potrebbe limitare la capacità di combattere la guerra al terrorismo.
 Il quotidiano israeliano Haaretz cita alcune dichiarazioni rilasciate da Goldstone, in un’intervista televisiva “Alcuni assassinii sono stati certamente intenzionali..Non vi sono stati errori nel bombardamento di fabbriche. L’intelligence israeliana disponeva di informazioni precise”.
 
 
Nonostante tutto questo, il Presidente Abu Mazen (Mahmud Abbas) ha acconsentito al rinvio della discussione, al Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, del rapporto Goldstone. 
  Immediatamente la protesta. Alcune centinaia di persone hanno dato il via ad un corteo nel centro di Ramallah, scandendo slogan molto duri, dichiarando il rinvio come un “insulto al sangue dei martiri”. Lo sgomento è forte. Per la maggior parte dei palestinesi e delle varie organizzazioni per la Palestina si tratta di una “capitolazione” verso le pressioni statunitensi, in particolare del Segretario di Stato Hilary Clinton, basate sulla minaccia che l’approvazione del rapporto avrebbe spinto Israele ad abbandonare ogni possibilità di negoziato. Ma quale negoziato, se Israele continua a rifiutare di sospendere le costruzioni di nuovi insediamenti coloniali in Cisgiordania e le incursioni, quasi quotidiane, nella Striscia di Gaza?La decisione del rinvio di Abu Mazen compromette anche l’accordo di pacificazione con Hamas che doveva essere firmato al Cairo il prossimo 18 ottobre. Il premier di Hamas, Haniyeh ha, infatti, dichiarato “La decisione presa dall’Anp di accettare il rinvio delle conclusioni del Consiglio sul rapporto Goldstone è irresponsabile e avventata. Questa decisione offende il sangue versato dai figli di Gaza durante il conflitto. Come possiamo sederci al tavolo con loro? Come possiamo firmare un accordo con persone che si comportano così?”.
 Fa sorridere, si fa per dire, la decisione di Abbas, per cercare di salvare la faccia, di formare una commissione d’inchiesta sui motivi che hanno portato il suo governo a ritardare l’azione internazionale. Abbas essendo però il presidente dell’Olp non può aprire un’indagine sulle azioni del suo governo, quindi, sta solo cercando di non apparire il responsabile di un provvedimento che, per la sua importanza, può aver dato solo lui.
 I motivi che hanno spinto Abbas a questa scelta sono dati principalmente dalle forti pressioni statunitensi, ma possono essere anche ricondotti a motivazioni commerciali o addirittura, sembra, ad un ricatto.
 
 Richard Falk, relatore dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, infatti, ha rivelato che Israele avrebbe rifiutato di assegnare le frequenze alla seconda compagnia di telefonia mobile (il cui presidente è proprio uno dei figli di Abbas) in Cisgiordania, privando così l’Anp di un guadagno di 300milioni di dollari. Israele, inoltre, sempre da indiscrezioni, minacciava anche di congelare i dazi doganali e l’Iva incassata per conto dell’Anp.
 Minacce quindi così importanti da considerarle prioritarie sulla memoria delle vittime di Gaza.
 
 Il sito Shahab News riporta, da fonti che sembrano attendibili, la notizia di un presunto ricatto israeliano nei confronti di Abbas. Israele, infatti, avrebbe minacciato di rendere pubblico sia all’Onu che a tutti i media, un video nel quale è stata ripresa un’importante riunione, durante l’operazione “Piombo fuso”. Tre erano le persone presenti: Abbas, il ministro della difesa israeliano Barack ed il ministro degli esteri israeliano Tzipi Livni. Le immagini mostrano Barack titubante nel continuare l’offensiva, in quanto ha già creato troppi morti ed indignato l’opinione pubblica, ed invece, Abbas che lo incita a continuare per distruggere totalmente Hamas.
 Non si sa ancora se questo video possa essere veritiero, ma, si sa che, mentre Israele massacrava Gaza, Abbas mandava i suoi uomini ad arrestare i militanti di Hamas in Cisgiordania.
 
