L’EDITORIALE
DI RADIO CITTA’ APERTA
domenica 19
novembre 2006
NON CHIAMATECI GIORNALISTI!
Ricordando Raffaele Ciriello, Josè Couso e Brad Will
Abbiamo ascoltato le affermazioni dell’onorevole
Diliberto sulla manifestazione di Roma per la Palestina del 18 novembre e, ci
dispiace dirlo, dobbiamo dissentire. Il segretario del PdCI, che pure
apprezziamo per il coraggio dimostrato nel portare il suo partito al corteo di
Roma e per il fatto che nelle stesse ore un suo compagno fosse a Beirut a
incontrare gli esponenti di Hezbollah e del Partito Comunista Libanese, ha
affermato che, se i mezzi di comunicazione parlano del corteo pro-Palestina
esclusivamente per i fantocci bruciati e gli slogan offensivi senza raccontare
obiettivi e argomentazioni dell’iniziativa, la colpa è dei “quattro
delinquenti” responsabili del gesto che, quindi, vanno considerati nemici del
popolo palestinese.
Ma non sarebbe più coraggioso dire, Onorevole
Diliberto, che ad essere nemici della Palestina sono i principali mezzi di
informazione e i loro padroni e padrini politici? Certamente sarebbe più
scomodo, ma anche più corretto.
Si potrebbe dire che i ragazzotti che hanno acceso il
falò e gridato gli slogan incriminati sono degli ingenui – perché sono caduti
nella trappola pronta a scattare – o degli inopportuni ed egoistici
esibizionisti, preoccupati più di apparire sulle prime pagine e nei titoli di
testa dei TG che della riuscita politica della manifestazione. Ma perché
definirli “delinquenti” o affermare come hanno fatto alcuni media, che la
manifestazione ha avuto un “carattere violento”? Forse si è ferito qualcuno
sabato a Roma, o qualcuno è stato aggredito? No, anzi. Nonostante la triviale
immagine riportata dai “mezzi di informazione” e come testimoniano ore di
filmati e di interviste girati da reporter di decine di testate – ma mai
proposti a lettori, ascoltatori e spettatori – la manifestazione è stata
caratterizzata dalla determinazione ma anche dalla gioia, dall’allegria di
essere in tanti a sostenere un popolo quotidianamente martirizzato: musica,
tanti bambini con le mamme e i papà, ragazzine di tredici-quattordici anni alla
loro prima manifestazione, cartelli scritti pazientemente a mano dai singoli
manifestanti, ecc. Questo avrebbero dovuto raccontare le cronache di quotidiani
e TG. Insieme ai fantocci bruciati e agli slogan triviali, certamente, ma anche
insieme alla negazione del visto da parte del governo italiano per una
esponente storica della resistenza palestinese, la laica e marxista Leyla
Khaled. Ma così, evidentemente, i media avrebbero dovuto ammettere, seppure per
un attimo, che i palestinesi non sono poi quel branco di fondamentalisti
islamici assatanati di sangue. Oppure si potevano raccontare le motivazioni di
chi chiede che la regione Lazio interrompa l’elargizione di ben 500 mila euro
alle strutture sanitarie di uno degli stati più potenti e ricchi del mondo,
Israele, mentre a Roma c’è chi aspetta sei mesi - un anno per potersi fare una
TAC negli ospedali pubblici e mentre le ambulanze palestinesi sono ferme perché
il vile embargo decretato dalla “comunità internazionale” ha lasciato a secco
di benzina i loro serbatoi. Certo, raccontando queste cose, forse la simpatia
dell’opinione pubblica nei confronti per Tel Aviv – a dir la verità già assai
scarsa - calerebbe un po’.
Ma non è questo il compito dei giornalisti: raccontare,
spiegare, scavare oltre l’ovvio e il banale?
E invece TG e giornali non ci raccontano ormai un bel
niente, se non bugie e falsità.
Qualcuno si è forse degnato di spiegare cosa
rappresenta quella bandiera bruciata nelle piazze di tutto il globo da chi si
oppone ai crimini di Tel Aviv? No, perché altrimenti bisognerebbe raccontare
che le due strisce azzurre in campo bianco rappresentano i fiumi Nilo ed
Eufrate da conquistare ed ebraicizzare secondo quell’ideologia sionista che
accomuna praticamente tutte le maggiori forze politiche israeliane, da destra a
sinistra, e tutti i governi di quel paese dal 1948 ad oggi.
