DIETRO
IL BURQA
Un
oggetto coperto in movimento
(la
vita di due donne in Afghanistan e la loro fuga per la liberta’)
di
Mirca Garuti
Le
letture estive sono spesso divertenti, non impegnative, rilassanti,
come i giorni trascorsi nel più completo relax dalla vita
quotidiana.
Il
tempo ritrovato, però ci permette, a volte, di approfondire
temi importanti, addentrandoci dentro la vita di persone diverse da
noi, in un mondo lontano.
Così
è stato per il libro “Dietro il Burqa” di Batya Swift
Yasgur, edizioni Clandestine. Scrittrice ebrea-americana di romanzi e
saggi, Batya è l’autrice di America: A Freedom Country, un
libro pubblicato dal “Lutheran Immigration and Refugee Service”.
Nel giugno del 2001, per la realizzazione di un progetto, ebbe
l’opportunità d’incontrare, per un’intervista, Hala,
sorella minore della protagonista del libro. Questo progetto aveva lo
scopo d’informare l’opinione pubblica americana, sui modi usati
dalle Autorità per l’immigrazione, nei confronti degli
immigrati arrivati in America senza permesso di soggiorno. Il sistema
americano prevedeva, infatti, l’immediata carcerazione in centri di
detenzione dove, i tempi dei controlli e delle verifiche, potevano
anche durare anni. La giornalista e scrittrice, ascoltando dunque la
storia di Hala, sentì subito la necessità di doverla
rendere pubblica: troppi drammi si nascondevano dietro a chi era solo
alla ricerca di asilo! In un secondo momento, dopo l’incontro con
la sorella maggiore Sulima, aveva capito che doveva pubblicare, per
completare il racconto, anche la sua storia che era ancora più
significativa e drammatica. Rimase dunque profondamente colpita da
tutto quello che le due sorelle avevano dovuto sopportare, per poter
conquistare la libertà di vivere. Di fronte alla dura lotta
per la sopravvivenza di molti profughi, i problemi quotidiani che
affliggono la maggior parte delle persone “normali” svaniscono
nel nulla. E’ una considerazione che si verifica, quando si prende
coscienza delle vere difficoltà che esistono. La condizione di
donne che vivono nei paesi occidentali, libere di camminare per
strada senza essere molestate, di lasciare i capelli al vento, di
parlare con chiunque, di pregare o no secondo la propria scelta, di
sposare chi si ama, si contrappone a quell’oppressa di migliaia di
donne afgane e non. Tutto questo non ci può assolutamente
lasciare indifferenti!
L’Afghanistan,
da paese quasi sconosciuto, è stato poi sbattuto in prima
pagina, catturando l’attenzione mondiale, dopo la tragedia del 11
settembre.
Gli
occidentali hanno iniziato ad avere veramente paura. Qualsiasi
mussulmano era un potenziale terrorista. Le parole “talebano” e
“burqa” erano diventate d’uso comune, anche se spesso il loro
significato era del tutto ignorato. Gli immigrati erano i capri
espiatori della rabbia americana. Non si faceva più alcuna
distinzione tra il popolo oppresso afgano ed i seguaci talebani di
Bin Laden. All’inizio di settembre, il Congresso americano aveva
approvato alcune facilitazioni per i rifugiati, ma dopo quel fatidico
giorno 11, le leggi sull’immigrazione sono diventate più
rigide e severe.
“Dietro
il burqa” rappresenta quindi la vita di due sorelle, i cui veri
nomi non sono citati, per la loro sicurezza personale. Questo libro
non vuole solo essere una denuncia per la violazione dei diritti
delle donne ma cerca, attraverso il racconto della cultura afgana e
delle sue tradizioni, di farci capire questa realtà a noi
lontana e spesso incomprensibile. Stimola, inoltre, il desiderio di
conoscere, di fare, di agire e regala forza e speranza per un lontano
ma forse possibile cambiamento. Si parla molto dell’Afghanistan, ma
tante volte non si sa neppure dove sia collocato geograficamente e né
tanto meno si sa la sua storia. Il fulcro principale è
l’Islam. L’autrice, attraverso il suo racconto, riesce ad
evidenziarne i diversi modi in cui è possibile viverlo.
