La caduta del Governo Prodi
Lettera aperta del senatore Franco Turigliatto
Roma,
28.02.2007 - Cari
compagni e compagne, amici e amiche,
Sono
in attesa che il Senato accetti le mie dimissioni, che comunque non
ho ritirato e non ritirerò. Nel frattempo, nei prossimi giorni
sono chiamato a esprimere il mio voto sulla fiducia al governo Prodi.
Vorrei dunque spiegare le ragioni della mia scelta di dare un voto a
favore, che definerei tecnico, pur respingendo tutti i dodici punti
del governo Prodi nel loro complesso. Nel mio intervento al
Senato, infatti, spiegherò con molta nettezza che non si potrà
contare su di me per approvare la missione in Afghanistan, né
per realizzare la TAV o la controriforma delle pensioni. Non lo si
potrà fare perché io non voterò queste misure,
anche se su di esse si rischiasse una nuova crisi di governo. E, va
da sé che continuerò con voi la battaglia contro la
base di Vicenza.
Con
il mio rifiuto di votare a favore della politica estera del governo,
non ho mai avuto intenzione di compiere un gesto politicista per
provocare una crisi di governo. Il mio è stato un gesto di
responsabilità nei confronti delle mie convinzioni e di quelle
di chi, come me, si sente distante da una politica estera che
continua a fare la guerra, sia pure multilaterale; che sostiene una
concezione liberista dell’Europa; che pensa che inviare soldati in
giro per il mondo sia un modo per “contare” nei luoghi della
politica internazionale. Un gesto animato dal rifiuto di lasciarmi
convincere a considerare come una missione di civiltà e di
pace quella che non è altro che un’occupazione militare. Un
piccolo gesto a sostegno di quella straordinaria lotta di Vicenza
contro la costruzione di una base che distrugge il territorio e che
sarà uno strumento fondamentale del dispositivo USA di
intervento nella guerra globale e permanente. Un gesto di cui non mi
pento e che ripeterei in ogni momento. Il mio dissenso con la
politica estera del governo muove da qui e non può che essere
ricollegato alla mia irriducibile opposizione alla guerra in
Afghanistan e alla decisione del governo di autorizzare il raddoppio
della base di Vicenza. Il senso del mio voto, in dissenso dal mio
partito, ma in dissenso su un punto che considero fondativo e
fondante per chiunque faccia politica, il no alla guerra, è
tutto qui.
Non
credo di essere stato io il responsabile della crisi di governo,
della quale i primi responsabili sono il governo stesso e le
politiche che ha adottato in tutti questi mesi, e che lo hanno sempre
più allontanato da chi lo aveva votato. Una crisi nata per
ragioni in parte oscure, in parte dovute alla volontà dell’ala
riformista dell’Unione di drammatizzare la situazione, per intimare
alla sinistra alternativa il silenzio sulle questioni più
scottanti. Una crisi che è servita a stoppare qualsiasi
rivendicazione e a sancire il corso “liberale” dell’attività
di governo. In questo senso il dibattito al Senato è stato un
ricatto, in particolar modo su Vicenza. Anche per questo ho detto no.
L’uscita
dalla crisi mi sembra che confermi questo giudizio. I dodici punti
presentati da Prodi sono la sanzione di una svolta liberista e di una
decisa volontà di affermare una politica di sacrifici e di
guerra multilaterale. Gli attacchi di cui sono stato fatto oggetto,
lo spauracchio del ritorno di Berlusconi al governo, nuovamente
agitato dai miei accusatori, erano finalizzati proprio a nascondere
questa realtà: il fatto che il bilancio di questi mesi di
governo Prodi è fortemente negativo e che ciò che si
profila è un’azione di governo ancora peggiore della
precedente. Questo giudizio, ovviamente, non è condiviso dal
mio partito, che invece sostiene fortemente il nuovo governo. Èd
è stato accolto in vario modo dalla società civile, dai
movimenti, da quadri sindacali, da esponenti del pacifismo radicale,
dagli stessi che il 17 febbraio sono scesi in piazza a Vicenza. La
paura di un ritorno delle destre al governo, infatti, è molto
forte. C’è chi pensa, inoltre, che la partita con il governo
Prodi non sia chiusa e che la sua sopravvivenza costituisca il quadro
in cui ottenere risultati più avanzati o comunque una
dialettica democratica.
Non
avendo deciso io di provocare la caduta del governo Prodi penso che
sia giusto verificare queste intenzioni, dialogare con tanta parte
del movimento e del “popolo della sinistra” che la pensa così,
permettendo al governo Prodi di rimanere in piedi. Ma penso che
questo si possa fare solo nella estrema chiarezza delle posizioni.
Non sarò mai disponibile a votare la guerra in Afghanistan né
a rendermi complice delle politiche antipopolari di questo governo.
Ovviamente,
non prevedo un futuro agevole. I 12 punti presentati dal governo sono
un arretramento e uno schiaffo ai movimenti e agli stessi partiti
della sinistra alternativa. Prevedo dunque una fase in cui andrà
sviluppata un’opposizione sociale alle misure del governo Prodi,
opposizione che dovrà avere anche ricadute parlamentari.
Questa è la mia intenzione. Per dirla con una battuta, è
possibile scegliersi il governo a cui fare opposizione, rendendo
incomprimibili alcuni principi e alcuni vincoli per me essenziali:
quelli con il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, quelli
con le comunità popolari in lotta contro la TAV, i
rigassificatori, per la difesa dell’ambiente, quelli con il
movimento pacifista che si è visto recentemente a Vicenza.
Sono questi i vincoli che regolano la mia attività politica,
non un’astratta coerenza ideale, ma un progetto politico che mi ha
accompagnato per tutta la vita.
Negli
ultimi quindici anni questi vincoli, questi convincimenti hanno
coinciso perfettamente con quelli di Rifondazione comunista. Qualche
giorno fa, però, il mio partito mi ha dichiarato
“incompatibile” semplicemente perché sono rimasto fedele
al programma storico del Prc. Non voglio discutere di una scelta che
mi riguarda, ma posso dire una cosa. Ho costruito Rifondazione fin
dalle fondamenta, l’ho difesa quando era sotto attacco, ho passato
centinaia di ore davanti alle fabbriche torinesi e in giro per
l’Italia a parlare con gli operai e le operaie. La minaccia di
espulsione dal partito mi amareggia e mi delude allo stesso tempo. Ma
è il frutto di un cambiamento di fondo delle priorità
del Prc e della sua azione: alcune idealità superiori sono
messe al servizio di un progetto politico contingente, compiendo un
processo di snaturamento della sinistra che mi lascia interdetto. E
soprattutto mettendo alla berlina una qualità fondante della
politica – la coerenza tra coscienza e azione - la cui assenza è
oggi alla base di quella “crisi” di cui si discute da oltre un
decennio. Non è la prima volta nella storia che chi da
sinistra si oppone alla guerra, chi dice no in Parlamento, contro
tutto e tutti, sia accusato di essere affetto da uno “splendido
isolamento”, di essere “un’anima bella”, “incapace di
realismo”, “irresponsabile” o “idealista”: queste accuse
non fanno male a me, ma a un’esperienza in cui ho creduto e riposto
tutto il mio impegno e che oggi viene meno per responsabilità
di chi ha deciso di piegarsi all’esistente.
Per
tenere fede alle mie convinzioni e ai miei vincoli è stato
messo in discussione il vincolo che mi legava al partito e
addirittura un governo ha dovuto dimettersi. Non mi ritengo così
importante e così essenziale. Forse tutto questo rappresenta
la spia di molteplici contraddizioni che riguardano la sinistra nel
suo insieme e il rapporto tra il governo e la sua gente. Un rapporto
logorato come dimostrano tutti i sondaggi e gli episodi di
malcontento. Per parte mia non posso che continuare a ribadire quanto
detto e fatto negli ultimi giorni. Se l’aula respingerà le
mie dimissioni, e dunque finché sarò al Senato, io
voterò ancora contro la guerra, perché il no alla
guerra e il rapporto con il movimento operaio costituiscono la
bussola del mio agire politico: esse sono da sempre l’alfa e
l’omega di una prospettiva di classe ed anticapitalista.
Permettetemi
dunque di ringraziarvi per le parole che avete utilizzato nei miei
confronti, spesso commoventi. Onestamente non credo nemmeno di
meritarle, semplicemente perché in questo mondo sembra
anormale quello che alle persone serie dovrebbe sembrare normale:
agire secondo le proprie convinzioni. Se questo piccolo gesto sarà
servito a riabilitare questa logica che ad alcuni sembra, con
giudizio sprezzante, troppo “idealista”, allora sarà stato
utile. La mia strada è comunque questa e spero di continuare a
percorrerla insieme a voi. Ancora grazie.
Roma,
28.02.2007 Franco
Turigliatto
I PARERI SULLA VICENDA
APPELLO
DI SOLIDARIETA' (adesioni: con-turigliatto@libero.it)
La
segreteria del Prc ha dichiarato incompatibile con il partito il
senatore Franco Turigliatto, a seguito della sua non partecipazione
al voto sulla politica estera del governo. Ci sembra una scelta
sbagliata e grave.
Innanzitutto
perché l'atto parlamentare non solo è in piena coerenza
con il programma storico di Rifondazione comunista ma anche perché
in sintonia con le istanze di pace dei movimenti degli ultimi anni...
Pensare che un governo di centrosinistra possa imporre ai suoi
sostenitori missioni di guerra come l'Afghanistan o il raddoppio di
una base come quella di Vicenza ci sembra una miopia e la causa prima
della crisi attuale.
Ma il
comportamento di Turigliatto è stato anche accompagnato da un
gesto di serietà e correttezza che non può essere
sottovalutato: in una politica in cui il seggio o la "poltrona"
rappresentano un valore a prescindere, aver presentato le dimissioni
al Senato, dopo quarant'anni di militanza politica passata a fianco
degli operai e dopo aver costruito dalle fondamenta il Prc, in
particolare a Torino, ci sembra un fatto di grande novità e di
grande moralità per quanto noi pensiamo che queste dimissioni
siano da ritirare.
Nel nostro Parlamento c'è bisogno di
rappresentanza delle ragioni della pace, del pacifismo "senza se
e senza ma": ce n'è bisogno alla vigilia della campagna
di primavera in Afghanistan e ce n'è bisogno rispetto alle
sudditanze che si profilano rispetto agli Usa.
C'è bisogno
di atti come questo per quanto difficili e delicati ma che servono
anche per colmare la distanza tra politica e società.
Tutta
la nostra solidarietà a Franco Turigliatto e tutta la nostra
disponibilità a costruire con convinzione un movimento per la
pace "senza se e senza ma".
La
nostra solidarietà a Franco Turigliatto. Al Senato una manovra
centrista. Per batterla, il governo cambi politica.
ANDREOTTIPININFARINACOSSIGA:
"IL
NUOVO che avanza "
Con
il loro comportamento i due “emeriti statisti”
in quota alla
maggioranza hanno provocato un danno di dimensioni cosmiche.
SE
il governo fosse caduto comunque anche con il voto a favore di Rossi
e Turigliatto – come sosterrebbero alcuni osservatori – sarebbe
però apparso evidente
CHI e PERCHE’ avesse manovrato per affossarlo
ANDREOTTI
COSSIGA e PININFARINA ne sarebbero stati riconosciuti
inequivocabilmente
come gli
unici veri responsabili.
