LIBANO:
SEI GIORNI IN UNA TERRA DI GUERRA
di
Mirca Garuti
Dal 11 al 18 settembre
2006, proprio alcuni giorni dopo l’arresto del conflitto a fuoco
con l’esercito israeliano, alcuni giornalisti di ALKEMIA.COM
si sono recati in Libano.
Data l’importanza di tali eventi abbiamo pensato di pubblicare
con periodicità, il “Diario” di quei giorni.
Finalmente
a Beirut!!
Avevo
paura quest’anno, vista la situazione drammatica, di non riuscire a
partire e di non poter quindi portare la mia solidarietà al
popolo libanese ed ai profughi Palestinesi.
La
settimana dal 11 al 18 di settembre è diventata ormai un
appuntamento fisso, un momento molto importante. Sono infatti tre
anni che, grazie al comitato “Per non dimenticare Sabra e
Chatila”, mi reco in Libano.
Il
comitato si è costituito nel 2000 iniziando così la sua
operazione di “memoria” e testimonianza della storia del popolo
palestinese, organizzando, ogni settembre, missioni nei campi
profughi in Libano e in Siria.
Le
trattative di Camp David che, nell’estate dello stesso anno, si
bloccarono sia per la proposta americano-israeliano di uno pseudo
stato palestinese senza nessuna sovranità, senza continuità
territoriale al suo interno e con i paesi vicini, sia per il rifiuto
israeliano di accettare e rispettare la risoluzione 194 delle Nazioni
Unite sul diritto dei profughi a tornare nelle proprie case ed a un
risarcimento per i danni subiti, fecero riemergere le tragiche
vicende di Sabra e Chatila.
I
profughi palestinesi, grazie anche alla liberazione del Libano
meridionale (2000), da parte della resistenza libanese, dopo 22 anni
di occupazione israeliana, ripresero coscienza della loro
situazione, ricominciarono a comunicare tra di loro per difendere i
propri interessi, speranze e soprattutto a far conoscere la loro
storia ad una opinione pubblica internazionale. Il legame tra i campi
profughi ha avuto così uno maggior sviluppo e la loro
visibilità si è poi intensificata con l’inizio della
seconda Intifada, nel settembre del 2000.
Il
massacro di Sabra e Chatila (1982), come per le precedenti
distruzioni dei campi profughi palestinesi nel Sud del Libano,
durante gli anni settanta, ad opera del governo israeliano, è
stato il culmine di un processo che mirava a ripulire il paese dalla
presenza dei profughi palestinesi. Rappresentavano infatti la
principale forza del movimento di liberazione palestinese ed erano i
testimoni dell’ingiustizia storica subita, e così nel 1982,
dopo oltre un anno di cessate il fuoco, tra Israele e l’OLP,
mediato dagli USA e rispettato da parte palestinese, il ministro
della difesa A.Sharon ideò l’invasione del Paese. La furia
israeliana si abbatté di nuovo sui campi, bombardandoli i con
ordigni di ogni tipo, anche al fosforo, provocando migliaia di morti,
mentre le ruspe e i carri armati ne radevano al suolo le case.
L’invasione del Libano avrebbe dovuto portare, secondo i piani di
Sharon, alla distruzione delle strutture istituzionali, politiche,
economiche dell’organizzazione per la liberazione della Palestina,
ad una cacciata dal Paese della Siria, uno degli “stati canaglia”,
alla creazione di un nuovo ordine americano-israeliano nella regione,
mentre il Libano tornava ad essere “un paese non più arabo”.
Il
progetto dell’invasione del Libano venne presentato agli USA nella
primavera del 1982 e ricevette il via libera dall’amministrazione
Reagan. Così mentre Sharon, sicuro della volontà USA
di impedire qualsiasi intervento dell’ONU o di altri paesi, parlava
di una operazione limitata a 40km. di profondità in territorio
libanese per colpire le basi dei “terroristi” , l’esercito
israeliano invece continuò la sua marcia come un rullo
compressore verso il Nord, arrivando fino alle porte di Beirut,
circondando la parte occidentale della città , sede del
quartiere generale di Arafat ed a maggioranza
mussulmano-progressista. La capitale fu così assediata e
bombardata per oltre due mesi, privata di luce e acqua. Le vittime
dell’invasione furono migliaia, tra le 20.000 e le 30.000.
Di
fronte a tutto ciò nessuno presa alcuna iniziativa
concreta per fermare Sharon. Non una parola da parte degli Usa e dei
paese europei sulla distruzione, vera pulizia etnica, dei campi
profughi di Sidone, di Tiro nel sud del Libano, né sulle
violazioni della Convenzione di Ginevra sulla protezione delle
popolazioni occupate. Nessuna sanzione né politica, economica,
commerciale nei confronti di Israele che aveva invaso un paese
riconosciuto dall’.Onu. Ma le responsabilità americane ed
europee si trasformano in complicità difronte al tragico
epilogo di Sabra e Chatila.
