ALKEMIA
IN LIBANO
I RIFUGIATI PALESTINESI IN LIBANO
di Mirca Garuti
La delegazione italiana
del Comitato ”Per non dimenticare Sabra e Chatila”, dal quattro
all’otto giugno, è ritornata in Libano, per ricordare che il
1948, non è solo l’anno della nascita d’Israele, ma anche
quello della Nakba ( catastrofe), anno della cacciata dei palestinesi
dalle loro terre e case.
Sollecitata, quindi,
dalla necessità di dare voce ai rifugiati palestinesi in
Libano, la delegazione ha voluto intraprendere questo viaggio per
portare solidarietà e direttamente testimoniare, le loro
drammatiche condizioni di vita. Dato che la priorità della
missione era rivolta al “rifugiato”, si è favorito
il contatto diretto con il popolo palestinese, costretto a
sopravvivere in questa realtà, piuttosto che le varie autorità
istituzionali.
La condizione di
“profugo”, purtroppo, non genera uguali diritti e riconoscimenti.
Anche in questa sofferta condizione, esistono infatti, profonde
differenze. Raccogliere aiuti, promuovere progetti, quando si tratta
di palestinesi, diventa molto più difficile, spesso, manca
semplicemente l’attenzione e l’interesse a questo problema. La
questione Palestinese è una causa delicata, impegnativa, con
difficili equilibri politici. Astenersi e non volere ammettere la
verità, diventa più semplice.
Mercoledì, 4
giugno
Il primo incontro, subito
dopo il nostro arrivo a Beirut, è stato con il responsabile
dei rifugiati palestinesi in Libano dell’OLP, Abbas Zaki e con
Talal Salman, direttore del quotidiano “As-Safir”.
Abbas Zaki apre
l’incontro, ricordando i buoni rapporti che l’OLP ha sempre avuto
con il Partito Comunista italiano.
“Per il popolo
palestinese - continua Zaki - questo è un momento delicato e
difficile, avevamo scommesso sulle trattative ed il riconoscimento
della legalità internazionale, ma, non è successo
niente. Abbiamo accettato, con dispiacere, la legalità delle
Nazioni Unite, con la sola speranza, di poter alleviare, un po’, le
sofferenze dei palestinesi. L’unica strategia esistente è,
però, solo quella tra Israele e Stati Uniti d’America. Bush
aveva promesso la soluzione del problema entro il 2008, ma non sarà
così. Olmert, nel momento in cui, anche minimamente, ha
accennato alla parola “pace”, è stato subito accusato di
corruzione e forse sta per lasciare il suo incarico. Dobbiamo
chiedere scusa a tutti perché, quest’anno, non ci saranno
orizzonti né di pace, né di stabilità nella
zona. Chi ha dato tutto per la pace, ha la stessa capacità
di continuare a dare per qualsiasi altra scelta possibile e, si
sbagliano, quindi, se credono probabile che i palestinesi possano
alzare le braccia in segno di rassegnazione”. Zaki prosegue il suo
intervento, ricordando le varie tappe di lotta del popolo
palestinese, specialmente quella riguardante l’Intifada del 1987,
che ha avuto la capacità di rompere la paura e di far
conoscere al mondo la parola “Intifada”. La sua diretta
conseguenza è stata, in un primo tempo, il vertice di Madrid
e, dopo, gli accordi di Oslo.
“Nell’ultimo anno –
dice ancora Zaki – abbiamo dovuto affrontare, a Gaza, il golpe dei
nostri fratelli di Hamas, ma siamo riusciti a non scivolare in una
guerra civile, programmata, invece, dai nostri nemici. Il nostro
popolo non vuole un sistema confessionale, non vuole una nazione con
un’unica religione, dobbiamo invece convincere l’opinione
pubblica mondiale che la nostra è la causa più sacra di
tutte le cause in assoluto. Siamo decisi, ora, a riprendere il
cammino verso l’unità nazionale, dopo tutte le sofferenze
dovute alle nostre divisioni interne, perché l’unità
è vita, la divisione è morte e, noi abbiamo scelto la
vita.
