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Medio Oriente » Ultime buone notizie dall’Afghanistan  

Ultime buone notizie dall’Afghanistan
(dal sito di PeaceReporter)

Oggi, martedì 26 giugno, Emergency ha riaperto l’ospedale a Kabul. I ricoveri, per il momento, sono limitati alla chirurgia di guerra. La gente di kabul, negli ultimi giorni, aveva “sentito” la voce che all’ospedale erano arrivati i cleaners, i dottori. Sono arrivati in centinaia per capire se era vero. E’ vero, l’ospedale ha ripreso a funzionare. Due sono stati i primi pazienti a varcare la soglia, entrambi colpiti da proiettili, sparati non si sa bene da chi. L’ospedale, in questa fase, opera sotto la direzione di Gino Strada che ha chiamato solo i suoi collaboratori locali. Il personale medico, paramedico e ausiliario che, per ora, collabora è costituito da centodiciotto persone. Tra breve arriverà anche il personale internazionale di Emergency. Riprenderà anche l’attività della maternità, della pediatria di Anabah nel Panshir, del centro chirurgico di Lashkar-Gah e delle altre ventinove cliniche. Ovviamente di tutto questo, ha voluto precisare l’Ong italiana, le autorità del paese ne sono a conoscenza.

Quindi, buon lavoro Emergency!!!


Michael Warschawski, intellettuale israeliano, scrittore, co-fondatore di Alternative Information Center (A.I.C.) di Gerusalemme, esprime sul “Manifesto” del ventuno giugno, la sua opinione sulla attuale situazione in Palestina tra Al-Fatah e Hamas.

Il vecchio sogno di Ariel Sharon si sta avverando: palestinesi che uccidono palestinesi, mentre Israele conta le vittime con grande soddisfazione. Le lacrime dei leader israeliani sono lacrime di coccodrillo e il loro presunto cordoglio per i tragici eventi di Gaza, pura ipocrisia. I conflitti sanguinosi erano prevedibili così come la responsabili

