I DIRITTI DEI RIFUGIATI PALESTINESI
RICORDO DI UN MASSACRO
di Mirca Garuti
Tornata dal viaggio in Libano con il comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila”, mi ritrovo, ora, a voler raccontare questa mia sesta esperienza nei vari campi profughi palestinesi.
L’attività del comitato, fondato dal giornalista del “Manifesto” Stefano Chiarini, è sempre stata chiara, schierata apertamente con i rifugiati palestinesi, a sostenere i loro diritti e, quindi, dalla parte della vera giustizia.
La settimana del nostro viaggio ha coinciso anche con i giorni nei quali sono state riprese le difficili trattative tra il governo d’Israele con Netanyahu ed il presidente dell’Anp (Autorità nazionale palestinese) Abu Mazen, sotto l’influenza del governo americano.
Sono stati giorni molto intensi, abbiamo incontrato vari esponenti di partiti politici palestinesi e libanesi, siamo ritornati sui luoghi segnati dai tanti attacchi israeliani, siamo stati nei vari campi profughi ed abbiamo incontrato le “nostre” donne palestinesi.
Per tutto questo, ho il dovere di raccontare. Posso, in questo modo, dire “grazie” ad Anna, Saura ed a tutte le altre donne che ci hanno accolto a braccia aperte. So benissimo che noi non possiamo cambiare le cose, ma, continuare il nostro impegno ad essere con loro, a sostenere la loro causa sempre ed ovunque, a denunciare le azioni del governo israeliano contro il popolo palestinese, ci permette di sperare e di andare avanti nella nostra lotta.
Sono arrivata a Beirut il 12 settembre scorso. La delegazione è stata accolta, come di consueto, dal nostro referente in Libano Kassem Aina dell’associazione Ong palestinese Beit Atfal Assumoud. Il coordinamento delle Organizzazioni non governative operative nella comunità palestinese in Libano è stato il primo a porgerci il benvenuto ed ad illustrarci la situazione attuale dei Palestinesi nei campi profughi.
Il rappresentante del giornale As-Safir ha volutamente ricordato che la comunità palestinese vive in Libano da 62 anni senza nessun diritto, da quello del lavoro, alla proprietà, allo studio, alla sanità, all’associazionismo, nel più completo abbandono. I rifugiati palestinesi in Libano sono quasi 426.000, di cui 227.000 i registrati nei campi dall’Unrwa (agenzia delle Nazioni Unite per l’assistenza dei rifugiati palestinesi). Sono rifugiati dalle guerre del 1948 e del 1967 in fuga dall’esercito israeliano e dalla cacciata negli anni settanta dal re della Giordania. Il Direttorato Libanese degli affari dei profughi stima, invece, un numero più alto di profughi e questo, perché ha tutto l’interesse di esagerare nei numeri per aumentare la vastità del problema. Non dobbiamo però dimenticarci anche di quei palestinesi registrati solo presso le autorità libanesi, oppure quelli non registrati da nessuna delle due autorità competenti e quelli che sono ancora registrati ma che hanno ottenuto la cittadinanza libanese o che vivono all’estero. Tutti i numeri quindi, non essendo basati su reali censimenti, sono da considerarsi incerti. La situazione nei campi è sempre però più drammatica ed i pretesti, da parte delle forze del governo libanese, per non concedere diritti ai palestinesi, sono tutti falsi. Permettere di poter fare qualsiasi lavoro, oppure, dare il diritto alla proprietà, non si corre il rischio di dovere, per forza, anche riconoscergli la cittadinanza libanese, percepita come una minaccia di rottura del sottile equilibrio delle forze politiche interne. I partiti della destra cristiana ed anche quelli sciiti, infatti, temono che una politica favorevole ai palestinesi, che sono musulmani sunniti, può incoraggiarli a restare sul suolo libanese, alterando così l’attuale composizione demografica e confessionale. Gli stessi rifugiati di vecchia generazione dichiarano, però, di non volere essere “libanizzati” del tutto, per non perdere la condizione del “diritto al ritorno”, in base alla Risoluzione 194 dell’Onu. Chiedono, solo, il diritto di avere una vita dignitosa, nell’attesa del ritorno alla loro terra d’origine. Probabilmente, i giovani nati sul suolo libanese, invece, vorrebbero la cittadinanza per poter avere così più opportunità per una vita migliore.