Tra le varie fazioni, in
Libano, sussistono attriti, noi, però sosteniamo la nostra
unità, senza prendere nessuna posizione a favore di qualsiasi
partito politico libanese. Abbiamo ripreso, il 15 maggio 2006, la
rappresentanza dell’OLP in Libano, dopo un’interruzione di
ventiquattro anni.
Abbiamo fatto pace con
chi ci ha ammazzato, non possiamo quindi far pace tra noi
palestinesi?
Dopo gli ultimi
avvenimenti in Libano, siamo riusciti a creare un comando d’emergenza
tra tutti i palestinesi, per non essere coinvolti in queste divisioni
interne. In tutta la storia del Libano, i soggetti più deboli
sono sempre stati i palestinesi, e per la prima volta, durante gli
ultimi incidenti libanesi, nessuno è stato ferito o ucciso.
Dall’esterno, il Libano si presenta come un paradiso, mentre,
dentro il paradiso, in realtà, esiste l’inferno: campi
profughi separati completamente l’uno dall’altro, isolati, senza
nessuna fognatura e corrente elettrica, collegate a quella del luogo.
Dopo quanto è successo a Naher-El-Bared, siamo riusciti a
rimettere sul tavolo delle trattative i diritti del popolo
palestinese. Il nuovo presidente ha, infatti, parlato, per la prima
volta nella storia del Libano, nel giorno del suo giuramento, della
questione palestinese: diritti umani, diritto al ritorno e diritto di
essere considerati come ospiti nel paese.
Ci sono in Libano, per
esempio, 5000 palestinesi che non hanno documenti, sono sconosciuti,
clandestini, non possono quindi uscire dal campo, lavorare, avere una
casa, sposarsi, essere registrati, ma siamo riusciti a trovare
insieme una soluzione e, dal quattro giugno, queste persone sono
state riconosciute, come tali.
Tutto quello che è
fatto, avviene nel rispetto, prima di tutto, della sovranità
libanese, in quanto noi siamo ospiti di questo paese.”
Tale dichiarazione è
stata rilasciata nel gennaio di questo anno per allontanare la paura
del passato, e per evidenziare ulteriormente l’impegno dell’OLP a
rispettare la sovranità del Libano.
“Stiamo cercando -
termina quindi Zaki - di trovare un’unità tra noi.
Necessaria, come punto di partenza, per ricevere una maggior
solidarietà dall’esterno. Divisi non contiamo niente.
Insieme, invece, possiamo dare un segnale diverso, una dimostrazione
di quello che vogliamo. Dobbiamo avere un programma preciso,
lasciando stare tutte le varie contraddizioni, per poter raggiungere
l’obiettivo comune a tutti noi, senza mai dimenticare il vero
nemico: l’occupazione.
La questione palestinese
non è una questione locale ma internazionale”.
Infine accenna
all’incontro avvenuto il giorno precedente, con l’ambasciatore
Khalil Makkawi, presidente del Comitato di dialogo israelo-libanese e
con il giornalista italiano Sergio Romano.
Il Corriere della Sera il
19 giugno ne pubblica l’articolo ”Tra i vicoli senza luce di
Chatila – Vite sospese di rifugiati palestinesi”
Recita così
l’ultima frase dell’editoriale “Se si è trovato lo
spazio per gli insediamenti dei 400.000 coloni israeliani nei
territori occupati, perché non potrebbe esservi spazio, un
giorno, anche per i 250.000 palestinesi del Libano? Separare la loro
sorte da quella dei compatrioti più stabilmente alloggiati in
altri paesi, potrebbe essere un segnale di buon senso, oltre che
d’umanità”.
Il commento?
….Indignazione:
1° - Si è
trovato lo spazio per i coloni, sequestrando, occupando la terra del
popolo palestinese, costretto, alla fine, a rifugiarsi in altri
paesi.
2°- questa soluzione
non certifica, di certo, il diritto al ritorno, ma solo un modo
semplice per risolvere il problema della mancanza totale dei diritti
umani per i rifugiati in Libano.