tà e il diretto coinvolgimento di Israele e degli Stati Uniti sono palesi. All'interno delle analisi di molti giornalisti israeliani la responsabilità di Israele sembra essere indiretta: «1,4 milioni di persone chiuse in un territorio piccolo come la Striscia di Gaza, senza alcuna possibilità di condurre una vita economica regolare e senza alcuna possibilità di fuga, sono fatalmente destinate ad ammazzarsi a vicenda, come topi in trappola». Questa metafora zoologica non è solo tipicamente razzista, ma anche basata su un grosso fraintendimento. Perché l'atteggiamento d'Israele e degli Usa nelle vicende attuali non si limita a favorire delle condizioni per un conflitto interno palestinese. Per mesi il Dipartimento di Stato Usa ha incoraggiato la leadership di Al-Fatah a lanciare un'offensiva militare nei confronti di Hamas e, due settimane fa, Israele ha dato il proprio nulla osta all'ingresso di una grossa quantità di armi per le milizie di Fatah presenti a Gaza. Chi è l'aggressore? Credo sia necessario chiarire subito quello che dovrebbe essere ovvio: Hamas ha schiacciato Fatah alle ultime elezioni palestinesi, in seguito ad un processo elettorale che l'intera comunità internazionale, Washington compresa, non ha esitato a definire «il più democratico nella storia del Medio-oriente». Un processo democratico incontestabile e un massiccio sostegno popolare, pochi regimi possono vantare tanta legittimità. Nonostante la clamorosa vittoria, Hamas ha accettato di condividere il potere con Fatah in un governo di unità nazionale sotto l'egida dell'Arabia Saudita e dell'Egitto e accolto con favore dalla comunità internazionale, con l'eccezione di Washington e Tel Aviv. L'agenda politica del nuovo governo ha riconosciuto, de facto, lo Stato d'Israele e adottato la strategia del negoziato basato sui meccanismi di Oslo. La piattaforma governativa moderata di Hamas, comunque, si è dovuta confrontare con due nemici potenti: una parte dei funzionari di Fatah non ancora pronta a rinunciare al proprio monopolio sul potere politico e, dall'altra parte, i governi neo-conservatori di Israele e degli Stati Uniti, che stanno portando avanti una crociata globale contro l'Islam politico. Muhammad Dahlan, ex comandante delle «Forze di Sicurezza Preventiva» e attuale consigliere alla sicurezza nazionale di Mahmoud Abbas rappresenta entrambi: è sia l'esecutore materiale dei piani di Washington nella leadership palestinese, sia il rappresentante di quel tipo di funzionario di Fatah corrotto pronto a fare qualsiasi cosa pur di non perdere i propri guadagni. Dalla vittoria elettorale di Hamas, le milizie di Dahlan hanno continuamente provocato il governo, assalendo le milizie di Hamas e rifiutandosi di delegare il controllo delle forze di polizia al governo. Nonostante le offensive di Dahlan, Hamas ha cercato in tutti modi di trovare un compromesso con quest'ultimo, chiedendo ai propri attivisti di astenersi da eventuali ritorsioni. Comunque, quando è apparso chiaro che Dahlan non stava cercando un compromesso, ma piuttosto stava tentando di neutralizzare Hamas, l'organizzazione islamica non ha avuto alternative se non difendersi e contrattaccare. Il piano israeliano-statunitense fa parte di una strategia globale tesa ad imporre dei governi fedeli ai propri interessi, in contrasto con il volere della popolazione locale. L'Algeria fornisce un'esempio di tale strategia, ma anche del suo fallimento e del suo pesante costo umano: l'indiscutibile vittoria del Fis (Fronte islamico di salvezza) sul Fln, ormai corrotto e screditato, nel 1991, fu seguita da un colpo di stato, sostenuto dalla Francia e dagli Stati Uniti, che spianarono la strada ad una guerra civile durata per oltre un decennio e responsabile della morte di oltre centomila vittime civili. Avendo imparato la lezione dalla tragedia algerina, Hamas ha deciso di non lasciare che i piani di Dahlan gli permettessero di prendere il potere con la forza. Appoggiandosi sul consenso di buona parte della popolazione locale, i militanti di Hamas hanno sconfitto Fatah in meno di due giorni, nonostante quest'ultima avesse a disposizione un quantitativo di armi fornito da Israele. Perfino dopo la vittoria schiacciante su Fatah, la dirigenza di Hamas ha ribadito la propria ferma intenzione di mantenere un governo di unità nazionale e di non voler sfruttare il colpo di stato tentato da Fatah come pretesto per estirpare l'organizzazione o escluderla dal governo. Tuttavia, i vertici di Fatah hanno deciso d'interrompere ogni rapporto con Hamas e di formare, in Cisgiordania, un nuovo governo senza la presenza degli islamisti. Un altro vecchio sogno di Ariel Sharon si sta avverando: la completa separazione tra Cisgiordania e Gaza, quest'ultima considerata un «Hamastan» senza scampo, entità terrorista in cui non esistono civili, ma solo terroristi da porre in stato d'assedio, destinati ad essere affamati. Washington, che abbraccia senza riserve questa strategia, ha promesso il proprio sostegno illimitato a Mahmoud Abbas e al suo nuovo bantustan in Cisgiordania, al punto che Olmert ha deciso di concedergli una parte del denaro palestinese ancora nelle mani del governo israeliano. Uno degli obiettivi dell'amministrazione israeliana e di quella statunitense non è stato tuttavia raggiunto: a Gaza non regna il caos. Al contrario. Come ha dichiarato il 17 giugno ad Ha'aretz un ufficiale della sicurezza palestinese: “La città non è stata tranquilla per molto tempo. Preferisco la situazione attuale a quella passata. Posso finalmente uscire di casa” L'estirpazione delle bande di Fatah da Gaza potrebbe sancire la fine di un lungo periodo di anarchia e permettere il ritorno ad un tenore di vita più stabile. I recenti fatti confermano che Hamas può imporre il controllo. I discorsi di Israele a proposito di una guerra civile palestinese non sono altro che auspici. Lo scontro armato è avvenuto esclusivamente tra milizie armate e se, purtroppo, ci sono state vittime tra i civili, si è trattato di quello che l'esercito statunitense definisce «danno collaterale». La popolazione è senza dubbio politicamente spaccata, in Cisgiordania come a Gaza, ma non
in conflitto, almeno per il momento. Dal momento che Gaza è considerata un interlocutore ostile e tutta la sua popolazione aggregata ad Hamas, non ci sono dubbi che, nell'immediato futuro, si troverà ad essere obiettivo di una brutale aggressione da parte d'Israele: possibili incursioni militari, bombardamenti e embargo alimentare. È per questo che la nostra priorità, in Israele come nel resto del mondo, è quella di convogliare tutta la nostra solidarietà nei confronti di Gaza e della sua popolazione.


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