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Medio Oriente. Facciamo sentire la nostra voce. Una campagna per la verità

Un appello
 
Gli appelli degli intellettuali sono un rito. E rischiano di passare inosservati, specie quando esprimano punti di vista estranei all’opinione prevalente. Eppure mai come oggi, noi sottoscritti, docenti di varie sedi universitarie, donne e uomini impegnati nel “mestiere” di intellettuali, riteniamo sia un dovere, prima che un diritto, “dire la nostra”, invitando tutti coloro che esercitano la nostra stessa professione, e che dovrebbero promuovere il dubbio e segnalare la complessità e la problematicità degli eventi, contro la disinformazione e la menzogna, a ridestarsi dal letargo, o a gridare sui tetti le parole che, molti, a mezza voce dicono tra di loro. Ci riferiamo a quella che pudicamente, e ipocritamente, è stata chiamata “la guerra del Libano” e che invece va definita con il nome che le compete: l’aggressione israeliana al Libano.
Le motivazioni che i governanti e i militari d’Israele forniscono, accettate acriticamente dai media e politici europei, sono che la guerra sia una risposta all’attacco degli Hezbollah: ma una incursione militare con la cattura di due soldati (tuttavia i dubbi sulla natura vera, “preventiva”, e concertata con Washington, dell’attacco israeliano, si fanno ogni giorno più corposi, sulla base di rivelazioni e documenti inquietanti), può, sul piano del diritto prima ancora che su quello etico, dare luogo a una risposta come quella cui il mondo ha assistito inerte? L’azione svolta per oltre un mese – le armi tacciono da pochi giorni, ma non del tutto, e non siamo sicuri che il loro silenzio perdurerà, e Israele non è apparsa finora intenzionata a un rispetto assoluto della tregua – dalle truppe di Tel Aviv, ha provocato oltre un migliaio di morti, la gran parte civili, di cui moltissimi bambini, ha devastato un Paese, al quale da tempo immemorabile gli israeliani recano danni e lutti, distruggendone infrastrutture, edifici civili, strade, fabbriche, ospedali, e preziose testimonianze storiche e artistiche. Si è trattata di una sia pur limitata “guerra totale”: ai civili, al territorio, all’ambiente, nella quale le forze armate israeliane hanno dispiegato una potenza terribile, facendo ricorso anche ad armi illegali, contro un Paese, multietnico e multireligioso, quale il Libano, che non ha neppure la possibilità materiale di difendersi.
Le stesse parole usate dai rappresentanti del potere israeliano – tra le quali spicca la parola “rappresaglia”, e la frase del capo del governo Olmert, “non chiederemo scusa a nessuno” – confermano il carattere punitivo, “esemplare” di questa guerra non dichiarata, che si aggiunge a innumerevoli atti compiuti dai governanti di Tel Aviv in spregio a reiterate risoluzioni dell’Onu (oltre 70, rimaste tutte disattese!), e alle norme del diritto internazionale. Questa guerra insomma è il più recente, ma temiamo non l’ultimo, atto di una politica fondata sull’arroganza di un esercito potentissimo, spalleggiato dalle amministrazioni e dalla quasi totalità dei centri di potere finanziario e mediatico statunitensi, e di gran parte dei Paesi occidentali.
Davanti a tale scempio della legalità, della giustizia, e della morale, le voci di dissenso nella comunità intellettuale sono state poche e sommesse. Perché? Perché su di noi – che ci professiamo democratici (molti dei firmatari si dichiarano senza esitazione “di sinistra”), antirazzisti, amici del dialogo tra i popoli, le religioni, le culture, come le nostre biografie intellettuali e politiche dimostrano – grava il peso di un ricatto: chi critica Israele, ci si dice, ne vuole la distruzione, chi condanna la sua politica è marchiato come antisemita. Ebbene, noi che ci siamo battuti contro fascismo, militarismo, razzismo (in specie l’antisemitismo), e ogni forma di ingiustizia e di illegalità, contro le disuguaglianze, contro la prepotenza dei forti, e dalla parte dei deboli, oggi diciamo basta.
