lunedì 16 settembre 2024   
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Medio Oriente » Il lungo filo della memoria 3 parte  

(Leggi la Seconda parte)

IL LUNGO FILO DELLA MEMORIA
I PROFUGHI PALESTINESI in LIBANO

di Mirca Garuti
(terza parte)


  


Il sud del Libano rappresenta la resistenza e la lotta per la libertà contro tutte le invasioni. Per i profughi palestinesi, il sud è, nello stesso tempo, gioia e dolore. Gioia, perché qui hanno trovato un rifugio dalla violenza israeliana. Dolore perché, senza diritti, sono costretti a difendersi. Vivere lottando soprattutto perché la loro terra, le loro case ed i loro parenti sono irraggiungibili, nonostante si trovino a pochi chilometri di distanza. Un sogno, un miraggio.
Il viaggio nel sud del Comitato inizia da Sidone. Sidone (Saida in arabo), cittadina portuale a circa quaranta chilometri da Beirut, è circondata da bananeti ed agrumeti. Sidone, un tempo città fenicia ricca ed importante, è oggi capitale del sud del Libano e rappresenta il simbolo della resistenza patriottica libanese e del Movimento di Liberazione Nazionale di tutto il mondo arabo. Con il suo Castello del Mare costruito dai crociati, le sue moschee, i caravanserragli, i suq con i soffitti a volta, è una delle località più affascinanti del Libano.

 


Come primo appuntamento, la delegazione rende omaggio alla memoria del Martire Maarouf Saad, difensore di tutte le classi sociali più deboli e povere, ucciso nel 1975 dalle forze fasciste di destra libanesi, durante una manifestazione di protesta dei pescatori. Il suo assassinio segna l’inizio della guerra civile libanese che scoppierà due mesi più tardi.


Siamo accolti dal figlio, Osama Saad, deputato del partito panarabo nasseriano, uno dei partiti fondamentali per il Libano, specialmente a Sidone. Offre sostegno ed appoggio a tutti i popoli del mondo che si trovano sotto occupazione. In Libano, la loro lotta è rivolta a cambiare il sistema politico vigente per arrivare ad una giustizia sociale, contro la destra libanese. Osama, inoltre, è molto attento a tutte le questioni che riguardano il Medio Oriente e le sue analisi sono sempre precise ed interessanti. Aveva, infatti, già previsto, due anni fa, che le così dette “Primavere arabe”, col tempo, avrebbero avuto delle involuzioni. E così è stato.

(http://nuke.alkemia.com/MedioOriente/OSAMASAADAMODENA/tabid/1274/Default.aspx)

Audio Musolino spiega Osama

 

  

Osama Saad, nei giorni successivi, ci ospita nuovamente a Sidone. Dopo aver visitato la meraviglia del Castello del Mare, ci fa conoscere la Fondazione Maarouf Saad. Al suo interno, si trova la scuola nazionale di Sidone, frequentata da 182 studenti palestinesi, libanesi ed ora anche siriani che vivono a Sidone. Questa scuola fu costruita da un emiro nel 1920. Quando a Sidone arrivarono i turchi e l’emiro fu esiliato in Toscana, la scuola venne regalata ai francesi quando iniziarono il loro mandato in Libano. Qui, infatti, ha vissuto il console francese sino a quando, cessato il suo dominio, la scuola diventò un ospedale governativo.



 

Siamo accolti da un gruppo di scolari che ci danno il benvenuto, leggendo scritti e poesie.

    Audio fondazione Saad

 

 

 

La delegazione del comitato visita il Centro culturale Maarouf Saad. Sono presenti varie forze nazionaliste, islamiste, organizzazioni non governative e nasseriane.

