Leggi la 1° parte
I DIRITTI DEI RIFUGIATI PALESTINESI
RICORDO DI UN MASSACRO
di Mirca Garuti
(seconda parte)
La settimana nel Paese dei Cedri della delegazione “Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila” inizia a Sidone, città del sud del Libano, definita, nel settembre 2006, subito dopo la guerra d’aggressione israeliana, dal sindaco Abdul Rahman Bizri, (v.Diario dal Libano) “della fermezza e della resistenza”, a dimostrazione di quanto la sua città non fosse soltanto una capitale amministrativa, ma anche, un simbolo dei diritti legittimi del popolo libanese. Si calcola, infatti, che tra luglio ed agosto 2006, circa un milione di libanesi fu costretto ad abbandonare la propria abitazione e, la città di Sidone, sensibile a queste situazioni, reagì prontamente, dimostrando la sua piena solidarietà. Tutti quelli che ne avevano la possibilità misero a disposizione le proprie case agli sfollati. Un esempio di compartecipazione e d’aiuto, arrivò anche dai profughi palestinesi che aprirono, per la prima volta, il campo di “Ain el Helweh”, ospitando centotrenta famiglie libanesi, pari circa a diecimila persone.
Gli appuntamenti prevedono la visita alla tomba del martire Maarouf Saad, sindacalista libanese, ucciso, agli inizi della guerra civile (1975-1989), per il suo impegno sociale e quello a sostegno della causa palestinese. Nei primi anni settanta, infatti, il movimento dei pescatori libanesi era riuscito ad unire le proprie lotte sindacali a quelle dei progressisti palestinesi, che chiedevano diritti e democrazia.
Prima di partire verso Qana, facciamo una breve sosta per rendere omaggio al Monumento dei Martiri della Resistenza Nazionale Libanese.
A Qana, invece, la delegazione si reca al cimitero dei martiri caduti durante la guerra del luglio 2006. Questa città del sud del Libano fu, all’epoca, la protagonista assoluta di tutti i reportage sul conflitto: una pioggia di bombe ad alta precisione, lanciata da un aereo israeliano, caduta su un edificio di tre piani, lo aveva subito dissolto nel nulla, trasformandolo in un cumulo di macerie, sotto le quali erano rimaste una sessantina di vittime, di cui trentasette bambini (15 erano disabili). Qana, secondo un alto ufficiale israeliano, era considerata un “covo degli Hezbollah” e, a suo dire, nei giorni precedenti al massacro, proprio da quel palazzo, erano stati sparati diversi razzi katyuscia verso città della Galilea. In realtà, nel palazzo vi avevano trovato rifugio solo molte famiglie spaventate dalla guerra. Il premier israeliano Ehud Olmert, alla fine, fu costretto ad esprimere un "profondo rammarico" per la strage che era stata perpetrata a Qana, facendo però ricadere la piena responsabilità di quanto avvenuto sui miliziani sciiti, accusandoli di aver usato i civili come "scudi umani".
Qui abbiamo conosciuto Anna, una superstite di quel massacro! E’ stata meravigliosa, ha raccontato la sua storia, il suo terrore sotto le bombe, sola, mentre la sua famiglia era scappata nel tentativo di mettersi in salvo. Ci ha regalato il suo sorriso per una confidenza molto personale. Era ancora arrabbiata nei confronti di un fratello per averla obbligata a non sposarsi per occuparsi della famiglia! La libertà della donna, purtroppo, in questi piccoli villaggi del sud del mondo, è ancora lontana!
La città martire di Qana non va solo ricordata per questa strage, ma anche per quella del 18 aprile 1996. Il luogo della tragedia e del ricordo si trova dall’altra parte della vallata. E’ stata, spesso, una meta del “Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila” negli anni scorsi. Questo ennesimo massacro si colloca all’interno “dell’Operazione Furore” o “Operazione Grappoli d’ira” scatenata dal primo ministro israeliano Shimon Peres l’undici aprile per fermare la resistenza di Hezbollah. Peres, che nel 1994 aveva ottenuto con Yitzhak Rabin e Yasser Arafat il premio nobel per la pace, era convinto che solo l’uso di un massiccio bombardamento dal cielo, da terra e dal mare, avrebbe potuto dissuadere la popolazione locale dall’appoggiare le milizie di Hezbollah per la liberazione dei territori occupati del Libano.