Il
cessate il fuoco arrivò in quel caldo mese di agosto e ci fu
un accordo, in base al quale le forze dell’Olp accettarono di
ritirarsi da Beirut, a seguito delle assicurazioni dell’inviato
Usa che, Israele non sarebbe mai entrato a Beirut ovest e che
l’evacuazione dei combattenti sarebbe avvenuta sotto il controllo
neutrale di una forza multinazionale americano-franco-italiana. Non
fu così. Le forze multinazionali, appena terminato il ritiro
dei fedyin, si ritirarono in tutta fretta con 15 giorni di anticipo,
per non essere presenti all’invasione che Sharon stava preparando
nonostante gli impegni presi. Il 14 settembre un’enorme bomba,
posta fuori dal quartiere generale della Falange, uccise Bashir
Gemayel, capo del partito falangista, presidente della città
occupata eletto dall’esercito israeliano, e 60 suoi sostenitori.
Il giorno dopo l’attentato, Sharon, per “mantenere l’ordine”
, entrò a Beirut ovest, in piena violazione del negoziato Usa.
I campi profughi vennero circondati e con la scusa che, in quei
campi si nascondevano ancora 2000 terroristi armati, diede l’ordine
alle milizie falangiste ed a quelle del Libano meridionale di
“ripulirli”. Dopo il grido d’allarme lanciato il venerdì
17, ancora con il massacro in corso, dal pacifista israeliano Uri
Avnery , il presidente Reagan difese l’invasione israeliana
dichiarando che “ l’esercito israeliano è stato costretto
ad avanzare dopo l’attacco di una milizia di sinistra ancora sul
posto” . Viene impedito alla stampa , ormai insospettita che
qualcosa di terribile stava succedendo, di accedere ai campi. Il
massacro continuò fino alla mattina del 18. Per nascondere i
corpi, l’esercito fornisce ai falangisti i bulldozer con cui
abbattere le case in modo da occultare tutto sotto le macerie. Il
primo ministro Begin fu lapidario “ dei non ebrei hanno ucciso dei
non ebrei e accusano di ciò gli ebrei” “ è
affare interno libanese”
Il
numero preciso delle vittime non è mai stato accertato
esattamente. La Croce Rossa parlò di 1500 morti, ma già
dal 22 settembre erano saliti a 2400, poi nei giorni successivi,
furono scoperti altri 350 corpi e così il totale salì a
2750. Al numero dei corpi ritrovati dopo il massacro si possono
aggiungere tre “situazioni”di vittime: quelle i cui corpi sono
stati seppelliti nelle fossi comuni, quelle rimaste sotto le macerie
e quelle deportate vive e non più tornate. Il numero quindi
delle vittime può essere valutato tra i 3000 ed i 3500, un
quarto delle quali libanesi ed il resto palestinese.
Lo
sdegno internazionale ed anche quello dentro ad Israele fu molto
grande e il governo dovette decidere di mettere in piedi una
commissione di inchiesta che però non andò oltre alla
raccomandazione a Sharon di dimettersi perché ritenuto “
personalmente responsabile”.
Ancora
oggi nessuno ha mai pagato per questo crimine.
Per
tutto questo è nato il “Comitato per non dimenticare Sabra e
Chatila” . Gli obiettivi del Comitato, formato da associazioni di
solidarietà presenti sul territorio nazionale, parlamentari,
giornalisti, enti locali ed esponenti della società civile,
sono quelli che si riferiscono alla volontà di tenere viva la
memoria e di trasmettere al mondo il ricordo di quanto accaduto,
affinché non si debba più ripetere. Si è anche
impegnato, per la doverosa necessità di dare una degna
sepoltura alle vittime di quell’eccidio e per il rispetto dei loro
familiari sopravissuti, di bonificare l’intera area della fossa
comune, dove furono gettati tutti i corpi, diventata unicamente
solo una discarica a cielo aperto. Ora infatti, ripulita dai rifiuti
e recintata, è diventata il luogo della commemorazione, luogo
dove, ogni settembre, ospita la cerimonia conclusiva della
manifestazione in memoria del massacro. Tra gli intenti del Comitato
c’è stato anche quello di sostenere i parenti delle vittime
(23 famiglie) nel tentativo di processare Sharon, come criminale di
guerra, da un tribunale Belga. Il Belgio, in seguito alle pressioni
Usa, ha modificato però la legge, bloccando così il
processo (10/09/2003)ma, in ogni caso il fatto che Sharon si sia
dovuto difendere davanti ad un tribunale, costituisce una grande
vittoria del diritto. La tragedia di Sabra e Chatila è
importante anche perché
rappresenta
soprattutto la storia della diaspora palestinese, della condizione
dei profughi, della loro tragedia e della loro determinazione a non
essere cancellati dalla storia e dalla realtà. Le condizioni
di vita dei rifugiati sono durissime, specialmente in Libano, dove
sono privati dei loro diritti civili e sociali. Non possono godere
del diritto di proprietà, di associazione, sono esclusi dall’
ammissione a 72 professioni lavorative che determina quindi un’
altissima disoccupazione. Vivono in case sovraffollate dove mancano i
servizi adeguati per la raccolta dei rifiuti, manca una ventilazione
adeguata, manca l’accesso alla luce del sole, manca un sistema di
fognatura adeguato, manca un’alimentazione elettrica sufficiente e
mancano adeguati acquedotti.