Riguardo al fantoccio del militare italiano - al di là
che si condivida o meno il gesto del rogo - non era un DOVERE dei giornalisti
raccontare che la bandiera italiana aveva nel centro un fascio littorio, quello
stesso simbolo criminale e illegale che invece abbiamo visto appeso, come se
niente fosse, sul letto di uno dei militari italiani colpiti nell’attacco
contro la caserma di Nassirya? Ve li ricordate i militari italiani che si
divertivano a sparare sulle ambulanze – crimine per i quali sono sottoposti a
procedimento giudiziario da parte di un tribunale italiano? E perché mai questi
mercenari arroganti, fascistoidi e superpagati dovremmo considerarli i “nostri
ragazzi”, i “nostri eroi”, o addirittura i “nostri martiri”? Quando usiamo il
termine eroe siamo più inclini a ricordare quella giovane ragazza statunitense,
Rachel Corrie, assassinata da un bulldozer israeliano mentre cercava di
impedire la distruzione di una casa palestinese.
Ai leader politici che tra gli applausi di tutti –
tutti! – i gruppi politici versano lacrime di coccodrillo ricordando in
parlamento quello che chiamano “il sacrificio dei martiri di Nassirya”
chiediamo: quanti dei vostri figli si sono sacrificati per la patria negli
ultimi 60 anni?
Che nel nostro paese non esista da tempo un giornalismo
indipendente e plurale, lo sappiamo bene. Al di là dell’anomalia Berlusconi i
mezzi di comunicazione ed informazione che contano sono tutti nelle mani di
pochissimi gruppi editoriali controllati da precisi interessi politici ed
economici, alleati o comunque subalterni ai principali gruppi di potere.
Ma ciò non basta a spiegare quel deserto che è
diventato il sistema italiano dell’informazione. Perché se è vero che esiste
una censura sistematica esercitata dai direttori e dai proprietari, è anche
vero che i giornalisti sono il più delle volte più realisti del re, e che esiste
ormai da tempo una censura preventiva e automatica esercitata dai singoli
“professionisti” senza che i controllori debbano muovere un dito. Quando
chiediamo spiegazioni sull’asservimento di quotidiani e tg nei confronti dei
poteri forti, i nostri colleghi alzano le spalle. “Che possiamo fare?” è la
risposta, ovvia ed auto assolutoria.
E quindi, dopo le lacrime di coccodrillo di Casini per
i martiri di Nassirya, il TG5 delle 13 di domenica 19 novembre ci propone,
invece che la notizia di un giovane insegnante palestinese ammazzato da un
missile israeliano mentre era su uno scuolabus, un lungo e dettagliato servizio
su quanti soldi ha sperperato Tom Cruise per la sua festa di matrimonio nel
castello di Bracciano, oscena celebrazione della prepotenza e dell’indecenza
dei più ricchi. E poi giù col gossip e lo sport, il moderno Colosseo, Panem et
Circenses. La realtà scompare, nella speranza che non raccontandola gli
spettatori se ne stiano buoni, a sopportare pazienti sacrifici e rinunce,
aspettando il prossimo matrimonio di un vip.
Dovremmo forse piegarci a questa logica? No. Non
accettiamo lezioni di professionalità da parte di chi in questi giorni ha
descritto sistematicamente come un “errore tecnico” il massacro di 19 inermi
palestinesi nelle loro case, mentre dormivano; non accettiamo lezioni di etica
da parte di chi, tanto per rimanere a casa nostra, ha comprensivamente
definitivo bulli – in fondo allegri ragazzacci, un po’ troppo vivaci forse -
dei veri e propri criminali autori di stupri e di aggressioni razziste nei
confronti dei più deboli e dei diversi?
“Ma voi non siete giornalisti!” ci ripete da anni una
parte della “categoria” che ci guarda dall’alto in basso, che ci accusa di
parzialità, di essere poco professionali, poco autorevoli. Ma francamente, di
fronte all’osceno spettacolo dei TG e dei quotidiani di questi giorni, questa
presa di distanza ci rinfranca, ci allieta, ci consola. Se essere giornalisti
vuol dire essere giullari al servizio del più forte e nonostante ciò essere
presi a calci in culo, colpiti dalla precarietà e dai tagli nelle redazioni,
preferiamo non farci chiamare giornalisti.
Intanto ci rimbocchiamo le maniche e, tra le tante
tragedie che la realtà ci costringe a raccontare, ricordiamo il sacrificio di
Raffaele Ciriello in Palestina (ammazzato da un colpo di cannone israeliano),
di Josè Couso in Iraq (ucciso da un tank statunitense) e per ultimo di Brad
Will (freddato da un sicario al soldo del governatore di Oaxaca), e di tanti
altri colleghi scomparsi mentre erano in prima linea nella battaglia per la
libertà di informazione. E, naturalmente, presto dimenticati dalla “categoria”.
Un’ultima domanda permettetecela: se all’interno di un’iniziativa
pubblica qualcuno bruciasse le bandiere dell’Iran, della Siria, di Cuba, o che
so, della Corea del Nord, potrebbe aspirare alle prime pagine dei giornali?