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filosofia » LA TEKNE E’ LA MORTE DELLA POLITEIA  

LA TEKNE E’ LA MORTE DELLA POLITEIA
di Lorenzo Barani


Ho letto il breve, sconvolgente articolo Cina, la fabbrica dei robot. Il primo pensiero è senza parole, ma non muto. Puro sconcerto, imbarazzo concettuale e, insieme, una gran voglia di urlare, di gridare la rabbia, di fare il luddista e spaccare le macchine, proprio come agli inizi della rivoluzione industriale in Inghilterra. La voglia, oggi, di spaccare i robot e la testa di chi continua a pensare la vita come capitale e non come dono gratuito, a chi continua a pensare la vita degli altri come necessaria dis-grazia da mettere in conto per il proprio vantaggio economico. Un grido non solo con il valore di sfogo della disperazione, ma in primis con il contro-valore di una potente chiamata all’avventura e alla mobilitazione dell’intelligenza e della sensibilità per la costruzione solidale del mondo e per la gioia di vivere, e basta!
È evidente che in un mondo finito il Capitale ha aperto per tutti la prospettiva dell’inferno. So che il luddismo non ha bloccato il processo di industrializzazione anche se tutto il mondo è stato sconcertato dall’avvento dell’industrializzazione macchinale. Ma per quasi due secoli  il cambiamento antropologico che la rivoluzione industriale e capitalistica ha imposto all’umanità, aveva classi sociali e continenti da colonizzare e sfruttare, sicché ha potuto ostinatamente illudere l’umanità che tutti infine avrebbero goduto i vantaggi della libera circolazione delle merci e dei capitali. Oggi il mondo è analiticamente circoscritto e iper-sfruttato e nessuno può credere che la mistura di neo-schiavismo e lavoro robotizzato possano essere la soluzione della crisi mondiale del Capitalismo, che il sole del Levante possa essere per il mondo “il sol dell’avvenire”. Oscura è l’alba che sorge.

 

 

In “Cina, la fabbrica dei robot” si parla di condizioni disumane di lavoro e di un’impennata paurosa di suicidi. «I robot non si suicidano, non rivendicano diritti» si legge, «e se gli ordini calano basta spegnerli». Si rimane ammutoliti per la voracità senza limiti del Capitale se non basta nemmeno lo sfruttamento a meno di 130 € al mese. No!, il lavoro umano deve essere “spento”, sostituito da robot. Ma il grido del suicidio non scuote l’umanità in radice? Un suicidio non è l’estremo strazio della stessa umanità dell’uomo? No!, neppure il suicidio è un problema per il capitale – nulla di ciò che è umano costituisce problema per il capitale. «Sconvolta da un’ondata di suicidi, 18 in pochi mesi nel 2010 (si parla della «Foxconn, l’impresa più grande del mondo, oltre un milione di dipendenti solo in Cina. A Shenzhen assembla la maggior parte dei prodotti hi-tech che stanno cambiando l’umanità, per conto di marchi come Apple, Nokia e Cisco»), ha annunciato ieri che entro il 2012 produrrà 300 mila robot, destinati a diventare un milione entro il 2014.» Ecco, come mettere la barbarie in conto produzione e fare con uno due interessi: da un lato fine della contestazione e della difficile gestione della contraddizione, dall’altro una nuova frontiera di interessi e di investimenti: i robot e la nuova avventura di un Capitale produttivo senza lavoro umano. Ma che è l’umanità “senza lavoro umano”?

Eppure è necessario pensare un pensiero, fosse anche solo il pensiero dell’impotenza che attanaglia quando si leggono queste informazioni, quando, cioè, il mondo ci attraversa d’imperio. Un pensiero sulla genesi dell’impotenza diffusa. Nella prospettiva cinese, la tecnologizzazione o robotizzazione del lavoro viene al pettine col suo immane ricatto di fine del lavoro “umano”. La tecnica, nella sua forma post-umana, funge da incredibile moltiplicatore, da valore aggiunto, della inarrestabile capitalizzazione. Ha visto bene Nietzsche quando colloca l’essenza della razionalità performativa contemporanea al di là del bene e del male, cioè nell’essenziale indifferenza ai valori e al consenso. La tékne è la morte della politeia, intesa come partecipazione alla costruzione di un senso comune, nel senso che è quella forma di razionalità vincente che tutto avoca a sé e che solo al suo interno rende possibile la politica. La politica come funzione della tecnologia. La tecnologia permette alla politica di servirla. Ridescrive a priori la scena che disciplina le nostre condizioni di esistenza e consente all’essere di mostrarsi e agli enti in generale di divenire e alle relazioni sociali di configurarsi. Ma allora si sta prospettando un mondo in cui non si tratta più della politeia che crediamo di avere conosciuto, e invero già da tempo la tecnica procede allo smontaggio del senso politico come scena del mondo e al suo ri-montaggio nei termini della pura funzionalità e della logica di mercato.