“il 18 aprile 1996, alle 14:10, i cannoni israeliani aprono il fuoco sulla postazione del reparto fijiano delle forze di peace-keeping a Favjiya-Qana dove hanno cercato riparo i circa 800 abitanti del villaggio che non sono riusciti a fuggire. Si tratta in prevalenza di bambini, donne e vecchi. Gli israeliani lanciano sui tre rifugi circa 12 scariche di proiettili da 155mm, donati loro dagli USA. Tali proiettili sono progettati per esplodere a 7 metri d’altezza per poter uccidere il maggior numero di persone o produrre amputazioni letali. 7 bombe colpiscono, con voluta precisione, i ripari del battaglione fijiano. La carneficina è spaventosa. In ciò che resta dei ripari, distrutti e incendiati, giacciono i cadaveri di 102 civili arabi, in un ammasso di corpi irriconoscibili, alcuni dei quali stanno ancora bruciando. I feriti, molti dei quali in condizioni gravissime, sono 116.
Nel massacro muoiono anche 4 militari del battaglioneONU delle Fiji.”(dalla “Diaspora Palestinese in Libano ed i tempi della guerra civile” di Mariano Mingarelli)
Gli incontri politici iniziano con la visita ai rappresentanti delle diverse fazioni dell’OLP. La delegazione è accolta dal Dr. Abudallah Abudallah, ambasciatore dell’Olp in Libano. Una rappresentanza riconosciuta solo il 15 maggio 2006, dopo ben ventiquattro anni di sospensione, da quando in pratica Arafat e l’Olp furono costretti ad abbandonare il paese che fino allora li aveva ospitati.
Due anni fa, il precedente delegato, Abbas Zaki, rivolgendosi alla stessa delegazione aveva detto: “Nell’ultimo anno abbiamo dovuto affrontare, a Gaza, il golpe dei nostri fratelli di Hamas, ma siamo riusciti a non scivolare in una guerra civile, programmata, invece, dai nostri nemici. Il nostro popolo non vuole un sistema confessionale, non vuole una nazione con un’unica religione, dobbiamo invece convincere l’opinione pubblica mondiale che la nostra è la causa più sacra di tutte le cause in assoluto. Siamo decisi, ora, a riprendere il cammino verso l’unità nazionale, dopo tutte le sofferenze dovute alle nostre divisioni interne, perché l’unità è vita, la divisione è morte e, noi abbiamo scelto la vita”.
Dopo due anni, però, la situazione non è mutata, anzi il persistere delle divisioni interne tra le diverse fazioni, separa sempre di più il dibattito politico dai sentimenti e dai bisogni del popolo palestinese.
Abudallah Abudallah presenta alla delegazione i rappresentanti delle diverse fazioni: il Partito del popolo, il Fronte Democratico per la liberazione della Palestina, Al-Fatah in Libano, Il Fronte Arabo per la liberazione della Palestina, l’Olp in Libano, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina ed il Fronte per la lotta palestinese. Nel suo discorso ripete quasi le parole di Abbas Zaki: “Vorrei che qui ci fossero tutte le rappresentanze della Palestina. Voi venite qua a portare la vostra solidarietà a tutto il popolo palestinese senza fare alcuna differenza tra le varie organizzazioni, speriamo che ciò sia possibile il prossimo anno. La lotta è di tutti e per tutti. Ogni paese arabo ha una visione di una sua Palestina, manca l’appoggio, quindi, dei paesi arabi, ma anche la solidarietà a livello internazionale. Continueremo la nostra lotta giusta per far cadere il sionismo. Le risoluzioni delle Nazioni Unite riconfermano i diritti del popolo palestinese, diritti inalienabili, come il diritto al ritorno. Ci sono punti nelle trattative di pace che non possono essere separati. Non possiamo accettare una soluzione parziale. I punti essenziali sono: i territori del ’67, Gerusalemme, la colonizzazione dei territori occupati, l’Acqua e la liberazione di tutti i prigionieri”.
Gli interventi delle altre fazioni politiche presenti toccano anche il problema delle pessime condizioni di vita dei palestinesi in Libano. E’ ribadita la deduzione che la mancata concessione di aiuti al popolo palestinese rientra nel progetto di voler eliminare tutti i Palestinesi sul suolo libanese. Questo è stato, infatti, uno dei motivi che hanno scatenato il massacro di Sabra e Chatila.
I componenti della delegazione sono quindi sollecitati da Abudallah Abudallahi a proseguire nella loro azione di denuncia, di protesta e di pressione sul governo libanese.
Esistono tanti altri profughi nel mondo, ma i palestinesi sono un caso particolare, sono profughi sulla loro stessa terra.
