AFGHANISTAN:
MISSIONE IMPOSSIBILE
21 MORTI PER UNA DEMOCRAZIA ANCORA LONTANA
di Mirca Garuti
Novembre 2003 Nassirya – morti 17 militari italiani e 2 civili.
Settembre 2009 Kabul – 21 morti, di cui 6 soldati italiani e 60 feriti.
L’autobomba che ha colpito il 17 settembre il convoglio militare italiano a Kabul ha provocato la strage più sanguinosa verso le truppe italiane all’estero. Sale così a 21 il numero delle vittime in Afghanistan dal 2004, anno d’inizio della missione italiana. La causa delle morti è dovuta, per la maggior parte, ad attentati, ma anche ad incidenti o causa naturale.
La domanda, quindi, che immediatamente ci si pone, riguarda le motivazioni di questa missione e la necessità di continuare, specialmente, se si ritiene ancora valido l’art. 11 della nostra costituzione.
“Art.11 – L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
L’uccisione di tantissime vittime civili afgane e di soldati italiani creano una profonda preoccupazione e dolore. Per questo motivo la manifestazione prevista per il 19 settembre, per la libertà di stampa, non doveva essere rinviata. Le manifestazioni non sono momenti di svago, ma servono per affermare o chiedere diritti che non sono riconosciuti.
“In un momento tragico come questo ci stringiamo attoniti accanto ai nostri morti in Afghanistan”, così dichiara il comunicato della FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana) per motivare la sospensione. La stampa ha il dovere, invece, di fronte a quanto sta succedendo, di raccontare perché queste guerre, chiamate missioni a sostegno della democrazia, della pace e della libertà in questi “sfortunati” paesi, proseguono nonostante i risultati del tutto negativi.
“I soldati italiani hanno pagato un prezzo alto per la libertà e la sicurezza dell’Afghanistan, dell’Italia e dell’Europa: dobbiamo restare per dimostrare che l’orgoglio dell’Italia è sempre alto”, questo è stato il primo commento del ministro degli esteri Franco Frattini ai microfoni del TG1, subito dopo l’annuncio della strage a Kabul.
Questa però non è la verità. Dobbiamo cominciare a chiamare le cose con il loro nome: non si tratta di difendere la pace, perché è in atto una guerra; né una democrazia perché si protegge un governo fantoccio; né una sicurezza internazionale perché si combatte contro gli afgani e non contro il terrorismo islamico internazionale.
Perché allora si muore??
Il generale Fabio Mini, ex comandante del contingente Nato in Kossovo, ha rilasciato un suo pensiero, intervenendo ad un dibattito sull’Afghanistan, organizzato da Peace Reporter:
"Ufficialmente lo scopo fondamentale, il center of gravity, della missione non è la ricostruzione, o la pacificazione né la democrazia: è la salvaguardia della coesione della Nato in un momento di crisi della stessa. Questo è lo scopo dichiarato, scritto nei documenti ufficiali della missione Isaf. La Nato è in Afghanistan esclusivamente per dimostrare che è coesa: lo scopo è essere insieme. Ecco perché gli Stati Uniti chiedono soldati in più: ma pensate davvero che manchino loro le forze per far da soli? Credete davvero che i nostri soldati o i lituani siano importanti? No! L'importante è che nessuno si sottragga a un impegno Nato. Ecco perché vengono chiesti continuamente uomini agli alleati".
I numeri, a volte, sono molto indicativi. Dopo otto anni d’occupazione in Afghanistan, da parte di forze internazionali guidate dagli Stati Uniti, i talebani sono presenti sul territorio afgano per il 97% (l’80% in presenza stabile e permanente).
La guerra tra l’Unione Sovietica e la resistenza afgana (1979-1989), quella tra le varie fazioni di mujaheddin (1989-1996) e quella tra talebani e Alleanza del Nord (1996-2001) hanno causato la morte di un milione e mezzo di afgani, di cui due terzi (un milione) civili.
Dall’invasione nel 2001 dell’Afghanistan ad oggi la guerra ha causato almeno 43.000 vite umane: 11mila civili afgani (7500 vittime delle truppe d’occupazione e 3500 degli attacchi talebani), 6mila soldati e agenti di polizia, 25mila guerriglieri, 1400 soldati Usa e Nato e 21 soldati italiani.