E’
un dovere quindi raccontare per non dimenticare queste situazioni ed
è un dovere cercare di fare qualche cosa per cambiare, anche
se di poco, questa condizione imposta. Il contatto con la gente che
vive nei campi, i loro sguardi, i loro racconti, i loro abbracci, ti
regalano emozioni che non ti lasciano più ed è questa
emozione che voglio trasmettere a chi sta leggendo.
Mentre
era in corso l’ultima invasione israeliana in Libano (luglio/agosto
2006), ho ripensato ad uno dei tanti incontri, durante il viaggio in
Libano dello scorso anno, avuto con le varie autorità locali,
nel quale si percepiva una forte preoccupazione per il futuro del
Libano stesso. C’era già il tentativo da parte israeliana di
voler tracciare nuovi confini con Siria e Libano e l’ostacolo di
questo programma era dato appunto dalla resistenza libanese
(Hezbollah)e dalla presenza dei profughi palestinesi. Proprio per
questo, stavano facendo pressioni per portare al disarmo gli
Hezbollah e cercavano di non parlare più, ossia di abbandonare
il problema del diritto di ritorno dei profughi palestinesi. Si
parlava già del pericolo di una nuova probabile guerra civile
in Libano, c’era poco attenzione verso piccoli gruppi islamici.
Pochi giorni prima del nostro arrivo a Beirut (10/09/05) era apparso
un articolo sui giornali libanesi, in cui i “Guardiani del Cedro”,
gruppo di estrema destra radicale, dichiaravano che tutti gli
stranieri dovevano lasciare il paese e che ogni libanese doveva
uccidere un palestinese. La situazione quindi, come io ho potuto
percepire, era piuttosto delicata, difficile, era già
praticamente una guerra annunciata.
La
costante, proprio degli ultimi decenni, è appunto quella del
tentativo di far scomparire i campi profughi senza riconoscere loro
il diritto al ritorno ed ai risarcimenti previsti. Israele e Stati
Uniti sanno bene che la leadership palestinese, senza il sostegno dei
profughi, sarebbe più facilmente ricattabile, quindi i campi
profughi rappresentano la garanzia dell’autonomia della politica
del popolo palestinese nei confronti delle grandi potenze e dei paesi
della regione.
DIARIO DI VIAGGIO
1° GIORNO
VOLO ME 236 11/09/06
ROMA-MILANO- BEIRUT
Ora
d’arrivo: 17,00
L’emozione
è forte, chissà cosa troverò, mi domando, e mentre respiro aria di casa,
attraverso, insieme a gli altri componenti della delegazione “Per non dimenticare
Sabra e Chatila”, l’aeroporto di Beirut verso l’uscita.
Non vedo
distruzioni ma noto che è semplicemente deserto o quasi. Prima sensazione di
“emergenza” di un paese. La strada che percorriamo per raggiungere l’albergo è
caotica, causa la distruzione di ponti che ci costringe quindi a deviazioni per
poterli raggirare. Su tutto il percorso troviamo enormi cartelli che
riproducono le immagini del conflitto, sui quali lo slogan “La divina vittoria” è sempre presente. Questo significa che
l’obiettivo di Israele non è stato raggiunto e che gli Hezbollh continuano ad
essere una forza importante nel paese. Quanta tristezza e rabbia producono gli effetti di una guerra,
o meglio di una invasione, ai miei occhi, agli occhi di una persona che crede
ancora nel semplice diritto di libertà di esistere!