Con
la “gentile partecipazione” dei due esponenti della sinistra
radicale invece è stato possibile :
1-
coprire i veri mandanti dell’imboscata
2-
favorire la “messa all’angolo” della sinistra radicale sia da
parte delle forze interne che di quelle esterne alla maggioranza
3-
obbligare il governo Prodi a stralciare dal programma i DICO per
tentare di ottenere la fiducia
4-
obbligare il governo Prodi ad “aprire” al centro
per lo stesso motivo di cui sopra
5-
danneggiare gravemente i partiti di appartenenza dei due "eroici
e irriducibili" parlamentari.
Per
non parlare del rischio di elezioni anticipate a cui un
“gruppetto” agguerrito e ASSAI ben
sostenuto sta
da tempo “lavorando” in vista della resurrrezione della BALENA
BIANCA alla
cui rinascita i due “integerrimi” uomini politici orgogliosi per
aver seguito la voce della loro “coscienza” hanno contribuito
gratuitamente e con abbondante impegno.
VATICANO,
CONFINDUSTRIA e USA riconoscenti
sentitamente
ringraziano
L’INTERVENTO
DEL MINISTRO DEGLI ESTERI
MASSIMO
D’ALEMA
Senato,
mercoledì 21/2/07
Presidenza
del Presidente Marini: La seduta è aperta (ore 9,04).
Comunicazioni
del Ministro degli affari esteri sulle linee di politica estera
e
conseguente discussione (ore 9,09)
MASSIMO
D'ALEMA, vice presidente del Consiglio dei ministri e ministro
degli affari esteri.
Signor
Presidente, signori senatori, ringrazio il Senato della Repubblica
per l'opportunità che mi offre di illustrare le linee della
politica estera italiana perseguita dal Governo Prodi.
Abbiamo
alle spalle settimane non facili, ma sono convinto che le
comunicazioni di oggi ed il dibattito che ne seguirà
permetteranno un bilancio oggettivo dei risultati che l'Italia ha
conseguito in questi mesi. Sono anche persuaso che questa discussione
ed il consenso che, spero, si potrà ottenere dal Senato
saranno la base per nuove e impegnative prove che attendono il nostro
Paese nei mesi che vengono.
Questo
dibattito ha i caratteri di un dialogo: è pertanto evidente
che il Governo è qui non soltanto per illustrare la sua
azione, ma anche per ascoltare le considerazioni che verranno fatte
nella discussione, per tenerne conto anche allo scopo di arricchire e
precisare la nostra piattaforma. Questo dibattito è stato
preparato da un confronto pubblico assai animato, nel corso del quale
è stata proposta al Ministro degli affari esteri una serie di
prove obbligatorie, di questioni che dovrebbero essere affrontate per
forza, di trappole senza uscita: se D'Alema dirà questo,
allora sarà vero; se dirà quest'altro, allora... e così
via.
Personalmente
sono ben consapevole di quanto sia giustamente accesa la discussione.
Vorrei contribuire ad un dibattito il meno possibile strumentale, il
più possibile aperto, libero, allo scopo di definire il quadro
di valori delle scelte condivise nel modo più ampio possibile
e allo scopo di misurare il consenso, senza il quale nessuna politica
estera può essere ragionevolmente portata avanti in modo
credibile nel confronto internazionale. E, da questo punto di vista,
non vi nascondo che, in verità, nella struttura del mio
discorso non avevo previsto e non ho previsto in alcun modo di
parlare di Vicenza, anche perché non avrei nulla da aggiungere
a quanto ha detto il Presidente del Consiglio, che segue
personalmente lo sviluppo di questa situazione. Ma è del tutto
evidente che se dal dibattito del Senato emergeranno interrogativi,
questioni, proposte, non mi sottrarrò dal rispondere,
precisando gli intendimenti del Governo.
Ma
vorrei, appunto, parlare della politica estera e vorrei, se mi
permettete, anticipare una conclusione generale: la politica estera
del Governo è stata coerente con le grandi scelte condivise su
cui si è sempre fondata, nella sua tradizione migliore, la
politica estera italiana; coerente con i princìpi ed i valori
ispiratori del programma di Governo e quindi, come è giusto e
doveroso, coerente con gli impegni assunti verso i nostri elettori e
- mi permetto di aggiungere - coerente con gli interessi strategici
del nostro Paese, così come abbiamo cercato di interpretarli
in una fase internazionale difficile. La coerenza è un
presupposto essenziale per una politica estera efficace. È la
condizione per essere riconoscibili, prevedibili, autorevoli: senza
queste condizioni un grande Paese difficilmente può incidere
sullo sviluppo degli avvenimenti internazionali.
Lasciatemi
ricordare, anche se potrebbe apparire superfluo, quali sono i punti
di riferimento, le grandi coordinate entro le quali si muove l'azione
internazionale dell'Italia.
Direi
che, innanzitutto, tali coordinate sono definite dall'articolo 11
della Costituzione la quale definisce due aspetti essenziali: in
primo luogo, il rifiuto della guerra come principio a cui si ispira
tutta l'azione di politica internazionale del Paese; in secondo
luogo, e coerentemente con il rifiuto della guerra, la scelta di fare
dell'Italia un soggetto attivo nella complessa architettura di
istituzioni e di alleanze internazionali che si sono formate dopo la
Seconda guerra mondiale allo scopo di prevenire e governare i
conflitti rifiutando, appunto, la guerra come mezzo di soluzione
delle controversie internazionali.
Questa
complessa architettura di cui l'Italia è protagonista, fino al
punto di riconoscere in Costituzione una rinuncia o una cessione
della propria sovranità nel nome di un principio di governo
condiviso, multilaterale, dei grandi problemi internazionali, questa
complessa architettura è costituita dalle Nazioni Unite,
innanzitutto, dal sistema delle Nazioni Unite, che è non
soltanto struttura portante delle nuove relazioni internazionali, ma
che è anche fonte di legittimità delle scelte
internazionali, dalla adesione attiva dell'Italia alla costruzione
europea e dalla partecipazione del nostro Paese all'Alleanza
atlantica.
Queste
tre grandi scelte che si sono via via affermate nel corso del
dopoguerra come grandi scelte condivise sono quelle in cui si traduce
la partecipazione del nostro Paese alla ricerca di un equilibrio
internazionale che costituisce, appunto, l'asse di una politica
estera condivisa.
Vedete,
la situazione ottimale per l'Italia è quella in cui la
priorità europea, il sistema delle Nazioni Unite e la
relazione atlantica si potenziano a vicenda a favore di quelle
soluzioni pacifiche cui guarda, appunto, l'articolo 11 della
Costituzione; la situazione peggiore, il disequilibrio è
quando ciascuna delle nostre priorità entra in conflitto con
le altre. Quando ciò accade, la politica estera italiana
diventa strutturalmente più debole, più incerta, e il
Paese si divide.
Sì
tratta di quanto è accaduto negli anni successivi al
drammatico attacco terroristico dell'11 settembre 2001 con le
divisioni internazionali, in particolare, di fronte all'intervento in
Iraq. Sono stati anni di lacerazione per l'Europa; un pilastro della
nostra politica è stato colpito. Sono stati anni in cui è
stato indebolito e marginalizzato il sistema delle Nazioni Unite,
anni anche nei quali si sono coltivate vuote illusioni nelle
soluzioni unilaterali, anni in cui gli equilibri alla base della
politica estera italiana sono stati anch'essi stravolti, cosa che ha
indebolito l'Italia in un'Europa più debole e ne ha fatto
smarrire la voce in un sistema delle Nazioni Unite già
largamente emarginato.
Oggi
il contesto è diverso ed è, in qualche modo, più
favorevole ad un multilateralismo efficace. Tutti hanno imparato
qualcosa dalle dure lezioni della storia, inclusa la difficoltà
ad imporre soluzioni unilaterali, come dimostra il travagliato
dibattito apertosi negli Stati Uniti d'America dopo il risultato
dell'elezione di midterm e l'aperta discussione sulle
prospettive della politica americana, conferma - se volete - del
carattere aperto, forte di una grande democrazia che sa interrogarsi
anche sui suoi errori e sa cercare la via per cambiare strada.
La
lezione vale anche per l'Italia, confermando quanto rientri nei
nostri migliori interessi operare a favore di un rafforzamento
politico dell'Unione europea e di un rilancio delle Nazioni Unite, di
soluzioni pacifiche e multilaterali alle crisi internazionali. Tutto
questo rientra negli interessi strategici del nostro Paese ma,
insieme, riflette i valori che ispirano la nostra politica estera.
La
convinzione del Governo è che solo istituzioni multilaterali
forti, capaci di decidere e di agire riusciranno a promuovere quei
valori essenziali: la pace, la democrazia, i diritti umani, il
diritto allo sviluppo da cui dipende a lungo termine anche la
sicurezza internazionale.
Se il
contesto è in parte cambiato, il problema vero è come
riuscire ad esercitarvi una vera influenza. Abbiamo fissato degli
obiettivi chiari nel programma dell'Unione; abbiamo definito i
principi e i valori che li orientano. Il punto è come
progredire nei fatti concretamente. Questi primi mesi di politica
estera possono essere letti in questa chiave: un'azione tenace,
paziente, graduale, ma coerente, per incidere sulla realtà
della politica internazionale, e per incidere non soltanto attraverso
le parole e le prese di posizione, anche se le parole contano, ma
attraverso gli impegni e le assunzioni di responsabilità.
Tre
sono le direttrici di azione perseguite dalla nostra politica estera
che illustrerò: la prima è il rilancio dell'unità
europea; la seconda è la necessità di una svolta in
Medio Oriente e nella lotta al terrorismo; la terza: un allargamento
degli orizzonti e delle relazioni internazionali del nostro Paese.
La
prima direttrice è, appunto, lo sforzo per il rilancio
dell'integrazione europea per cercare di sbloccare la situazione di
crisi, la vera e propria impasse politica e costituzionale in
cui l'Unione Europea è entrata dal 2004 in poi. L'Italia ha
attivamente sostenuto, e sostiene, la decisione della Presidenza
tedesca dell'Unione Europea che considera chiusa la pausa di
riflessione e che avvia il percorso che nelle prossime settimane
conoscerà tappe decisive per giungere ad un accordo
istituzionale entro le elezioni europee del 2009. L'Unione non può
ripresentarsi ai cittadini europei senza avere dato una risposta al
bisogno di rinnovamento e di rafforzamento delle sue istituzioni
democratiche. Se il dibattito costituzionale è finalmente
ripreso, questo è stato anche grazie all'impulso venuto dal
nostro Paese.
A
quale soluzione dobbiamo tendere per i prossimi mesi? Dico con
chiarezza che l'obiettivo che l'Italia intende perseguire è
quello di salvaguardare nella misura più ampia possibile i
contenuti, e in particolare i contenuti innovativi, del Trattato
firmato a Roma nel 2004, già ratificato da 18 Paesi, che sono
espressione di una larga maggioranza non solo di Stati membri, ma
anche di cittadini dell'Unione Europea.
Salvaguardare
i progressi segnati dal Trattato piuttosto che adottare una visione
minimalista è essenziale perché l'Europa a 27 sia in
grado di decidere, e quindi di funzionare e di corrispondere alle
attese dei cittadini. Come ha affermato il Presidente della
Repubblica nel suo recente discorso a Strasburgo, non si può
seriamente sostenere che l'Unione non abbia bisogno, dopo il grande
allargamento, di una ridefinizione del quadro d'insieme dei suoi
valori e dei suoi obiettivi e di una riforma dei suoi assetti
istituzionali.