A rendere evidente la divisione delle forze politiche palestinesi, creatasi con il passare degli anni, sono gli incontri separati realizzati con i loro leader.
La delegazione incontra subito dopo le fazioni dell’Olp, le organizzazioni dell’Alleanza Palestinese (otto organizzazioni in Libano che hanno scelto la resistenza contro il nemico israeliano).
Il 95% dei palestinesi, secondo l’Alleanza, non si sente rappresentato da nessuna forza politica specifica. Le condizioni di vita nei campi non sono cambiate, ancora nessun diritto. L’ultima legge sul lavoro non riconosce ancora le professioni più qualificate ed, inoltre, per poter svolgere qualsiasi altro lavoro occorre l’approvazione di una commissione.
Le valutazioni sulle nuove trattative di pace, in corso tra Abu Mazen e Netanyhau, sono al centro di ogni incontro con tutte le varie forze politiche presenti nei campi. Nessuno ci crede. Abu Mazen non rappresenta il popolo palestinese perchè non ha chiesto niente a nessuno, non ha nessun mandato. Sono trattative che partono con la sola richiesta ad Israele di sospendere la costruzione di nuove colonie. E’ veramente troppo poco.
Il rappresentante di Hamas concentra maggiormente il suo discorso sul problema dell’unità palestinese e del mondo arabo: “Noi come Palestinesi abbiamo sempre guardato all’unità del mondo arabo, ma, siamo consapevoli che è molto difficile. I moderati vogliono spingere i palestinesi, a causa delle loro difficili condizioni, a firmare accordi con Israele. C piacerebbe l’unità del mondo arabo, ma non abbiamo il potere di metterla in atto, diciamo però ai nostri fratelli di Al Fatah che, quando si accorgeranno che i trattati di pace non hanno mai portato a nulla, saremo lieti di accettarli di nuovo con noi. Al-Fatah non ha nessun diritto di trattare con gli americani e israeliani, se prima non parla con noi per poter definire su cosa andare a discutere”.
Il loro rapporto con Hezbollah è di collaborazione, in quanto concordano sul piano della lotta per il prosieguo della resistenza e sono, quindi, contrari ad una trattativa di concertazione. Il primo vero problema da risolvere è la riconciliazione di tutti i palestinesi.
Lo stesso Talal Salman, direttore del quotidiano Assafir, punta il dito su Abu Mazen, affermando che esso risulta essere il primo presidente che, accettando tutte le richieste del governo d’Israele, condurrà il popolo palestinese verso il totale disastro. Descrive molto bene la situazione negativa in cui si trova tutto il mondo arabo, Libano compreso, sotto la minaccia di una nuova probabile guerra.
Si scusa, infatti, con la delegazione perché non ha buone notizie da offrire. La lotta è in arretramento, mentre l’estremismo aumenta. E’ triste, continua Talal Salman, prendere atto che, il ricordo dell’inizio del massacro di Sabra e Chatila, non è rispettato dallo stesso Presidente palestinese Mahmud Abbas che preferisce, invece, abbracciare Netanyhau, in occasione degli incontri delle nuove trattative di pace. La delegazione italiana rappresenta per Salman una speranza e paragona il suo arrivo nel Paese dei Cedri come “la terra che aspetta la pioggia”.
La prima domanda è sul diritto al lavoro dei palestinesi in Libano. Talal Salman risponde parlando della paura, diventata quasi tangibile, generata dalla presenza sul suolo libanese di 450.000 palestinesi. E’ rimarcata sempre più la questione dell’appartenenza alla religione musulmana, mentre è quasi rimossa la questione principale che si configura unicamente nell’attivismo del colonialismo israeliano. Tutto questo porta solo alla divisione della società libanese e ad una speculazione prima confessionale e poi politica. È’ stata rimossa la responsabilità israeliana nell’espulsione di migliaia di palestinesi. Non è più una questione di profughi, ma tutto diventa una questione interna libanese. È’ da ribadire il concetto che i palestinesi non sono turisti venuti a visitare il Libano, ma, sono stati costretti, dall’esercito israeliano, a cercare in questo paese un rifugio. Si delinea quindi una responsabilità internazionale, mentre il problema è stato invece riversato solo sul governo libanese.
