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Medio Oriente » Il Medioriente nelle ultime settimane  

IL MEDIORIENTE NELLE ULTIME SETTIMANE
di Cinzia Nachira


    Il Medioriente nelle ultime settimane è tornato alla ribalta dell’attenzione internazionale. Ormai da molti mesi l’interesse in Occidente per le rivolte che stanno cambiando il volto del Medioriente e del Maghreb è diminuito perché gli eventi in corso non soddisfano le attese occidentali, deludendo tutti coloro che si aspettavano un percorso lineare. In realtà in Occidente sono stati sottovalutati due fattori. Per un verso alcuni  paesi coinvolti erano succubi di dittature ultra decennali e per questo ogni forma di espressione culturale, politica, sociale o sindacale è stata repressa e conseguentemente molti dei leader che oggi sono protagonisti della scena politica sono tornati dopo lunghi periodi di esilio in Occidente, dove avevano trovato rifugio. Per un altro verso, l’elemento che oggi desta più smarrimento in Occidente è il ruolo di primo piano svolto dalle organizzazioni politiche islamiche che all’inizio delle rivolte nel dicembre 2010 sembravano essere marginali. Ma, come spesso succede, la realtà è ben più complessa di ciò che si desidera e quindi ci si trova ad un bivio: cercare di comprendere ciò che avviene, districandosi fra la complessità dei dati sul terreno, oppure ignorare la realtà adattandola ai propri desideri.
   Inoltre, molti paesi della regione negli anni scorsi sono stati teatro di gravi crisi interne, soprattutto legate all’impoverimento generalizzato delle popolazioni, fin dagli anni ’90 del XX secolo. Ma ciò che due anni fa ha reso  diverse dalle precedenti le rivolte che sono  scoppiate è stato il prevalere del loro carattere politico e del loro coraggio. Questo elemento, più degli altri, è diventato la miccia che non  si è ancora spenta.
   Per quanto il mondo arabo rappresenti da diversi punti di vista un insieme organico è anche vero che ognuno dei paesi mediorientali hanno vissuto vicende specifiche che oggi li influenzano. Sottolineare questo aspetto è necessario anche per non commettere l’errore di porre tutto sullo stesso piano. Questo rischio è particolarmente presente e da alcuni anni si intrecciano due elementi: per un verso la sconfitta dei partiti laici che dagli anni sessanta fino alla fine degli anni settanta del secolo scorso avevano tentato di imporsi sulla scena politica e, per un altro verso, come conseguenza, l’affermarsi delle organizzazioni politiche islamiche. Spesso si è stati tentati, e lo si è tutt’ora, di risolvere questo enigma annullando le differenze.