 Quale sia il motivo vero che ha spinto Abu Mazen a ritardare il rapporto Goldstone diventerà evidente nello sviluppo della situazione palestinese dei prossimi giorni o mesi.
 La Libia, presidente di turno dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, aveva richiesto, con l’appoggio di Egitto, Sudan, Lega Araba e Palestina, una seduta straordinaria specifica sul rapporto Goldstone. Il rappresentante Usa ha fatto però sapere che “Washington non sosterrà alcuna decisione presa dal Consiglio di Sicurezza sul rapporto Goldstone e che il luogo appropriato per discutere della relazione è il Consiglio Onu per i diritti umani a Ginevra”. 
 Ancora una volta, quindi, le legittime aspettative del popolo palestinese sono state tradite, salvando i criminali israeliani.
 
 
 
	
	
    “PROGRAMMARE IL DISASTRO"La politica israeliana  in azione
  di Michel Warschawski
 
 Presentazione del libro con l’Autore
  Nel corso della serata è stato presentato anche il libro: “Gaza: restiamo umani”di Vittorio Arrigoni, cronache da Gaza nei giorni del massacro.
 
 Con:Michelangelo Cocco, giornalista de "Il manifesto".
  
 Michel Warschawski:
  
 Le domande del pubblico:
   Michel Warschawski fu tra i primi israeliani a rifiutare ripetutamente il servizio militare, e per questo più volte incarcerato.  Attualmente dirige l’Alternative Information Center di Gerusalemme.  A cura di:SINISTRA CRITICA e del Coordinamento modenese contro l'occupazione della Palestina
 (19/03/09 Sala Ex Oratorio del Palazzo dei Musei, V.le Vittorio Veneto, Modena)
 
 
	
	E … DOPO LA GUERRA A GAZA …Lo Stato di Israele fornirà tutela legale ai soldati che hanno combattuto nella guerra di Gaza contro eventuali incriminazioni da parte della Corte penale internazionale. Il Primo ministro Ehud Olmert ha dichiarato che "Ufficiali e soldati impegnati nell'operazione “Piombo fuso” devono sapere che sono totalmente al sicuro da tutti i tribunali e Israele aiuterà a proteggerli”. Olmert ha dato incarico a Daniel Friedman, ministro della Giustizia, di presiedere una commissione che coordinerà “gli sforzi di Israele per la tutela legale nei confronti di chiunque ha preso parte alle operazioni”. La censura militare israeliana ha già posto il divieto a rivelare l'identità dei leader delle unità militari che hanno combattuto nella Striscia di Gaza, nel timore che possano affrontare l'accusa di crimini di guerra. Amnesty International ha già definito “innegabile” l'uso di fosforo bianco nelle aree affollate di civili, in violazione della legge internazionale. Il Segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, ha chiesto che i responsabili del bombardamento di edifici delle Nazioni Uniti possano venire chiamati a rispondere delle loro azioni. Otto agenzie umanitarie hanno chiesto al governo israeliano di indagare sulle conseguenze sui civili, descrivendo come “terrificante” il numero delle donne e dei bambini uccisi. Israele ha insistito che “è stato fatto il possibile per limitare le vittime civili, accusando Hamas di nascondersi dietro i civili per lanciare razzi nel sud di Israele”. Fonti mediche israeliane hanno fissato in 1.330 il numero dei morti e a 5.450 quello dei feriti.
 
 Piena tutela legale ai soldati contro le accuse di “crimini di guerra”
 
 
 
 ![palestina[1].jpg](/Portals/0/mediooriente/attacco%20a%20gaza%20dic08/palestina%5B1%5D.jpg)  ![482f617dd4cdf_normal[1].jpg](/Portals/0/mediooriente/attacco%20a%20gaza%20dic08/482f617dd4cdf_normal%5B1%5D.jpg) 
 Ventidue giorni di genocidio a Gaza hanno fatto salire l'indice di gradimento verso il partito di destra Likud e il suo leader, Benjamin Netanyahu.
 