Il
programma della nostra permanenza in Libano è iniziato con un incontro di
saluto, presso l’hotel Meridian di Beirut, con alcune Ong Palestinesi e con
Talal Salman, direttore di “As Safir” uno dei più importanti quotidiani libanesi. Meeting aperto dalla nostra guida
Palestinese Kassam responsabile dell’associazione Assumoud con i ringraziamenti
per la nostra presenza, nonostante tutte le difficoltà attuali. L’argomento
principale è stato naturalmente quello inerente alla situazione libanese.
Innanzitutto ricordare sempre come vivono i Palestinesi in Libano. Da
sottolineare l’importanza che ha avuto la società civile sia libanese che
palestinese in questo ultimo conflitto. Tre sono i punti fondamentali che hanno
caratterizzato questo ruolo: i primi soccorsi delle persone sfollate, la
garanzia di un minino aiuto ai profughi ed infine la solidarietà
internazionale. Nella prima fase della guerra c’è stato grande smarrimento,
dovuto alla complessità della società libanese, poi si è cercato invece di
trovare un’unità del paese per poter riprendere in mano la situazione
facendo blocco unico di fronte al
nemico. La vittoria finale su Israele è dovuta alla decisione politica di un
partito, alla forte resistenza, che si è
creata grazie anche alle precedenti lotte, ed alla grande preparazione a
tutti i livelli della società civile.
Talal
Salman parla con orgoglio della vittoria su Israele, per la prima volta uno
stato arabo è riuscito a resistere da solo, senza rassegnarsi al nemico, senza
l’aiuto di nessuno riuscendo a portare
la crisi dentro lo stato Israeliano. Se
si osservano, continua a raccontare Salman,
le zone colpite dai bombardamenti si può capire tutta la cattiveria di
chi ha voluto distruggere tutto. Ci sono stati più di 9000 incursioni aeree sul
territorio libanese, venivano lanciati missili su qualsiasi cosa si muovesse
fuori dai confini, bombardando anche gli aiuti che arrivavano lungo l’unica via
in direzione Damasco. Abbiamo sempre commemorato la strage di Sabra e Chatila,
le vecchie stragi nel sud del Libano, ma oggi purtroppo dobbiamo aggiungere i
tanti i luoghi in cui si sono verificati
i nuovi massacri. Israele ha scelto di concentrare la guerra contro una
sola confessione, quella sciita degli Hezbollab, ma il popolo libanese ha
capito che questa non era la verità, che era solo propaganda, ha reagito quindi
invece verso l’unità del paese stesso. Lo dimostra il fatto che i
Libanesi
scappati dalle loro abitazioni sono stati ospitati da altri libanesi, senza fare
alcuna distinzione tra sciiti, sunniti, cristiani, maroniti, ecc. Un’altro
fatto molto importante ed unico nella storia dei profughi palestinesi è stato
proprio quello dell’apertura dei campi per ospitare migliaia di libanesi in
fuga dal sud, determinando così le condizioni di una unità tra palestinesi e
libanesi senza precedenti. Unità che si è creata proprio perché entrambi
vittime della identica volontà di potere di Israele. Salman, rispondendo alle
varie domande da noi poste, illustra il nuovo scenario politico determinato
dopo il conflitto, il mutamento interno al paese e nell’area mediorientale. La
guerra ha cambiato i rapporti tra Libano/Israele e Libano/Paesi Arabi. Per la
prima volta il confronto non è stato con un esercito arabo, ma è stato con una
forza popolare, forza popolare che ha fatto resistenza, ogni cittadino ha
difeso quello che poteva, insieme agli Hezbollah, ogni città ha organizzato la
sua resistenza. I combattenti libanesi non difendevano nessuna posizione,
difendevano solo le loro case, non c’era l’esercito ma c’era solo il Popolo.
Ultimo
argomento trattato è sulla valutazione della risoluzione Onu n.1701. Occorre
guardare, stare all’erta, niente è sicuro. Questa soluzione garantisce i
confini di Israele, ma anche la sicurezza del Libano, è importante che l’Unifil
continui a sventolare le bandierine delle Nazioni Unite e non quelle degli
Stati Uniti.
Tra
l’ironico ed il preoccupato Salman evidenzia “l’ingorgo” in terra ed in mare
che si determinerà con l’insediamento dei 15.000 soldati della missione Unifil
2 ed i 15.000 militari libanesi in un pezzo di terra di appena 1000Kmq tra il
confine di Israele ed il fiume Litani. La risoluzione 1701 in teoria dovrebbe
essere una garanzia per il cessate il fuoco, ma in pratica, essendo consapevoli che il Consiglio di
Sicurezza Onu è un tribunale non imparziale, non lo è.
Domani
incontro con il presidente della repubblica libanese Emile Lahoud e con il
sindaco del municipio di Gobheiry