Lavorare
ad un progetto di Costituzione per l'Europa non ha rappresentato un
esercizio formalistico, non ha rappresentato un capriccio o un lusso,
ma ha corrisposto ad una profonda necessità dell'Europa
nell'attuale momento storico. Ancora, che cosa è decisivo per
rendere vitali i progetti e per far crescere sul serio un'Europa dei
risultati? È decisiva la forza delle istituzioni e
dell'impegno politico.
Questo
è, appunto, l'impegno politico dell'Italia, di un Paese
consapevole che istituzioni più forti ed efficienti sono la
condizione perché l'Europa allargata possa affrontare con
successo le nuove sfide della sicurezza, della lotta al terrorismo,
della gestione dei flussi migratori, degli approvvigionamenti
energetici, dei cambiamenti climatici.
Nella
visione del Governo italiano, d'altra parte, integrazione e
allargamento devono continuare a combinarsi. La porta dell'Europa
deve restare aperta ai Balcani occidentali e alla Turchia. Ciò
corrisponde a interessi diretti dell'Italia per ragioni geopolitiche
ed economiche - pensiamo ai Balcani - e di sicurezza, non soltanto
dal punto di vista del mantenimento della pace, ma anche dal punto di
vista della lotta alla criminalità. È evidente che
soltanto nel seno dell'Europa e delle istituzioni europee i Paesi dei
Balcani potranno trovare finalmente quella pacifica convivenza cui
aspirano dopo lunghi anni di una tragica guerra civile balcanica e
poi di una fragile tregua.
Oggi
si tratta di avere chiaro un punto essenziale: non saremmo in grado
di gestire la delicata questione dello status finale del
Kosovo se togliessimo dal tavolo negoziale, che investirà il
Consiglio di Sicurezza, la prospettiva della partecipazione per la
Serbia e per i Paesi vicini all'Unione Europea. Essere nell'Unione
Europea è anche un modo di sdrammatizzare il problema dei
confini e tragici conflitti di natura nazionalistica. Conoscete già
la posizione che abbiamo assunto e che sta guadagnando terreno sul
tavolo europeo: la possibilità di scongelare i negoziati per
l'accordo di stabilità e associazione con Belgrado,
subordinandone la effettiva entrata in vigore al pieno rispetto degli
impegni della Serbia verso il Tribunale internazionale dell'Aja; è
un approccio già tenuto con la Croazia, Paese candidato a
diventare membro dell'Unione entro pochi anni. Le controversie che
ancora solleva la storia confermano l'importanza di un destino
comune, di un futuro europeo.
Più
lungo e più delicato è lo scenario per la Turchia, ma
anche in questo caso, tuttavia, tenere aperta la porta rientra negli
interessi europei, perché ciò permetterà di
impostare su basi cooperative e non conflittuali i rapporti con un
grande Paese a maggioranza islamica e con un peso decisivo nella
regione mediorientale. È evidente che, nel tempo in cui c'è
chi teorizza lo scontro di civiltà, il processo di adesione
all'Unione Europea di un grande Paese islamico è la risposta
migliore ed è il modo di affermare i valori europei e il
carattere inclusivo dei nostri valori, appunto, la democrazia
politica, la libertà individuale, la coesione sociale,
fondamento di una grande comunità che non conosce confini
religiosi o di civiltà.
È
evidente che l'Europa non potrà continuare ad allargarsi
all'infinito. L'assenza di confini ne indebolisce anche l'identità
internazionale. Nell'area di vicinato, ad Est del Mediterraneo,
l'Europa dovrà essere in grado di costruire rapporti di
partnership più solidi nel confronto con la Russia. Una
politica europea più unitaria, anche in campo energetico, è
la condizione di una minore vulnerabilità e di una maggiore
coerenza nel reciproco interesse. L'Italia ha, in questi mesi,
sviluppato un rapporto bilaterale molto attivo verso Mosca e, nello
stesso tempo, ha sviluppato un'azione per sollecitare un impegno
comune europeo in questa direzione. Abbiamo vitale bisogno di una
politica energetica comune, così come abbiamo bisogno di
concreti passi verso un Trattato post Kyoto che includa gli
Stati Uniti e le grandi economie emergenti in un nuovo patto
ambientale.
La
posizione italiana è che anche la relazione transatlantica
sarebbe consolidata, non indebolita da un aumento della coesione
europea. L'Unione Europea continua ad avere bisogno, anche per essere
unita, di un rapporto solido con gli Stati Uniti. L'Italia è
favorevole ad un rafforzamento dei legami diretti tra Washington e
Bruxelles, tra Stati Uniti e Unione Europea in quanto tale.
Infine,
è nostra convinzione che gli europei riusciranno a rispondere
alle sfide che hanno di fronte (sicurezza, competizione globale e
questione ambientale) solo se l'Unione non si chiuderà
all'interno, ma se riuscirà a proiettarsi all'esterno e ad
essere un attore sulla scena internazionale. Questa è la
svolta da compiere che l'Italia ha cercato di favorire con scelte
conseguenti. Faccio due esempi. Il primo è la spinta che
abbiamo esercitato nell'agosto scorso per ottenere che fosse il
Consiglio europeo a ratificare politicamente l'invio di contingenti
europei in Libano, cosa avvenuta ed avvenuta per la prima volta. È
la prima volta cioè che l'Unione Europea decide di partecipare
ad una missione delle Nazioni Unite, non soltanto per decisione di
singoli Paesi, ma con una deliberazione del Consiglio europeo.
Il
secondo è lo sforzo che stiamo compiendo in questi mesi per
armonizzare le posizioni europee nel Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite, di cui l'Italia è membro non permanente in
questo biennio, come risultato di un'elezione pressoché
plebiscitaria (186 voti su 192 disponibili nell'Assemblea generale)
che non ha quasi precedenti e che di per sé dimostra che
l'impegno multilaterale dell'Italia è apprezzato da una vasta
comunità internazionale.
Per
concludere su questo punto non in modo retorico ma nei fatti, la
politica estera italiana è stata prima di tutto in questi mesi
una politica europea, il che significa una politica favorevole
all'integrazione europea, come dimostra l'importanza degli sforzi
compiuti insieme alla Germania per sbloccare l'impasse del
Trattato costituzionale, e significa una politica volta ad aumentare
il grado di coesione europea sulle grandi questioni internazionali,
dal Medio Oriente alla questione energetica.
Il
Governo Prodi è un Governo europeista, anche perché ha
dimostrato di non volere scaricare su Bruxelles il peso di
responsabilità nazionali. Non abbiamo usato l'Europa per
deresponsabilizzare l'Italia; abbiamo responsabilizzato l'Italia per
rafforzare l'Unione Europea.
Nei
mesi scorsi - passo al secondo tema - l'Italia non ha recuperato peso
soltanto in Europa: lo ha recuperato anche sulla scena mediorientale.
La pacificazione del Medio Oriente richiede oggi un impegno politico,
diplomatico, economico, di sicurezza senza precedenti, che deve
accomunare, per riuscire, attori internazionali e regionali.
L'alternativa è un Medio Oriente fuori controllo,
caratterizzato dalle ripercussioni della crisi in Iraq, da guerre
civili striscianti, dalla diffusione del fondamentalismo.
Dobbiamo
scongiurare lo scenario di uno scontro di civiltà tra Islam e
Occidente, uno scenario estremamente pericoloso che produrrebbe solo
vinti senza vincitori, con costi altissimi in termini di
destabilizzazione regionale e di diffusione del terrorismo. Per
sconfiggere il terrorismo la condizione, invece, è quella di
isolarlo innanzitutto all'interno dello stesso mondo arabo e
islamico. Questo è uno dei primi obiettivi dell'azione
dell'Italia, che può fare leva sul rilancio di tradizionali
rapporti di amicizia con il mondo arabo, che si erano alquanto
appannati negli ultimi anni. Direi che c'è una vasta
percezione, nel mondo arabo, del fatto che l'Italia è tornato
ad essere un Paese amico; amico, naturalmente, sia d'Israele che
degli arabi e, in quanto tale, in grado di esercitare un ruolo sul
cammino della distensione e della pace.
Il
secondo obiettivo, strettamente collegato, è che una nuova
coalizione, fondata sul Quartetto (Unione Europea, Stati Uniti,
Nazioni Unite, Russia) e le componenti che potremmo definire più
moderate del mondo arabo, deve riuscire a tradursi in progressi reali
lungo tutto l'arco della crisi che ormai collega, attraverso le
fratture tra sciiti e sunniti, l'instabilità in Iraq, la crisi
libanese, il fronte israelo-palestinese.
Guardiamo
anzitutto all'Iraq. Abbiamo disposto il ritiro del contingente
italiano perché schierato in Iraq dopo un'operazione militare
che era stata decisa in modo unilaterale, senza mandato delle Nazioni
Unite, e con motivazioni - il possesso di armi di distruzione di
massa - che si sono dimostrate infondate. Il ritiro dei soldati
italiani dall'Iraq è stato, quindi, una scelta coerente con
l'impostazione politica e programmatica della coalizione di Governo e
rispondente sul piano operativo alla necessità di voltare
pagina.
Abbiamo
ritirato dall'Iraq i soldati italiani, ma non abbiamo ritirato il
nostro appoggio economico e civile alla popolazione irachena. Lo
dimostra la firma a Roma, nel gennaio scorso, del Trattato bilaterale
di amicizia e di cooperazione con l'Iraq, conclusa in occasione della
visita del ministro degli esteri iracheno Al Zibari.
Alla
decisione sul ritiro dall'Iraq è seguita la risposta italiana
al conflitto in Libano, nell'estate scorsa, con la nostra
partecipazione alla missione UNIFIL rafforzata, di cui l'Italia ha
assunto il comando, altro segnale - se mi permettete - di un
riconoscimento del ruolo che il nostro Paese viene assumendo nello
scenario mediorientale.
Ho
avuto già occasione per spiegare le dinamiche e le ragioni di
fondo che ci hanno indotto fin dall'inizio a svolgere un ruolo attivo
di primo piano, un ruolo che dalla Conferenza di Roma in poi,
organizzata insieme agli Stati Uniti, ha pesato positivamente sugli
sviluppi della crisi.
Mi
preme oggi ricordare soltanto l'importanza particolare della crisi
libanese che conteneva in sé un doppio rischio, in parte
ancora presente: innanzitutto, quello di destabilizzare un Paese
democratico appena emerso da decenni di guerra civile, rischio di
fronte al quale tuttora persiste la necessità di un forte
impegno internazionale a sostegno delle istituzioni democratiche
libanesi e del Governo, che è espressione della maggioranza
scelta dai cittadini; in secondo luogo, quello di amplificare le
tendenze negative emerse sulla scena mediorientale dal 2001 in poi,
tendenze che avrebbero trovato, a seconda del modo in cui si sarebbe
conclusa la crisi libanese, una conferma ulteriore o una possibilità
di arresto.
Sulla
base di questa doppia motivazione abbiamo visto nella crisi libanese
una sfida che non potevamo ignorare. I fatti ci hanno dato per ora
ragione. La stabilizzazione del Libano è certamente un
obiettivo non ancora raggiunto - come dimostrano gli avvenimenti
delle ultime settimane - ma possiamo dire che, con il cessate il
fuoco tra le parti in conflitto internazionalmente garantito, è
stato possibile separare le dinamiche interne libanesi dal fronte
esterno di una guerra con Israele. E non solo.
In
Israele si fa strada la consapevolezza che la sicurezza dello Stato
ebraico può essere difesa meglio da una garanzia
internazionale in cui l'Europa gioca un ruolo essenziale piuttosto
che attraverso il ricorso a risposte militari nazionali.