3° - “il buon senso
e l’umanità” è proprio da mettere tra virgolette,
perché non c’è proprio niente d’umano in tutto
questo. Il ritorno dei profughi nella loro stessa terra ancora come
profughi, equivale all’accettazione di un’occupazione ritenuta
legittima.
4°- Israele, non si
tocca. Non viene neanche preso in causa.
Continua il nostro primo
incontro, Talal Salman, giornalista e direttore del quotidiano
“As-Safir”
Salman, ringraziandoci
per il nostro continuo impegno a ricordare la tragedia di Sabra e
Chatila, si scusa per la situazione palestinese, ma anche araba in
generale, perché non migliora, anzi peggiora sempre più.
“C’è un
arretramento nelle questioni patriottiche nazionali che ci
riguardano. - continua Salman - C’è stata una prima
tragedia a Naher-El-Bared e, forse, in un prossimo futuro, potrebbero
succedere altre tragedie in zone diverse, come nelle stesse città
libanesi, perché le contraddizioni politiche stanno entrando
nell’attuale sistema confessionale. Prima c’era solo la nakba
palestinese, ora c’è quella irakena, libanese, e chissà,
quante altre …... nella nostra società, palestinese e
libanese, esistono per fortuna, forze che, credendo ancora nei loro
diritti e nella loro giusta causa, stanno cercando di affrontare
questo clima di sconfitta. La vostra continua presenza, c’incoraggia,
speriamo di poter celebrare, a settembre, l’anniversario di
Chatila, perché la situazione in Libano ancora non è
molto chiara” Ancora una volta, sottolinea l’importanza del non
coinvolgimento palestinese, nei contrasti dei vari partiti politici
libanesi.
Giovedì,
05/06/08
Campo di Chatila
Ritornare a Chatila,
ripercorrere gli stretti vicoli, riabbracciare le persone conosciute
e non, guardare i bambini, sorridere alle donne, agli anziani, è
diventato, ormai, il punto di partenza di un viaggio “per non
dimenticare”. La ferita del massacro continua a sanguinare, oggi
più che mai, nel triste anniversario dei sessanta anni della
nakba. Essere qui a Chatila è un dovere, ma, con il passare
degli anni, è diventato anche il luogo dove ritrovare cari
amici.
Visitiamo subito l’asilo
del campo, gestito dall’associazione Assumoud, frequentato da 85
bambini dai tre ai sei anni, divisi per sezioni.
Prima dell’incontro con
gli anziani, accompagnati da una persona dell’associazione, ci
addentriamo tra i vicoli di Chatila, e nulla è cambiato, anzi,
purtroppo la situazione è peggiorata anche per la crisi
economica esistente in Libano. Chatila è diventata ormai una
città, dentro un’altra città, cresciuta in altezza,
per non aumentare lo spazio occupato, in quanto l’estensione è
proibita. Il numero degli abitanti dalle prime tremila unità,
oggi è salito a quasi ventimila persone. Tutto è
proibito ai palestinesi in Libano: un palestinese non può
avviare nessun’attività commerciale, deve sempre figurare un
libanese con una percentuale di maggioranza; non può
esercitare la professione di medico o ingegnere fuori del campo. Deve
rimanere all’interno. Un operaio che lavora da un imprenditore
libanese non ha nessuna garanzia, né assistenza sanitaria e
sociale ed il salario percepito è molto più basso degli
altri lavoratori libanesi. Nonostante tutto, secondo il parere di un
profugo intervistato nella sua abitazione, il popolo libanese è
molto vicino a quello palestinese e, quello che ha fatto e sofferto,
vale molto di più, rispetto a tutti gli altri stati arabi. Per
capire il Libano è importante non dimenticare che, proprio a
causa della questione palestinese, questo paese ha subito numerose
guerre che gli hanno fatto perdere l’ormai lontana dicitura
“Svizzera del Medio Oriente”, trasformandolo ed utilizzandolo
come capo espiatorio per tutti gli stati arabi.
