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Medio Oriente » Il governo d'Israele  
IL GOVERNO D’ISRAELE
Destra, sempre più a destra!

di Mirca Garuti


I giochi si sono chiusi. Il quadro è ormai chiaro. Il governo di Benjamin Netanyahu, a fine marzo, ha giurato. La Knesset (parlamento israeliano) ha concesso, con 69 voti su 120, la fiducia al governo del premier del LiKud (partito nazionalista liberale), Netanyahu. Così, dopo dieci anni, torna alla guida dello stato ebraico (il suo primo mandato fu dal 1996 al 1999). Contro il nuovo esecutivo hanno votato 45 deputati e 5 si sono astenuti.


Il popolo israeliano, il 10 febbraio scorso, ha scelto la destra, quella rappresentata dal leader di kadima, Tzipi Livni e quella del Likud di Netanyahu. Su una popolazione di sette milioni e trecentomila persone, gli aventi diritto al voto sono stati cinque milioni e trecento mila e la percentuale dei votanti è stata del 64.2%. Sono stati annullati 43.093 voti. Lo sbarramento al 2% non ha fatto passare 21 liste. I partiti che scendono in campo per l’assegnazione dei 120 seggi parlamentari della Knesset sono 32, ma, tutto si gioca su quattro liste: quelle dei due pretendenti della leadership (Likud e Kadima) e quelle di Lieberman e Barak (Israel Beitenu e Laburisti). Netanyahu ha puntato tutto sulla sicurezza, sul pugno di ferro nei confronti di Hamas e del pericolo iraniano. La Livni cerca di restare in equilibrio tra la linea di fermezza contro i nemici e uno spiraglio di un ipotetico negoziato con i palestinesi.
Ehud Olmert ha formalizzato il suo sostegno alla Livni, riconoscendole “saggezza, sensibilità e il pieno titolo a dirigere Israele”. Il presidente della Repubblica, Simon Peres, invece, non ha resistito a far conoscere la propria delusione per una campagna “non adeguatamente centrata sui brucianti problemi del paese”. Non ha nemmeno rinunciato a bacchettare i proclami di Lieberman contro gli arabo-israeliani, ricordando che Israele resta una democrazia in cui non ci possono essere” distinzioni di nazionalità, di sesso o di età”.
I risultati finali: Kadima, partito di centrodestra, ha ottenuto 28 seggi, il Likud 27, il Israel Beitenu, partito di estrema destra, 15 e il Al-Amal, partito laburista, 13.

 

Nessun partito, quindi, ha raccolto più di 30 seggi. Sia la Livni che Netanyahu si sono dichiarati vincitori, ma, ora sono costretti a trovare alleati, per poter formare un governo stabile. Il partito di centro-destra ha ottenuto una lieve vittoria, ma, senza Lieberman , la Livni non ha possibilità di governare. La grande sconfitta è stata la sinistra, infatti, il primo partito Meretz ha ottenuto solo 3 seggi.
Il primo che si è espresso è stato Avigor Liebermann: “Siamo diventati il terzo partito politico. Si tratta di una grande responsabilità. Adesso sarò chiamato a scegliere per un governo guidato dal Likud o da Kadima. Propendiamo per il primo, ma, la scelta non sarà facile”.
Poi è emerso Netanyahu, accolto da un tripudio degli attivisti del Likud. “Il popolo, ha affermato Bibi, si è espresso. Ha premiato le forze nazionaliste in parlamento, ha raddoppiato la forza de Likud stesso. Come fraintendere il volere del popolo? E' evidente che Israele dovrà essere guidato dal Likud”.
Tzipi Livni
ha ricevuto l'abbraccio entusiasta dei sostenitori di Kadima, definendola “il nuovo primo ministro”. Per lei si tratta di un successo significativo. L'avanzata di Kadima ha   procurato un calo vertiginoso delle risorse del partito laburista e del partito della sinistra sionista. La Livni, commossa per il risultato ottenuto, ha mandato un pensiero alla figura di Ariel Sharon, fondatore di Kadima (in coma da tre anni) ed ha precisato di essersi dedicata alla politica per garantire un futuro migliore a tutti i bambini israeliani. Sul piano pratico offre a Netanyahu la possibilità di entrare in un governo di unità nazionale guidato da Kadima ed aperto anche ai laburisti.
Alla Knesset i deputati di destra potrebbero, infine, essere 65-66 su 120. Tutto ciò rafforza la posizione di Netanyahu. Sia Livni, Lieberman ed il grande sconfitto Barak sono d'accordo sulla necessità di mettere in atto una profonda riforma istituzionale che possa rendere finalmente Israele un paese governabile.