Voglio
sottolineare due punti importanti: come primo la forza UNIFIL, che
non è un esercito occidentale schierato di fronte ad una
minaccia islamica; è una forza internazionale nella quale, a
fianco dei militari europei, vi sono i militari della Turchia (scelta
importante), del Qatar e di altri Paesi islamici. Il secondo punto,
che a me pare di grandissimo rilievo in questo scenario, è che
l'Europa è tornata a giocare un ruolo attivo. Israele ha
accettato per la prima volta lo spiegamento di una forza
internazionale lungo i suoi confini come garanzia della sicurezza di
Israele, apertamente dicendo che l'esperimento del Libano potrebbe
anche essere la premessa per il dispiegamento di una forza
internazionale a Gaza e nella Cisgiordania. Dunque, la missione
libanese è importante per molte ragioni: al di là della
portata specifica, rappresenta un possibile punto di svolta.
Lasciatemi
dire che nel Libano (purtroppo questo ha scarso rilievo
nell'informazione nazionale, ma fortunatamente ne ha su quella
internazionale) i nostri militari, così come in altri scenari,
stanno svolgendo un lavoro di straordinario rilievo. Non solo, come è
evidente, dal punto di vista militare, della sicurezza,
dell'interposizione, della progressiva riduzione verso lo zero degli
incidenti che lungo il confine israelo-libanese hanno caratterizzato
nel corso degli anni una turbolenza e una minaccia continua: stanno
svolgendo anche uno straordinario lavoro di assistenza delle
popolazioni, di sminamento dell'area colpita dalla guerra, di
prevenzione degli incidenti, fino ad un lavoro di istruzione nelle
scuole per evitare che i bambini libanesi vengano colpiti dalle
cluster bomb. Speravo che almeno nell'apprezzamento dei
militari italiani potesse esserci un qualche consenso. Come
accennavo, sono d'altra parte evidenti i legami tra l'evoluzione in
Libano e la situazione israelo-palestinese. In questi anni si è
sostenuto da più parti che la questione palestinese avesse
perso la sua centralità: non era vero e la tesi del Governo
italiano, così come di larga parte della diplomazia europea, è
opposta. Il conflitto israelo-palestinese rimane la chiave di tutti i
conflitti mediorientali (questa è fermamente la mia opinione),
e risolvere la questione palestinese, accelerare la ricerca di una
soluzione, è diventato ancora più urgente nel momento
in cui la situazione palestinese contribuisce alla crisi interna di
gran parte dei Governi della regione favorendo l'ascesa di movimenti
fondamentalisti che cercano di appropriarsi della bandiera della
causa palestinese.
Abbiamo
a lungo incoraggiato, come Italia e come Europa, la creazione di un
Governo palestinese di unità nazionale. Sono andati nella
stessa direzione gli sforzi compiuti dall'Arabia Saudita con
l'organizzazione dell'incontro alla Mecca tra Abu Mazen e Khaled
Meshaal, sforzi che abbiamo attivamente e direttamente sostenuto.
Dopo
tale incontro, e dopo il vertice trilaterale di due giorni fa tra
Condoleezza Rice, Abu Mazen e Ehud Olmert, siamo forse giunti ad una
possibile svolta positiva. Il Governo palestinese e il suo programma
non sono ancora noti: la cautela è d'obbligo. L'accordo della
Mecca è comunque un'occasione che dobbiamo, l'Europa e il
resto della comunità internazionale, saper valorizzare e non
perdere. Se quell'accordo fallisse, l'unica prospettiva sarebbe
quella della ripresa di una sorta di guerra civile strisciante nei
Territori: una tragedia per i palestinesi, ma anche un motivo in più
di insicurezza per Israele. Noi non vogliamo consentirlo.
Ciò
che è essenziale è che il nuovo Governo riconosca gli
accordi sottoscritti dall'Autorità Nazionale Palestinese con
Israele, consentendo così ad Abu Mazen di avviare un negoziato
con Israele a nome dell'intera comunità palestinese. D'altro
canto, che interesse potrebbe avere Israele a fare la pace con metà
dei palestinesi?
È
evidente che il processo di pace richiede un coinvolgimento
dell'intera comunità palestinese. Soprattutto, ciò che
è essenziale è che il nuovo Governo si impegni contro
la violenza, promuovendo immediatamente e finalmente con la
liberazione del caporale Shalit quello scambio di prigionieri che
sarebbe un segno di distensione nei rapporti israelo-palestinesi,
bloccando il lancio di missili, favorendo l'estensione della tregua
in vigore a Gaza, alla West Bank, condizione appunto perché
cessi la violenza in tutta la Regione. Si tratta di un passaggio
estremamente delicato, di un momento davvero difficile ed importante.
Ne
abbiamo parlato ieri con la collega israeliana Tzipi Livni e con il
presidente Abu Mazen. L'uno e l'altra hanno sentito il bisogno di
informare l'Italia e di chiedere una nostra partecipazione attiva per
definire le questioni ancora aperte nelle settimane che verranno. Per
questo ritengo che sarà necessaria una missione nella regione
oltre che urgente una discussione a livello europeo, perché,
pur apprezzando l'iniziativa americana, di Condoleezza Rice, credo
che far diventare il «quartetto» un singolo Paese rischi
in realtà di indebolirne l'azione e di ridurre il consenso
internazionale.
L'Italia
continuerà ad essere partecipe di questo processo, di questi
sforzi, in un passaggio - ripeto - molto delicato e difficile, ma che
potrebbe essere un tornante decisivo per accelerare il cammino della
pace.
Infine,
la diplomazia italiana sta applicando le sanzioni all'Iran, decise
nel dicembre scorso dal Consiglio di Sicurezza, secondo il
regolamento europeo approvato il 12 febbraio scorso nel Consiglio
affari generali.
L'Italia
non si sottrae alle sue responsabilità, ma ritiene anche che
per raggiungere risultati effettivi sia indispensabile tenere unito
il fronte dei Paesi membri del Consiglio di Sicurezza. È
l'unica vera pressione politica che potrebbe spingere l'Iran a
riprendere il negoziato. Come ha dimostrato il caso della Corea del
Nord, un'impostazione negoziale efficace può anche produrre
risultati importanti, come la rinuncia all'ambizione nucleare.
Oggi
riceveremo a Roma il capo dei negoziatori iraniani, Ali Larijani, e
torneremo ad insistere con lui per chiedere all'Iran un gesto aperto
e ragionevole di adesione alle richieste della comunità
internazionale. Tuttavia, è evidente all'indomani delle
vicende della Corea del Nord e dell'Iran (che è in pieno
svolgimento), che ci troviamo di fronte ad un problema più
generale, alla necessità cioè di rilanciare una
strategia complessiva di non proliferazione e di riduzione degli
arsenali nucleari.
La mia
opinione è che in parte un'occasione sia stata perduta dopo la
fine della guerra fredda e che vi sia addirittura il rischio di una
ripresa della corsa agli armamenti, innanzitutto tra Stati Uniti e
Russia. La Comunità internazionale non ne ha bisogno ed anche
per questo, nel corso della nostra recente visita in Giappone,
d'intesa con il Governo giapponese, abbiamo ritenuto di dover
rilanciare un dibattito internazionale proprio sui temi della non
proliferazione e del disarmo nucleare, nella convinzione che questo
potrà essere uno dei temi della presidenza giapponese del G8 a
cui l'Italia vorrà dare un proprio contributo di iniziative e
di proposte.
Lasciate
che a questo punto io affronti una delle questioni più
delicate e controverse e che, tuttavia, è a pieno titolo parte
dell'iniziativa internazionale dell'Italia in questa complessa
regione, nella quale si sviluppa il conflitto con il terrorismo e con
il fondamentalismo, vale a dire le ragioni della presenza italiana in
Afghanistan, innanzitutto nella sua componente militare di quasi
2.000 soldati schierati a Kabul e ad Herat, che ringrazio come tutti
i nostri militari impegnati all'estero per il loro straordinario
impegno.
Si
tratta, come è noto, di una missione condotta dalla NATO più
13 Paesi non membri della NATO sotto mandato delle Nazioni Unite.
Nella sua componente civile, anch'essa importante, è una
missione in crescita, come dimostra anche l'aumento delle risorse che
il Governo intende mettere a disposizione e che riteniamo debba
ancora crescere.
Lo
abbiamo detto chiaramente nella riunione dei Ministri degli esteri
della NATO a Bruxelles nel gennaio scorso: «La pacificazione
dell'Afghanistan non è missione della NATO, è una
missione delle Nazioni Unite all'interno della quale la Nato, insieme
ad altri Paesi, svolge una delicata ed essenziale funzione militare,
ma la missione è innanzitutto politica e civile». Lo
ripeteremo nel Consiglio di Sicurezza.
L'Italia
ha chiesto ed ottenuto di poter essere il Paese leading,
quello che promuove e organizza il dibattito sul rinnovo del mandato
della missione civile delle Nazioni Unite (UNAMA), che si svolgerà
a marzo, e di essere anche relatore nel dibattito sul rinnovo del
mandato per la missione militare, che si svolgerà ad ottobre.
Abbiamo
dunque rivendicato per noi, con tutti i rischi del caso, il compito
di essere il Paese che nell'ambito del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite imposterà la discussione sui futuri compiti
dell'ONU sul piano civile, politico e militare in Afghanistan.
È
del tutto evidente che la missione delle Nazioni Unite in
Afghanistan, dopo l'abbattimento del regime dei talibani, non ha
ancora prodotto gli effetti sperati. Sono stati ottenuti risultati
importanti, che non credo possano essere sottovalutati: la
liberazione dell'Afghanistan da un regime oppressivo, oscurantista,
totalitario, che ignorava i più elementari diritti umani, in
particolare quelli delle donne; la creazione di prime istituzioni
democratiche; la formazione di un esercito nazionale; la ripresa
delle scuole, sia pure in un Paese segnato ancora da alti tassi di
analfabetismo, il faticoso avvio di un processo di ricostruzione
economica.
Sono
risultati importanti. Ancora qualche giorno fa, nella Conferenza
internazionale con le donne afghane, che si è svolta a Roma,
abbiamo sentito tante testimonianze significative di persone che,
grazie all'impegno internazionale, hanno ritrovato la possibilità
di vivere liberamente la propria vita, di lavorare, di affermarsi
come cittadini di un Paese normale, pure attraversato da un così
tragico conflitto.
Credo
che dobbiamo discutere con l'Afghanistan. Dobbiamo discutere con le
personalità politiche che rappresentano quel Paese. Dobbiamo
discutere innanzitutto con loro i compiti futuri della comunità
internazionale e lasciate che - aprendo una piccolissima parentesi -
lo dica non soltanto come Ministro degli esteri ma, se mi permettete,
anche come uomo di sinistra. Gran parte della classe dirigente afgana
di oggi è rappresentata da persone che hanno combattuto da
posizioni democratiche e progressiste il regime oppressivo dei
talibani. Il Ministro degli esteri dell'Afghanistan, costretto
all'esilio dal regime dei talibani, dopo il massacro di tutta quella
parte della società afgana che aveva sostenuto il Governo
comunista, è stato a Colonia un militante dei Verdi,
consigliere comunale, direi una personalità formatasi nella
sinistra europea che è tornato nel suo Paese grazie alla
caduta di un regime oscurantista e totalitario.
Credo
che con queste forze, con queste personalità dobbiamo
discutere come sviluppare una strategia più efficace allo
scopo di ottenere i risultati che ci proponiamo. E' del tutto
evidente. Colleghi, sono informazioni, peraltro controllabili. Si
possono riscontrare e non c'è nulla di particolarmente
creativo.