Non si tratta forse di smontaggio ciò che sta accadendo a Termini Imerese? E ciò che si rappresenta nelle aree più civili del mondo, non attenta forse ai diritti umani procedendo allo smontaggio dei diritti dei lavoratori? La scena del mondo si sposta da un continente a un altro. Il capitale, ha scritto il filosofo Gilles Deleuze in Schizofrenia e Capitalismo, deterritorializza e riterritorializza in base alla mera logica del maggior profitto. Il Capitalismo accende e spegne i luoghi secondo assoluta indifferenza umana.


Oggi, la politica e l’etica subiscono senza quartiere il fascino del differenziale di potenza della macchina tecno-scientifica e ne rincorrono senza riserve l’immaginifico potenziale di mercato. In questo modo invece che amministrarne, nell’ambito del possibile, chances e contraddizioni, desumono come logica universale le forme del sistema di ricatto del mercato. Non è stato un ricatto quello fatto da Marchionne ai lavoratori FIAT italiani? Ma il mercato è un piano inclinato che si affaccia sull’orlo della vertigine. Che cosa si intravede già? Si para innanzi ogni giorno, e non sporadicamente, il male senza senso, il male senza ragione, che è il male assoluto, il male che, appunto, compare quando la ragione non è più in grado di elaborare un senso. Così, intanto, l’agire impazza continuando a procedere con indifferenza performativa.
«Dobbiamo convincerci che la nostra epoca è capace di un male gratuito con una confidenza impossibile in altre epoche (nelle epoche in cui dominano le figure del senso il male è sempre fatale, ma non gratuito.)» (Carmelo Meazza, Di traverso in Jacques Derrida, Guida Editore, Napoli 2008). Il male per lo più nel corso del tempo è stato pensato come l’eterogenesi di un bene particolare. Già per gli scolastici, il male doveva vestirsi del bene per motivare l’azione, e quindi il bene rimaneva come causa formale anche del male. Oggi questo non vale più, e in radice non vale più. Oggi la tecnica avanza senza fini, come sostiene mirabilmente Giorgio Agamben in Mezzi senza fini (Bollati Boringhieri, Torino 1996), senza bene finale di sorta. In un mondo in cui l’agire della massima razionalità, quella tecno-scientifica e il produrre possono essere senza fini, il male può mostrarsi in tutta la sua gratuità. Lo stare al mondo, allora, diviene in prospettiva puramente spettrale, nel senso che la pura spettralità – la riduzione ontologica alla gratuita apparenza – ritraduce ogni fenomeno in fenomenalità, cioè in fenomeno senza traccia, senza lascito, senza testimonianza, senza responsabilità. Qui il suicidio diviene una tragica conseguenza e la contraddizione una indifferente ovvietà. Tutto e l’opposto di tutto divengono possibili, e qui sta la radice del male assoluto, del male sciolto da giudizio e da giustizia. Vita e morte indifferenti l’una all’altra.


L’imbarazzo e l’estremo senso di impotenza che proviamo di fronte al futuro che si prospetta dipende da un’incredibile inaccessibilità da parte del pensiero pensato a entrare nel meccanismo che va convertendo la realtà in spettralità, la politèia in eventualità puramente apparente. Risultiamo svuotati di senso, di realtà, di interlocutorietà. In questo contesto appare possibile la sostituzione di robot al posto di lavoratori resi tecnologicamente impotenti e già alienati di umanità.

Per Jean-Luc Nancy, l’essere-gli-uni-per-gli-altri è l’unica misura mentale e il solo argine sociale al dilagare tecnologico del male radicale. Ma è già dentro un «noi» intessuto dai nodi della Rete, tecnologicamente preceduto e oltrepassato dal differenziale di potenza della tecnica. E in effetti, la prospettiva che si è aperta, ad esempio – e non è un esempio fra gli altri – con l’Web è per degli io-tu che sapranno destreggiarsi in Rete nella misura della loro capacità di inventare un «noi» non indifferente al male assoluto. Fare i conti con la tecnica comporta, oggi, una rincorsa in condizioni di estenuante apnea, ma a maggior ragione tutto ciò esige una grande creatività di rifondazione della condivisione, della partecipazione, della solidarietà, dell’ascolto dell’altro.

14 dicembre 2011
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