Leggi la 1° parte
IL POPOLO PALESTINESE
Viaggio di solidarietà con i palestinesi rifugiati in Libano
2° PARTE
I CAMPI PROFUGHI PALESTINESI IN LIBANO
La popolazione dei campi in Libano è in continua crescita ma, non è la stessa cosa, per quanto riguarda lo spazio. Le case si allungano verso il cielo, mentre i vicoli sembrano più stretti, contorti, bui, avvolti da una fitta ragnatela di fili elettrici mortali. Ma perché torniamo ogni anno nei campi profughi? Il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” ha l'obiettivo di far conoscere l'esistenza dei palestinesi rifugiati, in questo caso, in Libano, denunciandone la condizione e rimarcando l'importanza del Diritto al Ritorno. Come i palestinesi che continuano a resistere, anche noi resistiamo al loro fianco. Il Comitato lavora, infatti, con l'organizzazione umanitaria Beit Atfal Assumoud, non settaria, non governativa e né legata ad un partito politico o gruppo religioso. Fu fondata il 12 agosto 1976, dopo il massacro di Tal al Zaatar, per offrire assistenza ed accoglienza ai bambini rimasti orfani. Oggi fornisce servizi non solo ai palestinesi rifugiati in Libano ma anche a persone in difficoltà di altre nazioni che vivono nei campi o nelle loro vicinanze.
Il primo campo che visitiamo è quello di Bourj al Barajneh. Si trova nei sobborghi meridionali di Beirut, vicino all'aeroporto. E' stato istituito dalla Croce Rossa nel 1948 per i rifugiati provenienti principalmente dalla città di Acri e da villaggi vicini. Inizialmente ospitava 5000 persone. Oggi ne conta 41.000 (23000 palestinesi libanesi- 14000 siriani- 2000 palestinesi siriani – 2000 altre nazionalità) e sempre nel medesimo spazio. I problemi di Bourj al Barajneh, così come per tutti gli altri campi, sono legati all'istruzione, alla salute, alla corrente elettrica, all'acqua e alle abitazioni. La prima domanda che sorge spontanea è relativa al rapporto con i profughi siriani. A differenza di altre nazioni, il Libano ha accolto in assoluto più rifugiati. Il popolo palestinese è con il popolo siriano e il suo governo per la loro unità . “Qualsiasi cosa succede a loro – afferma una donna del campo – diventa un nostro problema. La questione palestinese, quando nel mondo succedono altre cose, viene dimenticata. Noi abbiamo aperto ai rifugiati di guerra le nostre case e condividiamo tutto quello che possiamo.”
L'obiettivo però dei palestinesi rimane il Diritto al Ritorno. Il diritto di ritornare non semplicemente in Palestina, ma nel luogo da dove sono stati cacciati, dove c'è la propria casa. Un diritto sancito dall'ONU nel 1948 con la Risoluzione n.194, rimasto, ad oggi, disatteso, ma sempre presente e trasmesso di generazione in generazione. I palestinesi in Libano non hanno problemi con il suo popolo ma con il governo e le leggi che non gli permettono di avere alcun diritto civile e sociale. La rappresentante del campo afferma che, per quanto riguarda il problema lavoro, il numero delle attività che i palestinesi non possono fare è diminuito (per noi questa è una novità): da 72 lavori a 36.
Occorre, inoltre, considerare anche la terra su cui si trova il campo. Una terra di proprietari privati presa in affitto dall'ONU per 99 anni. Sono già trascorsi 68 anni, ne rimangono 31, e dopo? cosa succederà?
Un altro punto di discordia tra i palestinesi ed il governo libanese sta nel significato della parola “cittadinanza”. Il governo libanese non la vuole concedere perché pensa che alla fine i palestinesi, una volta ottenuti gli stessi diritti dei libanesi, potrebbero dimenticarsi della loro terra rimanendo per sempre sul suolo libanese. I palestinesi essendo musulmani sunniti, se si stabilizzassero in Libano, metterebbero in pericolo il suo fragile sistema politico confessionale, squilibrandone l'assetto. I palestinesi però ribadiscono che quello che vogliono è solo il diritto di poter vivere alle stesse condizioni dei libanesi senza averne la piena cittadinanza perché il loro obiettivo è quello di tornare nella terra delle loro origini.