La
convinzione del Governo italiano è che per vincere la sfida in
Afghanistan si debba rafforzare l'impegno civile, l'impegno politico,
l'impegno economico. La convinzione del Governo italiano è che
sarebbe un gravissimo errore che la NATO si isolasse, facendo della
missione afghana una sfida solo della NATO. La missione afghana è
innanzi tutto una sfida dell'intera comunità internazionale,
delle Nazioni Unite e dell'insieme dei Paesi del mondo, tra i quali -
faccio osservare - non ve n'è neppure uno che sostenga la
necessità di ritirare le forze internazionali
dall'Afghanistan, dal momento che tutti i Paesi del mondo - tra i
quali ne cito due piuttosto importanti nella regione: la Russia e la
Cina - ritengono che un ritorno dei talibani sarebbe una tragedia non
accettabile, anche per loro. La Cina ha 93 chilometri di confine con
l'Afghanistan.
È
dunque necessario impegnare l'insieme di questi Paesi in uno sforzo
comune. È necessario impegnare l'Unione Europea in quanto
tale. Il Consiglio europeo ultimo ha approvato una nuova missione,
cosiddetta PESD, per la preparazione delle forze di polizia afghana;
missione europea, che vedrà, quindi, una presenza dell'Unione
in quanto tale nella missione afgana.
In
questo senso va l'impegno internazionale dell'Italia. In questo senso
va la Conferenza che abbiamo promosso, d'intesa che le Nazioni Unite
e con il Governo afgano, sullo Stato di diritto, il cui obiettivo è
quello dell'adozione di un nuovo piano di azione per il funzionamento
della giustizia e la tutela dei diritti umani in Afghanistan. In
questo senso va la richiesta italiana di una Conferenza
internazionale per la pace in Afghanistan, capace di coinvolgere
tutti i Paesi della regione e tutti i Paesi e le istituzioni
internazionali a differente titolo impegnati in Afghanistan.
Questa
proposta, che ci ha visti in un primo momento isolati, raccoglie via
via maggiori consensi: sia la disponibilità, dichiarata in
Italia qualche giorno fa, del Governo afgano, che ha rappresentato
una novità importante, sia il consenso di altri Paesi europei.
È di ieri il documento congiunto tra il Governo spagnolo e il
Governo italiano. La Spagna tra l'altro schiera le proprio forze
armate a fianco delle nostre, in una missione che è comune. È
di ieri il documento congiunto del Governo spagnolo e di quello
italiano, in cui, appunto, si richiede - questa volta insieme -
l'organizzazione di una Conferenza internazionale per la pace in
Afghanistan.
Vedete,
non ci nascondiamo e non ho nascosto le difficoltà di questa
sfida. Non ci nascondiamo e non ho nascosto le responsabilità
che l'Italia si è assunta, ma, come il Senato può
facilmente comprendere, una linea di responsabilità comporta
anche dei vincoli e dei doveri. È una scelta difficile
rimanere lì, in uno scenario così drammatico, ma
essendo lì possiamo chiedere di essere relatori nel Consiglio
di Sicurezza; essendo lì possiamo batterci per una conferenza
internazionale per la pace. Se non ci fossimo più, rompendo la
solidarietà europea, venendo meno ad un mandato dell'ONU, non
potremmo più avere diritto di esercitare il nostro peso nella
comunità internazionale.
Ecco
perché quello che noi chiediamo al Parlamento è di
avere il consenso necessario per affrontare i rischi, ma anche nella
consapevolezza che affrontare quei rischi è la condizione per
sviluppare in modo autorevole quell'azione per la pace in cui
l'Italia è impegnata con l'adesione, il sostegno e la
solidarietà di altri Paesi e di altre forze internazionali.
Avrei
molti punti da aggiungere sulle scelte internazionali compiute in
questi mesi, ma lasciate che mi limiti ad enunciare qualche tema e a
ricordare qualche titolo.
Ci
siamo sforzati di allargare gli orizzonti, come ho detto, dell'azione
internazionale dell'Italia, guardando a grandi aree del mondo che
sono protagoniste del processo di globalizzazione e rispetto alle
quali l'Italia aveva mantenuto nel corso degli ultimi anni un
atteggiamento distante e, talora, ostile, guardando alla sfida della
competizione internazionale più con timore (i dazi), che non
con fiducia nelle possibilità di un grande paese come
l'Italia. Missioni italiane sono state in Cina, in India, in Giappone
e in Brasile. In tutti questi Paesi si sono riallacciate relazioni
politiche e si sono determinate anche nuove opportunità per le
nostre imprese e per la nostra economia. Naturalmente non vorremmo
apparire come dei sostenitori acritici delle virtù
taumaturgiche della globalizzazione. Sappiamo che la globalizzazione
è una sfida, una sfida difficile, ma siamo convinti che i suoi
effetti vadano governati attraverso la cooperazione internazionale.
Mi
pare che questa rinnovata, ampia azione internazionale dell'Italia
risponda agli interessi di un grande Paese, la cui capacità di
rispondere alle sfide competitive, il cui dinamismo e la cui
creatività sono, appunto, le condizioni per vincere.
Interpretare
in modo dinamico gli interessi generali del Paese significa anche
guardare con lungimiranza a Paesi percepiti con minore rilievo
strategico. Penso ad un continente dimenticato per antonomasia, ma
non dall'Italia, e in questo caso, in verità, neppure negli
anni recenti, cioè l'Africa, dove il presidente Prodi si è
recato poche settimane fa per assistere, unico Capo di Governo non
africano invitato, al vertice dell'Unione Africana. Anche questi sono
segnali di un'attenzione nostra e di un'attenzione verso di noi.
L'Africa è teatro sia di crisi umanitarie che politiche tra le
più drammatiche, dal Darfur alla Somalia, dove l'Italia ha un
ruolo importante da esercitare come parte del gruppo di contatto. Per
l'Italia l'Africa è un continente vicino. Basti pensare
all'enorme problema dei flussi migratori, al quale stato dedicato un
primo summit euro-africano lo scorso novembre a Tripoli.
Infine,
abbiamo dato rilievo ad una dimensione della politica estera che è
l'impegno intorno a grandi questioni di principio che toccano valori
fondamentali come quello dei diritti umani. Ne è testimonianza
la campagna promossa alle Nazioni Unite per la moratoria universale
delle esecuzioni di condanne a morte nel quadro di una campagna per
l'abolizione completa della pena capitale nell'ambito di una
iniziativa che non può che essere di lungo periodo in quanto
punta a mutare comportamenti collettivi consolidati. Sono stati già
conseguiti risultati di rilievo, tra cui la dichiarazione presentata
in Assemblea generale dall'Unione Europea, sottoscritta già da
svariate decine di Paesi. Ci stiamo adoperando perché si
arrivi in tempi ravvicinati ad un dibattito e ad un voto
nell'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
Nell'azione
internazionale dei mesi scorsi abbiamo dovuto tenere conto di un
vincolo evidente, difficilmente eludibile: il vincolo della finanza
pubblica, che ha imposto di contenere risorse e, di conseguenza,
ambizioni. Abbiamo cercato di rispondervi con azioni di
razionalizzazione e in prospettiva di più ampia riforma.
Vorrei
sottolineare alcuni risultati non disprezzabili: innanzitutto,
l'incremento della spesa per aiuti pubblici allo sviluppo,
praticamente raddoppiata, dai 374 milioni agli oltre 600 del 2007,
insufficienti e che, tuttavia, testimoniano di una volontà del
Governo di rilanciare l'azione italiana di lotta alla povertà,
come asse della nostra azione internazionale.
Nel
frattempo, abbiamo messo a punto e presentato al Parlamento un primo
progetto di riforma della cooperazione allo sviluppo, a cui diamo e
do molta importanza: una riforma lungamente attesa, che spero il
Parlamento ci aiuti adesso a realizzare al più presto e che
armonizzerebbe l'assetto italiano al principio prevalente in altri
Paesi europei e la separazione tra indirizzo politico, che resterà
di competenza del Ministero degli affari esteri, e gestione
operativa, affidata ad una struttura tecnica, aperta alla
collaborazione con le Regioni, con i Comuni, con i donatori privati
per rendere più efficace e meglio coordinata l'azione italiana
di solidarietà. Stiamo anche lavorando alla struttura del
Ministero degli esteri con l'obiettivo di ridurre le spese al minimo
compatibile e di rendere più efficiente, razionalizzandola, la
rete diplomatica e consolare.
Considero
- ma voi direte: è naturale - il bilancio di questi mesi di
lavoro come bilancio positivo. Non è intenzione del Governo né
mia enfatizzare successi, anche perché siamo consapevoli della
difficoltà delle sfide nelle quali siamo impegnati. Tuttavia,
l'Italia c'è in diversi scenari essenziali e c'è con un
ruolo di protagonista. In questa difficile fase delle relazioni
internazionali non possiamo permetterci di essere né cinici,
né sognatori. Non vogliamo rinunciare alla nostra ispirazione
ideale, né possiamo rinunciare ad un lucido realismo
necessario per tradurre questa ispirazione in un'azione politica
efficace nel quadro dei rapporti di forza esistenti.
La
politica estera italiana attuale è nella continuità con
la tradizione migliore della politica estera dell'Italia
repubblicana. Abbiamo praticato nei fatti la priorità del
multilateralismo, un riferimento per noi obbligato, tra l'altro alla
luce del dettato della Costituzione repubblicana che ho citato
all'inizio della mia esposizione: rifiuto della guerra, ma anche
coraggioso riferimento ad una possibile limitazione della sovranità,
nel nome di un impegno della comunità internazionale.
So
bene che le scelte della politica estera, le singole scelte della
politica estera possono via via mettere a disagio una parte del
Senato e una parte dell'opinione pubblica. Nel valutare gli effetti
complessivi di una politica, ciò che si chiede non è
l'adesione entusiasta ad ogni singolo passaggio, ma, appunto, la
valutazione di un disegno complessivo e di un'azione complessiva, dei
suoi indirizzi, dei suoi risultati, dei valori cui si ispira. Credo
che questa azione sia coerente e mi sono sforzato di dimostrarlo con
il programma con il quale la maggioranza di Governo si è
presentata agli elettori.
Una
cosa è certa: un Paese come l'Italia, che non è una
grande potenza, non può ingaggiare sfide così delicate
e complesse come quelle nelle quali siamo impegnati senza un consenso
politico forte e chiaro. Di questo abbiamo bisogno. Il Governo
italiano non può trovarsi nelle prossime settimane ad
affrontare la difficile sfida, ad esempio, dell'atteggiamento
internazionale verso un nuovo governo palestinese, o la difficile
discussione sul cambio di strategia in Afghanistan nel Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite, o la difficile sfida sul tema della
pena di morte (che, come voi sapete, irrita diversi grandi Paesi)
senza aver la certezza di un consenso e di una stabilità.
Non lo
si può chiedere a nessuno e certamente il Governo non lo
potrebbe fare.
Dunque,
noi siamo qui a chiedere questo consenso, a chiedere il consenso più
ampio possibile per continuare nel difficile, impegnativo cammino
della pace.
PRESIDENTE.
Ringrazio il ministro degli affari esteri D'Alema.
Riprendiamo
la seduta.
Do la
parola per la replica al ministro degli affari esteri, onorevole
D'Alema, al quale chiedo di pronunziarsi anche sulle tre proposte di
risoluzione presentate.
MASSIMO
D'ALEMA, vice presidente del Consiglio dei ministri e ministro
degli affari esteri.