L’assassinio del primo ministro Rafik Hariri, 14 febbraio 2005, è l’argomento con il quale Salman risponde alla domanda riguardante la situazione odierna della politica libanese. “Questo tragico avvenimento – continua Salman - è avvenuto in un momento in cui la situazione politica era molto agitata e divisa. La risoluzione Onu n. 1559 aveva provocato una guerra contro la presenza siriana ed aveva quindi contribuito all’aumento delle divisioni interne. Dopo il crimine, è iniziata una guerra contro la presenza siriana, la resistenza in Libano e lo scontro contro la corrente “14 Marzo”. Momento di crisi diventato un momento giusto per le forze americane, d’Israele ed anche per le falangi libanesi, creando un grande pericolo per la resistenza. Le tantissime proteste ed accuse nei confronti della Siria, hanno, alla fine, costretto la Siria, dopo 29 anni, a ritirare il suo esercito dal Libano, lasciando così scoperte le forze di difesa”. La Siria è sempre stata accusata di voler destabilizzare il Libano, quando invece, chi ha interesse ad avere un Libano debole, sono, sempre, le stesse forze internazionali alleate con Israele e lo stesso governo d’Israele che, per la sua sopravvivenza, necessita del perpetuarsi della debolezza dei paesi arabi.
Salman prosegue: “Sono state fatte le elezioni (2009) in un momento in cui tutte le confessioni erano divise tra loro. La formazione del governo, dopo alcuni mesi, è stata possibile solo grazie all’intervento sia del mondo arabo sia non arabo. E’ un accordo molto fragile che può cadere in qualsiasi momento. Saad Hariri è andato almeno cinque volte a Damasco ed ha cambiato le sue posizioni riguardanti la Siria. Dopo l’ultimo incontro ha chiesto scusa al governo siriano per tutto quello che aveva fatto, in pratica, sembra diventato uno di loro, un lacché della Siria stessa.
Ora, infatti, le accuse contro la Siria sono cadute, i testimoni ritenuti inattendibili e le prove false. Il probabile responsabile dell’attentato è stato individuato nel movimento di Hezbollah. Quello che si prospetta, dunque, è solo uno scontro, significa un’ulteriore divisione tra sunniti e sciiti”.
Talal Salman, infine, dice di non credere ad una nuova probabile guerra.
All’ultima domanda relativa alla possibile creazione di uno stato palestinese, Salman risponde che, data la continua costruzione di nuove colonie, difficilmente si potrà reperire un terreno disponibile per la Palestina.
Il giorno successivo, la delegazione incontra il Presidente del Forum Internazionale per le cause arabe, Mr.Maen Bashour ed il comandante della nave della fratellanza che ha partecipato alla Freedom Flotilla, Mr.Hani Sleiman.
Mr. Bashour è anche presidente dell’iniziativa per rompere l’assedio a Gaza e parla subito dell’importanza che la Freedom Flotilla ha avuto sulla causa palestinese. “Netanyhau consapevole che la forza delle idee sioniste è dovuta al sostegno internazionale, è stato spinto a dover dire che è in atto una campagna internazionale con il compito di togliere la legittimità allo stato d’Israele. Il governo d’Israele da vittima si è trasformato in massacratore e, questo comporta un cambiamento dell’opinione pubblica nei suoi confronti. I sionisti sanno benissimo cosa può significare tutto questo”.
L’obiettivo del centro, continua Mr.Bashour, è quello di organizzare delle iniziative tra diversi popoli, religioni e culture per mantenere in vita i rapporti orientati verso un discorso di pace.
Il Forum è stato organizzato da un'iniziativa, lanciata dal Centro Arabo per la Comunicazione e Solidarietà, fondato nel 2000, a seguito di una serie di forum simili che hanno avuto inizio ad Istanbul nel 2007, con il Forum di Gerusalemme, capitale della Palestina e luogo di culto per tutti, seguito, poi, dal Forum sul diritto al ritorno a Damasco nel 2008, dal Forum per il Sudan a Khartoum nella primavera del 2009 e dal Forum sul Golan nella città liberata di Qunaitira nell'autunno del 2009. Ora, è in preparazione un forum sul problema dei detenuti in carcere, che si terrà nei primi mesi dell’anno prossimo ad Algeri.
Nessuno parla del numero di donne, uomini, bambini e vecchi che si trovano rinchiusi nelle diverse carceri nel mondo. Nessuno si accorge di loro: i palestinesi che hanno subito il carcere sono più di un milione, gli iracheni 250.000 ed inoltre, molte donne partoriscono in carcere. Altri importanti argomenti sono pronti da mettere in cantiere, come per esempio, i crimini di guerra ed i poveri nel mondo.