  Osama Saad apre l’incontro: “Il cammino della resistenza, attraverso tutte le sue varie forme, compreso anche la lotta armata, continua in tutto il mondo arabo. Siamo sicuri della nostra vittoria contro l’occupazione sionista e capaci di smantellare il sistema sionista della terra araba fino alla liberazione della Palestina. Noi consideriamo questo sistema, razzista, aggressivo, espansionistico e, per questo lo combattiamo. Quando venite qua, al nostro fianco, ci sentiamo più forti e coraggiosi. Combattiamo lo stesso nemico. La nostra lotta è comune contro l’imperialismo, il sionismo e la reazione di una parte del mondo arabo. Vinceremo questa comune battaglia, anche nella nostra regione, per una democrazia, una libertà, una vita dignitosa, affinché tutti possano avere la giustizia sociale che stiamo cercando.”
Maurizio Musolino, come portavoce del Comitato, riafferma il motivo del nostro viaggio: ricordare e raccontare. “Veniamo qui – dice Maurizio – anche per chiedere diritti per i vivi, per i palestinesi che vivono all’interno dei campi. Sappiamo che i libanesi sono al nostro fianco. Insieme dobbiamo lottare per questo e per chiedere il riconoscimento del Diritto al Ritorno, perché i palestinesi devono poter ritornare alle loro case. Il nostro pieno appoggio è per la resistenza libanese. Siamo per un Libano libero ed indipendente da qualsiasi influenza.”
Dopo i consueti discorsi d’apertura, ascoltiamo alcuni interventi da parte del pubblico presente in sala. Katia, rappresentante del partito nasseriano: “Noi vogliamo la pace in tutto il mondo, in modo particolare nei paesi arabi. Siamo pronti a lavorare con voi per affrontare il nemico sionista e americano, per dire Basta a queste aggressioni. Abbiamo il diritto di vivere in pace.”
Si susseguono altre dichiarazioni, testimonianze e richieste, ma si possono riassumere in una sola. Sono profughi da 65 anni. Chiedono che noi, popolo europeo, facciamo pressione sul governo libanese, affinché possa loro garantire diritti civili e sociali. “Abbiamo il diritto di vivere con dignità finché non riusciamo a tornare nelle nostre terre, nelle nostre case, in Palestina”.
Un partecipante a quest’incontro, si alza e chiede. “ Qual è la vostra conclusione, dopo tanti anni che venite qua? Siete convinti che, prima o poi, il sionismo cesserà? E che la Palestina ritornerà ai palestinesi?" Maurizio risponde: “In questi giorni abbiamo visto tanti campi e incontrato amici.  Abbiamo sentito la forza e l’ostinazione a non arrendersi, anche in situazioni molto difficili, come, per esempio, nel campo di Naher El Bared, oppure in situazioni di sovraffollamento che rendono la vita nei campi praticamente impossibile. Nonostante tutto questo, abbiamo visto la capacità di continuare a fare cultura, per non dimenticare le origini del popolo palestinese, trasmettendole da generazione a generazione. Contro questa determinazione nessuno può vincere. Siamo sicuri che i palestinesi vinceranno, anche se oggi possono sembrare i più deboli. Il mondo cambia. Vent’anni fa l’esercito israeliano sembrava invincibile. Nel 2006, invece, proprio qui in Libano, si è dimostrato il contrario. Si poteva fermare”.

