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Medio Oriente » I profughi palestinesi in Libano - 2016  

IL POPOLO  PALESTINESE
 Viaggio di solidarietà con i palestinesi rifugiati in Libano

(1° parte)

Il Comitato ”Per non dimenticare Sabra e Chatila”, come tutti gli anni dalla sua costituzione (2000), si è recato in Libano per rendere memoria al massacro avvenuto nel 1982. Questo viaggio però è stato diverso. E' stato triste, sofferto, per la mancanza di un amico, di un compagno, Maurizio Musolino, scomparso pochi giorni prima della nostra partenza. Maurizio non era presente fisicamente, ma lo era con il suo amore per il popolo palestinese e libanese. Il Comitato è stato creato da Stefano Chiarini, giornalista de “Il Manifesto”, insieme ad altri intellettuali e giornalisti italiani, libanesi e palestinesi, proprio per mantenere viva la memoria di quel massacro e per ribadire che nessun popolo può vivere sulle terre strappate ad altri con la forza. Maurizio, dopo la morte improvvisa di Stefano (2007), ha continuato la sua opera con il supporto di tanti altri compagni ed attivisti. Ora il testimone è nelle nostre mani ed abbiamo il dovere di continuare a percorrere questa strada, specialmente in questo momento storico molto critico e pericoloso per la sopravvivenza dei diritti e dignità di ogni essere umano. Il Comitato internazionale “Per non dimenticare Sabra e Chatila” ricorda sempre che la questione palestinese, una terra occupata, un popolo in fuga, una giustizia negata è al centro della crisi mediorientale. Oggi si parla sempre meno di Palestina. Oggi si parla di Daesh, di Siria, Iraq e Turchia. Il Medio Oriente è un immenso crogiolo di stati in guerra. Ai profughi palestinesi si affiancano  tanti altri profughi che scappano da guerre, fame, dittature, alla ricerca di una vita dignitosa, nell'indifferenza o addirittura nel respingimento da parte dei paesi occidentali. Un occidente, responsabile di tutto questo, impegnato a ridisegnare i confini di questi stati  per accaparrarsi le loro risorse. La paura dell'altro, fomentata specialmente  da partiti di destra, porta ad innalzare sempre più muri e barriere in nome di una fantomatica sicurezza per proteggere e salvaguardare la propria indipendenza. Si creano, invece soltanto divisioni, separazioni fra esseri umani in base alla nazionalità, alla religione, all'etnia. Mentre il mondo sta impazzendo tra guerre infinite e nuove alleanze che si creano tra le grandi potenze (Usa, Turchia, Russia, Israele, Arabia Saudita, Qatar...) i popoli, in special modo i curdi e i palestinesi, sono solo pedine nelle loro mani sacrificati sull'altare delle trattative. Non è possibile accettare la cancellazione di questi popoli. Loro stessi non lo faranno mai e chi sente ancora di avere un'anima democratica deve essere al loro fianco urlando il loro diritto di esistere. Per questo motivo il Comitato internazionale “Per non dimenticare Sabra e Chatila” continua ad organizzare viaggi nei campi profughi palestinesi in Libano permettendo così a centinaia di persone di conoscere e capire questa realtà. Raccontare significa “Non dimenticare”