 Il prossimo 10 febbraio si svolgeranno, infatti, le elezioni parlamentari in Israele, e dai sondaggi diffusi dal quotidiano Maariv, il Likud otterrebbe "28 seggi" alla Knesset, mentre il partito di centro-destra Kadima "24", il Laburista “16” e e il fondamentalista religioso Shas "9".1300 morti e oltre 5000 feriti palestinesi "offerti" dal laburista Ehud Barak, ministro della Difesa, e dalla ministra degli Esteri Tzipi Livni, leader di Kadima, all'altare delle elezioni israeliane sembrano non siano stati sufficienti per l'elettorato della "unica democrazia del Medio Oriente". Evidentemente, la maggioranza degli israeliani sembra privilegiare un politico in particolare, Netanyahu, che invoca da tempo una "guerra totale" contro la Striscia affamata e assediata, che rifiuta la creazione di un qualsivoglia stato-banthustan palestinese, e per il quale gli insediamenti, illegali, sono espressione dei "valori del sionismo".In realtà, durante le tre settimane di crimini di guerra israeliani contro Gaza, i sondaggi si sono mostrati favorevoli a Livni e Barak, ma, evidentemente, l'effetto-morti è durato poco, e l'estremismo del Likud, con al suo interno un'ala di coloni oltranzisti, piace molto agli israeliani.(26/01/2009 Peacereporter)
 UNA DELEGAZIONE SVIZZERA A GAZA: “SIAMO SCIOCCATI !”Una delegazione svizzera, che sta visitando Gaza, ha dichiarato di essere stata scioccata dall’immagine di distruzione causata dall’esercito israeliano durante l’aggressione contro la Striscia di Gaza, aggressione durata per tre settimane e che ha causato la morte o il ferimento di più di settemila cittadini palestinesi, nonché la distruzione di migliaia di case.Anwar al-Gharbi, portavoce della “Campagna Europea Contro l’Assedio di Gaza”, da cui è stata organizzata la visita in collaborazione con l’associazione svizzera “Diritti per Tutti”, ha detto che la delegazione, che sabato 24 gennaio è potuta entrare nella Striscia di Gaza tramite il valico di Rafah, ha visto da vicino gli effetti della distruzione, recandosi presso l’ospedale al-Shifa e presso la sede distrutta del Consiglio Legislativo Palestinese.Al-Gharbi ha affermato: «L’aggressione israeliana ha toccato le persone, le pietre e le piante, ed è quello che si vede girando per Gaza». Ha inoltre aggiunto: «Quanto hanno commesso le forze di occupazione nella Striscia di Gaza è un crimine di guerra, nel vero senso del termine».
 
  
 
 La delegazione composta da parlamentari svizzeri, On. Carlo Sommaruga, membro della Commissione Parlamentare degli Esteri, On. John Charles Rele, parlamentare e presidente dell’Ordine dei Medici, On. Antonio Hogoros, On. Josef Zisyadis, dal presidente dell’associazione “Diritti per Tutti”, da Anwar al-Gharbi, dall’avvocato Henry Jen loy e da due giornalisti svizzeri, vuole conoscere da vicino gli effetti della guerra israeliana sulla vita nella Striscia di Gaza.In una dichiarazione alla stampa al-Gharbi ha detto: «La delegazione ha confermato di fare tutto il possibile per trasmettere al mondo esterno l’immagine della terribile distruzione di cui è testimone, rivelare i crimini dell’occupazione israeliana e premere per processare i capi dell’occupazione».I deputati, durante la loro visita al CLP a Gaza, hanno ribadito il sostegno del Parlamento svizzero e dei parlamenti europei al CLP e il loro rifiuto di tutte le aggressioni nei confronti dei deputati palestinesi, di quelli detenuti, con in testa il Presidente del Consiglio Legislativo Aziz Dweik, e di tutti i deputati eletti democraticamente.
 
 
 
 
 IL TERREMOTO ISRAELIANO A GAZA(PCHR)*
 
 L' offensiva delle forze di occupazione israeliane (IOF) sulla striscia di Gaza ha reso il territorio simile ad una zona colpita da un terremoto pretendendo che i diritti civili e di proprietà di intere famiglie spariscono.Più del 43% delle vittime sono donne e bambini.
 