Audio teatro culturale Saad


A Sidone la delegazione incontra anche l’ex sindaco, Abdul Rahman Bizri. Molti partecipanti del Comitato hanno già avuto in passato il piacere di conoscerlo, in modo particolare, subito dopo la guerra dei trentatré giorni del 2006. Saida, terza città del Libano, capitale del sud, è l’esempio della resistenza e della solidarietà. Durante quella guerra il Comune non è stato mai chiuso, anzi, è stato trasformato in un centro di smistamento al servizio dei profughi. Tutti a Saida avevano aperto le porte delle proprie case per aiutare chi era in fuga dalla guerra, compreso i campi profughi palestinesi. Il campo di Ain El Helweh, per esempio, definito dal governo americano “un covo di terroristi” aveva ospitato circa 10.000 persone, senza alcuna distinzione di etnia religiosa.
L’ex sindaco Bizri saluta il Comitato: “Ci sono persone nuove, e questo è un bene, perché significa che questa causa sta andando avanti.”
Bizri fa un piccolo accenno alla figura di Ariel Sharon. Afferma che, nonostante sia morto, la richiesta della sua condanna di fronte ad un tribunale internazionale deve continuare.  Si tratta di una condanna per i crimini che sono stati commessi, una condanna morale che oggi è indispensabile. Intorno alla figura di Sharon è sorto un mistero: non esiste la certezza che sia morto. Nessuna comunicazione ufficiale. Alcuni sostengono che le autorità israeliane aspettino condizioni politiche migliori per poter diffondere la notizia. Altri ancora sostengono che si tratta solo di voci infondate, che Sharon sia ancora ricoverato e che si trovi in uno stato vegetativo da quel 4 gennaio 2006.
L’ex sindaco è però curioso di sapere da noi quali sono le nostre sensazioni e cosa abbiamo notato di diverso rispetto agli anni precedenti. Cosa è cambiato in fondo nel paese dei cedri? I nuovi problemi sono legati alla situazione in Siria, alle migliaia di profughi che sono arrivati in Libano, al sovraffollamento dei campi palestinesi, mentre i vecchi problemi sono sempre quelli relativi ai non diritti dei profughi palestinesi in questa terra ed alla questione palestinese in generale.
 Bizri descrive al Comitato la situazione in Libano per la conseguenza della guerra in Siria. Per la prima volta, si è riunito un Comitato congiunto di tutte le organizzazioni del campo di Ain El Helweh, a cui hanno partecipato tutte le forze palestinesi sia interne e sia esterne al campo, compreso anche quelle islamiste. Lo scopo era quello di fare in modo di “tenersi fuori” da possibili interventi esterni. "Secondo cifre ufficiali – continua l'ex sindaco – il Libano ha ospitato da 700.000 a 800.000 siriani (Bizri non vuole fare delle differenze tra siriani e palestinesi-siriani, perchè sono tutti fratelli, per lui sono semplicemente siriani), in verità, i numeri veri oscillano da 1.000.000 a 1.200.000 persone uscite dalla Siria.” Bizri si occupa anche, all'interno del governo libanese, di monitorare la percentuale di malattie infettive rispetto alla situazione generale sanitaria. La richiesta di vaccini è, infatti, aumentata ed ha raggiunto il milione. Questo dato è significativo perchè rispecchia il numero delle persone presenti. La crisi siriana non ha solo effetti politici e di sicurezza, ma anche sociali. “Se ci sarà un attacco militare - prosegue Bizri – dovremo prevedere l'arrivo di tantissimi altri profughi, per questo motivo stiamo tenendo sotto controllo questo fenomeno. A Sidone sono state ospitate 5000 famiglie e se si considera che ogni famiglia siriana/palestinese è composta di 7/8 persone, sono presenti quindi circa 30/40.000 “ospiti”. Di tutta questa moltitudine, 4/5000 persone si trovano all'interno del campo di Ain El Helweh. Una situazione dunque esplosiva!”
Bizri espone la sua analisi sulla Siria. “La Siria è come tutti gli altri stati arabi. Al suo interno c'è di tutto: corruzione e mancanza di democrazia e di controllo. La Siria ha bisogno quindi di riforme democratiche per la libertà e di un controllo sullo stato attraverso libere elezioni. A differenza di altri paesi arabi, in Siria ci sono garanzie sociali, sanità e istruzione per tutti ed inoltre è iniziata un’apertura economica.  La sua colpa è data dalla politica interna: è uno di quei paesi che non ha mai firmato trattati di pace con Israele, ha ospitato organizzazioni in disaccordo con Israele, (es.Hamas), ha appoggiato la resistenza libanese e sostenuto tutte le resistenze del mondo arabo. All'interno della Siria c'era un'opposizione nazionalista che poteva essere molto importante, ma è stata messa a tacere. Esiste poi la parte peggiore che è quella che rifiuta la società civile, cercando di portare tutto verso un estremismo insopportabile. Al confine della Turchia con la Siria gruppi estremisti si stanno massacrando tra loro. A causa della profonda crisi siriana, dopo un lungo periodo di leggi fuori controllo, dove ognuno poteva fare ciò che voleva, sembra che si stia tornando ad un equilibrio strategico a livello di potenze mondiali. Questo ci può dare un po’ più di speranza di poter evitare un’altra guerra. In Libano volevamo avere, nei confronti della Siria, un’unica posizione, volevamo le riforme all’interno della Siria, mantenendo però intatta la sua posizione politica e strategica per il ruolo che aveva nel mondo.”
Abbiamo infine chiesto all’ex sindaco di Saida alcune informazioni sulla Legge elettorale in Libano.
“Il Libano – afferma l’ex sindaco – corrisponde a ciò che è spiegato in un libro uscito negli Stati Uniti “The Revenge of Geography (La rivincita della geografia)”, dello scrittore Robert Kaplan*. Questo dimostra che esiste un rapporto organico tra la Siria ed il Libano e la possibilità che il Libano si possa staccare dalla Siria è finita con la guerra del 1967. Perché il Libano non ha partecipato alla guerra, è stato neutrale, ha seguito la classe politica d’elite, l’occidente, mentre, invece, doveva partecipare al conflitto. Poteva, forse, subire una sconfitta, come gli altri paesi arabi, ma a quel punto, poteva nascere un nuovo Libano. Da quel momento, invece, è finito lo Stato libanese.  Il paese dei cedri decise di seguire l’estero, la classe politica maronita che poi lo porterà alla guerra civile nel 1975. Non ci saranno imminenti nuove elezioni finché non sarà chiarito il quadro regionale che decide."