Signor
Presidente, signori senatori, vorrei innanzitutto ringraziare il
Senato per la discussione assai ricca ed anche appassionata dalla
quale certamente il Governo, e per quanto mi riguarda il Ministro
degli affari esteri, trarranno indicazioni importanti per lo sviluppo
del nostro lavoro. È una discussione seria quella che ci ha
impegnato e di ciò davvero voglio ringraziare tutti gli
esponenti dell'opposizione e della maggioranza.
Ora ci
troviamo alle soglie di un voto che si presenta francamente un po'
strano perché, in definitiva, confliggono tra di loro due
mozioni che si concludono, tuttavia, entrambe con l'approvazione
della politica estera del Governo. Devo dire che di ciò mi
sento molto onorato nei confronti dell'intero Senato della Repubblica
che gareggia su come approvare la politica estera del Governo.
Certamente è una situazione non facilissima da spiegare
all'opinione pubblica, ma mi sforzerò di esprimere la mia
opinione su questa contrapposizione che appare abbastanza singolare
per il modo in cui si dispiega.
Tuttavia,
prima di venire a questo tema che ruota intorno alla questione della
continuità, su cui vorrei dire poi parole sincere a questa
Assemblea, torno a sottolineare, accogliendo lo stimolo garbato e
pungente del senatore Biondi con il quale duelliamo con garbo e
rispetto reciproco da tanti anni, che io non ho inteso minacciare
nessuno, né la maggioranza né il Senato, ma
semplicemente ricordare con una battuta di ieri, ai margini
dell'incontro italo-spagnolo, che un elementare principio di natura
costituzionale dice che il Governo, per poter svolgere il suo lavoro
in tutti i campi, ma in modo particolare in un settore cruciale come
la politica estera, deve poter contare sul consenso della maggioranza
parlamentare.
È,
se volete, una banalità; tuttavia, penso per ragioni
politiche, costituzionali e - se mi permettete - anche etiche che
l'idea di agire senza consenso, soprattutto quando sono in gioco
questioni così importanti come la pace, la guerra e la
sicurezza del Paese, è qualcosa che non appartiene al costume
democratico e alle mie abitudini. Credo di avere dimostrato nella mia
vita politica di essere persona molto attenta a misurare il consenso
democratico, persino al di là degli obblighi costituzionali, e
a prendere atto del dissenso con una coerenza che non sempre - lo
dico - ho riscontrato in tutti i protagonisti della vita politica.
Ritengo
che sarebbe tuttavia paradossale che una politica estera, che senza
alcun dubbio - lasciamo stare i sondaggi, che non fanno che
confermarlo - raccoglie in un momento complesso e tormentato un largo
consenso nel Paese - parrebbe assai più largo del consenso che
più generalmente c'è intorno alla politica del Governo
- e senza alcun dubbio una vasta attenzione internazionale, non
trovasse il consenso del Senato della Repubblica; sarebbe davvero
curioso e aprirebbe una questione assai delicata.
Penso
che sul tema della continuità e della discontinuità
della politica estera italiana dobbiamo fare una discussione seria.
Dirò la mia: non possiamo confondere la continuità di
fondo di una politica estera sulla base di un consenso, che si è
venuto formando nel corso della lunga storia dell'Italia
repubblicana, con gli elementi indubbi di novità e di
contrasto che sono emersi negli ultimi anni.
Ho
ricordato le coordinate della continuità della politica estera
italiana: l'articolo 11 della Costituzione, ovvero la scelta
dell'impegno dell'Italia per costruire un ordine internazionale
fondato sulla pace, il rifiuto della guerra e la partecipazione
attiva dell'Italia a quell'architettura di istituzioni e di alleanze
(ONU, Unione Europea e NATO) entro la quale la nostra politica estera
si è sviluppata in questi anni e continuerà a
svilupparsi nel periodo prevedibilmente di fronte a noi.
Credo
tuttavia che la raffigurazione, che è venuta in molti
contributi degli amici dell'opposizione, secondo cui lo scenario
politico italiano e quello internazionale sarebbero in definitiva
caratterizzati da una parte da uno schieramento che si muove su una
linea coerentemente atlantica e occidentale e dall'altra dalla
protesta confusa di un mondo radicale e pacifista, non sia esatta;
non corrisponde alla realtà della vicenda politica italiana,
europea e mondiale degli ultimi anni, che ha visto aprirsi ben altra
dialettica politica, assai più complessa, e che ha
attraversato in modo drammatico il campo occidentale.
Non
c'è il minimo dubbio che di fronte alla politica
neoconservatrice dell'Amministrazione americana, di fronte alla
teorizzazione della guerra preventiva, dell'esportazione con la forza
della democrazia e all'atto della guerra in Iraq si è diviso
l'Occidente. Non l'Occidente da una parte e il pacifismo dall'altra
parte; si è diviso il campo democratico occidentale; si sono
divise le grandi democrazie occidentali. Si è aperta una
ferita profonda che ha diviso anche il campo politico italiano
rispetto ad un consenso sulla politica estera che aveva
caratterizzato lunghi decenni della storia repubblicana.
Questa
è la verità. È lo scenario reale nel quale ci
muoviamo. Io credo che sia del tutto legittimo rivendicare, da questo
punto di vista, una novità nella politica del Governo Prodi
rispetto alla politica del Governo Berlusconi: la novità del
non aderire alla politica neoconservatrice. Non avremmo mandato i
soldati in Iraq e non ce li avremmo mandati così come non ce
li ha mandati la maggioranza dei Paesi europei la larga maggioranza
dei Paesi che appartengono all'Unione europea e all'Alleanza
atlantica. Naturalmente è legittimo avere un'opinione diversa.
È
legittimo avere un'opinione diversa. La più grande democrazia
dell'Occidente, gli Stati Uniti d'America, è divisa da questo
dibattito. Figuriamoci se non è legittimo avere opinioni
diverse, ma non è giusto presentare il nostro punto di vista
come in continuità con quello del Governo precedente, perché
su questo marca una novità radicale.
Certo,
ciò non significa che in tutti i campi il Governo attuale
segni una rottura con il passato. Se vogliamo parlare seriamente di
continuità, ritengo che per certi aspetti il Governo attuale
recuperi una continuità più lontana della politica
estera italiana. Mi permetto di dubitare molto che i Governi
democratici imperniati sull'alleanza tra la Democrazia Cristiana e il
Partito socialista avrebbero approvato la teoria della guerra
preventiva, se devo giudicare almeno dal modo in cui gran parte degli
esponenti di quel mondo si sono collocati nel dibattito politico di
questi anni.
Allora,
se vogliamo essere sinceri fino in fondo in materia di continuità,
credo che l'attuale Governo recuperi la continuità di una
ispirazione di fondo della politica estera italiana rispetto ad uno
strappo intervenuto negli ultimi anni. Ripeto: è ovviamente
una opinione opinabile, ma è un discorso di verità che
- a mio giudizio - presenta uno scenario più vero del
dibattito politico internazionale e non uno scenario di comodo. Lo
dico perché troverei davvero curioso concludere questo
dibattito con una disputa sulle parole.
Mi
interessa molto di più il confronto sulla sostanza e la
sostanza è la seguente: se si apprezza l'impegno italiano per
contribuire ad una svolta nella politica internazionale, di cui certo
noi non siamo gli unici attori, né forse i principali, ma che
tuttavia è in atto, per uscire dalle secche
dell'unilateralismo e per ritornare nell'alveo di una politica
multilaterale, per uscire dalle secche delle coalizioni dei
volenterosi e per ritornare nell'alveo del primato delle istituzioni
internazionali, lo si dica senza affermare che questo è in
continuità con la partecipazione ai volenterosi di prima.
Noi
lavoriamo per consolidare una svolta nella situazione internazionale.
Lo facciamo in Iraq, lo facciamo nel Medio Oriente, lo facciamo in
Afghanistan. Lo facciamo con scelte che tengono conto delle diversità
delle situazioni e anche qui voglio usare parole sincere nei
confronti di giudizi che non condivido e che mettono sullo stesso
piano la vicenda irachena e quella afgana.
Ci
sono delle differenze molto profonde, di carattere giuridico, di
carattere politico e di fatto, che fanno sì che mentre il
ritiro dall'Iraq è stato un atto politico che ha aperto
all'Italia nuove possibilità di iniziativa politica,
rimettendoci in sintonia con la maggioranza degli europei e anche con
gran parte del mondo arabo, il ritiro dall'Afghanistan sarebbe un
atto unilaterale che ci separerebbe da tutta l'Europa, compresi
quegli spagnoli che sono lì a fianco a noi, non ci metterebbe
in comunicazione con nessuno e non ci farebbe fare nessun passo
avanti.
Vi è
una profonda diversità tra un'azione militare in Afghanistan,
che è stata autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite perché lì c'erano le basi dei
terroristi...
È
diversa l'azione militare in Afghanistan, autorizzata dal Consiglio
di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla base dell'accertato fatto che
lì vi erano le basi di Al Qaeda, dall'azione militare in Iraq,
voluta in modo unilaterale sulla base della menzogna che lì ci
sarebbero state le armi di distruzione di massa. Non sono la stessa
cosa e non è giusto metterle sullo stesso piano nel modo in
cui si affrontano i diversi problemi di queste diverse situazioni.
Per
questo, per voltare pagina in Afghanistan, bisogna stare dentro il
quadro delle responsabilità condivise e non separarsene: per
ragioni politiche e non per un'astratta continuità.
Vedete,
noi siamo di fronte a scelte politiche e a passaggi assai complessi,
davvero difficili, e in nessuna delle sfide in cui siamo impegnati vi
è certezza di successo, a cominciare da quella che ci vede in
primissimo piano nel Libano con una responsabilità preminente
per il numero dei militari e per il comando della missione delle
Nazioni Unite. Ma in tutti questi diversi campi noi ci muoviamo sulla
linea di un difficile equilibrio: lealtà alle alleanze, lealtà
al quadro nell'ambito del quale noi ci troviamo (e se ne usciamo non
contiamo più nulla) e sforzo, impegno, per far avanzare
concretamente una nuova prospettiva di distensione e di pace.
Voglio
concludere dicendo una parola, anche qui di verità, su
Vicenza, dato che da tante parti è stato sollecitato.
Non ho
mai nascosto che condivido l'opinione del Governo. Ho citato in modo
non banale le parole del Presidente del Consiglio, il quale si è
preso la responsabilità primaria, come è giusto, di
confermare la disponibilità italiana che era stata annunciata
con una lettera del Capo di Stato Maggiore delle Forze armate
italiane, autorizzato dal Governo dell'epoca, agli americani per
l'allargamento della base di Vicenza. Si richiede di allargare tale
base nel quadro di quello che gli americani definiscono, ed è
senza alcun dubbio, un ridimensionamento della presenza americana in
Europa, che, tra l'altro, ha già previsto la dismissione della
base della Maddalena e prevedrà un'ulteriore riorganizzazione
anche nel nostro territorio della presenza americana.
Gli
americani che alla fine della guerra fredda avevano in Italia quasi
20.000 militari oggi ne hanno circa 12.000 e vanno ridimensionando la
loro presenza in Europa, come è ovvio che accada in un mutato
scenario internazionale. In questo quadro ci è stato chiesto
di poter potenziare Vicenza per concentrare le forze, chiudendo altri
basi in Europa; un'iniziativa che è stata ritenuta ragionevole
dal Governo italiano, il quale ha assunto un impegno. È anche
vero che sulla base di questo impegno del Governo italiano gli
americani hanno, molto correttamente, predisposto un progetto, lo
hanno sottoposto all'esame delle istituzioni democratiche di Vicenza
che lo hanno approvato, con determinate cautele, ed io
sinceramente ritengo che revocare questa autorizzazione sarebbe stato
e sarebbe da parte del Governo attuale, un atto ostile verso gli
Stati Uniti di cui non si comprenderebbe il senso e che avrebbe avuto
degli effetti controproducenti.