Sulima,
nata nel 1954, ha vissuto, fino a dieci anni, una vita allegra
spensierata, felice. Era la “prediletta” del padre! Fotografo di
professione, aveva una mente brillante, arguta, leggeva e apprendeva
in continuazione. Si sentiva attratto dall’ideologia comunista:
discuteva di Marx e Lenin, dell’uguaglianza economica tra le
persone e dell’oppressione dei ricchi sui poveri. Era attenta alle
esigenze fisiche della sua famiglia, ma non dava molta importanza,
però, alle loro necessità psicologiche. Sulima, fin da
ragazzina, avvertiva però un malessere, circa la sua
condizione di donna. Non capiva la disparità del loro
trattamento nei confronti degli uomini. “ Perché le donne
devono chiedere il permesso agli uomini per uscire? Perché è
la cosa giusta da fare. Perché devono fare tutti i lavori di
casa? Perché questo è il loro compito. Perchè
devono ascoltare gli uomini? Perché così dice il
Corano.” Così la sua infanzia fu un insieme d’orgoglio e
paura.
“L’ingiustizia
era il prezzo dell’amore, e l’amore di mio padre era la cosa più
importante”
L’infanzia
però finì con il mutamento del padre. Il viaggio alla
Mecca, non per pellegrinaggio ma per lavoro, segnò ugualmente
l’inizio di un incubo. La sua filosofia di vita cambiò per
seguire la strada giusta, la via dell’Islam. Non fu più
gioviale, affettuoso ed ordinò alle sue donne di casa di
coprirsi la testa. Naturalmente la risposta di Sulima non fu
l’obbedienza silenziosa, ma fu invece quella della disubbidienza.
“Compresi
la fine arte del nascondimento, mentre seppellivo i miei veri
sentimenti sotto il velo della mia devozione figliale. Imparai ad
odiare l’Islam. Dichiarai guerra alla religione che aveva
avvelenato
l’anima
di mio padre”.
Iniziò così il periodo di ribellione. Riuscì a
far parte del WDO, prima organizzazione democratica per i diritti
delle donne in Aghanistan, che si affermò con l’aiuto del
partito comunista. Era parte attiva del movimento, teneva comizi e
cercava di reclutare un maggior numero di donne disposte a lottare
per la libertà. Aveva però capito che per essere libera
di agire doveva trovare un compagno comprensivo da sposare,
altrimenti sarebbe sempre stata succube della volontà del
padre o del fratello. La ribellione però si paga, sempre. Le
punizioni paterne furono violente: dalla segregazione in casa, dal
divieto di usare il telefono, dalle frustate con la cinghia, fino
all’allontanamento da Kabul. Ma Sulima resiste. Nel 1978 ci fu la
rivoluzione Marxista.
La
presenza sovietica non fu però del tutto positiva.
Ci
furono grandi riforme, come l’imposta sui latifondi, il controllo
delle doti e l’introduzione dell’età minima per il
matrimonio. L’istruzione fu intensificata attraverso un’ampia
campagna di scolarizzazione rivolta a uomini, donne e bambini di
tutte le età. L’errore dei comunisti fu però quello
dell’indifferenza per le necessità del popolo afgano. Le
riforme possono anche essere efficaci, ma se sono semplicemente
imposte, senza tenere in considerazione le condizioni di vita, le
abitudini di quelle persone, difficilmente saranno accettate.
Sulima
ebbe, in quel periodo, l’incarico, tanto sognato, di coordinatrice
dei programmi educativi femminili. Doveva convincere le donne ad
imparare a leggere e a scrivere, creando anche il materiale didattico
appropriato. Come donna afgana sapeva delle enormi difficoltà
che avrebbe incontrato e, prima di tutto, per non umiliare le persone
che dovevano imparare, creò dei testi scolastici specifici per
adulti. Ora, doveva solo entrare in contatto con la sua gente e, per
ottenere fiducia, si presentava umile, con il velo in testa e una
copia del Corano, sotto il braccio. I risultati furono molto buoni,
ma si scontrò presto con i vertici del partito comunista. “
Il comunismo per cui ho combattuto tutta la vita non si può
limitare a qualche riforma e a programmi di insegnamento. Sono cose
importanti, ma sono solo una parte. Il comunismo è soprattutto
uguaglianza fra le persone. Libertà. Diritto di esprimere in
pubblico
il
proprio punto di vista. Non mettere in prigione la gente senza
motivo, solo perché hanno osato esprimere un’opinione
diversa.”