Audio Ex sindaco Sidone

 

*"Se volete conoscere la prossima mossa di Russia, Cina o Iran, non leggete i loro giornali né domandate cosa hanno scoperto le nostre spie: piuttosto consultate una mappa. La geografia può rivelare gli obiettivi di un governo tanto quanto le sue riunioni segrete. Più dell’ideologia o della politica interna, ciò che di base definisce uno stato è il punto che occupa sul pianeta. Le mappe colgono gli eventi fondamentali della storia, della cultura e delle risorse naturali. Con il medio oriente in tumulto e una transizione politica turbolenta in Cina, date un’occhiata alla geografia per capirci qualcosa. In teoria, la geografia, come mezzo per spiegare la politica mondiale, è stata messa in ombra da economia, globalizzazione e comunicazioni elettroniche.
Mentre alcuni continuano a premere per un intervento in Siria, è utile ricordare che lo stato moderno che porta quel nome è un fantasma geografico di ciò che fu dopo la caduta dell’impero ottomano, che includeva quelli che sono oggi Libano, Giordania e Israele. Persino quella vasta entità era più una vaga espressione geografica che un luogo ben definito. Nonostante ciò, il moderno stato siriano, per quanto tronco, contiene tutte le divisioni interne della vecchia regione ottomana. Fin dall’indipendenza, nel 1944, la sua composizione etnico-religiosa, con alawiti nel nord-ovest, sunniti nel corridoio centrale e drusi nel sud, lo rende una Yugoslavia araba in gestazione. Questi frazionamenti sono ciò che per lungo tempo ha reso la Siria il cuore pulsante del panarabismo e lo stato più estremo nel respingere Israele. La Siria potrebbe placare le forze che da sempre minacciano di smembrare il paese, solo facendo appello a un’identità araba radicale, andando oltre il richiamo della setta. Questo non significa però che la Siria debba ora sprofondare nell’anarchia, perché la geografia ha molte storie da raccontare. Sia la Siria sia l’Iraq hanno radici profonde in specifici terreni agricoli che risalgono a millenni fa, rendendoli meno artificiali di quanto non si possa supporre. La Siria potrebbe comunque sopravvivere come una sorta di equivalente del XXI secolo di una Beirut, Alessandria e Smirne degli inizi del XX secolo: un mondo levantino di identità multiple, unito dal commercio e ancorato al Mediterraneo. Le divisioni etniche basate sulla geografia possono essere superate, ma solo se prima ne riconosciamo l’eccezionalità." ( stralci tratti dal libro di Robert D. Kaplan “The Revenge of Geography” - Copyright Wall Street Journal, per gentile concessione di MF/Milano Finanza. - Traduzione Studio Brindani- settembre 2012)

 

Il nostro viaggio nel sud continua verso Tiro (Sour) che si trova a 80 km da Beirut con destinazione Qana. Lungo il percorso, in prossimità del fiume Litani, che durante l’occupazione israeliana dal 1978 al 2000 parte delle sue acque furono utilizzate per irrigare Israele e, durante la guerra del 2006, fu luogo di scontro tra l’esercito israeliano ed Hezbollah, superiamo la Rocca del Castello di Beaufort. Si tratta di un vecchio avamposto militare, conteso da quasi tutti gli invasori negli ultimi 1000 anni, in cima ad uno dei più elevati crinali della regione e lo si può vedere da molte miglia di distanza. Le sue origini risalgono al periodo bizantino. Tra le sue mura sono passati i protagonisti della storia del Libano: crociati, sultani, re, guerriglieri, invasori stranieri. Tutti hanno voluto mettere la propria bandiera sulle torri del castello. Nel 1920 sventolava la bandiera francese. Era il periodo del protettorato che finì, nel 1943, con l’indipendenza del Libano. Nel 1976 fu invece conquistata dai guerriglieri palestinesi dell’Olp e difesa dai ripetuti attacchi sia da parte dei cristiani-maroniti e sia dagli israeliani. Nel 1982, durante la feroce invasione del Libano da parte d’Israele, fu occupata dall’esercito israeliano che vi mantenne un presidio fino alla sua ritirata, nel maggio 2000. Durante la loro ritirata, prima dell’abbandono, per distruggere le tracce della loro occupazione, fecero saltare in aria parti del Castello, ignorando la precisa richiesta del governo libanese di rispettare il sito storico già pesantemente danneggiato.