    L’Occidente cambia tattica


   Una cosa è certa: nessuno si aspettava che dalla Tunisia nel dicembre 2010 si estendesse un movimento di massa di grandi proporzioni. Le potenze Occidentali, Stati Uniti ed Europa in testa, hanno tentato all’inizio di rinnovare il loro appoggio ai dittatori che fino a poche ore prima erano dei loro alleati e clienti di vecchia data e di consolidata lealtà. Ma quando è diventato chiaro che la dinamica era irreversibile, perché le piazze non si svuotavano malgrado la repressione brutale, il loro atteggiamento è cambiato. Il quesito che si poneva sia agli Stati Uniti che all’Europa era semplice: per garantire i propri interessi nella regione conveniva sostenere o abbandonare i vecchi alleati? Evidentemente, nel decidere la risposta venivano presi in considerazione una serie di diversi elementi, fra cui anche il fallimento delle politiche che dal 2001 fino al 2009 avevano avuto come risultato principale quello di impantanare l’Occidente nelle due guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq. Era molto più difficile uscire da queste guerre di quanto non fosse stato scatenarle.
   Inoltre, le guerre scatenate in Iraq e Afghanistan avevano avuto anche il “risultato” di radicalizzare tutti i movimenti di opposizione nel mondo arabo, per cui scegliere dei nuovi alleati per l’Occidente era un’operazione tutt’altro che facile. In questo contesto, l’unica soluzione era quella di modificare le alleanze, per non intaccare i rapporti, strategicamente importanti, con Israele e  i paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa. Gli stessi paesi del Golfo erano tutt’altro che esenti dal “contagio” delle rivolte: dall’Arabia Saudita al Bahrein, passando per il Qatar. Anche in questi paesi l’opposizione riprendeva vigore e le manifestazioni popolari mettevano in pericolo i paesi ricchi di petrolio. Questi per l’Occidente non solo rappresentavano interessi legati al petrolio ma erano anche importanti sedi di basi militari statunitensi organizzate all’epoca della guerra del Golfo nel 1991. Tutto questo andava preservato e in questo senso gli interessi statunitensi ed europei andavano coincidendo in modo sempre più evidente con quelli delle monarchie petrolifere. Fino ad oggi queste monarchie hanno saputo intrecciare i metodi più classici di “contenimento” delle rivolte interne attraverso una fortissima repressione. Grazie alle loro immense ricchezze hanno potuto sostenere le forze politiche islamiche nei diversi paesi in rivolta (in Tunisia hanno largamente finanziato Ennhda). In questo modo i partiti islamici hanno potuto facilmente riorganizzarsi e vincere le elezioni. Ovviamente, l’influenza dei paesi del Golfo è stata molto apprezzata dagli Stati Uniti che alla fine hanno stabilito buoni rapporti con le forze politiche islamiche che fino al novembre 2010 erano considerate terroristiche e destabilizzanti.
   In questo modo, pur non avendo giocato un ruolo di promotori delle rivolte, i partiti islamici hanno potuto accreditarsi nella regione come i nuovi interlocutori dell’Occidente. Nel gennaio 2011 l’amministrazione statunitense auspicava “una transizione nell’ordine” e questa sembrava essersi realizzata. Questo elemento, inoltre, si era rivelato un punto importantissimo di forza anche nell’orientare l’atteggiamento occidentale verso i paesi nei quali le rivolte erano sfociate in guerre aperte: in Libia e in Siria. È qui possibile solo un accenno, ma è essenziale sottolineare il fatto che tanto il regime di Gheddafi quanto quello degli Assad, pur avendo una facciata “antimperialista”, soprattutto dal 1991, intrattenevano stretti rapporti sia con gli Stati Uniti che con l’Europa. Il ruolo diverso della Libia e della Siria nella regione ha determinato il diverso approccio occidentale.
   Ancora una volta, però, la realtà ha smentito coloro che pretendevano che le “primavere arabe”, come sono state definite in Occidente, fossero un argomento chiuso, dopo la vittoria elettorale dei partiti islamici in numerosi paesi (dal Marocco all’Egitto). Soprattutto in Tunisia e in Egitto, pur avendo i partiti islamici vinto le elezioni e prevalendo nelle assemblee costituenti dei due paesi, le manifestazioni contro il nuovo assetto non sono in realtà mai terminate.

  Per gli interessi occidentali nella regione, in particolare l’Egitto oggi riveste un’importanza fondamentale. È ormai chiaro che gli Stati Uniti e l’Europa hanno scelto come interlocutore privilegiato il presidente Mohamed Morsy. Ma, al contrario del regime di Mubarak, i Fratelli Musulmani devono preoccuparsi di non perdere né il consenso popolare e neppure gli equilibri ereditati dal vecchio regime che essi hanno l’interesse a preservare. Questi equilibri riguardano soprattutto l’esercito che in Egitto è una parte essenziale del potere economico, visto che gestisce direttamente una quota importante degli aiuti militari statunitensi ed è nello stesso tempo formato da una base sociale popolare. Con il decreto presidenziale Morsy si concedeva dei poteri che ponevano le sue decisioni al di sopra di qualunque tipo di controllo ed estendevano contemporaneamente i poteri dell’esercito tentando di neutralizzare gli appetiti dei generali. Fin dalla presa del potere di Nasser tutti i presidenti egiziani provenivano dall’esercito, anche se poi svestivano la divisa a favore degli abiti civili, e questo dà l’idea del rilievo dell’esercito nella società egiziana.
   Morsy, il primo presidente non militare, aveva quindi la necessità sia di accreditarsi come interlocutore affidabile verso l’Occidente, sia di dare l’impressione che la transizione dopo Mubarak fosse reale. Un’occasione gli è stata offerta da Israele che attaccando Gaza il 14 novembre scorso pensava di mettere in difficoltà l’Egitto. Al contrario, Morsy aveva saputo sapientemente sfruttare la crisi di Gaza. In primo luogo il Cairo è diventato il crocevia dei negoziati, ma nonostante questo Morsy non ha rinunciato a fare dichiarazioni di fuoco contro Israele, come non avveniva da decenni. L’invio del primo ministro egiziano a Gaza sotto i bombardamenti ha aperto la strada alla fine dell’isolamento politico di Gaza e della leadership di Hamas. Inoltre, dopo il primo ministro egiziano, a Gaza si sono recate delegazioni di tutti paesi in qualche modo coinvolti nella vicenda, dalla Turchia fino alla Lega Araba.
Tutto questo ha definitivamente convinto gli Stati Uniti che il quadro regionale era cambiato e che mantenere un atteggiamento di difesa ad oltranza delle scelte militari di Israele metteva a rischio i propri interessi strategici.