La reazione di Hamas: “Le elezioni israeliane hanno dato vittoria a tre rappresentanti del terrorismo. Chiediamo un cambiamento della realtà araba per affrontare le nuove sfide”. Il portavoce di Hamas, Fawzi Barhum, in un comunicato stampa, ha aggiunto:”Oggi ci troviamo davanti a tre terroristi: Livni che vuole completare la guerra contro il popolo palestinese; Netanyahu che ha affermato che non esiste un partner palestinese con cui dialogare e che non rispetterà alcun accordo; Lieberman che vuole distruggere l'Egitto e gettare in mare il popolo palestinese. Le bande sioniste si sono trasformate in partiti estremisti. Erano piccole realtà, ma, oggi sono diventate parte della cultura israeliana”.


Proseguono le consultazioni verso un governo di unità nazionale ma senza la presenza dei laburisti.
Lieberman suggerisce, infatti,  al presidente Shimon Peres di designare Netanyahu come primo ministro e non la Livni, a condizione che il futuro esecutivo sia appoggiato da una vasta coalizione comprendente, oltre ai conservatori del Likud e gli ultra nazionalisti di Lieberman stesso, anche il centrista Kadima. Quindi Lieberman diventa l'ago della bilancia della situazione. La reazione di Kadima è negativa. “Nelle prossime settimane Israele avrà un governo guidato da Netanyahu, disporrà di 65 sostenitori”. Kadima punta invece a guidare l'opposizione. Sottolinea la Livni “la politica non si fa solo con i numeri, si fa appunto con la politica. Non intendo fare da foglia di fico per coprire la paralisi della politica”.
Secondo la legge israeliana, Peres deve nominare un legislatore che ha 42 giorni di tempo per formare un nuovo governo. Di solito viene scelto per questo ruolo il leader del partito che ha vinto più seggi in parlamento, ma non è un obbligo legale. Infatti sembra proprio che sia Netanyahu ad avere più possibilità di ricoprire questo ruolo anziché il partito di Kadima.
Peres il 20 febbraio incarica, dopo i consueti colloqui separati fra le parti,  Netanyahu a formare il nuovo governo. Sia i centristi di Kadima ed i laburisti si sono dichiarati però indisponibili ad un esecutivo di questo tipo. E' lei, quindi, la vera sconfitta di queste elezioni. Il leader del Likud dovrà comporre il governo unendo il partito di estrema destra (IB) di Lieberman ed i partiti religiosi del partito Shas. La nuova coalizione includerà quindi i partiti che si oppongono a qualunque negoziato con i palestinesi e rifiutano l'ipotesi di “due popoli in due stati”. Il 10 febbraio Kadima è stato il partito più votato e Netanyahu, per guadagnarsi il sostegno della Livni, le aveva proposto l'incarico di vice premier, più i ministeri di finanza ed esteri. Il clima politico però è cambiato. I partiti di destra, i veri vincitori di queste consultazioni, sono più affini alle idee radicali del Likud che ai progetti di Kadima.

Il commento dei partiti e movimenti palestinesi:   
  • Hamas: “Noi non facciamo differenze tra criminali. Tutti loro hanno commesso crimini contro i palestinesi. Cambiare faccia non significa cambiare politiche”.
  • ANP di Ramallah guidata da Fatah:”L'Autorità nazionale palestinese tratterà solo con un governo israeliano che accetti la soluzione di due stati, gli accordi precedentemente siglati, la fine delle politiche coloniali”.
  • Fronte Democratico di Liberazione della Palestina (FDLP): “La scelta di Peres significa appoggiare politiche ancora più estremiste. Il nuovo governo israeliano andrà avanti con la costruzione e l'ampliamento degli insediamenti e, continuerà le aggressioni contro i palestinesi”.
  • Jihad islamico:”Netanyahu non è più estremista di Olmert, Livni o Barak. La politica israeliana contro i palestinesi non sarà differente”.
  • Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP): “La decisione di Peres significa incoraggiare l'estremismo contro i palestinesi e la fine di ogni possibilità di portare avanti negoziati sui diritti palestinesi”.