  

Dopo Tiro, in direzione sud-est a 14 km, raggiungiamo il piccolo villaggio sciita di Qana. E’ una fermata obbligatoria, per ricordare i tanti massacri avvenuti qui da parte dell’esercito israeliano.
Durante il viaggio, Maurizio Musolino racconta che cosa rappresenta Qana non solo per i palestinesi e libanesi, ma anche per tutti noi, assumendoci il compito di portare la loro voce al di fuori di questi confini.

Audio Maurizio Qana

Va ricordato il massacro avvenuto all’interno della così detta “Operazione Grappoli d’ira” iniziato l’11 aprile 1996, dal primo ministro israeliano Shimon Peres per fermare la resistenza Hezbollah, interrompendo così il processo di pace in corso (Accordi di Oslo). L’attacco durò 16 giorni. Peres era convinto che solo l’uso di un massiccio bombardamento dal cielo, terra e mare, avrebbe potuto dissuadere la popolazione dall’appoggiare le milizie di Hezbollah che combattevano per la liberazione dei territori occupati del Libano. L’aggressione fu particolarmente violenta: secondo stime attendibili furono impiegate 35.000 bombe. Il 18 aprile, circa 800 persone si rifugiarono a Qana, all’interno della base delle forze di pace delle Nazioni Unite. La base fu bombardata con attacchi ripetuti e mirati: morirono 102 persone e 120 rimasero ferite. Fu un vero e proprio massacro: bruciati vivi, corpi deturpati e sfigurati, carne e sangue fusi con l’acciaio, bambini decapitati.  Subito gli israeliani cercarono di far credere che non sapessero dell’esistenza dei civili all’interno della base, ma poi, secondo le indagini condotte dalle Nazioni Unite, la verità fu che Israele bombardò deliberatamente il bunker del campo.

“Il 18 aprile 1996, alle 14:10, i cannoni israeliani aprono il fuoco sulla postazione del reparto fijiano delle forze di peace-keeping a Favjiya-Qana dove hanno cercato riparo i circa 800 abitanti del villaggio che non sono riusciti a fuggire. Si tratta in prevalenza di bambini, donne e vecchi. Gli israeliani lanciano sui tre rifugi circa 12 scariche di proiettili da 155mm, donati loro dagli USA. Tali proiettili sono progettati per esplodere a 7 metri d’altezza per poter uccidere il maggior numero di persone o produrre amputazioni letali.  7 bombe colpiscono, con voluta precisione, i ripari del battaglione fijiano. La carneficina è spaventosa. In ciò che resta dei ripari, distrutti e incendiati, giacciono i cadaveri di 102 civili arabi, in un ammasso di corpi irriconoscibili, alcuni dei quali stanno ancora bruciando. I feriti, molti dei quali in condizioni gravissime, sono 116.
Nel massacro muoiono anche 4 militari del battaglione ONU delle Fiji.”(dalla “Diaspora Palestinese in Libano ed i tempi della guerra civile” di Mariano Mingarelli)

Dopo il 1996, sono successi altri bombardamenti, come per esempio, nel 1982 dove sono morti centinaia di persone. Quello che colpisce di questi attacchi è il fatto che si sono svolti tutti a danno di strutture dell’Unifil, dove al suo interno si rifugiavano solo civili con la speranza di trovare un posto sicuro. Colpire i luoghi dove si rifugiano i civili è però un elemento che si ripete spesso nella strategia del governo israeliano. In tempi più recenti, Israele bombardò ancora una volta Qana nel luglio del 2006, durante la guerra dei 33 giorni.

Il comitato visita questo luogo di memoria dove sono sepolte le vittime di questa strage. Israele colpì nella notte una palazzina di tre piani dove avevano trovato rifugio varie famiglie: 60morti, tra cui 37 bambini.

  

In questo piccolo cimitero si trovano in semicerchio le immagini di questi bambini che hanno perso la vita sotto le macerie. Purtroppo molti di loro portano lo stesso cognome; una tragedia che ha distrutto intere famiglie.