   ![5[1].jpg](/Portals/0/mediooriente/attacco%20a%20gaza%20dic08/5%5B1%5D.jpg) 
 Interi servizi di molte aree sono dissolti. Le infrastrutture sono completamente distrutte. Centinaia di famiglie sono senza casa. L'offensiva lanciata dalle forze di occupazione israeliane (IOF) sulla Striscia di Gaza, tra il 27 dicembre e il 18 gennaio 2009, ha causato distruzione totale in molti territori della Striscia di Gaza, come se fossero state devastate da un terremoto. Durante l'offensiva su Gaza, le IOF hanno impiegato il loro intero arsenale utilizzando le loro forze aeree, di terra e di mare. Alcune aree sono state quasi completamente rase al suolo, mentre molte abitazioni e edifici civili sono diventati "colline di polvere". L' offensiva delle IOF ha causato la morte di innocenti civili disarmati, compreso un vasto numero di donne e bambini. Tra le vittime sono incluse intere famiglie (per maggiori informazioni, consultare il comunicato stampa pubblicato dal centro palestinese per i diritti umani (PCHR) durante l'offensiva delle IOF sulla striscia di Gaza).Dopo la ritirata delle IOF dalla Striscia di Gaza nella prima mattinata del 18 gennaio 2009, i volontari del PCHR hanno potuto osservare da vicino la crisi umanitaria causata dall'offensiva israeliana. Era ovvio che il loro intento fosse quello di eliminare qualsiasi elemento di civilizzazione presente nella Striscia di Gaza. Hanno deliberatamente e sistematicamente distrutto le risorse vitali facendo ritornare Gaza decenni indietro. Attraverso i dati e le statistiche che il PCHR ha raccolto, saranno mostrati tutti i crimini di guerra commessi dalle IOF contro i civili palestinesi e le loro proprietà. Il PCHR si avvale di un team qualificato di volontari e giuristi in grado osservare e documentare i danni reali causati dalle IOF durante la loro offensiva sulla striscia di Gaza.La più vasta scala di distruzione ha avuto luogo nella città di Gaza e nella zona nord della Striscia. Nella città di Gaza le zone più colpite sono state: il quartiere di Tal al-Hawa, a sud della città, i quartieri di al-Zaytoun, al-Tufah e al-Shuja'iya, a est della città.Invece le zone più colpite nella zona nord della Striscia di Gaza sono state: al-'Atatra, Jabal al-Rayes, Jabal al-Kashef e al-Twam. Il numero maggiore di vittime si è riscontrato in questi due governorati.
 La
tabella in basso fornisce dati sui morti e i feriti 
 * Centro palestinese per i diritti umani(26/01/09 infopal)
  |   |   |   | Governorati di
  Gaza |  
  |   | 
   Totale | 
   % totale di morti e feriti | 
   Zona Nord della striscia
  di Gaza | 
   Città di Gaza | 
   zona centrale della
  striscia di Gaza | 
   Khan Yunis | 
   Rafah |  
  | Numero totale dei morti | 1285 | -- | 462 | 533 | 157 | 83 | 50 |  
  | Morti tra civili e
  membri delle forze di polizia non coinvolti nei combattimenti | 1062 | 82.6% |   |   |   |   |   |  
  | Morti dei civili | 894 | 69.6% | 401 | 313 | 81 | 61 | 39 |  
  | Morti tra i bambini | 280 | 21.8% | 125 | 105 | 21 | 16 | 13 |  
  | Morti tra donne | 111 | 8.6% | 54 | 41 | 10 | 5 | 1 |  
  | Totale dei feriti | 4336 | -- | 1914 | 1000 | 530 | 395 | 497 |  
  | Bambini feriti | 1133 | 26% | 591 | 200 | 140 | 100 | 102 |  
  | Donne ferite | 735 | 17% | 385 | 100 | 90 | 76 | 84 |  
	
	
 GUERRA: IN NOME
DELL’OCCUPAZIONE E DELLA COLONIZZAZIONEMirca Garuti
 
 
 ![reuters120778702301104854_big[1].jpg](/Portals/0/appoggio5/reuters120778702301104854_big[1].jpg)
 
 
 Il 15 gennaio, mentre
Bush si trova ancora in Medio Oriente per promuovere un discorso di
pace tra Israele e Palestina, Gaza è sotto l’assedio dei
carri armati israeliani. Non è in verità una situazione
vera di guerra, perché non c’è una normale guerra tra
due eserciti, ma vi è solo un esercito che interviene contro
un popolo che ne subisce l’aggressione. Le forze d’occupazione
israeliane hanno invaso la zona ad est del quartiere Az-Zaitun e
Ash-Shujaiyah, ad est della città di Gaza, con più di
20 corazzati militari e 2 bulldozer, sotto la copertura aerea degli
elicotteri. I bulldozer israeliani hanno anche distrutto molti
terreni agricoli. I carri armati hanno bombardato la zona intorno
alla fabbrica Al-Sawda. Alcuni soldati hanno preso il controllo di
diversi tetti delle abitazioni civili, mentre altri impediscono il
passaggio delle ambulanze per soccorrere i feriti. I bombardamenti
dell'artiglieria e dell'aviazione israeliana hanno provocato la morte
di 18 persone e una quarantina di feriti. Tra le vittime c'è
anche Husam Zahhar, il figlio del leader di Hamas ed ex ministro
degli esteri, Mahmoud Zahhar. 
"Questa è una conseguenza della visita di Bush,
che ha incoraggiato il governo israeliano ad ucciderci", ha così
dichiarato il leader di Hamas , subito dopo l’aggressione ad una
conferenza stampa. " 
 Il dott. Mu’awiya
Hassanin, direttore del pronto soccorso del ministero della
sanità, ha dichiarato che le bombe utilizzate dalle forze
di occupazione israeliane sono non convenzionali:
chiodi a frammentazione, che strappano e bruciano i corpi delle
vittime. 
 Questo 15 gennaio è
stato, dunque, uno dei giorni più sanguinosi negli ultimi mesi
e, quello che preoccupa di più, è, che è
successo durante i cosiddetti “colloqui di pace”. 
 