Ci dividiamo in piccoli gruppi per visitare alcune famiglie che risiedono nel campo. Incontriamo una giovane signora che racconta le sue difficoltà. Ha quattro figli, tutti piccoli, e per poterli accudire, ha dovuto lasciare il proprio lavoro di pulizia nelle moschee. L'appartamento dove abita è in affitto e paga 350 $ al mese. Il marito è alla ricerca di un lavoro, ma è molto difficile trovarlo. Vorrebbe dare un'istruzione ai suoi figli, ma anche la scuola, per i palestinesi, è un problema. Ci spiega che ha tolto la figlia più grande dalla scuola dell'Unrwa per poter andare a quella pubblica, ma non è stata presa perché a numero chiuso. Ora deve pensare come risolvere questa situazione. Sta anche cercando un'altra casa dove andare ad abitare perché l'attuale è stata venduta. In questo campo l'affitto minimo è 200 $ al mese. Questa famiglia riesce a sopravvivere solo grazie all'aiuto di persone della Malesia.
La giovane signora è nata in questo campo ma è originaria di una città palestinese vicina al confine con il Libano abbandonata dalla sua famiglia, in modo forzato, nel 1948. Il suo desiderio è quello di poter ritornare nella sua città natale, anche perché ci dice, con una tristezza sconvolgente, che si sente straniera, un'intrusa trattata male. Purtroppo però non sa dove andare.
Usciamo da questa casa con un sentimento d'impotenza perché ciò che abbiamo visto e sentito non è un'eccezione a cui far fronte, ma è la normalità di una vita vissuta da profughi da 68 anni. Per fortuna oggi è un giorno di festa e i bambini sono felici e sorridono.
Dopo Bourj Al Barajneh, il secondo campo che il Comitato visita, è il campo emblema di tutti i campi profughi per la sua storia e per quello che rappresenta. E' l'impersonificazione del degrado : il campo di Chatila.
Non si può andare in Libano senza passare da Chatila, è un obbligo morale. Un chilometro quadrato per circa 20 mila abitanti. Fu fondato nel 1949 dalla Croce Rossa. Si è sviluppato in altezza non potendo aumentare la superficie. Le case da pochi piani iniziali sono diventate grattacieli, palazzi di cinque, sei, sette piani oscurando il sole ai piani bassi e ai viottoli sottostanti. E' qui a Chatila che è sorto il primo centro dell'Associazione Beit Atfal Assumoud, dopo il massacro del campo di Tell al Zaatar (12/08/1976) sottoposto ad un assedio durato 52 giorni da parte dell'esercito siriano a fianco delle milizie falangiste conservatrici. La resistenza palestinese nel 1976, quando il campo di Tell al-Zaatar è assediato e quello di Dbayè occupato, assume un ruolo fondamentale ed è la prima volta che un campo sfugge al controllo dell'OLP.
Il 2 marzo '76 si ha la rottura dei rapporti di cooperazione tra la Siria e la sinistra libanese. Il presidente Hafez El Assad cerca di imporre a Kamal Jumblatt l'annullamento del patto di alleanza che unisce le forze progressiste libanesi a quelle della resistenza palestinese. La Siria interviene come componente della “Forza araba di Dissuasione” che ha il compito di mediare tra le parti in conflitto per riequilibrare i rapporti tra la componente progressista musulmana e quella cristiana-maronita conservatrice. I 52 giorni d'assedio causano la morte di 3000 persone, mentre i sopravvissuti sono 15.000 che vengono evacuati e trasferiti a Beirut ovest. Queste morti lasciano dietro di sé molti orfani che saranno accolti e aiutati da Kassem Aina, dando vita così all'associazione Assumoud. Oggi, in quasi tutti i campi del Libano, questa ONG opera per migliorare le condizioni di vita delle famiglie, sia a livello individuale che come membri della loro comunità. I programmi attuati da Beit Atfal Assumoud sono rivolti ai bisogni individuali e nazionali, concentrandosi principalmente sulla preparazione dei bambini e dei giovani, ad affrontare le responsabilità della vita, rendendoli fieri di essere palestinesi e di proseguire nella lotta per la liberazione della Palestina. Programmi rivolti alle tematiche socio-sanitarie (come il “Progetto Family happiness” rivolto ai rifugiati sul tema dell'igiene personale, la gestione dello stress e le cure dentali); educative (asili, scuole materne, elementari, lezioni sui comportamenti a rischio, come il fumo, droghe e l'uso sbagliato dei social media); alla storia e geografia della Palestina e ai vari aspetti culturali nell'arte, letteratura, musica, folklore.