L’Afghanistan è anche uno dei paesi più minati al mondo ed è stato calcolato che per bonificare interamente il territorio ci vorrebbero più di quattromila anni. E’ il maggior produttore d’oppio ed è ricco di smeraldi e risorse minerarie. Il valore strategico, però, del paese è legato ai gasdotti ed ai passaggi stradali e ferroviari che collegano gli Stati ex-sovietici dell’Asia centrale con il Pakistan e l’India, usati per il commercio. Recentemente sono stati scoperti anche immensi giacimenti di uranio che, quindi, potrebbero diventare un’altra fonte di nuovi conflitti.
I talebani, rifugiati in Pakistan, nel 2004 si sono riorganizzati grazie al sostegno dei servizi segreti di Islamabad, all’appoggio dei movimenti integralisti pachistani e all’acquisto di armi con gli incassi stratosferici del raccolto d’oppio. Dal confine pachistano sono così riusciti, nel 2005, a riprendersi il controllo di tutto l’Afghanistan meridionale, infiltrandosi nelle maggiori città. La conseguenza di tutto questo è stata quella di provocare il maggior numero di morti dall’inizio del conflitto: 2000 persone, di cui la metà talebani, 330 civili, 430 militari afgani, 99 soldati Usa e 30 soldati del contingente Isaf-Nato.
La guerra continua, sempre più sanguinosa, con la novità, da parte dei talebani, di ricorrere agli attentati suicidi, diventati quasi quotidiani.
Tutto questo forse per gli italiani è stata una dolorosa scoperta, ma non per gli americani, una realtà, per loro, appresa da tempo. L’aumento delle perdite, sommate a quelle irachene, era diventato politicamente insostenibile tanto da costringerli a ritirarsi dalle zone più pericolose (Kandahar, Helamand e Uruzgan), lasciando così agli alleati Nato il compito di combattere i talebani al posto loro. Questo ha cambiato la natura della missione Isaf: da missione di pace a missione di guerra. In Italia, questa metamorfosi è passata quasi in silenzio, in altri paesi coinvolti ha suscitato dibattiti molto accesi, ma, alla fine, tutte le polemiche si sono dissolte. Londra, Ottawa e Amsterdam hanno inviato in Afghanistan 7400 soldati, dando così la possibilità agli Stati Uniti di smobilitare migliaia di soldati.
Queste cifre sono il frutto della strategia adottata dalla Nato in Afghanistan. Nel dicembre 2007 il capo del Pentagono dichiara che “la Nato deve spostare la sua attenzione dall’obiettivo primario della ricostruzione a quello di condurre una classica contro insurrezione”. Si è deciso, quindi, che prima bisognava vincere la guerra e sconfiggere i talebani, e solo dopo, di ricostruire il paese.
La sicurezza, oggi, in Afghanistan non può essere assicurata da nessuno. Controllare il territorio significa avere il consenso della gente garantendo la sopravvivenza degli afgani. Fino a tre anni fa le truppe italiane erano concentrate a Kabul, dove la situazione era ancora abbastanza tranquilla. Dall’estate del 2006, con lo spostamento del contingente stato nelle regioni più “calde” dell’ovest, sono iniziati i primi scontri con i talebani, ufficialmente solo “difensivi”. Dal gennaio 2009 le truppe italiane, cresciute di numero (quasi 3000), dotate di mezzi più aggressivi (carri armati ed elicotteri da combattimento), mutate nella loro composizione (anche parà della folgore), hanno iniziato, ufficialmente, azioni “offensive”. I soldati italiani sono, quindi, impegnati in azioni di combattimento, in vere e proprie battaglie. Anche le truppe rimaste a kabul, ormai accerchiata dai talebani, si sono trovate spesso esposte ad imboscate ed attacchi.
Le elezioni del 20 agosto, che avrebbero dovuto garantire i progressi per una democrazia, si sono rivelate un fallimento.
Il presidente uscente Hamid Karzai ha ottenuto la maggioranza dei voti con il 54,6% delle preferenze, ma con la denuncia di considerevoli irregolarità. Gli osservatori dell’Unione Europea hanno segnato come “sospetti” almeno un milione e mezzo di voti, di cui un milione e centomila, attribuiti al Presidente uscente. Imbarazzo in Europa e convocazione di Karzai a Washington per trovare una soluzione dignitosa. E’ stato, quindi, richiesto il conteggio delle schede dei seggi dove i brogli erano accertati. La Commissione elettorale ha annunciato l’annullamento di 200mila voti pro-Karzai da 447 seggi, ma se si considera che i commissori preposti al controllo, ad oggi, sono stati inviati solo in tre province su trentaquattro, il milione e 300mila voti di vantaggio perdono di molta credibilità. La verità si farà aspettare, ancora una volta, per un lungo tempo.