Oggi dobbiamo avere il coraggio di essere impopolari, dichiarando a tutte lettere che la politica israeliana, e alle sue spalle quella statunitense (con il sostegno permanente dell’alleato-subordinato britannico e l’afasia complice della quasi totalità dei governanti europei, anche se molti dei firmatari di questo Appello apprezzano, pur dubitando del risultato, e, almeno in riferimento a certe forze politiche, delle stesse intenzioni, lo sforzo del governo italiano di allontanarsi dall’assoluta subordinazione a Washington e dalla totale adesione alle tesi di Tel Aviv), costituiscono un rischio permanente per la pace mondiale: non l’unico, certo, ma uno dei principali, accanto all’opera di formazioni fondamentaliste che, inventandosi un “dovere religioso”, seminano odio e morte, giocano, spesso, a favore della politica statunitense e di quella israeliana, animate a loro volta da altrettali integralismi, ai quali troppo poco si bada nel dibattito giornalistico e politico. Difficile accettare che si possa bollare col marchio del “terrorismo” le legittime forme di resistenza a forze occupanti, o ad aggressioni esterne.
Così, la paura degli uni genera odio, l’odio suscita paura, in una spirale mostruosa, a cui l’esportazione della democrazia con i bombardamenti e l’imposizione di regimi fantoccio, serve a far scorrere altro sangue, in una precarietà istituzionale che si rivela in tutta la sua fragilità, come gli inferni iracheno ed afgano dimostrano.
Ma non possiamo dimenticare che la politica d’Israele si fonda sulla pulizia etnica e sull'apartheid di fatto nei confronti dei Palestinesi, del resto per decenni dimenticati dagli stessi cosiddetti “regimi arabi moderati”. La costruzione di un muro invalicabile nell'esiguo territorio concesso ai Palestinesi, la deliberata destrutturazione della già misera economia dei Territori, le azioni "mirate" volte a uccidere – o a catturare, contro ogni legge – i loro leader politici, anche quelli democraticamente eletti e legittimamente in carica, e la totale noncuranza della possibilità di sopravvivenza di un intero popolo, fanno di quella che ci viene instancabilmente presentata come “la sola democrazia del Medio Oriente”, una potenza imperialista, che è pronta a rischiare, in nome della sua “sicurezza nazionale”, lo scatenamento di un terzo conflitto mondiale.
Come non rendersi conto che tale politica, accompagnata da una campagna diffamatoria e di odio contro il mondo arabo e musulmano, rappresentato ormai, nel coro di molti politici, intellettuali e giornali occidentali, come “islamo-fascista” (un’autentica bestialità sul piano storico e politologico), scatena modalità sempre più aspre di conflitto, eccita le forme più atroci di terrorismo dall’altra parte, suscitando un risentimento non solo antiebraico, e antiamericano, ma antioccidentale, di cui tutti siamo e saremo soggetti a pagare conseguenze pesantissime?
Noi affermiamo che essere dalla parte della verità e della giustizia, significa innanzi tutto essere dalla parte dello Stato di diritto all’interno, e della legalità sul piano internazionale. Israele, nella sua politica, in cui la democrazia vacilla e il peso degli apparati militari diventa ogni giorno più forte, non deve più contare sul nostro silenzio. Noi chiediamo a tutti i nostri colleghi di esprimersi, di levare le loro voci, e di avviare una campagna di informazione autentica verso i loro allievi, verso il pubblico che legge i loro scritti o ascolta le loro conferenze e lezioni. Chiediamo ai giovani studiosi, agli operatori della comunicazione (giornalismo, editoria…), ai ricercatori del mondo extrauniversitario, agli studiosi in formazione, di mobilitarsi, accanto a noi, con noi.
Posto che per noi non è in discussione l’esistenza dello Stato d’Israele, che va accettata e riconosciuta dai suoi confinanti e dagli altri Paesi circumvicini, i principali punti di questa campagna dovranno essere sei (con un settimo punto rivolto al mondo italiano)