 Cosa nascondono, quindi,
tutti questi incontri? Dove si vuole arrivare? ![epa27ya5X_20071227[1].jpg](/Portals/0/appoggio5/epa27ya5X_20071227[1].jpg)  ![epa25xvoX_20080125[1].jpg](/Portals/0/appoggio5/epa25xvoX_20080125[1].jpg) 
 
 
 
 
 Il funerale delle 18
vittime è stato celebrato, in un clima di rabbia e la folla ha
invitato la popolazione a continuare ed ad intensificare la
resistenza contro le aggressioni dell’esercito d’occupazione. Il
primo ministro del governo della Striscia di Gaza Ismail Haniyah, ha
confermato, durante il suo discorso al funerale, che il popolo
palestinese rimarrà ancorato ai propri principi e diritti. Ha
rilevato, inoltre, che "l’occupante soffre come soffrono i
palestinesi", ma che quest'ultimo "attende la libertà,
la dignità e il martirio, al contrario dell’occupante che
cerca solo di sopravvivere". Ha parlato anche della "gran
differenza tra chi cerca la dignità e l’onore e chi accetta
la vita umiliante. Tra chi si oppone alle aggressioni e chi
attende i baci e prende in giro Gaza, che è sempre stata
il ”cimitero degli “invasori”. Il riferimento di Haniyah è
rivolto naturalmente alla dirigenza dell'Anp di Ramallah. Infine,
Haniyah ha messo in guardia "i piccoli collaborazionisti che si
trovano sulle strade e che forniscono le informazioni
all’occupazione, a non proseguire nel loro lavoro", spiegando
di "aver dato ordini precisi alle forze di sicurezza di
ricercare e perseguitare i collaboratori e le spie". Fino ad ora
sono stati arrestati più di 30 sospettati. 
 
 
 Gaza: un assedio
infinito 
 La Striscia di Gaza si
trova sotto feroce assedio israeliano e internazionale dall’estate
dell’anno scorso. Nessuno può uscire o entrare: un milione e
mezzo di esseri umani sono rinchiusi in una grande prigione a cielo
aperto. Non si può chiamare in altro modo una
piccola striscia di terra di circa 50 km per 7. Un pezzetto di terra
minuscolo con una densità della popolazione altissima, 3.227
per km2.
È circondata dal lato della terra da ciclopici muri o da filo
spinato per tutta la sua estensione. Dal lato del mare, i suoi
pescatori possono arrivare a 6/7 km dalla riva, oltre quella
distanza, la guardia israeliana li respingerebbe a mitragliate. 
  
 Nessuno può uscire
dalla Striscia se non con permessi molto speciali. In teoria solo i
malati per farsi curare, ma le decisioni sono così arbitrarie
che, negli ultimi due mesi, sono morte 30 persone. O perché
non hanno avuto il permesso, o perché non l’hanno avuto in
tempo per richiederlo. È ormai normale, che i malati aspettino
sotto il sole per molte ore senza un riparo, solo perché
qualcuno ha deciso che quel giorno, la “frontiera” deve restare
chiusa. Nessuno studente che voglia continuare o avviare gli studi
all’estero può farlo. La linea di confine non è una
frontiera perché, l’ingresso e l’uscita dipendono
esclusivamente dall’esercito/polizia/”autorità”
israeliana. I confini della striscia sono stati imposti, costruiti e
ora sorvegliati da un’unica autorità, il governo israeliano.
Nessun cittadino israeliano ha il permesso
di visitare Gaza, non perché glielo impediscano i palestinesi
ma perché è il governo stesso israeliano che lo
impedisce “per protezione”, anche contro la loro stessa volontà.
Nessuno dei medici ebrei israeliani di “Physicians for Human
Rights” che
desideravano visitare Gaza,  ha
avuto il permesso di entrare. Nessun israeliano potrà avere
dunque l’opportunità, qualora lo voglia, di vedere, di
vivere l’esperienza dell’altro, di vedere la situazione in cui si
vive ogni giorno a Gaza assediata. 
 Certo
lo Stato glielo impedisce, ma, a tutti oggi, internet, quotidiani
come Haaretz,
a volte anche documentari trasmessi dalla TV israelita in ore
notturne, permettono di conoscere i resoconti dei pochi che riescono
ad entrare  o delle associazioni che lavorano dentro il territorio
occupato (come il Gaza Community Mental
Health Programme). 
                          