“Dal 1948 - così ci racconta un responsabile del luogo - le autorità competenti libanesi non hanno mai costruito dei rifugi antiaerei. La popolazione, quindi, aveva come rifugio solo la propria casa. Durante l’aggressione israeliana del 2006, l’esercito israeliano non ha risparmiato nessuno, ha bombardato tutto. A Qana, da un nostro censimento, le case distrutte completamente sono state 64 e 1200 hanno subito danni consistenti. In questo quartiere, la gente, per lo più vecchi, donne e bambini, non ha avuto la possibilità di scappare e si è rifugiata nei piani bassi di una palazzina in costruzione a pochi metri da qui. Gli israeliani si accaniscono contro i civili perché proteggono, secondo loro, la resistenza. La gente sostiene la resistenza perché ha bisogno di chi la protegge dall’occupazione israeliana.”

 

 

 

 

Audio Qana

Lasciamo il villaggio di Qana per raggiungere il campo di El Buss

  

Nel campo di El Buss vi è un importante centro di consultorio familiare con un ospedale psichiatrico per la cura psicologica rivolta a donne e bambini, vittime di violenza. L’associazione di Assumoud, compresa l’estrema gravità del problema, è riuscita, grazie all’aiuto di un’associazione finlandese, a sviluppare questo progetto. Sia l’UNRWA e sia la Mezza Luna Rossa Palestinese non hanno questo tipo di servizio. Il centro di salute psicologica è stato aperto nel 2007 ed è l’unico per tutti i campi profughi del sud del Libano e per i nove raggruppamenti di palestinesi. Non è solo rivolto ai bambini palestinesi, ma a chi ne ha bisogno, siano esse siriani, libanesi, egiziani, o  altro. Questo servizio si trova solo in 5 centri gestiti da Beit Atfal Assumoud in tutto il Libano. I finanziamenti per quest’importante attività arrivano solo da tre paesi: Norvegia, Finlandia e da un’associazione francese.


La responsabile del centro, illustra al Comitato, le funzioni di questo consultorio:
“Il nostro lavoro è rivolto ai ragazzi fino a 18 anni ed ai loro familiari. Il nostro staff lavorativo è composto di uno psicologo, da vari operatori sociali ed operatori socio-psicologi. La cura di queste persone avviene mediante sedute quotidiane. Gli operatori sociali lavorano a tempo pieno, mentre gli specialisti secondo le necessità. La crisi siriana e l’arrivo di tanti palestinesi hanno creato al centro numerosi problemi.  Non siamo in grado di risolverli tutti e le conseguenze sono lunghe liste d’attesa a cui non riusciamo a dare delle risoluzioni. Queste persone, in fuga dalle città in cui vivevano, catapultate in una realtà totalmente diversa, costrette a dipendere da altri non avendo più niente, hanno subito profondi disagi e crisi difficili da risolvere. Abbiamo dovuto affrontare subito un primo soccorso: avevano bisogno di cibo, d’indumenti e di un tetto. Tutto il sud si è mobilitato per dare questo tipo d’aiuto a quelli che scappavano dalla vicina Siria. Noi abbiamo ricevuto tanti bambini palestinesi, usciti dalla Siria, con uno stato psicologico molto provato perché hanno visto gli effetti della guerra. Questi bambini hanno bisogno di cure immediate per evitare che questo stato di cose possa peggiorare. I loro stessi genitori hanno chiesto aiuto, perché non sanno come affrontare questo tipo di problema, non sanno più come comportarsi per poterli aiutare a superare queste paure, questi disagi. Noi quindi abbiamo insegnato ai genitori come fare organizzando delle assemblee. Inoltre, abbiamo anche messo in campo altre attività socio-psicologiche per tutti i bambini con l’obiettivo di riuscire a scaricare le loro tensioni interne, le loro paure non dichiarate, per farli parlare, per raccontare. Questo esperimento lo stiamo facendo in due campi: Burij El Shemali e Rashidieh, dove vi è un alto numero di famiglie ed è rivolto a bambini tra i 6 e 13 anni con questo tipo di problemi. Tutte le famiglie palestinesi provenienti dalla Siria che si trovano all’interno del nostro bacino d’utenza, hanno il diritto a partecipare a tutte le attività organizzate da Assumoud, anche se questo comporta naturalmente una diminuzione dei nostri fondi. Ma non importa. Andiamo avanti. Prima della crisi siriana, avevamo una situazione finanziaria molto buona, ora invece i costi, offrendo servizi e cure a tutte queste persone, sono triplicati.  Oggi siamo in uno stato d’emergenza e la mancanza d’aiuti dall’esterno e di fondi ha reso difficile portare avanti il nostro programma. Il nostro finanziamento durerà fino a dicembre e poi se non ne troviamo altro, per il 2014 saremo a terra. Per noi è estremamente importante riuscire a trovare altri finanziamenti, perché altrimenti corriamo il rischio di non riuscire a portare a termine il nostro lavoro. I ragazzi del sud del Libano difficilmente potranno arrivare a Beirut per continuare la cura. La comunità internazionale applica una forte discriminante nei confronti dei profughi. Se chiediamo ad un ente libanese di occuparsi delle cure di un bambino palestinese-siriano, ci rispondono che non possono, non è un loro compito, ma dell’UNRWA, mentre se è un bambino siriano, allora tutto è possibile perchè paga la commissione europea. Oggi l’UNRWA ha diminuito i suoi contributi. Succede quindi che se un bambino ha bisogno di fare delle analisi, dove prima l’Unrwa ne rimborsava il 50%, ora invece, spesso non dà nulla ed è per questo, che ci dobbiamo attivare attraverso amicizie o a livello personale. Non esiste più un servizio permanente né per i palestinesi che vivono qui e né per quelli che arrivano dalla Siria.” 

