Nei territori occupati palestinesi vige un vocabolario estraneo alle democrazie compiute.
Check points, occupazione, colonie, coloni, zone A, B e C, muri di sicurezza, strade dell'apartheid, campi profughi, terre rubate. E si articolano con una sintassi ben precisa.
Una sintassi lugubre, che si addentra da Israele con l'incitazione all'odio etnico, l'utilizzo strumentale e miope della storia, le religioni segnalate sulle carte d'identità, bollini di contrassegno sui passaporti degli arabi israeliani, l'esercito a selezione etnica, fin dentro alle viscere dei territori palestinesi occupati, con repressione armata, negazione dei diritti fondamentali, umiliazione delle tradizioni culturali e religiose, ostacolo al diritto al lavoro, sottrazione delle terre, disprezzo della diversità e del dissenso.
Questo malgrado le voci del nostro governo, dalla senatrice Bianconi al ministero degli esteri, utilizzino proprio il termine "democrazia compiuta" per definire Israele, umiliando un'altra volta la verità per lisciare il pelo viscido delle logiche di potere.
Eppure sotto l'ombra lunga dell'occupazione i palestinesi hanno saputo coniare i neologismi della resistenza, radicati nella dignità, nella promozione della cultura, nella lotta non violenta e nella giustizia internazionale.
Il paradigma di questa lotta pacifica è Bil'in, un piccolo villaggio nella Palestina centrale, a Ovest di Ramallah, dove lo stato d'Israele ha si è appropriato del 60% delle sue terre per costruirvi il muro di separazione (http://bilin-village.org/francais/xmedia/cartes/bilin-saffa.jpg – Fonte ARIJ, www.arij.org ).
Oltre a quella morale, questa lotta ha una base giuridica ben precisa: la risoluzione 242 delle Nazioni Unite e della Corte Internazionale di Giustizia condannano l'occupazione israeliana, e insieme alla risoluzione 338 si condanna anche la sua colonizzazione (legale o illegale secondo israele), oltre alle sentenze dei due organi internazionali che definiscono illegale il muro e dell'annessione delle terre per costruirlo.
Inoltre la presenza armata in territorio straniero è ritenuta illecita dall’Onu, e punibile con un intervento armato internazionale (come è successo in Kuwait 1991), oltre a violare la quarta Convenzione di Ginevra.
Fondamentale ricordare anche che le repressioni armate durante le manifestazioni sono vietate da tutte le Corti e da tutte le procedure internazionali in quanto violano i diritti umani.
La storia di Bil'in è tanto amara quando fiera.
Erano gli anni '80 quando le prime colonie israeliane si insediarono su una parte delle terre di Bil'in.
Dopo dieci anni vengono sottratti al villaggio palestinese 200 acri di terreni agricoli e destinati alla costruzione della colonia chiamata Kiryat Sefer.
Con il passare degli anni Kiryat Sefer si è espensa fino a diventare parte del blocco colonico di Modi’in Illit.
Nel 2001 quando iniziano le costruzioni di Matiyahu Est, estensione della già presente colonia di Matityahul, e mentre nel 2004 continuano le confische di terre ai palestinesi viene dichiarato l'inizio di costruzione del muro, che passerà passerà proprio di fronte villaggio di Bil'in tagliandone le terre in due.
La reazione della popolazione non tarda, nel Gennaio dell'anno seguente viene creato il comitato popolare di resistenza contro il muro e le colonie.
Subito iniziano le manifestazioni non violente, addirittura quotidiane per il primo mese, successivamente bisettimanali, fino ad arrivare all'attuale ricorrenza settimanale, ogni Venerdì, giornata sacra per i credenti musulmani.
La lotta della popolazione di Bil'in si sviluppa anche a livello legale, il comitato deposita infatti diverse denunce alla Corte Suprema israeliana richiedendo l'annullamento della definizione di "terra di Stato" sorta sugli acri confiscati al villaggio fra il 1990 e 1991, ma anche il blocco della costruzione del muro e delle costruzioni a Matityahu Est, sottolineando che il muro sarebbe sorto ben oltre alle abitazioni arabe da cui si vuol dividere Israele.
Inoltre, come ben visibile nella mappa dell'ARIJ, il muro si addentrerebbe ben oltre la Green Line, il confine stabilito nel 1967 che divide Israele dalla Palestina, per l'evidente volontà di annettere col suo percorso le colonie e le risorse naturali, in particolare le falde acquifere.
La Corte Suprema israeliana riconosce l'illegalità, ordinando l'interruzione delle costruzioni, poi richiedendo allo stato di Israele di giustificare il rifiuto di spostare il percorso del muro.
Nel 2006 si dirà contraria a nuovi insediamenti, ma legalizzando allo stesso tempo quelli già esistenti, a dispetto delle sentenze internazionali.
Ancora, nel Settembre 2007 giudica all’unanimità che il tracciato del muro danneggi Bil’in e ne ordina la modifica, nel frattempo però si decreta il mantenimento dei fabbricati di Matityahu-Est, costruiti sulle terre del villaggio.
Intanto i palestinesi costruiscono capanne sulle terre confiscate, in quella che sarà chiamata "Bil'in Ovest", la prima "colonia palestinese" sulle terre rubate. In tutta risposta i coloni incendiano la sua prima costruzione, distruggendola, per poi tentare di installare carovane sui terreni di Bil'in.
Nel villaggio si susseguono le incursioni violente, spesso notturne, riproducendo una costante privazione di libertà.
Si ambisce a dare ai palestinesi la percezione di avere polsi e dignità sotto i piedi del sionismo più crudele.