Chatila si presenta in
una grande strada immersa in un totale caos di persone ed auto. Su
entrambi i lati, si trovano “negozi” di tutti i generi.
Tra un negozio e l’altro,
si affacciano i vicoli stretti e tortuosi. L’aria poco sana,
l’umidità, la mancanza di luce e la cattiva alimentazione,
sono i fattori che determinano molte malattie “normali” tra la
popolazione del campo. Come diabete, cancro e mortalità
infantile.
Quali sono le attività
possibili per poter sopravvivere in questo campo?
La vita economica del
campo dipende molto dal lavoro “nero”, ossia dalla mano d’opera
a “cottimo” illegale, che si trova, per lo più,
all’esterno del campo. Esiste però ora un’attività
nuova: la vendita dell’acqua, perchè quella del campo non è
molto buona. Tutto questo fa parte dell’economia quotidiana del
campo.
L’attività
politica, invece, si sviluppa su tre punti importanti: l’OLP, l’
UNRWA (ora, non più solo agenzia per i rifugiati palestinesi
ma è diventata internazionale, aiutando così anche lo
stato d’Israele) e lo stato Libanese. Tutte e tre queste entità
fanno pressione sui cittadini dei campi in Libano, non offrendo
nessun diritto sociale e civile, per spingerli fuori del Libano.
Le immagini, a volte,
sono più eloquenti delle parole, per capire veramente la
difficile situazione in cui sono costretti a vivere.
Le scritte sui muri, i
disegni, sono tutti messaggi della loro sofferenza e speranza.
Gli anziani del campo ci
aspettano. Quelli che rappresentano “la vecchia guardia della
Palestina” non superano l’11% degli abitanti ma, attraverso i
loro racconti ed insegnamenti sono ancora in grado di trasmettere
l’amore verso questa terra e di tenere viva la speranza di un
possibile ritorno. Partecipano totalmente alla vita del campo e sono
un punto di riferimento. Ogni volta che, muore un anziano, muore con
lui un pezzo della storia della Palestina.
S’intrecciano ora varie
storie, raccontate da loro stessi.
E’ un nonno con 61
nipoti, che con orgoglio, afferma che, se si domanda ad un giovane di
vent’anni da dove proviene, subito risponde “ io sono
Palestinese”, perché il riconoscersi è fondamentale
ed il merito va attribuito solo al lavoro lento e paziente degli
anziani.
Improvvisamente, con
nostra sorpresa, si accende una discussione tra di loro, alzano la
voce. Uno di loro, arrabbiato, si alza e se né va. Veniamo
subito tranquillizzati, ci spiegano che non è successo niente
di strano, si tratta solo di uno scambio d'opinione. L’anziano, che
ha lasciato la stanza, ha solo voluto esprimere la sua insofferenza
verso noi occidentali, volontari della solidarietà, perché
in fondo, noi arriviamo, parliamo, diamo il nostro appoggio, ma poi
ritorniamo nel nostro paese, mentre loro rimangono sempre lì.
A combattere il loro destino, da sessant’anni. L’altro anziano,
invece, cercava di far capire che la nostra delegazione, composta di
uomini e donne, non era in grado purtroppo, di cambiare il destino
del mondo, che desiderava solo aiutare il popolo palestinese e che
veniva in questo campo, da otto anni, per celebrare e per non
dimenticare il massacro di Chatila. Per ricordare i 60 anni della
nakba.
L’ultimo anziano
esprime il suo appoggio per il nostro impegno e si mette a
disposizione come “figlio della Palestina” per qualsiasi domanda.
Questo episodio esprime
tuttavia, in modo molto chiaro, che la loro sopportazione è
giunta al limite, infatti, negli anni scorsi, non è mai
successo nulla di tutto questo. Ma come dargli torto?????
Ci siamo sentiti
impotenti ed abbiamo chiesto scusa.