Il primo problema che incontrano i palestinesi siriani sul suolo libanese, è l’accento linguistico, poi, si rendono conto che quello che manca in realtà, sono i diritti a cui erano abituati. Poiché la loro permanenza continua, cominciano a sentirsi come i loro predecessori del 1948, quando pensavano che il loro allontanamento fosse solo per qualche settimana. A questo punto, cominciano le ricerche di altri eventuali profughi provenienti dallo stesso villaggio siriano, dalla stessa città, per stare insieme, ma il loro desiderio è solo quello di poter tornare presto in Siria.
I sintomi psicologici riscontrati nei bambini sono per lo più quelli relativi al rifiuto di staccarsi dalla famiglia, alla mancanza di sonno, alla paura, all’angoscia, all’anuresi, al fenomeno di malattie viaggianti, al bisogno di essere sempre in movimento e quello di mangiare sempre o niente.

Audio El buss

  

Dopo la visita al centro, c’inoltriamo per le vie del campo. Notiamo la presenza dei nuovi palestinesi fuggiti dalla Siria. Ci salutano. Incrociamo anche una famiglia seduta su un muretto, nell’attesa, forse di un miracolo… chissà ora dove sarà… non sono arrabbiati, sono semplicemente stanchi ed amareggiati.
Sono giovani. Una giovane coppia con due figli. Sono ben vestiti e l’uomo racconta che sono arrivati da Damasco. Nel campo non c’è posto, così hanno deciso di affittare una camera in città. In Siria, il padre faceva il geometra, aveva una piccola impresa con dipendenti. Ora non ha più nulla. In Siria era libero, mentre ora è solo stanco di essere chiamato “palestinese”. Un nome a causa del quale, tutte le porte sono chiuse. Solo l’Unrwa potrebbe agire ma non risedendo dentro il campo, nulla vale il suo diritto. Ci racconta anche un fatto strano: due suoi fratelli vivono in Germania ed hanno la cittadinanza tedesca. Una normativa tedesca prevede l’ingresso di 5000 famiglie siriane. Lui ha preparato tutta la documentazione.  I suoi fratelli sono tedeschi e sua moglie siriana, sperava, quindi, in un possibile ricongiungimento familiare. E’ andato allora, al consolato europeo, ma gli è stato anche qui, negato l’accesso in Germania perché palestinese. L’uomo allarga le braccia e cita alcuni versi del poeta palestinese Tamim Barghouti “Tu sei palestinese, non devi vivere, devi vivere solo per i posti di blocco e le restrizioni”.

Noi dobbiamo andare, ma lui prosegue dicendo che i palestinesi vivono nell’attesa della morte. “Ci vogliono così.  Noi siamo destinati a vivere così, ma io sono fiero d’essere palestinese, vado a testa alta e porto la causa palestinese con me”.
Un ultimo saluto e li lasciamo lì soli sul muretto, in attesa…

12/12/2013

continua…

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