Intanto i negoziati proseguono………
Netanyahu ha raggiunto, a metà marzo, Il primo accordo di coalizione con Israel Beitenu (Israele è casa nostra) ottenendo cinque ministeri: Esteri con il capo del partito Avigdor Lieberman – Sicurezza interna – Infrastrutture – Turismo ed Integrazione.
Il Likud e IB insieme, però, non hanno una maggioranza tra i 120 seggi del parlamento, hanno, quindi, la necessità di concludere altri accordi.
Il secondo accordo è stato con il partito ultraortodosso sefardita Shas.
Il terzo accordo viene siglato con il leader laburista Ehud Barak. Quest’ultimo prevede che il nuovo governo si impegnerà a presentare un piano di pace globale in M.O., a continuare i negoziati di pace ed a rispettare gli accordi sottoscritti in passato. Il Ministro della Difesa Barak sarà partner paritetico nella conduzione del processo di pace e farà parte del forum ristretto per le decisioni di carattere politico, di sicurezza ed economico. Il governo imporrà la legge sia nelle colonie in Cisgiordania che nelle zone palestinesi dove esiste edilizia illegale.
Netanyahu è riuscito quindi a formare il trentaduesimo governo israeliano.


La coalizione è così composta: Likud (27 deputati), il partito di estrema destra IB (15 deputati), il partito religioso di ebrei sefarditi Shas (11 deputati), il partito Laburista (13 deputati)  ed altri minori.
Netanyahu torna così al potere dopo dieci anni con un esecutivo di destra che ha il sostegno anche del Labour di centrosinistra. Il premier ha offerto negoziati su “tre tracce parallele, economia, sicurezza e diplomazia” con l’Autorità Palestinese. Tratteggiando un accordo di pace secondo cui i palestinesi gestirebbero i propri affari, non ha specificamente menzionato l’istituzione di uno Stato Palestinese. Subentra in carica al posto di Olmert, i cui tre anni di governo sono stati segnati dalla riapertura dei negoziati con i palestinesi, dalle guerre contro i militanti islamici in Libano e nella Striscia di Gaza, ma anche dallo scandalo sulla corruzione che lo ha poi costretto alle dimissioni.
La stampa israeliana si è schierata contro la variegata composizione del governo, criticandone soprattutto le dimensioni. Con 30 ministri e 7 vice ministri è, non solo il più grande nella storia dello stato ebraico, ma anche forse il più grande al mondo. Il quotidiano Haaretz ha aperto la prima pagina con i risultati di un sondaggio, dal quale emerge che il 54% degli israeliani è scontento della formazione del nuovo esecutivo. Il giornale afferma che “l’insuccesso del nuovo governo è assicurato già a priori”. Solo il 27% degli intervistati ha detto di ritenere che il neo ministro degli esteri Lieberman, che ha la fama di falco, abbia le qualità necessarie per svolgere il suo compito.


La figura di Avigdor Lieberman
Avigdor Lieberman, nato in Moldavia ed arrivato in Israele nel 1978, leader del partito di ultradestra Yisrael Beitenu (Israele è la nostra patria), è il personaggio “nuovo” emergente della politica israeliana. Da ago della bilancia del governo è riuscito ad ottenere il ministero degli esteri. La sua attività politica incominciò nel Likud all’inizio degli anni ottanta, fino ad arrivare nel 1996, a capo di gabinetto di Benyamin Natanyahu. Nel 1999, però,  ruppe questo rapporto, fondando il nuovo partito Yisrael  Beitenu, proponendosi come difensore della minoranza degli immigrati russi. Quell’anno riuscì a guadagnare quattro seggi che diventarono, nel 2006, undici. Due volte ministro, nell’agosto 2005, è stato cacciato dal governo Sharon per la sua opposizione al ritiro della Striscia di Gaza. Due anni dopo si dimise dal governo Olmert per protesta contro il rilancio del processo di pace ad Annapolis.
Zeev Sternhell, storico del fascismo, politologo israeliano, lo definisce l’uomo politico più pericoloso della storia di Israele perché rappresenta un insieme di nazionalismo, autoritarismo e mentalità dittatoriale. E’ una figura scomoda per gli stessi israeliani perché invoca la pulizia etnica, il genocidio e la guerra nucleare. Quando era ministro nel governo Sharon, dal 2001 al 2003, fu ammonito dallo stesso ministro degli esteri Shimon Peres, di portarlo davanti alla corte di giustizia dell’Aja se avesse messo in pratica le sue idee razziste.
Da un resoconto del quotidiano Yediot Ahronot dell’8 marzo 2002:
“Alle 8 bombardiamo tutti i centri commerciali, alle 12 tutte le stazioni di rifornimento di carburante, alle 14 tutte le banche e teniamo aperti i valichi di frontiera”.
Il programma elettorale del suo partito nelle scorse elezioni di marzo prevedeva: espulsione dei palestinesi dalla Galilea, pulizia etnica in West Bank e Striscia di Gaza attraverso l’ampliamento delle colonie, confinamento in bantustan ed agglomerati urbani della popolazione palestinese, come quella in Sud Africa. Numerose volte ha suggerito di bombardare Tehran. Nel maggio del 2004 affermava che il 90% dei palestinesi residenti in Israele (1,2 milioni) dovevano andarsene da Israele e trovarsi una nuova identità araba.
Il suo programma per i detenuti palestinesi era quello di gettarli nel Mar Morto offrendo anche gli autobus per il trasporto. Nel 2006, invece, dichiarò che tutti i parlamentari arabi della Knesset che avessero avuto contatti con Hamas avrebbero dovuto essere fucilati come collaborazionisti.
La sua politica esplicitamente razzista non è poi così isolata, gli altri politici non sono così verbalmente chiari, ma ne condividano, alla fine, i contenuti.