Chatila è il campo a cui siamo maggiormente legati. Per le sue donne, per i suoi bambini dolci, tristi, con poche speranza, per la sua storia e resistenza. Ritornare a Chatila è un piacere e un dovere. Ci aspettano sempre, ci aprono le porte delle loro case e noi, non potendo offrire giustizia e diritti, diamo la nostra solidarietà e il nostro amore per la loro continua sofferenza. Oggi, senza più il lavoro di Stefano Chiarini e Maurizio Musolino, dobbiamo innanzitutto portare avanti il loro impegno, onorando così la loro memoria e la causa palestinese. Il ricordo di Stefano e Maurizio è sempre presente, ci accompagna in ogni visita, in ogni campo, ovunque. Loro sono là con i nostri amici palestinesi e libanesi.
A Chatila incontriamo Em Alì, la mamma di Alì. È una nostra vecchia conoscenza, sempre presente ad ogni occasione, in prima fila con le fotografie dei suoi familiari, a chiedere giustizia. E' una signora libanese che vive a Chatila. E' stata sposata due volte, entrambi i mariti erano combattenti palestinesi. Il primo fu ucciso nel massacro di Tell al Zaatar nel 1976. Dopo il massacro si trasferì a Chatila in questa casa e qui ha vissuto il massacro di Sabra e Chatila. E' una testimone diretta di quei tre giorni maledetti. Ci accoglie con l'unica figlia rimasta e racconta quello che ha vissuto.
Le sue parole irrompono nella stanza con una tale violenza che ci travolge l'anima. Mi chiedo com'è possibile sopravvivere a tale orrore. Ha perso in quei giorni 21 dei suoi familiari. Non sono stati semplicemente uccisi, sono stati trucidati, macellati dai falangisti libanesi sotto la direzione dell'esercito israeliano al comando di Ariel Sharon. Tra i cadaveri bruciati ha riconosciuto, grazie al ritrovamento della carta d'identità che aveva in tasca, quello decapitato del secondo marito e da una collanina d'oro che portava al collo, quello di una delle figlie. Incinta di due mesi, era stata completamente bruciata, forse con dell'acido.
Sono trascorsi 34 anni da quei terribili giorni, ma sembra appena accaduto. La rabbia sul volto di Em Alì è evidente. Urla, trema, piange, chiede solo giustizia. Quell'orrore non può essere dimenticato, né da chi l'ha subito, ma sopratutto da chi ne è stato l'artefice o complice. Alla fine, Em Alì si alza, ci mostra le foto dei suoi familiari, piccoli e grandi e guardandoci ci chiede: “Perché sono morti? Perché non è stata ancora fatta giustizia?”
Silenzio. Non abbiamo nessuna risposta. Un ultimo abbraccio e la lasciamo lì, sola, con il suo immenso dolore. Questa è il momento più difficile. Ci sentiamo responsabili, colpevoli di non riuscire a fare di più. Questa è Chatila. Queste sono le donne di Chatila.
La nostra visita in Libano coincide con l'inizio del “Eid al Adha” (Festa del Sacrificio), una delle più grandi feste per i fedeli musulmani in cui si celebra la prova superata da Abramo. Nel Corano, il figlio da sacrificare è Ismaele, mentre nel libro biblico della Genesi è Isacco. Il rito principale di questo giorno è quello di sacrificare una pecora, un montone, un agnello, un cammello (per i più ricchi), un pollo (per chi non se lo può permettere) e di donare la carne ai poveri e bisognosi. Il rito è obbligatorio per i pellegrini della Mecca, mentre è un atto meritorio per gli altri musulmani. Negli ultimi anni questo rito ha suscitato molte polemiche nei paesi occidentali, principalmente tra le associazioni per la difesa dei diritti degli animali, definendolo disumano. Non è stato infatti piacevole vedere sgozzati tanti animali nelle strade e nei campi. Ho visto e sentito il pianto disperato di un montone che veniva trascinato nel luogo dove sarebbe stato ucciso, sapeva dove stava andando e cercava disperatamente una via di fuga. Bisogna però anche sapere che questa festa ha un alto valore caritatevole in quanto molte famiglie che non possono permettersi di acquistare carne, oggi, la possono ricevere gratis dai più fortunati. D'altra parte noi occidentali quando consumiamo carne non ci chiediamo mai come questi animali sono stati allevati e uccisi per finire poi sulle nostre tavole. Tutti i campi in questo giorno sono in festa. Le ragazze indossano gli abiti migliori o nuovi sfoggiando collane, braccialetti colorati, nastri, mentre le bambine sembrano piccole principesse ed i bambini piccoli combattenti con pistole e fucili giocattoli.