Mr.Sleiman, invece, parla della sua personale esperienza su una delle navi della Flotilla, nel momento dell’incursione israeliana. Israele, senza volere, dopo la sua brutale aggressione, ha reso più semplice il compito di spiegare al mondo la sofferenza del popolo palestinese. “Sulle navi c’erano solo civili, non armati, diretti a Gaza per cercare di porre fine all’embargo - continua Sleiman - Monsignor Cappucci ed altri fedeli pregavano insieme, c’erano ebrei con il cartello ”siamo ebrei ma non sionisti” e sparare a loro non è certo come sparare ai musulmani. Io sono stato colpito dai militari, mentre stavano scendendo dagli elicotteri. Cercavo di salvare alcuni feriti accanto a me, gli attivisti erano pazienti, attenti, ma loro continuavano a sparare. I rapporti medici confermano che le ferite riportate sono state causate da proiettili sparati da vicino. Ero confuso, avevo perso sangue fino la sera, ma, chiedevo notizie sulla reazione del mondo esterno per assicurarmi che, in fondo, la missione era salva. E così è stato”.
Ms.Sleiman ha scritto un libro su questa vicenda e spera che possa essere tradotto, presto, anche in italiano.
Nel campo di Mar Elias la delegazione incontra Mr.Marwan Abed El-Aal, responsabile per la ricostruzione del campo Nahr El-Bared, nel Libano settentrionale, distrutto completamente nel 2007 dopo gli scontri tra l’esercito libanese e le milizie di Fatah al-Islam. (v.foto del campo 2008)
Facendo anche uso di un power point esplicativo, sono state illustrate le modalità della ricostruzione del campo che procede molto lentamente. Il terreno è stato diviso in otto lotti, i soldi però che sono a disposizione per la costruzione sono sufficienti solo per tre di questi. Alla fine dell’anno, sarà pronto il primo con 512 unità abitative, poi sarà iniziato il secondo. I criteri di ricostruzione devono anche tenere in considerazione la vecchia struttura legata ai villaggi di provenienza dei profughi, al fine di conservare, il più possibile, le abitudini e l’entità palestinese. Un altro grande problema, legato alla costruzione, risulta essere determinato dalla legge libanese che vieta il diritto di proprietà ai palestinesi: “Non possono quindi rivendicare nulla, non possono dimostrare che la casa era loro, nonostante fosse stata acquistata davanti ad un notaio, non possiedono nessun documento, certificato, che attesti la loro proprietà. Il governo libanese sostiene dunque che i palestinesi si sono impossessati delle case con la forza”.
Durante gli scontri 90 edifici sono stati distrutti completamente. Al momento, tutto il campo si trova sotto il controllo militare libanese, rendendo, così, il tentativo di riprendere una vita economica normale, se così si può definire, molto difficile e complicata. La sicurezza del campo, infatti, è legata alla ripresa del lavoro e dell’economia.
E’ ribadita la necessità di continuare fare pressione sui paesi che possono permettersi di inviare fondi. Presto, infatti, inizieranno i lavori progettati da due enti italiani oltre alla costruzione di 101 appartamenti finanziati dalla Norvegia.
E’ necessario, infine, togliere l’obbligo di un permesso per poter entrare a Nahr El-Bared, sia per i palestinesi sia per i visitatori e riuscire a processare e condannare i responsabili di questa catastrofe.
Il viaggio di quest’anno riserva alla delegazione una novità: la coalizione politica ”Movimento Futuro” del primo ministro Saad Hariri, figlio di Rafiq al-Hariri, assassinato nel 2005, ha chiesto un incontro con il Comitato. E’ un fatto insolito ma, positivo. Significa che il “Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila” comincia ad essere politicamente riconosciuto in tutto il paese. Le continue visite in Libano hanno dimostrato tutta la serietà e caparbietà dei componenti la delegazione nel sostenere l’amicizia e la solidarietà nei confronti della resistenza libanese e dei compagni palestinesi. Tutto ciò con la speranza di poter rendere, al mondo, sempre più evidente ed efficace, la comune battaglia per la conquista di quei diritti che, oggi, non sono riconosciuti. L’incontro è anche il riconoscimento implicito del fatto che, l’attività della delegazione in Libano, sempre documentata dal quotidiano “Assafir” e non solo, ha ottenuto una visibilità ed importanza che è riconosciuta da tutte le forze politiche in Libano e nei paesi arabi.
E’ ovvio che, essendo la maggioranza dei palestinesi di fede sunnita, come la base del partito di Hariri, il Movimento Futuro ha ritenuto opportuno ed utile avere un approccio al problema dei profughi tramite un contatto con il Comitato.