Nel 1979 fu rimossa dal suo incarico e fu costretta ad andare, ogni
giorno, all’ufficio “punizioni”. Ancora una volta era agli
arresti domiciliari, costretta a rinunciare all’insegnamento.
“La
mia abilità nel lavorare per l’uguaglianza era stata
soffocata dalle stesse persone che avevo sempre aiutato e per cui in
passato ero stata imprigionata da mio padre”.
Fu arrestata tre volte, finì sulla lista nera e, se voleva
continuare a vivere, con il marito e la figlia, doveva lasciare
definitivamente il paese. Lasciò l’Afghanistan nel 1979 per,
come prima tappa, la Germania.
Più
tardi iniziarono, in maniera molto pesante, anche le persecuzioni
religiose. In questa situazione è naturale che, il desiderio
di vendetta e di un ritorno all’Islam, trovasse terreno fertile. I
mujihaddin, miliziani della Jihad (guerra santa) diedero così
inizio alla rivolta. Gli Stati Uniti, in tutto questo, ebbero un
ruolo fondamentale, in quanto fornirono le armi ai ribelli. I leader
americani, infatti, incitavano i mujihaddin a prendere le armi contro
il nemico comunista, in difesa della loro religione, perché
questo era il volere di Dio.
Mentre
Sulima lasciava il paese, Hala iniziava, invece la sua vita. Nata nel
1970, trascorse la sua prima infanzia amata e protetta dalla sua
numerosa famiglia. La morte del padre allentò le severe regole
che invece avevano terrorizzato Sulima. Le donne di casa smisero di
indossare il velo, pregare era diventata una scelta e non più
una imposizione. Negli anni settanta, con i comunisti al potere, le
condizioni delle donne migliorarono. Non raggiunsero di certo
l’uguaglianza con gli uomini, per la tradizione culturale, ancora
molto radicata nel paese, che le discriminava, ma avevano ottenuto la
stessa istruzione, prima riservata solo ai maschi. I comunisti
crearono le classi miste ed un programma universale per tutte le zone
dell’Afghanistan. Hala, quindi non si sentiva angosciata, come
Sulima, da questa differenza con i maschi, forse anche perché,
a causa degli scontri esplosi tra il regime governativo ed i ribelli,
il suo compito era solo quello della sopravvivenza.
I
mujihaddin avevano, intanto, invaso il paese e le loro vite.
Inizialmente
sembrava che volessero solo cancellare l’influenza dell’invasore
straniero, ma le loro azioni non avevano niente di ideologico.
Cominciarono a perseguitare chiunque o qualsiasi cosa che avesse
anche il più piccolo coinvolgimento con il comunismo. Anche
l’istruzione superiore veniva considerata un prodotto della
corruzione occidentale! Presto l’anarchia regnò in tutto il
paese, soprattutto nelle zone più isolate. Il terrore si unì
ad una crudele povertà. Chi lavorava prima per il governo, se
non era ucciso, era disoccupato. Chi aveva un titolo di studio non
poteva più praticare la sua professione. Per una donna anche
uscire di casa era diventato molto pericoloso. La gente era affamata.
I mujihaddin diedero inizio,anche,a feroci incursioni notturne, nelle
abitazioni di chi era sospettato. Tutto questo portò molte
donne al suicidio per evitare, appunto,di essere vittime
dell’aggressore. Uscire di casa per recarsi a scuola o al mercato
richiedeva una minuziosa pianificazione nei più piccoli
dettagli. Ogni ora vissuta in classe a studiare, come in passato, era
come una piccola affermazione di speranza per il futuro.