Il team del presidente Karzai ha lanciato un appello “a tutte le istituzioni nazionali e internazionali affinché rispettino la Costituzione e il voto del popolo afgano ed evitino di fare affermazioni parziali e irresponsabili”.
Ma quanto l’Italia è veramente coinvolta in Afghanistan? Quanto costa questa guerra?
Sono domande che il giornalista di Peace Reporter, Enrico Piovesana rivolge a Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, esperto di faccende militari, durante la conferenza di Firenze, in occasione dei festeggiamenti del 15° anno di Emergency, l’otto di settembre.
“L’Italia presto supererà i 500 milioni di euro l’anno. Soldi che il governo dà sia attraverso il ministero di Difesa, sia attraverso gli Esteri. E sono dedicati anche alla ricostruzione dell’ovest. Dalle fognature, ai ponti, quindi scuole e ospedali, sotto controllo Nato. Comunque, su 500 milioni, solo una decina va alla ricostruzione. Da ottobre, tutti gli italiani andranno nell’ovest, lasciando kabul, per proseguire quella operazione importante, appena avviata, che consiste nel concentrarsi dove sono gli insorti, per scovarli. Sempre affiancando gli afgani nelle azioni offensive, perché altrimenti non possono attaccare. In Afghanistan c’è una guerra”.
“E’ chiaro che l’Italia combatte e uccide. Usa carrarmati, elicotteri e forse userà dei bombardieri. Il tutto con una disparità enorme tra la spesa per la ricostruzione e quella per fare la guerra, sintetizza, alla fine. Piovesana”.
Parla infine un medico afgano, amico di Giordana, giornalista di Lettera22: "L'unica cosa da accettare è che abbiamo perso la guerra. L'Isaf è fallita. E non lo diciamo solo noi afgani. E mi stupisce che qui nessuno parli della società civile. L'Afghanistan è distrutto fisicamente e culturalmente. Trenta anni di generazioni di guerra. È ovvio che per stanchezza la perdiamo la guerra. In Afghanistan non vincerà nessuno, cosi. I russi sono diventati 200mila e poi hanno perso perché si sono stancati. E costava meno alla Russia quella guerra che alla Nato. Stiamo andando verso il fallimento. Dobbiamo costruire l'Afghanistan dal punto di vista della società civile. La gente che è al governo non sa governare. Non c'è classe dirigente, classe politica”.
Un chirurgo d’Emergency, Marco Garatti racconta che:“In una città come Kabul, di quattro milioni e passa d’abitanti, durante eventi violenti come quello del 17 settembre non esiste la minima possibilità di coordinare le risorse di chi fa attività sanitaria e si occupa di feriti civili, perché buona parte dei pazienti è trasferita con mezzi militari nell'unico ospedale militare della città: le zone colpite vengono, infatti, cordonate da militari afgani e d’ISAF e alle ambulanze civili non è nemmeno permesso entrare. Oltre a piangere la morte di alcuni ragazzi italiani, dovremmo piangere la morte e il pessimo trattamento ricevuto da alcune decine di pazienti afgani che sono stati forzatamente trasferiti ed ammassati nella struttura sanitaria dell'esercito, che solo in occasioni come questa si ricorda che può trattare anche civili. Se la motivazione fosse la possibilità di garantire un trattamento migliore, si potrebbe comprendere: purtroppo la motivazione vera e non troppo nascosta è che così i pazienti possono essere "interrogati meglio". Nell'Afghanistan democratico, non è tanto importante quanto sei ferito, ma, quanto sei utile alle indagini”.
Quello che colpisce chi ha la possibilità di essere sul posto e, quindi, di conoscere realmente la verità, le persone, come il giornalista inviato del TG3 Nico Piro, “... è la voglia di continuare a credere, tra mille difficoltà, in un futuro migliore, pur non avendo idea di quale possa essere. Gli afgani mantengono una voglia estrema di libertà e tra i giovani c’è un entusiasmo da pelle d’oca”.
(lettura consigliata “Dietro il burqa”ediz.EC di Batya Swift Yasgur)