Il portavoce del governo di Hariri conferma il peggioramento della situazione in Libano e dei campi profughi. Sostiene che non c’è molta differenza tra loro e l’Europa, non c’è differenza di religione, c’è solo il mare che divide e non bisogna, inoltre, mai dimenticare Sabra e Chatila. “Siamo - continua il portavoce – di fronte ad una terza fase di una trattativa sempre più debole dovuta all’intransigenza israeliana che continua ad avere sulla terra palestinese. Non crediamo che ci sia un terrorismo palestinese, ma, c’è una rivoluzione tra tutti i palestinesi sparsi nel mondo che non può essere contenuta o risolta senza uno sviluppo e senza neppure un minimo di vita normale. Per questo abbiamo preso l’iniziativa di emanare alcune leggi per legalizzare il lavoro dei profughi palestinesi”.
Stefania Limiti, come responsabile del Comitato, ringrazia per l’invito ricevuto dalla forza politica maggiore del Paese dei Cedri, perchè ha così l’opportunità di poter esprimere l’impegno e la posizione socio-politica dei componenti della delegazione. “Voi – prosegue Stefania – ricevete la voce forte del nostro governo, ma non la nostra. Per questo veniamo qui per far arrivare la voce italiana al popolo libanese. Una parte del popolo italiano ama il popolo palestinese e ritiene che la soluzione della questione palestinese sia anche la soluzione dei problemi in Medio Oriente. Noi rappresentiamo quella parte. Per questo siamo vicini a questo popolo e consideriamo nostra la loro sofferenza. Chiediamo giustizia per loro che non hanno una patria. Non hanno una dignità nel paese che li ospita, hanno una vita senza diritti. Questo ci riempie di rabbia e sofferenza, come tutte le volte, quando nel nostro paese, non è rispettata la dignità degli stranieri. Abbiamo incontrato i responsabili per la ricostruzione del campo di Nahr El-Bared, volevamo andare là, volevamo incontrare quelle persone, ma non è stato possibile per la difficile situazione. Molti di noi negli anni scorsi sono stati in quel campo. Faremo pressione al nostro governo affinché non abbandoni quelle persone, come chiediamo a voi stessi di non abbandonarle”. Stefania, inoltre, punta il dito sul “Diritto al ritorno”, senza il quale non ci può essere una soluzione. Termina il suo discorso con la speranza che qualcosa possa cambiare veramente, molte sono state le parole favorevoli e le promesse per un miglioramento! Il Comitato sarà sempre pronto a raccogliere le buone notizie, così come sarà sempre in prima linea a denunciare le disattenzioni che continueranno ad esserci.
Il portavoce della forza politica di Hariri termina l’incontro citando quelli che sono i tre punti ritenuti di maggior rilevanza. Il primo concerne questo movimento che ha portato alla nascita della corrente “Almustaqbal” iniziata proprio dalla società civile. Espone quindi, a grandi linee, il progetto politico del padre per la ricostruzione del paese. Il secondo punto riguarda invece i diritti civili dei Palestinesi. “Non basta quello che finora abbiamo fatto – prosegue il portavoce, ma la cosa importante è che siamo riusciti ad inserire la questione palestinese per i diritti nel posto giusto, ossia il Parlamento. Oggi si trova in un piano di lavoro da sviluppare in futuro, secondo le condizioni politiche del paese. Esiste, quindi, una parte del Libano sensibile a questo problema. Importante è iniziare, porre la questione e riuscire a superare gli ostacoli. Stiamo lavorando per dare a tutti i giusti diritti”. Infine, il terzo punto riguarda il Diritto al Ritorno. Richiama, nelle sue ultime parole, l’importanza di mantenere vivo Il tema del Diritto al ritorno per continuare a parlare della causa palestinese, per riuscire, infine, a liberare tutto il loro territorio e poter ritornare così alle loro case d’origine. Afferma, inoltre, che davanti alla continua prepotenza israeliana, come partito di governo, hanno il dovere, insieme anche all’aiuto della delegazione italiana, di riaffermare tutti i diritti del popolo palestinese. Conclude, parlando dell’importanza di creare un’unità nazionale palestinese ed abbandonare tutte le divergenze. La divisione porta solo ad aumentare la crisi interna, favorendo così solo Israele.
Terminato l’incontro, la delegazione è stata portata a rendere omaggio alla tomba di Rafiq al-Hariri, vicino alla grande moschea, da lui fatta costruire.
Continua…