Da quest’anno, sostiene Laila El-Ali del coordinamento Ong palestinesi, è iniziato un serio dialogo tra i libanesi per quanto riguarda i diritti dei rifugiati. Dialogo portato avanti con fermezza dalle varie organizzazioni civili palestinesi che, dopo aver fatto ricerche sulla situazione reale dei campi, hanno potuto presentare delle interrogazioni al governo libanese spingendolo a fare qualcosa in merito. Il 27 giugno scorso, infatti, cinquemila tra libanesi e palestinesi hanno partecipato alla “marcia per i diritti dei profughi palestinesi” che si è conclusa davanti al Parlamento, dove una delegazione ha consegnato una petizione popolare. I promotori degli emendamenti di legge sono stati i deputati Walid Jumblatt, Elie Aoun che hanno il sostegno dei sunniti di Mustaqbal (il partito del premier Saad Hariri) e degli sciiti dei movimenti Hezbollah e Amal. Si sono invece schierati contro i deputati cristiani della Corrente dei Liberi Patrioti (guidata dall’ex generale Michel Aoun, uno degli alleati di Hezbollah) e quelli della destra estrema cristiana di Forze Libanesi e Falange. I deputati cristiani avevano inoltre chiesto che tali proposte fossero decise attraverso il “consenso nazionale” e non con votazioni in Parlamento. Ciò avrebbe significato perdere ogni possibilità di poter sperare in qualche novità legislativa a favore dei palestinesi.
Il governo Hariri ha approvato poi il 17 agosto scorso un disegno di legge che consente ai profughi palestinesi nati in Libano e registrati al Ministero degli Interni, equiparati quindi a qualsiasi altro straniero, di poter praticare solo alcuni marginali lavori che però, in realtà, sono già, di fatto, di loro appartenenza. Dopo 62 anni il governo libanese ha dunque riconosciuto ai palestinesi un incompleto diritto al lavoro! Secondo il testo di legge possono fare questi specifici lavori, ma con l’obbligo di richiederne il permesso e di doversi registrare agli ordini ed ai sindacati di categoria. Significa solo che il lavoro diventa regolare, non più in “nero”, lasciando spazio, quindi, ad una probabile corruzione da parte di chi dovrà gestire il passaggio. Restano, in ogni modo, sempre esclusi i lavori di alta qualificazione come il medico, l’avvocato, l’ingegnere e quelli legati al settore pubblico. Le leggi libanesi che riguardano il lavoro considerano gli extracomunitari in base al principio di reciprocità, ossia, gli extracomunitari ricevono lo stesso trattamento legale che un libanese riceve nei loro rispettivi paesi. I territori palestinesi non essendo riconosciuti come “paese”, il principio di reciprocità, quindi, non vale per i Palestinesi, con la conseguenza del divieto di lavorare nei settori più professionali. La situazione è quindi difficile e drammatica. Restano sempre in sospeso il diritto alla proprietà privata (una legge libanese approvata nel 2001 stipula che solo gli stranieri provenienti da stati riconosciuti hanno il diritto di possedere proprietà immobiliari) ed all’assistenza sanitaria, oltre che al diritto ad un sistema scolastico pubblico. I diritti dei palestinesi si scontrano con la dura realtà della negazione anche nelle più piccole cose, nei bisogni di tutti i giorni, come per esempio, se si deve acquistare un frigorifero o televisore, bisogna avere l’autorizzazione dei servizi segreti libanesi!
La discriminazione in Libano quindi è molto forte. Esistono 18 confessioni religiose, quindi, qualsiasi decisione che il governo deve prendere, ha l’obbligo di considerarle tutte. Si evidenzia, così, che prima viene l’interesse della propria confessione, poi, solo in seguito, quello del paese.
I cinque milioni di profughi palestinesi nel mondo rappresentano quindi il problema più grande e non risolto di questo secolo. Nel 1917 gli ebrei rappresentavano solo il 10% della popolazione, ma quando fu proclamato lo Stato d’Israele, la comunità Ebrea in Palestina raggiunse la cifra di 650.000. I profughi palestinesi, come afferma Kassem Aina, in tutti i paesi della diaspora, sostengono la loro unità nazionale, riaffermano il loro diritto al ritorno e all’autodeterminazione, come dalla risoluzione 194 dell’Onu del 11 dicembre 1948 rafforzata dal Manifesto dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite, il 10 dicembre 1948.
I palestinesi in Giordania hanno diritti completi, come la cittadinanza ed il passaporto ed in Siria hanno diritti civili pur mantenendo la loro identità palestinese, secondo il protocollo di Casablanca firmato nel settembre 1965. In Libano, come abbiamo visto, vivono in condizioni estremamente difficili causa la mancanza dei diritti civili ed umani fondamentali.