La mia
opinione è che nell'opposizione alla base di Vicenza si
sommino, tuttavia, sentimenti molto diversi. C'è probabilmente
una posizione pregiudiziale di una parte di opinione pubblica di
contrarietà verso le basi militari; c'è anche un
sentimento diffuso della comunità vicentina, preoccupata per
una localizzazione di quella base che è considerata, da molti
cittadini di Vicenza, delle più diverse opinioni politiche,
dannosa per lo sviluppo della città, per le sue prospettive e
per la possibilità per essa di godere di un area di verde
importante.
Ed è
per questo che, senza smentire l'orientamento preso, abbiamo posto
agli americani l'esigenza di una valutazione più approfondita
sulle preoccupazioni espresse nello stesso consiglio comunale di
Vicenza, dove, nel momento in cui è stato approvato il
progetto, sono state, tuttavia, indicate talune limitazioni e sulle
preoccupazioni che si sono successivamente manifestate anche nei
movimenti e nei comitati dei cittadini di Vicenza.
Questa
è la posizione del Governo. Non intendiamo rimettere in
discussione l'orientamento preso, ma insistiamo affinché si
tenga conto delle preoccupazioni dei cittadini di Vicenza e credo
che, ragionevolmente, con questi cittadini il Governo aprirà
un dialogo, così come abbiamo chiesto agli Stati Uniti
d'America di tenerne conto.
Questa
è una posizione ragionevole, che al tempo stesso vuole essere
rispettosa degli impegni internazionali dell'Italia, ma anche delle
preoccupazioni legittime di una comunità italiana che sappiamo
benissimo dove si trova e di cui sappiamo anche ascoltare le
preoccupazioni. Le farò leggere, senatore Mantica, nello
spirito di «ex socio» della Farnesina, le lettere che
provengono non solo da radicali pacifisti, ma da tante personalità
di quella comunità, comprese personalità del mondo
religioso ed economico. Penso che il Governo farà bene ad
ascoltarle nella logica di un Governo democratico che decide, ma si
fa carico anche delle preoccupazioni dei cittadini.
Ho
voluto parlare con chiarezza e spero che questo dibattito si concluda
nella chiarezza.
Chi
condivide la politica estera del Governo la voti, chi non la
condivide voti contro anziché dire che la sostiene dicendo che
è un'altra da quella che è. È il momento
dell'assunzione delle responsabilità ed è per noi
fondamentale misurare il consenso vero di quest'Aula, condizione
preziosa per andare avanti nel nostro lavoro.
TURIGLIATTO:
NON PARTECIPO AL VOTO E MI DIMETTO DAL SENATO
"La
replica di D'Alema non ha cambiato la sostanza della politica del
governo indicata nella relazione e il mio voto a favore non ci sarà.
Sono contrario alla guerra in Afghanistan e al raddoppio della base
di Vicenza che il governo, la maggioranza del centrosinistra e tutto
il centrodestra invece vogliono fortemente, contro l'opinione
dell'elettorato italiano e contro la rivolta di un'intera città"
dichiara Franco Turigliatto, senatore di Sinistra Critica-PRC.
"Certo, una nuova maggioranza sarebbe peggiore dell'attuale e
non la auspico. Ma il governo non andrà lontano se continuerà
a voltare le spalle a chi lo ha votato. Non accetto di diventare il
capro espiatorio della crisi di questo governo, che è tutta
legata alla sua politica suicida e non al mio dissenso personale"
prosegue Turigliatto. "Ritengo che le scelte del mio partito
siano in profondo contrasto con il nostro programma politico e con
gli impegni presi in campagna elettorale. Ricordo che
sull'Afghanistan e sulla base di Vicenza nulla era scritto nel
programma dell'Unione, per cui la supposta fedeltà alla
coalizione semplicemente non esiste. Tuttavia, non volendo
approfittare della mia condizione determinante nelle scelte decise
dalla maggioranza del gruppo parlamentare, presenterò oggi
stesso le mie dimissioni dal Senato" conclude Turigliatto.
Documento
Prodi, ecco i 12 punti del vertice
ROMA -
Sono 12 punti "prioritari e non negoziabili" quelli sui
quali Romano Prodi ha ottenuto l'adesione unanime, nel vertice di
questa notte, dei leader dell'Unione.
1. "Rispetto degli
impegni internazionali e di pace. Sostegno costante alle iniziative
di politica estera e di difesa stabilite in ambito Onu ed ai nostri
impegni internazionali, derivanti dall'appartenenza all'Unione
Europea e all'Alleanza Atlantica, con riferimento anche al nostro
attuale impegno nella missione in Afghanistan. Una incisiva azione
per il sostegno e la valorizzazione del patrimonio rappresentato
dalle comunità italiane all'estero".
2. "Impegno
forte per la cultura, scuola, università, ricerca e
innovazione".
3. "Rapida attuazione del piano
infrastrutturale e in particolare ai corridoi europei (compresa la
Torino-Lione). Impegno sulla mobilità sostenibile".
4.
"Programma per l'efficienza e la diversificazione delle fonti
energetiche: fonti rinnovabili e localizzazione e realizzazione
rigassificatori".
5. "Prosecuzione dell'azione di
liberalizzazioni e di tutela del cittadino consumatore nell'ambito
dei servizi e delle professioni".
6. "Attenzione
permanente e impegno concreto a favore del Mezzogiorno, a partire
dalla sicurezza".
7. "Azione concreta e immediata
di riduzione significativa della spesa pubblica e della spesa legata
alle attività politiche e istituzionali (costi della
politica)".
8. "Riordino del sistema previdenziale
con grande attenzione alle compatibilità finanziarie e
privilegiando le pensioni basse e i giovani. Con l'impegno a reperire
una quota delle risorse necessarie attraverso una razionalizzazione
della spesa che passa attraverso anche l'unificazione degli enti
previdenziali".
9. "Rilancio delle politiche a
sostegno della famiglia attraverso l'estensione universale di assegni
familiari più corposi e un piano concreto di aumento
significativo degli asili nido".
10. "Rapida
soluzione della incompatibilità tra incarichi, di governo e
parlamentari, secondo le modalità già concordate".
11. "Il portavoce del presidente, al fine di dare
maggiore coerenza alla comunicazione, assume il ruolo di portavoce
dell'esecutivo".
12. "In coerenza con tale
principio, per assicurare piena efficacia all'azione di governo, al
presidente del Consiglio è riconosciuta l'autorità di
esprimere in maniera unitaria la posizione del governo stesso in caso
di contrasto".
Discorso di Andreotti
PRESIDENTE.
Colleghi, vi è la discussione e poi la replica del Ministro,
cui seguiranno le dichiarazioni di voto. Procediamo con ordine.
È
iscritto a parlare il senatore Andreotti. Ne ha facoltà. Le
ricordo che ha a disposizione cinque minuti.
ANDREOTTI
(Misto). Cercherò di fare un abbuono di un minuto.
PRESIDENTE.
La ringrazio anticipatamente.
ANDREOTTI
(Misto). Signor Ministro, onorevoli colleghi, è
importante che si sia fatta una discussione su tutti i temi della
politica estera. In anni lontani mi permisi di proporlo, senza alcun
successo, ma sarebbe auspicabile dedicare le prime sedute, o la prima
seduta di ogni mese ad una breve discussione di politica estera. Ciò
eviterebbe di dover guardare il mondo, e qualcosa di più,
senza mai fare approfondimenti.
Nella
relazione del Ministro degli affari esteri trovo il dato positivo
della continuità della nostra politica estera. Spero non
sorgano problemi. Nella stessa proposta di risoluzione presentata dal
senatore Calderoli - che non è normalmente una persona
accomodante - compare il termine «continuità».
Spero che su questo si possa trovare l'accordo perché ha un
rilievo esterno ciò che si decide in materia di politica
estera.
Per
il resto, vorrei solo fare due raccomandazioni. Primo: diamo
attenzione ad un'organizzazione, della quale facciamo parte ma alla
quale siamo forse poco attenti. Mi riferisco all'Organizzazione per
la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Quando si presentò
questo modello, ricordo l'obiezione avanzata a Moro relativamente al
significato di una cooperazione di sicurezza quando, all'epoca,
esisteva un Governo sovietico con una propria sfera di influenza.
Moro rispose: «Signori, Breznev passerà, queste cose
rimarranno». L'Organizzazione per la Sicurezza e la
Cooperazione Europa, tra l'altro, contiene in se stessa anche la
partecipazione di Stati Uniti e Canada, chiamati europei. Quindi,
nella ricerca, da noi condotta, di un modo di approccio
interatlantico, abbiamo uno strumento a disposizione.
La
seconda, e ultima, raccomandazione riprende una proposta da me fatta
a suo tempo al ministro Frattini. Noi dobbiamo cercare di contribuire
alla comprensione e al dialogo e disponiamo di uno strumento da poter
mettere in campo. Abbiamo avuto nel passato, e abbiamo anche adesso,
un numero notevole di stranieri, in questo caso stranieri provenienti
da Paesi di religione islamica, che studiano e si sono laureati in
Italia. Vorrei che potesse organizzarsi, al di fuori di finalità
politiche contingenti, un grande raduno di questo tipo di ex laureati
in Italia. A mio avviso, sarebbe molto più utile di una
conferenza internazionale. (Applausi dai Gruppi Misto e UDC e
dai senatori Manzella e Selva).
Discorso di Cossiga
COSSIGA
(Misto). Domando di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE.
Ne ha facoltà per quattro minuti.
COSSIGA
(Misto). Signor Presidente, signor Ministro, signori senatori,
voterò contro la proposta di risoluzione dell'amico senatore
Calderoli perché affermando che vi è continuità
fra la politica di questo Governo e la tradizionale politica
atlantica e di amicizia politico-militare con gli Stati Uniti
d'America non afferma il vero. Se l'amico Calderoli lo permette -
come ha detto giustamente il Ministro degli affari esteri e senza che
il senatore Calderoli si offenda - dico che egli afferma il falso.
Credo
che le dichiarazioni del Ministro degli affari esteri su questo
punto, come le dichiarazioni rese nella replica, debbano convincere -
lo dico io che voterò contro - gli amici dissenzienti della
sinistra radicale che quello che loro pensano è esattamente
quello che pensano il Presidente del Consiglio dei ministri, il
Ministro degli affari esteri e il Ministro della difesa. Solo, però,
si devono rendere conto che questo loro faranno, ma per le posizioni
istituzionali che ricoprono non lo possono dire. Quindi, sembrerà
strano, ma rivolgo un caldo appello agli amici della sinistra
radicale dissenzienti perché, proprio per raggiungere gli
obiettivi che si propongono - via dall'Afghanistan e «no»
alla base di Vicenza - votino la fiducia alla proposta di risoluzione
che le approva. (Applausi del senatore Novi).
Non
posso che esprimerle la mia ammirazione, signor Ministro, per la
straordinaria amabilità e abilità con cui ha compiuto
l'ultimo generoso sforzo, che credo non sarà respinto, per
convincere gli amici dissenzienti della sinistra radicale a votare a
favore del Governo. Con profondo e sincero rammarico, anche per la
grande e antica stima e amicizia - se consente - che per lei nutro,
dichiaro che voterò contro la proposta di risoluzione che
approva le dichiarazioni sulla politica estera da lei rese al Senato,
a nome del Governo della Repubblica e non suo personale, come lei ha
giustamente chiarito. Pertanto, la risoluzione sarà approvata.