I palestinesi registrati presso l'UNRWA (Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi) in Libano sono circa 450.000 e vivono in 12 campi distribuiti sul territorio. Il dramma dei palestinesi risale alla prima guerra arabo-israeliana, con la nascita dello Stato d'Israele, anno della Nakba palestinese, con l'espulsione di circa 750.000 persone. Una parte decise di andare via spontaneamente, pensando che fosse solo per poco tempo confidando nella forza dell'esercito arabo, altri invece furono coinvolti personalmente nelle ostilità. Nella prima fase della guerra (novembre '47-maggio '48) fuggirono per scelta le persone più agiate, come commercianti, insegnanti, medici, funzionari ecc.. causando la chiusura di negozi, ospedali, uffici, scuole, provocando disoccupazione e povertà. Nella seconda parte della guerra (maggio'48-gennaio '49) gli arabi rimasti furono obbligati a fuggire. I comandanti israeliani avevano ricevuto l'ordine di “liberare” molti villaggi e città dai suoi naturali abitanti, i palestinesi, per permettere l'insediamento di ebrei per il nuovo Stato ebraico. Circa la metà dei rifugiati (350.000) andò in Giordania, 200.000 nella Striscia di Gaza, 120.000 in Libano, 60.000 in Siria e 4.000 in Iraq. Alla fine della guerra, Israele accettò il rimpatrio solo di 100.000 palestinesi. Una cifra irrisoria. I rifugiati vennero sistemati in campi profughi nei vari stati arabi senza diritti e senza casa, ad eccezione della Giordania che offrì la cittadinanza ed il diritto a lavorare. L'11 dicembre 1948, l'Assemblea delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione n. 194 che consentiva a chi lo desiderava, il diritto al ritorno  nelle loro terre, mentre quelli che non volevano rimpatriare avrebbero avuto diritto ad un risarcimento per le proprietà perdute. Risoluzione che ad oggi  è rimasta scritta solo sulla carta. Tutte le proprietà palestinesi abbandonate sono state subito acquisite dai nuovi immigrati provenienti dall'Europa e da alcuni paesi arabi. Un arabo per un ebreo. La guerra dei sei giorni del 1967 provocò poi altri spostamenti aumentando così il numero dei profughi in giro per il mondo. Oggi si calcola che ci sono circa sette milioni di rifugiati tra la Giordania, West Bank, Striscia di Gaza, Libano e Siria. E' utile ed anche curioso sapere come la contro parte recepisce il problema dei profughi palestinesi. Da leggere l'articolo “Il curioso caso dei profughi palestinesi” di Tiziana Marengo apparso sul sito “L'Informale”. Prima di tutto spiega la differenza che c'è tra profugo, migrante e rifugiato. Per la Marengo i palestinesi che prima del ‘48 abitavano le terre dell’attuale Stato di Israele, non sono da considerarsi “profughi”, ma  “rifugiati”. Si citano le differenze  delle due agenzie dell'Onu: UNHCR e UNRWA. (Il lungo filo della memoria 1°parte). Infine, si chiede perché il numero dei profughi  palestinesi sia così cresciuto dal 1947 ad oggi. L'articolo finisce con questa domanda: “Ci si chiede se davvero la causa della violenza in Medio Oriente fosse Israele, ora invece chiediamo: ma siete sicuri che il problema palestinese derivi da Israele? ed esiste davvero un “problema palestinese” o questo è creato a tavolino solo in pura finalità anti-isreliana?” Il Diritto al Ritorno, come si vede, è una questione aperta di difficile risoluzione. Bisogna però ricordare che ci sono due Diritti al Ritorno: uno concesso agli ebrei e quello negato ai palestinesi. Il pensiero della Marengo riflette il pensiero comune d'Israele: “Israele viene messo sotto accusa a causa di un numero enorme di persone che vivono nella impossibile attesa di un ritorno alle case che avevano abbandonato (una cosa è trattare il ritorno di 100.000 persone, altra, impossibile, il rientro di 6 milioni di persone); e dal lato dei rifugiati è dannoso poiché questo “status” implica una cultura della dipendenza, della lamentela, della rabbia senza alcuna via d’uscita. Nessuno dei rifugiati palestinesi ha invece interesse a cambiare status, queste persone hanno trovato una situazione che gli garantisce cibo, educazione, casa (continuiamo a chiamarli campi profughi ma sono città!), tutto gratuito perché pagato con le sovvenzioni internazionali da tutto il mondo.”
La realtà descritta in questo articolo non corrisponde  alla verità, a quello che i palestinesi sono costretti a subire tutti i giorni sia in Cisgiordania, Gaza, Libano, Siria e Giordania. Israele addossa tutta la responsabilità agli stati in cui si trovano i palestinesi, non parla mai di Occupazione. Israele ha occupato una terra non sua, non per darla al suo popolo, ma per creare unicamente uno Stato ebraico. Non sono stati i palestinesi a volere l'aiuto dell'agenzia Onu “Unrwa”, come non sono stati loro a voler tramandare lo “status di profugo”  per linea maschile a tempo indeterminato.