   L’aggressione a Gaza e il riconoscimento dell’ONU


   Quanto analizzato finora dimostra chiaramente che la Palestina non poteva restare estranea agli eventi che si susseguivano a livello regionale. E se anche il popolo palestinese è rimasto ai margini delle rivolte arabe, inevitabilmente nessuno poteva onestamente pensare che queste non lo avrebbero influenzato. E questo anche perché Israele è invece rimasto saldamente ancorato alla vecchia visione regionale, sperando contro ogni evidenza che la nuova situazione potesse essere gestita con i metodi consolidati: guerra e copertura occidentale. In questo contesto regionale reso ben più fluido dalle rivolte e dai nuovi equilibri le  leadership palestinesi, quella dell’Autorità Nazionale Palestinese – in Cisgiordania – e quella di Hamas – a Gaza – sono state costrette a fare i conti con un distacco sempre più profondo tra le loro politiche e il popolo che intendono rappresentare.
   Hamas, evidentemente, ha avuto maggiore possibilità di rientrare nel gioco regionale per due motivi: perché gode ancora del fatto di aver vinto le elezioni legislative nel 2006 e perché grazie al prevalere dei Fratelli Musulmani ha maggiore visibilità e credibilità. Questo spiega anche il motivo per cui Khaled Meshaal, il leader di Hamas in esilio, nei mesi scorsi ha deciso di rompere l’alleanza con la Siria trasferendo il suo quartier generale a Doha, in Qatar. Quando in ottobre l’emiro qatariota si è recato a Gaza in visita ufficiale, Hamas cominciava a trarre i profitti delle proprie scelte politiche. Con l’ultima aggressione contro Gaza, Israele ha dato una nuova dimostrazione di aver compreso poco o nulla del mutato scenario politico regionale ed internazionale. A spingere Israele a scatenare la nuova, terribile, aggressione contro Gaza appare chiaro che è stata la fine dell’isolamento politico di Hamas molto più che le elezioni israeliane che si svolgeranno il prossimo 22 gennaio. Inoltre, fin dai primi giorni dell’aggressione di Israele contro Gaza era evidente che Hamas era riuscito a prevalere sulle altre organizzazioni politiche palestinesi della Striscia. Non a caso Meshaal, una volta giunto al Cairo per tentare di arrivare ad una tregua, ha potuto parlare anche in nome del Jihad Islamico. Inoltre, Hamas è in procinto di rinnovare i suoi quadri dirigenti e Meshaal, pur dichiarando di non ripresentarsi alla guida dell’ufficio politico di Hamas, deve affrontare anche il problema, soprattutto dopo il 21 novembre (giorno dell’entrata in vigore del cessate il fuoco con Israele), del grande consenso ottenuto dalla leadership dell’interno. Non è la prima volta che nello scenario politico palestinese si propone la dicotomia tra le direzioni politiche in esilio e quelle che invece sono sul campo. Certamente, Meshaal è riconosciuto come l’architetto della tregua, anche se questa è stata possibile, ancora una volta, soprattutto grazie al mutato clima generale. Il suo trionfale ritorno a Gaza, per il 25° anniversario di Hamas, è stato anche un grande rito. Gigantografie dello Sceicco Yassin, leader carismatico fondatore dell’organizzazione nel 1987 e ucciso dagli israeliani nel 2004, erano al fianco di quelle di altri leader assassinati, da Abdel Rantisi fino ad Ahmed Jaabari. Meshaal era circondato dai membri del governo in carica a Gaza e il suo discorso ha sottolineato un dato: la direzione politica in esilio riconosce pienamente l’autorità di quella dell’interno. Tutto questo con una folla immensa di palestinesi con le bandiere verdi di Hamas. Meshaal nel suo discorso ha anche ribadito che non vi è riconoscimento possibile di Israele e che la resistenza continuerà fino alla liberazione. E ha concluso sostenendo che la riconciliazione è a portata di mano: un evidente invito all’Autorità Nazionale Palestinese e a Fatah. Inoltre, e non accadeva dalla rottura del 2007, una delegazione di Fatah era presente a Gaza. In definitiva, un discorso ampio e generico volto a preservare i risultati politici ottenuti con il cessate il fuoco. Ma non solo.
   L’Autorità Nazionale Palestinese durante la settimana di bombardamenti a Gaza sembrava definitivamente messa in un angolo. Ma nonostante il grande vantaggio di Hamas, anche grazie al tacito consenso internazionale, resta il fatto che in ogni caso l’organizzazione islamica palestinese non offre all’Occidente quella affidabilità dimostrata dall’ANP e da Fatah fin dal 1993.