Primo: Spiegare che Israele deve accettare tutte le risoluzioni dell’Onu, ritirarsi entro i confini del 1967, in particolare rinunciando alla pretesa di fare di Gerusalemme la sua “capitale unica, eterna e indivisibile”, e consentendo a quella città plurimillenaria di ritornare ad essere un luogo d’incontro e di convivenza di popoli, culture e religioni.

Secondo: Affermare con altrettanta chiarezza che ai Palestinesi sia data la possibilità immediata di costruire un proprio Stato, indipendente e libero, con confini certi, ed esterni allo Stato israeliano, internazionalmente riconosciuto e non un piccolo protettorato di Israele. E che il riconoscimento dell’esistenza di Israele da parte di chi finora nella Regione non l’ha concesso, è subordinato alla creazione dello Stato palestinese.

Terzo: Chiedere con vigore che il Libano eserciti pienamente la sovranità sul proprio territorio, contro le pretese di ingombranti tutele di Paesi quali l’Iran, la Siria e Israele: a quest’ultimo deve essere impedita la prosecuzione di furti d’acqua sul territorio libanese, e deve essere imposto, dopo il ritiro del blocco aeronavale del Paese, un risarcimento, almeno parziale, dei costi necessari per la ricostruzione.

Quarto: Sostenere che la forza di interposizione sia davvero tale, forza di pace, e non un esercito volto a continuare la guerra, magari con il fine di “disarmare i nemici di Israele”; che sia dispiegata anche nel territorio israeliano, e non solo libanese, in particolare in quel minuscolo abbozzo di Stato che è la Striscia di Gaza, a difendere i Palestinesi, da quotidiane incursioni, violenze e uccisioni “mirate” da parte degli Israeliani; e che, infine, sia accompagnata e seguita da concrete azioni costruttive, da condursi non con gli eserciti e le armi.

Quinto: Invitare, e ove possibile, fornire strumenti di studio per far conoscere meglio la vicenda storica di quella regione, la sua fisionomia geografica ed economica, le sue componenti etniche e religiose, fuori da ogni pregiudizio o di “conoscenza” per sentito dire.

Sesto: Richiedere la convocazione, al più presto, di una grande, vera conferenza internazionale che riporti non solo la pace nella regione, ma assicuri una stabilità nella giustizia per tutti i popoli che vi vivono, all’insegna della possibile, necessaria convivenza di culture e religioni.

Settimo (specificamente rivolto al mondo italiano): Denunciare l’accordo di collaborazione militare tra Italia e Israele (legge 94/2005) che rende complice lo Stato italiano di crimini di guerra.

La campagna, a cui noi firmatari di questo Appello ci impegniamo, dovrà essere incessante, dovrà continuare anche se questa ultima guerra davvero si fermasse definitivamente; non possiamo aspettare la prossima, per agire. E del resto la Palestina è ormai da sempre sotto le fiamme della guerra. Dobbiamo continuare a far sentire la nostra voce, in nome non solo del dovere professionale e morale di tutti noi, ma anche, e soprattutto, dell’universale e ormai irrinunciabile bisogno di pace sulla Terra.

Angelo d’Orsi, professore di Storia del pensiero politico, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Torino

Post scriptum 9 settembre 2006

Questo appello ha avuto diverse redazioni, anche sulla base dello sviluppo degli eventi e delle sollecitazioni di alcuni dei firmatari. E ha avuto, a prescindere dalla stessa volontà dell’estensore, una notevole circolazione sulla Rete, in alcune delle sue versioni, con traduzioni in francese e in castigliano, traduzioni effettuate, spontaneamente, da colleghi. La presente versione è, con minime modifiche, quella accettata da tutti, recante la data 20 agosto 2006.

Occorre aggiungere, tuttavia, almeno un elemento importante, certo non da tutti condiviso, ma che l’estensore e promotore dell’iniziativa, personalmente, ritiene degno di essere preso in considerazione. Ossia, il fatto che sia giusto ricordare che la nascita dello Stato di Israele, mentre tentava la riparazione di un torto e dava esito a un’antica aspirazione di molti Ebrei, creava una drammatica ferita non soltanto territoriale nel Medio Oriente, i cui esiti sono sotto i nostri occhi; e, per quanto, oggi, almeno apparentemente, utopiche, non andrebbero lasciate cadere le idee di una possibile convivenza di ebrei e palestinesi, e di tutti i cittadini di qualsiasi etnia o religione, in un solo Stato che garantisca pari diritti a tutte le comunità. Vale la pena di segnalare una lettera indirizzata a un quotidiano «di sinistra», e non pubblicata, di un ebreo italiano, che, commentando questa guerra, ha concluso: «…basta leggere Anna Frank, Etty Hillesum o Franz Kafka e poi pensare allo “Stato ebraico” di Israele per rendersi conto dell'abisso che ormai separa la grande tradizione culturale dell'ebraismo da questa entità statale che pretende di rappresentarla ed esaurirla». Forse anche su ciò Ebrei di Israele ed Ebrei di tutto il mondo, e le Comunità organizzate che li rappresentano, dovrebbero meditare, smettendo di schierarsi acriticamente con i governanti israeliani, e rinunciando alla tentazione di esserne i portavoce.

Perciò l’adesione a questo Appello di Ebrei costituisce un particolare motivo di soddisfazione e di speranza. E da questo Appello, il suo promotore, si augura possano cominciare a partire iniziative di discussione di analisi comuni nelle sedi universitarie, e in altri luoghi di confronto culturale, che consentano di far ripartire uno sforzo di analisi il più possibile pacato e sereno, pronto a raccogliere le ragioni degli altri, ma, sempre, teso alla ricerca della verità. Un augurio che è un invito a tutti i colleghi e le colleghe perché mettano in cantiere, all’interno delle loro strutture, iniziative di tal genere, dandone comunicazione a tutti. E un annuncio che presto presso l’Università di Torino si darà vita a un primo momento di confronto e di studio.

Promosso e redatto da Angelo d’Orsi Docente di Storia del pensiero politico
Facoltà di Scienze Politiche,Università di Torino.
(angelo.dorsi@unito.it)

Per aderire:
campagnaperlaverita@gmail.com

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