Il secondo giorno ci spostiamo a nord verso Tripoli per raggiungere il campo di Naher El Bared. Questo campo ha una storia sofferta, di distruzione ma anche di rinascita. E' il secondo campo per grandezza. Prima della sua distruzione del 2007 vi abitavano 34.000 persone. E' stato costruito dall'Onu nel 1950. Dopo il benvenuto alla nostra delegazione, il discorso del responsabile del campo Abdallah tocca il tema del Diritto al Ritorno.Per affermare l'importanza di questo diritto e affinché venga riconosciuto, sono utilizzati tre sistemi: la lotta armata, politica e culturale. Il Diritto al Ritorno non è negoziabile. Occorre accrescere il sentimento di dignità e d'identità dei palestinesi che vivono nei campi. Abdallah sostiene anche, a differenza di quanto detto il giorno precedente nell'incontro nel campo di Bourj al Barajneh, che il numero dei mestieri e professioni che i palestinesi non possono fare in Libano non sono diminuiti (36) rispetto a quelli iniziali (72).
Nel campo di Nared el Bared viene messa in pratica l'adozione degli orfani; c'è un asilo nido, una clinica odontoiatrica, di salute psicologica, psichiatrica, urologia, maternità, pediatrica che cura più di 4000 bambini all'anno; un istituto professionale, corsi di recupero per studenti con difficoltà d'apprendimento ed un club sportivo dove si praticano varie discipline come il calcio, pallavolo e basket. Tutto questo per un dovere morale verso questi giovani che vivono una situazione di grande difficoltà, per proteggerli dai mali sociali attuali: droga e un islamismo dilagante come Daesh.
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Dopo questo primo resoconto, Abdallah ci accompagna allo spazio giochi per i bambini. Il Parco di Naher el Bared è stato donato da Marian, una signora palestinese sposata con un palestinese benestante. Alla morte del marito ha voluto donare questo spazio per tutti i bambini del campo a nome del marito e del figlio. Il parco è sempre aperto con una chiusura solo di due ore (12/14) per il grande caldo e perché i bambini sono a scuola. Tutta la gestione è a carico della signora Marian. Si tratta di uno spazio protetto, unico in tutto il campo, dove i bambini e i ragazzi possono giocare in tranquillità e in piena libertà.
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Il campo di Naher el Bared rappresenta la speranza, la forza di chi, dopo essere caduto, annientato, è riuscito, con determinazione, a sollevare la testa e a rimettersi in piedi. Ho potuto constatare di persona la sua evoluzione: il campo prima del 2007 con tutte le sue problematiche, la distruzione del 2007 e la sua lenta ricostruzione.
Sono trascorsi 9 anni da quella tragedia ed i lavori di ricostruzione non sono ancora terminati.
Il 20 maggio 2007 è iniziata la guerra tra un gruppo del movimento fondamentalista Fatah el-Islam, infiltrato nel campo, e le forze armate libanese. I civili hanno cercato una via di fuga verso il campo vicino di Beddawi, la periferia di Beirut e Sidone al sud. La battaglia ha però reso molto difficile l'evacuazione, gli ultimi sfollati, infatti, sono riusciti a lasciare il campo solo alla fine di agosto. L'esercito libanese ha bombardato il campo, che si estende per poco più di un chilometro quadrato, dall'inizio di giugno al 2 settembre, data ufficiale della cessazione delle ostilità, lasciando sul campo numerose vittime sia civili che militari (più di 220 morti).