                                                               
 
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 Una
situazione vicino al collasso 
 Le condizioni
igieniche-sanitarie, già disastrate, sono ora al collasso. I
bambini sono denutriti. Mancano cibo e acqua. Le madri partoriscono
figli malati e sottopeso. Gli ammalati muoiono per mancanza di
medicine. Nel corso di questi ultimi mesi ne sono morti 72, ma in
“attesa di decesso” ce ne sono centinaia di altri. Alle sale
operatorie mancano ormai le attrezzature basilari e i gas anestetici
per gli interventi chirurgici. I feriti sono sempre più, come
le bombe “non convenzionali” (che violano, in pratica, tutti i
trattati internazionali) lanciate dall’esercito israeliano sulla
popolazione palestinese. 
 La Striscia di Gaza è
vittima della “pulizia etnica” (ethnic cleansing) pianificata da
Israele, in violazione di tutte le leggi umanitarie internazionali e
delle risoluzioni delle Nazioni Unite.  
 
 Dati generali: 
 Dal settembre 2000 ad
oggi sono oltre 5.400 i palestinesi uccisi dall’esercito e dai
coloni israeliani. Tra i morti ci sono un migliaio di minori, 370
donne e oltre 500 vittime di “omicidi mirati”. 
 Oltre 60.000 sono i
feriti. 
 I detenuti sono 11.000,
di cui 318 sono minori di 18 anni,  103 sono donne. 
 Israele controlla il 95%
dell’acqua palestinese in Cisgiordania e Striscia di Gaza.  
 Il 70% delle famiglie di
Gaza vive sotto il livello di povertà. Il 42% vive in profonda
povertà. Il livello più alto di miseria si
concentra nelle province a nord di Gaza, 73%, e Khan Yunes,
75%.  
 Il 19 gennaio il governo
palestinese della Striscia di Gaza, guidato da Ismail Haniyah, ha
invitato “la Repubblica Araba d'Egitto a prendere una decisione
coraggiosa: aprire il valico di Rafah per far entrare i generi di
prima necessità, salvare la vita dei feriti e curarli negli
ospedali fuori della Palestina”. 
 
 Una ormai disastrosa
situazione sanitaria 
 Il Ministero della Sanità
della Striscia di Gaza, Dr. Medhat Abbas, a cui fanno capo 12
ospedali e 52 cliniche di primaria assistenza, il 20 gennaio,
riportando la decisione presa dal governo israeliano di chiudere i
confini della Striscia di Gaza, lancia un appello urgente alla
comunità internazionale: “Le riserve di combustibile negli
ospedali stanno scendendo di ora in ora, con il rischio che i
generatori (d'emergenza) si possono fermare all'improvviso.
Centinaia di pazienti sono destinati a morire entro breve,
salvo che le forniture di combustibile siano immediatamente riprese. 
 Non vi è tempo da
perdere. Ogni sforzo deve essere fatto per interrompere
immediatamente quest’operazione israeliana. I reparti di
neonatologia, i reparti per le cure intensive, le sale operatorie,
reparti per i pazienti con insufficienza renale, i reparti di
cardiologia, le sale parto si fermeranno entro breve”. 
 
 Infatti, come previsto,
domenica 20 gennaio alle ore 20, un milione e mezzo di palestinesi si
sono trovati completamente al buio!! 
 