L’Unione Europea, alla notizia del suo ingresso al governo israeliano, è rimasta in silenzio, non ha preso posizione, al contrario invece ha imposto sanzioni finanziarie al popolo palestinese per aver scelto Hamas alle ultime elezioni. L’Italia, in questo contesto, ha fatto di più. Il Ministro Frattini ha invitato Lieberman per il prossimo 4 Maggio a Roma per continuare le relazioni speciali, ribadendo la grande amicizia tra Italia e lo stato di Israele.
Lieberman viene definito “il falco” e la sua fama non si smentisce mai…. Infatti, nel suo primo giorno da capo della diplomazia dello Stato ebraico, avverte che Israele non è vincolato agli impegni assunti alla Conferenza di Annapolis del novembre del 2007.
“C’è un documento che ci obbliga e non è quello della Conferenza di Annapolis, che non ha validità – ha affermato il leader del partito di estrema destra – Israele nostra casa. Il governo israeliano non ha mai ratificato Annapolis, né lo ha fatto la Knesset. Anche se dovessimo ripetere la parola pace 20 volte al giorno, non avremo la pace. Più faremo rinunce e più la situazione peggiorerà”. Dopo aver affermato che gli accordi di Annapolis sono carta straccia, l’ultranazionalista ministro degli esteri, ha dichiarato che, ogni ipotesi di ritiro dalle alture del Golan, è esclusa.
“Le parole di Lieberman dimostrano che ho fatto la scelta giusta a non unirmi alla coalizione di governo” ha commentato la Livni. Israele considera le alture del Golan strategicamente importanti sia per la posizione che per le risorse idriche della zona. Negli ultimi mesi, però, il governo di Olmert aveva spinto per accelerare i colloqui per risolvere la questione, parlando con Damasco, grazie anche alla mediazione della Turchia. La nuova linea politica stravolge quello che è stato un caposaldo delle passate trattative di pace in cambio della restituzione di territori. “Non accetteremo di ritirarci dal Golan – ha detto Lieberman – ci sarà solo pace in cambio di pace”.

Il Presidente del Parlamento israeliano Reuvin Rivlin, membro del Likud, durante una visita, il 22 aprile, alla città israeliana Um Al-Fahem, ha rilasciato pesanti affermazioni nei confronti del popolo palestinese. Ha infatti dichiarato di non considerare l'Anp un partner valido con cui sostenere un dialogo e, che Israele non potrà convivere, con uno stato palestinese sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. “Le aggressioni della Resistenza palestinese di Gaza contro Israele, che proseguono nonostante il ritiro israeliano, confermerebbero la pericolosità della nascita di un'entità statale amministrata dai palestinesi”. Il presidente della Knesset ha inoltre aggiunto “Uno stato indipendente significa minaccia reale, ovvero il lancio di missili al-Qassam da Jenin contro le città israeliane vicine”. Rivlin, alla domanda sull'occupazione israeliana, risponde:”non esiste alcuna occupazione, sono stati i terroristi, con le loro aggressioni, a riportare l'esercito d'occupazione a Gaza e in Cisgiordania dopo il suo ritiro”.
Rivlin ha affermato di essere in visita a Um al-Fahem, come in una altra qualsiasi città israeliana per confermare che arabi ed ebrei possono convivere di comune accordo.
Il Presidente del Parlamento ha sostenuto l'uguaglianza tra i palestinesi dei territori occupati nel '48 e gli altri cittadini d'Israele all'interno di uno stato ebraico democratico, chiarendo che non è richiesto di aderire in modo incondizionato ai simboli autentici d'Israele, come ad esempio l'inno nazionale, pieno di contenuti sionisti.
Il nuovo governo di Israele, viste le ultime dichiarazioni di Netanyahu “I palestinesi dovranno prima riconoscere Israele come uno stato ebraico, poi si potrà parlare di negoziati di pace”, ribadisce il carattere razzista e fondamentalista di un paese nato dalla pulizia etnica dei palestinesi che vi abitavano da millenni.