Dalla fine di settembre al 10 ottobre il campo è stato sigillato e messo sotto il controllo dell'esercito. Nessuno poteva entrare per valutare i danni riportati. A novembre, 5000 famiglie sono ritornate nel campo, ma le condizioni di distruzione erano tali da non permettere ad altri di poter tornare a viverci. La maggior parte degli abitanti si è così trovato profugo due volte.
Molti operatori umanitari e palestinesi accusano l'esercito libanese di essere responsabile di una buona parte dei saccheggi e delle distruzioni. Molte case sono state date alle fiamme, distrutte, svaligiate e sui muri sono state scritte frasi minacciose contro i palestinesi. Prima della guerra era un campo ricco, attivo, con un grande souq.
Un insegnante di 77 anni che abbiamo incontrato l'anno scorso ci disse che “Venivano da fuori, dal Libano, per vendere e comperare qui. Venivano anche dalla Siria. Mentre ora....la gente soffre..i servizi sono diminuiti... anche quelli scolastici...in una classe ci sono 50 bambini, come possiamo controllarli? “.
Oggi, dopo mille difficoltà, la situazione è in parte migliorata anche se la ricostruzione non è del tutto terminata. Il campo nonostante tutto ha ripreso vita, case nuove, anche se più piccole, colorate e strade più larghe. Il processo di ricostruzione ha dovuto rispondere ad una moltitudine di esigenze: l’Unrwa suggeriva uno spazio più luminoso e arieggiato per migliorarne la vivibilità, mentre l’esercito libanese imponeva nuove misure di sicurezza. Le strade sono così diventate più grandi per permettere il passaggio di veicoli, (speriamo non carri armati!) il numero di balconi è diminuito e si è fissato a quattro il numero massimo di piani per gli edifici. Questi criteri hanno reso necessario una riduzione dello spazio privato di circa il 15 per cento. Attraversare il campo, girare per le strade, guardare la gente, i bambini che giocano, si ha la sensazione che il periodo brutto sia dietro alle spalle e che si vada con fierezza verso il futuro.
Incontriamo il responsabile della ricostruzione del campo e membro dell'ufficio politico del Fronte Popolare per la liberazione della Palestina, Marwan Abdul Al. Marwan è anche un poeta, scrittore, pittore e spera di poter terminare il suo mandato con la ricostruzione completa del campo. Anche Marwan parla dell'importanza dei nostri viaggi per non dimenticare i massacri compiuti da Israele dal 1948 ad oggi e, naturalmente, del Diritto al Ritorno.
Marwan ci illustra il quadro della realtà delle cose, molto triste, ma vero.
“La memoria di Sabra e Chatila è un esempio di tutti i massacri – inizia così Marwan - è un modello della memoria ferita. Ricordiamo nella nostra memoria le promesse fatte dal rappresentante degli Stati Uniti, promesse anche ricevute dal Governo israeliano, di non toccare i palestinesi che erano rimasti nei campi. Memoria ferita quando viene negato il massacro...il luogo ha la sua importanza...Chatila è il luogo dove si è svolto il massacro, un luogo che ha assunto le sembianze di un cadavere deformato, un luogo buio, con un odore strano, con le strade piene di fango, con i suoi venditori ambulanti, tutto questo sembra costruito di proposito per demolire la sacralità di quel luogo...e poi ci sono gli accordi di Oslo.. Come è possibile trovare una soluzione con questo soggetto politico? Forse l'ultimo modello è quello che ha parlato ieri Netanyahu? Ha detto che smantellare le colonie è una pulizia etnica contro gli ebrei... e la soluzione di due stati come è possibile se il popolo palestinese non può chiedere niente? Non può mettere neppure la più piccola condizione. Noi sosteniamo che la creazione di uno stato palestinese è condizionato dalla fine dell'occupazione, ma in realtà non lo possiamo dire.. Finchè non ci sarà giustizia, i massacri continueranno”. Quello che sta mettendo in pratica ora il mondo è un nuovo tipo di massacro: il massacro contro l'identità del popolo palestinese, di un intero popolo che non può tornare a vivere sulla sua terra. Di solito si fa una classifica per sapere quale popolo stia meglio rispetto ad altri, mentre per i palestinesi è il contrario, si cercano quelli che stanno peggio.