 Per questa ragione di fondo gli Stati Uniti hanno deciso di giocare su due tavoli contemporaneamente: far accettare il cessate al governo più oltranzista nella storia di Israele, mantenendo tuttavia un atteggiamento che reiterava l’accettazione del “diritto alla difesa” di Israele. Su un altro piano, pur chiedendo a Mahmud Abbas di rinunciare all’iniziativa di chiedere all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite di ammettere la Palestina come Stato non membro e con status di osservatore, in realtà non hanno fatto nulla perché la richiesta dell’ANP venisse rifiutata. A differenza di Israele, gli Stati Uniti hanno compreso che i palestinesi con il voto dell’Assemblea Generale hanno ottenuto molto meno che con gli accordi di Oslo nel 1993. Anzi, passata l’euforia per le “vittorie” di Hamas e dell’ANP è probabile che la realtà si presenti pesantemente gravida di pericoli. Primo fra tutti quello che Israele imponga un accordo che registri di fatto la parcellizzazione della Cisgiordania creata con la costruzione del Muro di separazione unilaterale, iniziata da Israele nel 2002.
   Evidentemente, il voto favorevole dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre  ha dato un sostegno fondamentale all’ANP di Abu Mazen, aiutandolo ad uscire dall’angolo in cui era finita. Ma tutti sanno che il consenso popolare seguito all’esito della votazione è legato da un fragile filo. Per questa ragione sia gli Stati Uniti che l’Europa hanno reagito in modo negativo all’annuncio israeliano della costruzione di 3000 nuove abitazioni nei pressi della colonia di Maale Adunim alle porte di Gerusalemme. In definitiva, il cessate il fuoco del 21 novembre raggiunto con Hamas e il voto favorevole dell’Assemblea Generale sono due facce di una stessa medaglia. È evidente che Hamas e l’ANP, se vogliono conservare il consenso, dovranno raggiungere un accordo di riconciliazione, tutt’altro che scontato, e questo dovrà significare per il popolo palestinese, in tutte le sue componenti, un miglioramento effettivo delle condizioni di vita.
   Ovviamente, è comprensibile il sollievo e perfino la gioia sia dei palestinesi della Striscia di Gaza sia della popolazione della Cisgiordania. Le stesse scene di giubilo collettivo si videro nel 1993 all’indomani della firma degli accordi di Oslo e tuttavia furono sufficienti pochi anni perché l’illusione fosse dolorosamente svelata. Certo, il clima politico regionale ed internazionale di oggi è profondamente diverso da quello degli anni novanta del secolo scorso e ciò che emerge fino a questo momento è che saranno determinanti sia le scelte delle due direzioni politiche palestinesi, sia la disposizione dell’Occidente a farsi valere nei confronti di Israele. In questo senso le speranze dell’Occidente di “chiudere” il dossier palestinese-israeliano con artifici diplomatici privi di sostanza politica potrebbe rivelarsi, ancora una volta, un boomerang i cui effetti sarebbero per l’ennesima volta dolorosamente pagati dal popolo palestinese.

Dicembre 2012

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