“Un tema importante,
quasi dimenticato, è il diritto al ritorno, cercheremo,
quindi, di metterlo in evidenza, una volta tornati in Italia” così
inizia la sua risposta Maurizio Musolino, responsabile estero del
partito dei Comunisti Italiani. Spiega, poi, agli anziani il motivo
del nostro viaggio a giugno: ricordare il dramma del popolo
palestinese, in un momento in cui si celebra solo la nascita dello
Stato d’Israele. Ricorda ancora i nostri numerosi viaggi in Libano
ed ammette l’esistenza di un’ingiustizia internazionale per non
aver condannato i responsabili del massacro di Sabra e Chatila.
“Comprendiamo la rabbia
e la disperazione di chi vive qui nei campi – continua Maurizio -
decenni su decenni che non hanno prodotto nulla, l’occupazione che
è sempre più dura, dalle persone che vengono qua a
girare nei campi si pretendono cose concrete e non parole, noi in
Italia, cerchiamo di portare la verità di questa situazione.
E’ sempre insufficiente, ma ci proviamo sempre.”
Sottolinea l’importanza
della “Memoria” e si congratula con gli anziani per tutto quello
che è fatto nelle scuole. Importante è anche l’impegno
per non far dimenticare agli Italiani che cos’è il dramma
dei palestinesi; che cos’è l’occupazione israeliana; cosa
significa vivere per cinquant’anni a Chatila e negli altri campi
palestinesi in Libano; perché c’è qualcuno che
vorrebbe far sparire tutto questo. Il nostro lavoro, è proprio
quello di non permettere che questa accada.
Gli anziani ci
raccontano: sono nati in Palestina, erano giovani, quando sono venuti
qua, ma cosa è successo in questi 60 anni? Ci chiedono una
cosa sola: riportare in Italia esattamente quello che abbiamo visto e
le loro parole, non come tanti giornalisti che vengono nei campi,
ascoltano, chiedono, fanno domande, ma poi cambiano le versioni dei
fatti.
Raccontano ai loro nipoti
quello che era la Palestina, com’era la convivenza politica, le
religioni, cosa produceva, e tutto questo continuerà sempre,
generazione dopo generazione. Rimarcano la mancanza di una gestione
totale del campo, la vita dignitosa di un uomo, qualsiasi uomo non
può vivere in questo modo.
“L’Agenzia dell’Onu
per i rifugiati palestinesi (UNRWA) riceve molti soldi, ma la maggior
parte di questi è destinata ai loro impiegati e non invece ai
palestinesi. Quando vanno agli ambulatori dell’UNRWA, i medicinali
non ci sono quasi mai, questa è nakba, ogni giorno vivono una
nuova nakba. Ricevono, sempre dall’UNRWA, 100 dollari ogni tre
mesi, ma non per tutti i palestinesi, solo quelli con 80 anni! “
L’esasperazione è proprio molto alta!
Qualsiasi azione militare
palestinese contro i soldati israeliani viene, da sempre, etichettata
come un’azione terroristica, difendendo la democraticità
d’Israele, e l’Italia è uno dei primi paesi a rilasciare
tali dichiarazioni. (chiariamo che è il governo italiano, non
il popolo!) Per quanto riguarda l’assedio della striscia di Gaza,
per esempio, dove gli israeliani entrano, quando vogliono,
demoliscono case, sradicano alberi, tutto è fatto in difesa
d’Israele e nessuno si permette di dire che, per questo, si
massacrano i palestinesi.
Un anziano racconta che
proviene da una zona costiera della Palestina, dove un tempo non
c’era nessuno, ma può ancora vedere la sua proprietà
da una casa che si trova in una cittadina del sud del Libano. La sua
casa è vuota, abbandonata, ma vicino, sono stati costruiti tre
insediamenti di coloni e un bazar. Gli israeliani, fino alla seconda
guerra mondiale, erano solo il 6% della popolazione palestinese, ma
in seguito hanno raggiunto il 30%. Sono arrivati armati dagli inglesi
con cannoni, fucili e, mentre l’esercito della salvezza araba
assicurava i palestinesi che sarebbero rientrati nelle loro terre in
poche settimane, sono ancora nei campi che aspettano.