“La nostra domanda – continua Marwan – è? E' peggio quello che è successo a Tell al Zaatar o Yarmouk? Nahr el Bared o Sabra e Chatila? Questa è la realtà palestinese. Jean Genet, nel suo racconto “Quattro ore a Shatila”, afferma “Ho dovuto andare a Shatila per cogliere l'oscenità dell'amore e l'oscenità della morte. In ambedue i casi, i corpi non hanno più niente da nascondere: posizioni, contorcimenti, gesti, segni, anche i silenzi appartengono all'uno e all'altro mondo”.
Nahr el Bared è stata una prova, un'esperienza di come si può distruggere un campo.
Maurizio Musolino diceva: “non è facile ricostruire un campo in Libano. I campi vengono distrutti non per essere ricostruiti”. E la ricostruzione di Nahr el Bared è dunque una sfida.
“Siamo sotto ricatto politico – prosegue Marwan – i grandi donatori sono i paesi occidentali, ma gli stati che non hanno compiuto il loro dovere sono i Paesi del Golfo. Per la conclusione dei lavori occorrono ancora 137 milioni di dollari, ma l'Unrwa ne ha solo 30. La responsabilità della ricostruzione è internazionale guidata dall'Urnwa. Ad ottobre ci sarà un congresso a Beirut e ci saranno gli ambasciatori dei paesi arabi che non hanno pagato. Speriamo che paghino! La comunità internazionale è preoccupata solo dei profughi siriani e sta pensando alla ricostruzione dei campi in Siria. Noi non siamo contrari, ma chi non ha avuto la credibilità di costruire Nahr el Bared come può avere la credibilità a costruirne altri?”
La Cooperazione italiana ha contribuito al progetto “Riabilitazione e ricostruzione del campo profughi palestinese di Nahr el Bared e delle zone colpite dal conflitto nel nord del Libano” con una donazione di 5 milioni di euro destinata alla ristrutturazione di oltre mille unità residenziali e commerciali, situate nelle zone adiacenti del campo. Un altro aiuto è arrivato dalla banca araba con sede in Kuwait per 10 milioni di dollari, anche se ancora non si sa come verranno spesi. Ci sono ancora 2.371 case da riparare.
Marwan continua la sua lunga esposizione della situazione, dicendo che “c'è un terreno chiamato '39' dove ci sono 27 unità abitative distrutte. La terra è stata registrata, abbiamo fatto le basi delle infrastrutture con l'aiuto del governo greco. Quando governava in Grecia un governo di destra l'aiuto promesso era pari ad un milione, ora con quello di sinistra è sceso a 600, ma ci siamo riusciti lo stesso. Il grande problema del campo nuovo è dato dall'acqua potabile che è contaminata dalle acque delle fogne. Noi continuiamo, nonostante tutte le difficoltà, a proteggere i nostri sogni affinché diventino realtà. La radice del problema è farci tornare a casa, tutto il resto è solo falsità e bugie. Noi non chiediamo elemosina, costruiamo la speranza con tutte le tragedie che viviamo. Continueremo la nostra lotta con tutti mezzi, non staremo in silenzio, perché il nostro popolo ha diritto alla vita, come tutti i popoli”.
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Lasciato il nord, ci spostiamo verso sud al confine con Israele.
Ci fermiamo a Fatima Gate, un vecchio passaggio tra il Libano ed Israele. In Libano si trova vicino al villaggio di Kfar Kila, mentre in Israele è a ovest di Metula. Il passaggio è stato chiuso nel 2000 quando Israele è stato cacciato dal Libano. Molte volte siamo stati obbligati a restare sul pullman, mentre oggi ci siamo potuti avvicinare e toccare il muro di separazione colorato con disegni e scritte. E' molto triste ed umiliante vedere la propria terra così vicina e nello stesso tempo così lontana, irraggiungibile e occupata dalle costruzioni delle colonie illegali israeliane.
Il viaggio continua verso Maroun al-Ras, un paesino immerso nel Monte Amel, nel distretto di Biet Jbeil a 120Km a sud est di Beirut e a 1 km dal confine israeliano. Luogo importante della guerra d'invasione di Israele del 2006. La violenza del nemico l'aveva completamente raso al suolo. Tutto era distrutto, ma grazie alle forze di Hezbollah, che erano riuscite a sconfiggere l'esercito israeliano, in pochi anni era stato interamente ricostruito.