I
russi si ritirarono dall’Afghanistan nel 1989,ma Kabul fu l’ultima
città ad essere conquistata dai mujihaddin, nel 1992. Hala si
considerava una vera musulmana, però questo non l’avvicinava
di certo ai suoi aggressori. La fede per i mujihaddin si fondava sul
terrore, la coercizione, la punizione e l’odio. La religione
invece, per Hala, era una cosa sua personale, era una forza di pace,
di amore, non ostilità o guerra.
I
mujihaddin erano divisi in sette fazioni. All’inizio, per
sconfiggere il nemico occidentale, erano uniti, ma subito dopo la
vittoria, avevano iniziato a combattersi a vicenda. Ognuno di loro
voleva il controllo assoluto della città. La vita doveva
continuare e la sopravvivenza dipendeva solo dalla volontà di
andare avanti. I mujihaddin erano selvaggi e feroci ma, rispettando
le loro regole,forse, c’era ancora una piccola speranza. Ma non fu
così.
Una
nuova fase si stava preparando per l’Afghanistan e per Hala: i
talebani.
Iniziò
nel 1994, quando conquistarono Kandahar. All’inizio sembravano
appartenere ad una delle tante bande in circolazione, ma poi fu
evidente che si trattava di un vero e proprio esercito. Sono stati
definiti “studenti del Corano”. Studenti pushtun. Figli di
contadini che non avevano mai conosciuto la luce, il telefono,
vissuti in condizioni miserevoli. Sono cresciuti nelle scuole
coraniche, le madrassas,
trasformate
poi in centri più complessi e polivalenti. Nelle madrassas,
dove prima si beveva solo thè, cominciarono ad arrivare
scarpe, vestiti e cibo in scatola. Dei trecento o quattrocento
allievi, solo una decina erano alfabetizzati, il resto rimaneva
analfabeta. L’altra novità era data dall’istruzione
militare impartita agli allievi nei campi organizzati dall’esercito
pakistano. Andavano in combattimento con una motivazione religiosa,
con l’onore di condurre una nuova guerra santa. La ragione della
loro invincibile avanzata consisteva anche in una accurata
programmazione degli interventi, non solo militari, ma anche
economici e politici ed una stretta comunicazione tra il Pakistan e
l’Afghanistan.
Non
sono stati portatori di idee istituzionali, ma hanno solo
ripristinato norme comportamentali e pene medievali. Cominciarono con
il chiudere tutte le scuole femminili ed alcune maschili.
Costrinsero gli uomini a farsi crescere la barba. Vietarono l’uso
della radio, della televisione, di suonare ed ascoltare musica e di
assistere a qualsiasi spettacolo cinematografico o teatrale. Le donne
non solo dovettero indossare l’hijab,
il lungo abito con sotto i pantaloni, ma persino il burqa,
un pesante fardello adatto a coprire tutto il corpo dalla testa ai
piedi, lasciando, come apertura, solo un piccolo rettangolo retato
davanti agli occhi. Non poteva essere vero. Si trattava di un regime
simile al terrore senza luce. Non c’era nessun rapporto tra questo
furore ideologico e gli insegnamenti sunniti. All’inizio del 1995
avevano già assunto il controllo di sette delle ventotto
province afgane. Il popolo però non capì subito le loro
intenzioni, furono, infatti, accolti come salvatori, con gioia e
gratitudine, impegnati solo a ristabilire l’ordine e la legge.
Anche la madre di Hala si mostrava fiduciosa: “ Non
possono essere peggio dei mujihaddin, almeno stanno proteggendo le
donne, dicendo loro di stare in casa. Alla fine riporteranno il
nostro paese
all’antico
ordine”.