La piena responsabilità
della nakba palestinese, secondo il parere degli anziani, fino al
1948 è da attribuire alla Gran Bretagna: nel 1917 hanno dato
l’avvio alla costruzione di una patria agli ebrei in Palestina e,
fino al 1948, quando hanno lasciato tutti i loro armamenti in mano
alle varie bande israeliane. Dal 1948 in poi è entrata in
gioco la responsabilità americana, grande alleata d’Israele,
con la complicità della maggior parte dei paesi arabi. La
storia dei palestinesi è quindi sempre legata alla volontà
americana, e in più, i profughi in Libano, che non possono
nemmeno uscire dal paese verso altri stati arabi. Nel 1948, non tutte
le famiglie hanno potuto o voluto andare via insieme, molti sono
rimasti in Palestina, dividendosi, ed oggi, per la volontà di
altri, non possono neppure comunicare tra loro. Sembra così
che il popolo palestinese debba essere alla fine. Un popolo vivo e
morto allo stesso tempo. Vivere tra la vita e la morte, ma… fino a
quando?
Ci salutano affermando
che quello che vogliono non sono soldi, ma vogliono solamente
ritornare sotto il loro cielo, nella loro terra. Gli Israeliani hanno
preso la loro terra ma non la loro volontà, la loro
determinazione.
Campo di Burj
El-Barajneh
Nel pomeriggio, dopo
Chatila, ci siamo recati al campo di Burj El Barajneh, dove abbiamo
incontrato famiglie e leader palestinesi. Anche qui, dopo una breve
presentazione, si è innescata un’accesa discussione tra gli
anziani, sulla questione palestinese e sull’importanza della nostra
presenza. Il problema più importante non è solo la
liberazione della Palestina, ma, è anche quello legato
all’esistenza dei profughi in Libano. Gli anziani ci chiedono,
ancora una volta, di portare nel nostro paese, la loro realtà
e di tornare con dei veri progetti e non più solo parole e
fotografie.
Gli aiuti di cui hanno
più bisogno sono indirizzati all’istruzione ed alla sanità.
Dopo un breve giro,
attraverso le solite strette vie del campo, ci siamo fermati a
conoscere un’altra triste realtà. Abbiamo conosciuto Jussaf,
un uomo di 54 anni, senza entrambe le gambe, come il fratello, a
causa di un razzo caduto sulla loro casa, nel 1975, durante la guerra
dei campi. La sua abitazione è al secondo piano e, per salire,
si aiuta con le braccia. E’ sposato ed ha quattro figli. I più
grandi sono tutti diplomati. Ci colpisce la sua serenità, il
suo sorriso, la sua fermezza, la sua forza nel trovarsi dalla parte
giusta, dalla parte di chi è colpito ingiustamente, il cui
l’unico scopo della vita, è quello di avere giustizia e di
ritornare a casa. E’ l’unico che lavora, ha un negozio di frutta
e verdura. La sua origine è nel nord della Palestina (Acra) e
per questo si trova in Libano. Era il più vicino da
raggiungere per salvarsi. Dal momento che si può muovere solo
su una carrozzella, ha solo una strada, larga e con pochi sassi, a
disposizione per raggiungere il posto di lavoro e per uscire di
casa.. Essere disabili, in un campo profughi, è veramente
penalizzante. Pretendere supporti in aiuto è praticamente
impossibile. Ci racconta, ancora, che il campo dal 1982 al 1985 è
stato sotto assedio, la situazione era disperata, ma sono riusciti a
superarla.
Ribadisce il concetto che
non hanno intenzione di diventare cittadini libanesi, ma che
pretendono solo semplici diritti civili. In questo campo manca
l'acqua corrente e ci sono problemi economici, ambientali e sanitari.
All'ospedale di Haifa arrivano i medicinali offerti dall'Unione
Europea, ma i profughi, quando li richiedono, devono pagare. Le
malattie più frequenti sono epatite, diabete ed insufficienza
renale.
Dopo il suo racconto, ci
siamo alzati e con il cuore stretto come in una morsa, abbiamo
lasciato la sua casa ed il campo.
Continua.............