Una piccola nota positiva: l’Unione Europea non prevede un rinforzamento delle relazioni con Israele fino a che lo Stato Ebraico non mostri risultati concreti rispetto al conflitto israelo-palestinese. Benita Ferrero Waldner, commissario per le relazioni esterne dell’Unione Europea, ha dichiarato, il 24 aprile, “I tempi non sono maturi per approfondire le relazioni con Israele”. I passi verso la promozione della democrazia, il rispetto dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale, secondo l’UE, sono stati molto limitati. L’UE si dice preoccupata per la situazione in cui versano le minoranze arabe in Israele, per le attività continue di espansione, le restrizioni ai movimenti di merci e persone a Gaza e in Cisgiordania e la ripresa delle demolizioni di case palestinesi.
Il premier Netanyahu risponde che i rapporti tra Israele e Unione Europea non devono essere condizionati dal processo di pace, e in ogni caso, l’Europa non detterà la politica allo Stato ebraico. “La pace è nell’interesse di Israele non meno che in quello dell’Europa, e non c’è bisogno di legare l’intensificazione delle relazioni con Israele ai progressi nel processo di pace”, così ha infine ribadito il premier israeliano.


La presa di posizione del commissario per le relazioni esterne dell’Unione Europea, se si osserva tutto quello che succede ogni giorno sul territorio palestinese, è obiettivamente corretta e giusta. Dallo scorso 18 gennaio, giorno che ha segnato la conclusione dell’assedio israeliano a Gaza, gli attacchi israeliani contro le imbarcazioni civili palestinesi si sono ripetuti quasi ogni giorno e sempre all’interno delle acque territoriali della Striscia. Gli accordi di Oslo riconoscono alla popolazione di Gaza il diritto di sfruttare le acque di fronte alla Striscia per una superficie di venti miglia nautiche. Da quando però Hamas ha preso il controllo di Gaza, tale limite è stato ridotto a sei e da gennaio di quest’anno, a tre. Questa limitazione ha reso impossibile l’uscita in mare dei pescherecci, costringendo così i pescatori a gettare le reti a pochi metri dalla riva. Questo non ha certo impedito il verificarsi di incidenti in mare, anche entro le tre miglia. La stampa internazionale è stata naturalmente in assoluto silenzio. Si calcola, secondo alcuni dati riportati dai media, che l’esercito israeliano abbia sequestrato, in due mesi, tredici barche, arrestato ventotto pescatori e feriti almeno cinque. Israele accusa i pescatori di essere coinvolti nel contrabbando di armi. I pescatori palestinesi negano ogni responsabilità e rivendicano solamente il diritto di procurarsi da mangiare. Le testimonianze dei pescatori che sono stati arrestati sono praticamente tutte simili: i pescatori, durante le loro uscite in mare, vengono avvicinati da una barca israeliana che li minaccia e gli spara. La barca viene poi fatta ormeggiare ad una boa, prima di essere sequestrata, mentre i pescatori vengono portati ai centri di interrogatorio e di detenzione.
Ma cosa spinge gli israeliani a restringere questo spazio marittimo? Secondo il giornalista Chossudovsky, tutto si riduce al possesso ed al controllo delle riserve strategiche di gas, al largo delle coste della Striscia. Si tratta di giacimenti noti da una decina d’anni, che secondo la British Gas, principale concessionaria, hanno un valore di quattro miliardi di dollari. I diritti su quei giacimenti furono ceduti, nel 1999, alla British Gas dall’Autorità Palestinese, che ne avrebbe dovuto ricavare un profitto. Ma la corte suprema israeliana contestò tale accordo e, nel 2001, Ariel Sharon ne pose il veto. L’elezione di Hamas nel 2006, scrive Chossudovski, “ha permesso ad Israele di prendere, de facto, il controllo di quelle riserve”. Israele tentò di riprendere la contrattazione con la British Gas, ma l’accordo fallì nel 2007. Da allora non ci sono stati sviluppi pubblici, ma Israele, a questo punto, ha preso altri provvedimenti: il tratto di mare di fronte a Gaza, anche se illegittimamente, è stato confiscato. Così i giacimenti da Gaza potrebbero essere inglobati negli adiacenti impianti marittimi israeliani.

  


Per un commento a tutto questo, prendo in prestito il saluto di Vittorio Arrigoni, con il quale  concludeva ogni suo resoconto nelle giornate di guerra

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