La domanda comune di chi affronta per la prima volta questi viaggi è sempre la stessa: come fanno i palestinesi a resistere? Come è possibile tutto questo? I palestinesi non hanno tante scelte a disposizione: resistere o morire. Le risposte a queste domande si possono dare solo attraverso una corretta informazione che purtroppo manca. Basta sapere che in Israele i libri scolastici descrivono una realtà distorta del presente ed una falsificazione del passato. Il libro “La Palestina nei libri scolastici di Israele – Ideologia e propaganda nell’istruzione, di Nurit Peled-Elhanan (EGA-Edizioni Gruppo Abele).  “Il mio obiettivo – afferma l'autrice nell'articolo apparso sul Il Manifesto il 21 ottobre 2015 - era svelare l’architettura della propaganda sionista, un modello che si propaga a educazione, arte, letteratura, archeologia, musica, teatro. Tutte le discipline sono reclutate per dare vita a una storia comune che ovviamente il popolo israeliano non ha, provenendo da ogni parte del mondo”. Lo studio di Nurit Peled non è rivolto al sistema educativo israeliano nel suo complesso, ma aiuta a capire un'ideologia che ha lo scopo di disumanizzare il popolo palestinese e la cancellazione e l'omissione della narrativa araba. Attraverso lo studio di 17 libri diversi di geografia, storia e studi civici, usati nelle scuole pubbliche israeliane dal 1997 al 2009, l'autrice dimostra la sua tesi: “la scuola è il primo mezzo di creazione della memoria collettiva, di una narrativa nazionale per un popolo ed uno Stato frammentato”. La “mentalità da accerchiamento”,  spiega  l’autrice, permette alle autorità di modellare l’individuo, accompagnarlo nel cammino da studente a soldato a lavoratore verso la forma mentis desiderata. La Nakba, la catastrofe del popolo palestinese, non è citata o è giustificata. Nelle scuole - continua Nurit - in pratica non imparano niente sul Medio Oriente, perché lo stato di Israele è loro proposto come parte dell'Europa, né imparano nulla dei loro vicini o delle nazioni confinanti. Neppure della storia degli ebrei negli altri paesi. L'unica cosa che imparano sono i progrom, l'olocausto e il fatto che il sionismo ha salvato gli ebrei dai cristiani. Rappresentazione quest’ultima che potrebbe funzionare per l’Europa dell’Est ma non per i paesi arabi”. Dalla lettura dei libri di testo israeliani si capisce che "i palestinesi costruiscono i loro edifici illegalmente perché non vogliono pagare le tasse e che vivono in modo primitivo perché non amano la modernità". Il palestinese è disumanizzato, descritto come selvaggio a cavallo di asini o cammelli, non educato, “geneticamente terrorista, rifugiato o primitivo”.  “In nessuno dei libri di testo viene trattato, verbalmente o visivamente, alcun aspetto culturale o sociale positivo del mondo palestinese – scrive ancora l’autrice – né la letteratura, né la poesia, né la storia o l’agricoltura, né l’arte o l’architettura”. E' necessario, quindi, che anche nelle  scuole italiane sia data un'informazione oggettiva dei fatti, presenti e passati e che si ristabilisca il fatto storico fondamentale: le persecuzioni degli ebrei, la Shoah sono un crimine europeo. I palestinesi non ne sono assolutamente responsabili. Il conflitto israelo-palestinese è il più antico e pericoloso.

Tutto questo succede perché i nostri paesi restano nel più completo silenzio ad osservare senza prendere posizione.  Anche noi ne siamo complici. Dobbiamo fare di più. Lo diceva sempre  il nostro  amico e compagno Maurizio Musolino in tutti i suoi interventi sulla questione palestinese:
“L'occupazione ha mille sfumature, che si incuneano nella quotidianità della vita rendendola disumana. Non è qualcosa di astratto, di indefinito, ma si sostanzia con soprusi e privazioni, con l’obiettivo di spezzare la resistenza e la volontà del popolo che la subisce. Ed è precisamente questo che sta accadendo in Palestina, dove Israele impone a uomini e donne, colpevoli solo di rivendicare la propria dignità, una segregazione razziale intollerabile. L’Occupazione è negazione della vita, pulizia etnica, volontà deliberata di sradicare un popolo dalla sua terra per renderlo qualcosa di indefinito. E lo fa con la complicità di stati e governi che ora con aiuti diretti e ora con silenzi colpevoli sostengono nei fatti l’Occupazione. Il diritto al ritorno diventa quindi uno degli elementi che sostanziano l’idea di popolo e di autodeterminazione della Palestina. Un elemento che unifica tutto il popolo palestinese, che supera le barriere e le divisioni di schieramenti e di partiti che oggi indeboliscono la resistenza contro l’occupante israeliano.”

I rifugiati palestinesi che si trovano in Libano sono quelli che vivono condizioni economiche e sociali molto dure, senza nessun diritto, né alla proprietà, al lavoro, alla sanità e allo studio, a differenza invece da quelli che vivono in Siria o in Giordania. Quasi tutti i campi sono stati inizialmente fondati nel 1948 dalla Croce Rossa, mentre l'Unrwa inizia a fornire i suoi servizi nel 1950. I campi profughi in Libano si sviluppano in tre fasi. La prima, dal '48 al '69, sono soggetti alla giurisdizione militare libanese; la seconda, fine '69, iniziano i primi scontri tra l'esercito libanese e la resistenza dei fedayyin ed  campi passano sotto il controllo della resistenza palestinese; la terza, con la guerra civile libanese (1975-1990) i campi sono coinvolti negli scontri e subiscono bombardamenti, assedi e distruzione. Per capire i quindici anni di guerra libanese è necessario dividerla in cinque fasi:
1975-1976 fase palestinese – lo scontro è soprattutto tra palestinesi e cristiani
1976-1978 fase siriana – intervento dei siriani come mediatori che, appoggiando ora una parte ora l'altra, in realtà vogliono impadronirsi del potere libanese
1978-1982 fase israeliana – invasione del Libano da parte d'Israele, occupazione del sud del paese e massacro di Sabra e Chatila
1982-1990 fase integralista – discesa in campo di Hezbollah
1988-1989 fase della guerra intercristiana – lo scontro è tra le varie fazioni  della destra maronita seguita alla “Pax siriana” che ufficializza la presenza dell'esercito di Damasco in Libano attraverso un trattato di alleanza.

20/12/2016

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