Specie
dopo la sua replica, non credo che gli amici della sinistra radicale
dissenziente si vorranno assumere la responsabilità, non dico
di aprire una crisi, perché se voteranno contro si potrà
al limite dire che il Governo deve spostare a sinistra la sua
politica estera. Lei ha già commesso una volta un grave
errore, quello di dimettersi quando era Presidente del Consiglio dei
ministri.
D'ALEMA,
vice presidente del Consiglio dei ministri e ministro degli affari
esteri. Ho questa tendenza.
COSSIGA
(Misto). La prego, non ne commetta un secondo. Nella
Costituzione non è assolutamente scritto che se una
risoluzione non viene approvata uno si deve dimettere; si deve
dimettere se viene approvata una mozione generale di sfiducia o una
mozione individuale.
Molto
avrei da dire sugli indirizzi e i contenuti di questa politica
estera, ma le mie considerazioni le affido al testo scritto. Dico
soltanto che, nonostante la sua straordinaria abilità
(altrimenti non la considererei il miglior fico del bigoncio), le
contraddizioni, i pasticci della politica estera del Governo sono
tali che capisco la perplessità degli amici dissenzienti di
sinistra.
Signor
Ministro, voto contro perché non posso rinnegare ciò in
cui ho creduto per cinquant'anni. Non si dimentichi che io sono
Cossiga con la «K», il Cossiga che ha dispiegato i
missili e che è finito sotto processo per aver riconosciuto -
a differenza di tanti altri tremebondi ex democristiani, molti dei
quali, pentiti, oggi sono nella Margherita e non riescono a
nascondere di essere democristiani, anche se vorrebbero farlo
dimenticare - di essere a conoscenza di Gladio e di avervi
collaborato, pur non sapendo che si chiamasse così.
E
lei vuole che dopo cinquant'anni io cambi opinione? Non ho più
l'agilità mentale, per i settantotto anni e per le gravi
malattie che hanno minato sia il corpo, sia la mente. Non ho la sua
agilità. Lei può passare, con coerenza, per carità
(si diceva in Inghilterra che chi non cambia opinione o è un
fesso, e probabilmente io lo sono, o è un fazioso).
PRESIDENTE.
Senatore Cossiga, le ho dato un minuto in più.
COSSIGA
(Misto). Grazie, le chiedo soltanto...
PRESIDENTE.
Prego, chiuda con una frase.
COSSIGA
(Misto). No, siccome le voglio dare la soddisfazione di
togliere la parola ad un ex Presidente del Senato... (Applausi dai
Gruppi FI e AN).
PRESIDENTE.
Non le ho tolto la parola. L'ho pregata solo di concludere.
COSSIGA
(Misto). ... secondo il suo modo sindacale di presiedere,
contrattiamo. Io non parlo e lei mi permette di depositare il
discorso.
PRESIDENTE.
Ma certamente. Siamo in diretta e devo garantire il tempo a tutta
l'Assemblea.
COSSIGA
(Misto). Ritrovo in lei il vecchio sindacalista che faceva il
servizio d'ordine contro la sinistra nei comizi del 1976. (Applausi
dei senatori Nessa e Baldassarri).
PRESIDENTE.
Fa piacere questo ricordo.
Discorso di Rossi
ROSSI
Fernando
(IU-Verdi-Com). Domando di parlare per dichiarazione di voto
in dissenso dal mio Gruppo.
PRESIDENTE.
Ne prendo atto e le do la parola, per un minuto.
ROSSI
Fernando (IU-Verdi-Com). Un minuto? Non ha esagerato?
PRESIDENTE.
Facciamo due minuti, ma due davvero.
ROSSI
Fernando (IU-Verdi-Com). Il Governo Berlusconi, ancorché
accrescere i profitti delle imprese private del Cavaliere, aveva
scelto di legare gli interessi del Paese a quelli del blocco politico
che governa gli Stati Uniti. Che tale percorso sia uguale a quello
imboccato dai laburisti inglesi non toglie nulla al drammatico errore
di avere consegnato la nostra politica estera alle strategie belliche
della presidenza Bush.
Sulla
guerra e sulla politica estera, ma anche sulle politiche sociali, il
Governo Prodi era tenuto a dare prove di discontinuità,
contenute nell'accordo programmatico dell'Unione. Quelle poche
posizioni più autonome ed utili a un processo di distensione,
che pure si possono rintracciare, sono state contraddette e
riequilibrate dalla mancata sospensione - almeno - dell'accordo
militare che ci lega ad Israele (nonostante sia una delle due parti
in guerra tra cui noi dovremmo fare da interposizione neutrale, e
nonostante Israele abbia disatteso non una ma 72 risoluzioni
dell'ONU), dall'«ubbidisco» sulla base di Vicenza, dal
mancato sostegno alla richiesta della magistratura italiana per
l'estradizione degli agenti CIA che in territorio italiano hanno
sequestrato Abu Omar, dall'accettazione della verità americana
sull'omicidio Calipari, dalla smisurata quantità di risorse
finanziarie impegnate nell'acquisto di cacciabombardieri (che, ci
viene spiegato, saranno montati anche in Italia e daranno lavoro),
dalle dichiarazioni - speriamo dal sen fuggite - del ministro Parisi
sullo stare in Afghanistan fino al 2011, e cioè tra 50.000 e
60.000 morti e sull'esigenza di un ulteriore aumento delle spese
militari, che manco a dirlo la prima finanziaria del
Governo dell'Unione ha aumentato.
Circa
sei mesi fa, il Governo, con la mozione in materia di missioni
italiane all'estero, votata il 19 luglio 2006, prendeva atto che in
territorio afgano l'Italia non è più in alcun modo
impegnata militarmente... (Il microfono si disattiva
automaticamente).
PRESIDENTE.
Pronunci una frase per concludere.
ROSSI
Fernando (IU-Verdi-Com). Sicuramente non sono passati due
minuti.
PRESIDENTE.
Li ha superati, comunque concluda.
ROSSI
Fernando (IU-Verdi-Com). Dica a chi registra i tempi che mi
chiamo Cossiga, così vado avanti.
PRESIDENTE.
Lasci stare il presidente Cossiga. (Applausi dai Gruppi FI
e LNP).
ROSSI
Fernando (IU-Verdi-Com). Le cose sono andate avanti in una
direzione esattamente contraria. Gli USA hanno nominato un generale a
quattro stelle come comandante di tutte le forze militari, afgane
comprese. Questo generale, per farla molto breve, ha dichiarato che
due prigionieri politici sono morti di morte naturale, mentre la
stampa americana ha dimostrato che sono morti per percosse, per
tortura, ed è accusato di strage di civili. Comanda tutte le
truppe, comprese quelle italiane. Adesso ho veramente finito.
Quindi,
se la politica estera del mio Governo, invece che puntare sulla pace
e sulla distensione internazionale, è quella di dare una nuova
base agli Stati Uniti, che non fanno misteri di volerla usare per le
guerre in atto e future, come ci ha spiegato il senatore Russo Spena
nel precedente dibattito su Vicenza, nonché di restare nella
guerra afgana, nonostante gli Usa e lo stesso Blair non facciano
mistero di voler scatenare nei prossimi mesi un'ancora più
feroce offensiva della NATO su tutto l'Afghanistan, in queste scelte
io non posso sostenere il Governo.
Pertanto,
voterò contro le proposte di risoluzione dell'opposizione, ma
mi asterrò dal voto su quella della maggioranza, di cui
comunque mi sento ancora parte, per tutta un'altra serie di scelte
compiute dai senatori della maggioranza e da questo Governo. Ma su
Vicenza e sulla guerra non posso essere d'accordo.
Votazione
nominale con scrutinio simultaneo
PRESIDENTE.
Indìco pertanto la votazione nominale con scrutinio
simultaneo, mediante procedimento elettronico, della proposta di
risoluzione n. 2, presentata dal senatore Andreotti e da altri
senatori.
Dichiaro
aperta la votazione.(Segue
la votazione).
Proclamo
il risultato della votazione nominale con scrutinio simultaneo,
mediante procedimento elettronico:
Senatori
presenti
|
318
|
Senatori
votanti
|
317
|
Maggioranza
|
159
|
Favorevoli
|
315
|
Contrari
|
1
|
Astenuti
|
1
|
Il
Senato approva. (v. Allegato B).
Ripresa
della discussione sulle comunicazionidel Ministro degli affari
esteri sulle linee di politica estera
ZANDA
(Ulivo). Domando di parlare.
PRESIDENTE.
Ne ha facoltà.
ZANDA
(Ulivo). Signor Presidente, volevo solo far presente che il
mio dispositivo di voto non ha funzionato.PRESIDENTE.
Ne prendiamo atto.
Passiamo
alla votazione della proposta di risoluzione n. 3.
CARRARA
(FI). Chiediamo la votazione nominale con scrutinio
simultaneo, mediante procedimento elettronico.
PRESIDENTE.
Invito il senatore segretario a verificare se la richiesta di
votazione con scrutinio simultaneo, avanzata dal senatore Carrara,
risulta appoggiata dal prescritto numero di senatori, mediante
procedimento elettronico.(La
richiesta risulta appoggiata).
Votazione
nominale con scrutinio simultaneo
PRESIDENTE.
Indìco pertanto la votazione nominale con scrutinio
simultaneo, mediante procedimento elettronico, della proposta di
risoluzione n. 3, presentata dalla senatrice Finocchiaro e da altri
senatori.
Dichiaro
aperta la votazione.(Segue
la votazione).
(Vivaci,
reiterate proteste dai banchi dell'opposizione. Numerosi senatori
dell'opposizione scendono verso il centro dell'emiciclo e inveiscono
contro il senatore Zanone).
I
senatori segretari sono pregati di controllare: i segretari, non gli
altri! Colleghi, non vi muovete. Senatore Sodano, torni al proprio
posto. Anche lei, senatore Zanone. Ognuno al proprio posto e seduti,
per favore. (Scambio di invettive tra il senatore Zanone e alcuni
senatori del Gruppo FI).
Colleghi,
siamo in diretta, vi prego di stare fermi. Non faccio votare fin
quando non abbiamo chiarito. Se non la smettete di sbraitare, non
posso nemmeno fare i controlli. (Il senatore Viespoli si avvicina
al banco della Presidenza per fare una segnalazione). Lasciate
stare il senatore Rossi, per favore! Il senatore Rossi ha fatto una
dichiarazione che abbiamo tutti ascoltato.
Vi
prego di sedervi, mi è stato segnalato il problema e sono
intervenuto. I senatori segretari controllino.
Dichiaro
chiusa la votazione.
Proclamo
il risultato della votazione nominale con scrutinio simultaneo,
mediante procedimento elettronico:
Senatori
presenti
|
319
|
Senatori
votanti
|
318
|
Maggioranza
|
160
|
Favorevoli
|
158
|
Contrari
|
136
|
Astenuti
|
24
|
Il
Senato non approva. (v. Allegato B). (Vivi applausi dai banchi
dell'opposizione, i cui senatori si levano in piedi esultando. Alcuni
senatori dell'opposizione lanciano giornali verso il centro
dell'emiciclo).
Per
favore, colleghi. Non va bene! Calmi, vi prego!
VOCI
DAI BANCHI DELL'OPPOSIZIONE. A casa! A casa!
PRESIDENTE.
Vi prego! Senatore Storace, aiuti la Presidenza!
CORO
DAI BANCHI DELL'OPPOSIZIONE.Dimissioni!Dimissioni!
PRESIDENTE.
Un momento, per favore.