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 Il governo di Hamas è
stato costretto, infatti, a disattivare l’unica centrale
termoelettrica di Gaza, che rifornisce circa il 30% del territorio,
per la mancanza di carburante causata dal blocco totale dei varchi
della Striscia. La popolazione è stata così colpita
dalla rappresaglia dello Stato Ebraico agli attacchi dei razzi Qassam
verso il sud del paese. Il leader politico di Hamas Meshaal si è
rivolto a tutti gli stati arabi affinché potessero fare
pressione su Israele per interrompere questo crimine sionista. 
 Un portavoce del ministro
degli esteri israeliano accusa, invece, Hamas di avere creato uno
stato d’emergenza “artificiale”, dal momento che Gaza
continuerebbe a ricevere il 75% dei suoi regolari rifornimenti, solo
per attrarre la “simpatia” internazionale. 
 Fonti mediche palestinesi
in diversi ospedali della Striscia, hanno annunciato, il decesso di
5 cittadini palestinesi malati. La morte è stata causata
dall'assedio e dalla chiusura dei valichi, che non hanno permesso a
chi necessitava di cure, di recarsi all'estero. 
 I forni sono chiusi, il
traffico delle auto bloccato, a causa della mancanza di rifornimento
di combustibile. 
 Testimoni oculari hanno
riferito che le forze d’occupazione hanno vietato l’ingresso a
due camion carichi di medicine e di altri aiuti sanitari per la
Striscia, nonostante le promesse di Olmert di permetterne l'entrata. 
 Khaled Radi, portavoce
del ministero della sanità nella Striscia di Gaza, ha
confermato che la situazione dei malati è disastrosa: la
maggior parte di loro sono feriti degli ultimi bombardamenti
israeliani, e se si dovessero fermare i generatori, sono a rischio di
morte. 
 E, ha aggiunto che,
"l’ospedale Ash-Shifa, il più grande della Striscia, ha
una riserva che basta per un solo giorno, se lavora a pieno ritmo".
 
 Il portavoce del Comitato
internazionale della Croce Rossa ha dichiarato che stanno tentando di
convincere Israele a riaprire le frontiere di Gaza almeno per gli
aiuti e per il combustibile. 
 Ha, infine, proseguito:
"Gli ospedali hanno ancora una riserva che non può durare
più di due o tre giorni; se non sarà garantito altro
carburante, potete immaginare cosa significherà per i
malati". 
 
 La
cronaca degli ultimi giorni 
 Il
23 gennaio, il numero dei cittadini morti per mancanza di cure
adeguate era salito a 77. Una situazione che il
popolo palestinese non poteva più tollerare e per questo ha
deciso di assaltare il confine con l’Egitto. Testimoni
oculari hanno riferito che, uomini armati hanno piazzato cariche
esplosive sotto parti del muro, sul lato palestinese, a sud di Rafah,
e lo hanno fatto saltare. L'esplosione si è sentita in tutta
la città. 
 Il giorno prima, a
mezzogiorno, centinaia di manifestanti palestinesi, in maggioranza
donne, avevano protestato contro il proseguimento dell’assedio di
Gaza. Avevano invaso il cancello principale ed erano entrati, per
essere poi dispersi con la forza dalla polizia egiziana. 
 
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 Il ruolo dell’Egitto
e la "Grande Gaza" 
 La polizia di frontiera
egiziana ha cercato, in un primo momento, di contenere la rabbia, ma
non si può fermare la disperazione di un popolo accumulata in
più di sette mesi d’embargo, d’assedio e di violazioni del
principale diritto umano: quello di vivere. Una marea, di disperati
che a piedi, in macchina e a dorso di mulo, ha oltrepassato il
confine alla ricerca di cibo, medicinali e di cose che erano ormai
diventate proibitive ed introvabili. 
 
    
 
 
 Rafah ora rappresenta la
grande vittoria del popolo palestinese, che non si è mai
rassegnato alla sua condizione e che continua a lottare per la sua
libertà. L’Egitto in questo momento può apparire come
la “terra promessa”, ma attenzione, può essere pericoloso.
All’Egitto sta a cuore veramente la causa palestinese? Può
esserci, forse, la possibilità che la Striscia di Gaza torni
sotto il controllo egiziano? 
 
 Il consiglio di sicurezza
dell’Onu, riunitosi in sessione d’emergenza, non è
riuscito a trovare un accordo sul documento, proposto dalla Libia,
che chiedeva ad Israele di aprire i valichi. 
 
 Il governo israeliano ha,
infatti, in ogni caso, deciso di mantenere l'assedio alla Striscia di
Gaza. Sarà concesso solo l’ingresso del gas per uso
domestico e una quantità limitata di benzina per le
ambulanze e per il funzionamento dei generatori elettrici degli
ospedali. 
 