La resistenza non violenta di Bil’in non viene però scalfitta, e continua a lottare per far valere i propri diritti.
Dopo la creazione del Comitato popolare di resistenza inizia un percorso di lotta ben organizzata e non violenta che diventa simbolo del rifiuto dell'occupazione ed per gli altri villaggi, anche attraverso le conferenze sulla resistenza non violenta promosse dal comitato.
Le iniziative, sostenute dalla dall'attivismo internazionale civile e giuridico, attirano sempre più i media, in un'opposizione settimanale così stoica da essere, senza retorica, commovente.
Le manifestazioni coinvolgono bambini, anziani, donne di tutte le età, attivisti e giornalisti da tutto il mondo, e si dirigono verso il percorso che dovrebbe seguire il muro, ora costituito da una recinzione, ma non per questo meno tetro.
Haitham al Khateb, ragazzo di 34 anni nato e cresciuto qui, coinvolto dall'inizio nell'organizzazione delle proteste, mi guida all'arrivo a Bil'in in Agosto.
Da anni, grazie alla sua telecamera e alle fotografie del Comitato, documenta le gratuite violenze subite dalla popolazione durante le manifestazioni e nella vita quotidiana, dove le incursioni tolgono ogni tranquillità.
La sua telecamera è stata irreparabilmente danneggiata questo Venerdì,14 Gennaio, e i comitati internazionali hannno già attivato raccolta di fondi per permettergli di averne un'altra alla manifestazione della prossima settimana.
Quel Venerdì d'Agosto si ricordava lo scandalo delle fotografie della ragazza israeliana che condivideva su facebook i suoi "giorni più belli nell'esercito israeliano", con le istantanee delle umiliazioni inflitte ai prigionieri palestinesi in manette.
Due ragazzi palestinesi, uno dei Paesi Baschi e una ragazza norvegese guidavano il corteo con le mani legate e gli occhi bendati, e vicino a loro i fotografi della Reuters e di altre agenzie, già muniti di maschere antigas.
Questo perchè l'iter è purtroppo noto: all'arrivo alla linea dell'esercito d'occupazione, distante un centinaio di metri dallla recinzione incriminata, il corteo pacifico rivendica civilmente i suoi diritti sul territorio, il soldato più alto in grado afferma che si tratta di zona militare israeliano e deve essere sgombrata, e dai manifestanti partono i cori di libertà.
Quindi, senza preavviso nè ragione, inizia una sconsiderata pioggia di lacrimogeni.
Purtroppo a questi a volte si aggiunge la violenza fisica, fino ai proiettili "rivestiti di gomma", ma potenzialmente fatali.
Anche quel Venerdì succede lo stesso, Haitham subisce piccole abrasioni dall'aggressione dei soldati, qualcuno resta intossicato, ma al disperdersi dei gas nella conca che porta alla linea militare il corteo ritorna.
Dopo pochi minuti, il secondo attacco è più forte, i lacrimogeni non si riescono a contare.
I soldati strattonano la ragazza norvegese, che fingendosi una dei prigionieri palestinesi non aveva fatto altro che restare seduta e bendata ai piedi dei soldati.
Un manifestante tenta di portarla via tirandola per un braccio, i soldati la strattonano dall'altra parte, come fosse un oggetto.
Dopo aver vinto la resistenza, torcendole lo stesso braccio dietro la schiena, la trascinano di peso al di là della recinzione dove sorgerà il muro, senza che più torni al villaggio.
Intanto esili bambini di non più di 8 anni lanciano sassi, poco più che solletico per soldati armati non meno di come lo sarebbero in guerra e li bersagliano di rimando coi lacrimogeni, ma in quei sassi c'è la rabbia e l'urlo del dirsi ancora vivi, ancora lì, decisi a non cedere e restare nelle case loro e dei loro padri.
Al ritorno, malgrado la preoccupazione per l'attivista arrestata, il clima è di un'altra piccola vittoria.
La presenza dei giornalisti e il successo nel far parlare ancora di Bil'in è sufficiente.
Alla sede del comitato, Haitam mi mostra i tipi di lacrimogeni e i proiettili usati dall'esercito di occupazione, raccolti su quello che è un vero e proprio campo di battaglia.
Racconta con sguardo fiero le angherie che subisce la popolazione di Bili'n, le ritorsioni nei suoi confronti e in quelle del comitato, i momenti felici, come quello glorioso in cui sono riusciti a sradicare un pezzo di muro.
Su un manifesto rosso, sorridente, c'è il volto Bassem Abu Rahme, che nel 2009, durante un Venerdì come questo, è stato ucciso con un colpo in testa.
Stava esortando l'esercito a smettere di sparare, o avrebbero rischiato di uccidere le capre che erano al pascolo nelle vicinanze.
Bil'in ha i suoi martiri, Bassem è uno di loro.
E purtroppo il 31 Dicembre è stato raggiunto da un'altra ragazza: si chiamava Jawaer.
Jawaer Abu Rahme, la sorella di Bassem.
In un altro Venerdì di resistenza all'occupazione, il lancio dei lacrimogeni isralieni è stato tale da intossicare a morte Jawaer, che ha chiuso gli occhi all'ospedale di Ramallah.
Il Venerdì successivo il numero di manifestanti è stato altissimo e hanno urlato tutta la loro rabbia e il loro dolore ancora in modo pacifico, e ancora la risposta israeliana è stata violenta.
Bil'in versa il suo sangue, ma continua a vivere.
E con lei, la speranza di bruciare quel vocabolario d'odio.
Riscrivendone uno nuovo che inizi con le parole "libertà e pace".
17/01/2011