La polizia religiosa, nuovo organismo di controllo, aveva iniziato ad
ispezionare ogni angolo della città alla ricerca di
trasgressori delle regole imposte. Hala era disperata, si sentiva in
trappola, reclusa forzata, per legge,nella sua stessa casa, era come
tornare indietro. Ogni giorno c’erano nuove restrizioni. Fu
proibito truccarsi, anche sotto il burqa, mettersi lo smalto alle
unghie, di indossare calze bianche e scarpe con i tacchi e, in
seguito, qualsiasi calzatura che producesse rumore. Le finestre delle
abitazioni che davano sulla strada dovevano essere tinte di nero e
nascoste da spesse tende, per impedire ai passanti di cogliere le
forme delle donne all’interno. L’esperienza di Hala
nell’indossare il burqa fu scioccante. “ il senso di soffocamento
e il caldo, sotto quel pesante fardello, erano insopportabili”. Si
guardava allo specchio, era praticamente irriconoscibile e
indistinguibile dalle altre donne. Non era più una persona, ma
un oggetto coperto in movimento. Le cure mediche per le donne
divennero inesistenti. Il tempo si era fermato. Tutto era avvolto
nella disperazione e in una totale immobilità. La noia di ogni
giorno, causata dall’essere confinata in casa senza nessuna
occupazione, servì solo a farle prendere atto dell’angoscia
che aumentava sempre di più dentro di sé. Bisognava
tenere viva la speranza, la mente, solo in questo modo si poteva
forse sopravvivere. L’unica cosa che poteva fare era quella di
tornare al suo passatempo preferito: l’insegnamento ai bambini.
Iniziò con i due figli dei suoi vicini di casa, ma la sua
scuola crebbe in fretta, la richiesta era alta, e dopo solo quattro
mesi, aveva circa sessanta studenti divisi in due sessioni di studio.
Tutti correvano grossi rischi, ma il desiderio di apprendere da una
parte, e la necessità di dare, di sentire ancora la vita
dall’altra, erano più forti della paura. L’irreparabile
non si fece molto attendere: tre membri della polizia religiosa si
presentarono per un controllo, per verificare se, i loro sospetti
potevano, in qualche modo, corrispondere a verità. La prima
visita fu solo di domande. Ma tornarono, nel pomeriggio, in quattro e
armati. Questa volta, Hala non ebbe scampo e fu brutalmente
picchiata. Se ne andarono, ma con la promessa di tornare a prenderla.
Le rimaneva, quindi, un’unica possibilità: la fuga.
Riuscì,
aiutata da amici, a lasciare l’Afghanistan.
L’America
– una speranza di libertà.
E
qui ebbe modo di conoscere il vero volto dell’America. Un paese
dove non c’era molto spazio per le persone disperate costrette alla
fuga dai loro destini. Un paese “ignorante” di fronte alle
situazioni esistenti al di là dei loro confini. In attesa di
essere giudicata e di prendere visione della sua richiesta d’asilo,
doveva essere reclusa in un centro di detenzione. Il suo nuovo
abbigliamento fu una bella tuta arancione e il suo nome fu “427”.
Hala però era l’immagine della clandestina fortunata:
parlava un po’ l’inglese, sapeva quello che doveva chiedere ed
aveva l’aiuto della sorella, già cittadina americana. “
Soltanto gli americani sono sicuri di arrivare in tribunale. Non noi
– le ricorda un’altra reclusa – Noi siamo stranieri. Non siamo
nessuno e non abbiamo gli stessi diritti. Sono gli ufficiali in
aeroporto i nostri giudici. Se non gli piaci, via. Ti ritrovi sul
primo volo di ritorno all’inferno.” La
maggioranza infatti dei clandestini non conosce i termini corretti e
non è in grado di raccontare la propria situazione, capita
spesso quindi che la polizia per l’immigrazione, li possa
rispedisce indietro al loro paese d’origine. La fortuna di Hala fu
anche quella di aver avuto la possibilità di attivare dei
canali giusti per riuscire ad arrivare ad una conclusione abbastanza
rapida, come per esempio la Commissione Legale per i Diritti Umani e
l’attenzione di una televisione locale. Le altre detenute nella sua
stessa condizione, non ebbero un simile trattamento, molte di loro
rimasero per anni in carcere ed altre stanno ancora aspettando di
arrivare ad una sentenza definitiva. Hala ottenne l’asilo nel
gennaio del 1999.
L’Islam
è ciò che vive nel suo cuore e non quello che copre la
sua testa.