 Israele ha accusato,
inoltre, il governo egiziano di quello che è successo alla
frontiera con la Striscia di Gaza e di avere permesso una “libertà”
ad un milione e mezzo di essere umani imprigionati da giugno
dell'anno scorso. Il
portavoce del ministero degli esteri israeliano, Ariel Mikel, ha
dichiarato: "Siamo preoccupati per l'apertura dei varchi, che
permettono ai palestinesi di uscire da Gaza e possono permettere
facilmente a Hamas di fare entrare armi e terroristi attraverso
l’Egitto". Mikel ha aggiunto che "la questione della
frontiera è di responsabilità solo egiziana, secondo
gli accordi siglati con Israele. 
 
 Dopo due giorni di libero
transito, i cancelli si sono richiusi! La crisi è rientrata e,
dunque anche i Palestinesi devono tornare a casa. Hamas ha raggiunto
un accordo con le autorità egiziane per la chiusura del valico
entro due giorni e l’apertura, poi, di un confine controllato,
gestito dal partito islamico insieme a rappresentanti del governo di
Ramallah. 
 
 Anche se il confine di
Rafah funziona solo a senso unico, gli abitanti di Gaza sanno, di non
essere soli. Infatti, le manifestazioni a sostegno della loro causa,
si moltiplicano nei vari stati arabi (Egitto, Giordania, Libano).  La
protesta sta mettendo in seria difficoltà il presidente
egiziano Mubarak, preso da due fuochi. Da un lato deve considerare il
sostegno delle popolazioni arabe, comprese quelle egiziane e
dall’altro, deve affondare la rabbia del governo israeliano. 
 Il 30 gennaio le guardie
di sicurezza egiziane hanno ripreso il controllo della frontiera tra
l'Egitto e la Striscia di Gaza, chiudendo, con filo spinato, i
varchi aperti nel muro di confine con Rafah. La polizia egiziana ha
chiuso 11 varchi aperti. Ne rimangono aperti due nei pressi dell'area
"brasiliana" e a Tal As-Sultan. 
 
 Ora il movimento dei
palestinesi è molto diminuito e nella Striscia, i rifornimenti
di cibo scarseggiano di nuovo. 
 
 Analisti egiziani
ritengono che l'attuale drammatica situazione palestinese ai confini
con l'Egitto e il transito di centinaia di migliaia di cittadini
verso il Sinai faccia parte del vecchio piano israeliano della
"Grande Gaza": la regione del Sinai destinata ad ospitare i
"poveri abitanti della Striscia". 
 
 Il numero dei "martiri
dell’assedio israeliano" alla Striscia di Gaza, ossia dei
decessi per mancanza di cure, al 31 gennaio è salito a 87. 
 
 
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 Attacco a Betlemme 
 Anche Betlemme non è
stata risparmiata. Il 28 gennaio infatti, è stata assalita
dalle forze d’occupazione israeliane. Un vasto dispiegamento
dell’esercito composto di 25 blindati, accompagnato da cani
poliziotto e da unità speciali di soldati travestiti da arabi,
ha invaso Betlemme, vicino alla Basilica della Natività. I
militari hanno circondato la zona e perquisito varie abitazioni e
gruppi di giovani palestinesi hanno poi cercato di respingere
l’invasione. Un adolescente palestinese di 17 anni è stato
ucciso. Le forze d’occupazione hanno anche sequestrato diversi
giornalisti, imprigionandoli all’interno di un negozio, per
impedirgli così di seguire quanto stava succedendo. La loro
azione ha avuto successo, questa notizia infatti, non è
apparsa su nessuna televisione o giornale; è stata riportata
solo sul sito www.infopal.it
 
 
 Le ricorrenze 
 A fine gennaio del 2008
si celebreranno le giornate della “Memoria” istituite per
ricordare, affinché non si debba mai più ripetere per
nessuno, l’Olocausto e i 60 anni della creazione dello stato
d’Israele. 
 
 Quello che m’indigna è
che, mentre si procederà nella celebrazione di queste
ricorrenze, nessuno invece si soffermerà, anche per solo un
attimo, a considerare che sono sessanta anni di sofferenze, di
privazioni, di morte, di catastrofe (nakba).anche per il popolo
Palestinese. 
 
 Cosa c’è dunque
da celebrare? Quando l’esistenza di un popolo è basato sulla
non esistenza di un altro, non ci potrà mai essere una vera
democrazia, una vera pace, un mondo uguale per tutti. 
   
 
 
	
	
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