A Maroun al-Ras c'è un piccolo pezzo di Palestina: l'Iran Garden. Un giardino, donato dall'Iran in memoria ai martiri caduti nella guerra contro Israele, dove tutti possono usufruire dei suoi servizi. Nel parco c'è una grande torre d'osservazione dove si può volgere uno sguardo, per non dimenticare, “all'entità sionista” e alla terra di Palestina. Ci sono, inoltre, 33 gazebo, uno per ogni giorno della guerra, dove si può guardare la vallata, parlare, raccontare e mangiare, in totale tranquillità e in compagnia di amici e familiari. Qualcuno, anni fa, ha detto una frase che mi ha colpito: “L'idea era quella di mostrare al nemico che non solo siamo padroni della guerra, ma ci sono anche maestri di bellezza. E' un posto dove si sente l'orgoglio, che si può stare in piedi e raggiungere e afferrare la Palestina con la mano. Ma il giardino potrebbe anche improvvisamente diventare un campo di battaglia”.
Siamo ora al campo di Rashidieh sul mare a sud del Libano a 5 Km da Tiro.
E' un campo diviso in due sezioni: vecchia e nuova. La parte più antica è stata costruita nel 1936 per accogliere gli armeni fuggiti in Libano, quella nuova nel 1963 dall'Unrwa per i rifugiati scappati dal campo di Baalbeck. E' un campo diverso dagli altri, dove si respira, c'è il sole e il mare. I ragazzi qui studiano le tradizioni della Palestina attraverso la musica, il canto e la danza. Purtroppo qui arriviamo sempre tardi ed abbiamo solo il tempo di assistere allo spettacolo che ogni anno preparano per noi come ringraziamento per la nostra presenza. Anno dopo anno abbiamo il piacere di vedere crescere questi ragazzi, sempre sorridenti e pieni di fiducia. Quando si riesce ad offrire alle nuove generazioni strumenti validi come istruzione, cultura, interessi, è possibile creare speranze e motivi validi per continuare a lottare per i propri diritti, mentre se sono lasciate a loro stesse in balia degli eventi, della crudeltà della vita, della situazione in cui si trovano, si crea solo malessere, sfiducia, rabbia e violenza.
C'è un piccolo campo dove spesso andiamo per incontrare diverse realtà del Libano, si chiama Mar Elias.
E' il campo dove incontriamo le donne di Chatila. Il campo più piccolo del Libano a sud ovest di Beirut (circa 600 rifugiati registrati) che è stato fondato nel 1952 dal convento greco-ortodosso di Mar Elias per accogliere i profughi palestinesi dalla Galilea, nel nord della Palestina.
La scelta di incontrarle in un altro campo è dettata solo dalle migliori condizioni climatiche. Il caldo all'ultimo piano di Shatila è veramente insopportabile. Forse proprio per la sua dimensione è un campo più vivibile e tranquillo e non si avverte il degrado e inumanità di Chatila.
L'ultimo giorno, con un piccolo gruppo del Comitato, riesco a tornare dopo anni, a quello che resta del Gaza Hospital. E' da tempo che entrare in quel luogo è molto difficile, ma ci siamo riuscite solo grazie ad una volontaria del centro Assomoud.
Il Gaza Hospital con 250 posti letto era il secondo ospedale più importante e attrezzato del Libano dopo l'American University Hospital di Beirut. Gestito dalla Mezzaluna Rossa Palestinese era il fiore all'occhiello della politica sociale dell'O.L.P. (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Il Gaza aveva un edificio principale e tre grandi reparti, tra cui uno per la maternità ed uno per le emergenze. La Mezzaluna e l'Olp, mettendo in pratica un'efficiente assistenza sanitaria, riuscivano ad offrire cure gratuite non solo ai palestinesi ma anche alle fasce più povere della popolazione locale. Molti medici, libanesi, cubani, cinesi, palestinesi ed altri, venivano in quest'ospedale per portare la loro solidarietà alla Palestina.
L'ospedale, inaugurato nel 1968, curò anche i fedayyn che attaccavano Israele dal Libano, dove si era riorganizzato l'OLP. Nel 1985 con l'inizio della Guerra dei Campi, il Gaza Hospital fu occupato dalle milizie sciite di Amal che distrussero molte attrezzature mediche e ne fecero un punto d'osservazione grazie alla sua collocazione urbanistica che dominava il campo di Chatila.
Due persone, sempre presenti nei viaggi del Comitato, che nel 1982 lavoravano all'ospedale, rappresentano ancora una testimonianza diretta di ciò che è realmente avvenuto. Si tratta di Ellen Siegel, un’infermiera ebrea americana che, all’epoca dell’invasione israeliana del Libano lavorava come volontaria al Gaza Hospital; e Swee Chai, un chirurgo ortopedico di nazionalità malese e religione cristiana.
I sotterranei dell'ospedale, che in quei giorni erano stati adattati a rifugio dalla Mezzaluna mentre ai piani superiori continuavano i lavori di sempre, nel corso degli anni sono stati abbandonati al buio e al degrado. Le grandi perdite d'acqua dalle tubature dell'edificio e il vecchio sistema fognario, fino a pochi anni fa, riempivano gli spazi fino a raggiungere le scale. Ora qualcosa è stato fatto, ma rimane un luogo di assembramento umano, una sorta di campo profughi in verticale. Una struttura che nel tempo è stata danneggiata, depredata ed occupata da molte famiglie palestinesi che tra l'invasione del Libano e la Guerra dei Campi (1985-1988) erano rimaste senza casa. Oggi è diventato un rifugio per i più poveri di ogni nazionalità che vivono sul suolo libanese. Un labirinto di scale scalcinate di nove piani, corridoi, stanze di degenze diventate appartamenti. Centinaia, migliaia di occupanti che sono diventati una comunità.
Attraversiamo “rue Sabra”, vicinissimo a Shatila, in mezzo al mercato fatto di tantissime bancarelle dove si può trovare di tutto, dalla frutta, verdura, carne, dolci, utensili vari, negozi di tutti i generi come barbieri, caffè, tessuti. Una vera e propria gimcana tra i richiami della gente e l'odore caratteristico di questi luoghi, un misto tra profumi di spezie e fetori vari.
Gli sguardi non sono sempre di amicizia, tutt'altro...non siamo ben visti..che ci fanno qui degli stranieri? Non è possibile venire al Gaza senza permesso e senza accompagnatori che garantiscono per noi. Questo è ora il Gaza Hospital!
La volontaria di Assomoud ci accompagna in tutti reparti, ma niente fa supporre che questi edifici un tempo erano stati un ospedale. Non è rimasto niente, solo qualche targa sui muri. E' un luogo emblematico, testimone di uno degli eventi più drammatici della storia del Medioriente: il massacro di Sabra e Chatila del 1982 per mano delle milizie cristiane libanesi sotto la regia israeliana. La storia del Gaza Hospital è raccontata con amore e passione nel film – documentario “Gaza Hospital” di Marco Pasquini (2009) attraverso la storia di alcuni suoi abitanti e testimoni della triste vicenda. L'ospedale, sia durante l'invasione ed il massacro, ha continuato il suo lavoro, non si è arreso, ha lottato e resistito fino a quando è stato costretto ad evacuare l'intero l'edificio.
Visitiamo i vari edifici che un tempo erano reparti di maternità, pediatria, chirurgia, mentre ora solo un rifugio per i meno abbienti ma con una grande dignità. Entriamo anche in un piccolo appartamento dove conosciamo una famiglia con due bambini che orgogliosi ci dicono vanno a scuola di ballo e ballano la Dabka, la danza tradizionale palestinese. Mentre l'esterno si trova nel più totale degrado, l'interno è tenuto benissimo, case in ordine, pulite con mille accessori. E' il contrasto della vita stessa. Le persone hanno bisogno di avere almeno uno spazio vitale, di sentirsi bene, vive, per combattere la morte, la violenza, i disagi di una vita senza nessun diritto che hanno intorno e, per questo, la loro isola felice rimane solo la propria casa. La vita è come un pendolo che oscilla fra il dolore e la serenità, sempre. Non c'è bisogno di altre parole, le fotografie sono lo specchio di questa situazione.
Foto gaza hospital
07/01/2017