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IL LUNGO FILO DELLA MEMORIA
I PROFUGHI PALESTINESI in LIBANO
di Mirca Garuti
Il “Comitato Per Non Dimenticare Sabra e Chatila” nei campi profughi in Libano.
Il consueto appuntamento di settembre per ricordare questo massacro è stato fino all’ultimo istante sospeso ad un filo per una nuova imminente guerra che l’occidente minacciava di scatenare sulla Siria. Per il momento, l’intervento armato è stato bloccato, senza però interrompere la guerra tra il governo siriano e le varie forze d’opposizione. La diretta conseguenza della situazione in Siria è quindi la continua fuga dei suoi abitanti verso luoghi più sicuri. Il Libano è uno di questi, poiché si trova ad ovest del suo confine. La situazione dei profughi palestinesi in Libano è, da 65 anni, molto precaria, soggetta ad una forte discriminazione con una totale mancanza di diritti. La loro presenza risale al 1948 (Nakba), continuata poi nel 1967 e nel 1970. Non tutti i profughi però sono uguali!
Secondo l’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso ed il lavoro dei rifugiati palestinesi – risoluzione n. 302 del 1949) si definisce “rifugiato palestinese”: “Ogni persona il cui luogo abituale di residenza era la Palestina tra il giugno 1946 e il maggio 1948, che ha perso sia la casa e sia i suoi mezzi di sostentamento in conseguenza del conflitto arabo-israeliano del 1948”. Il mandato dell’Unrwa, dal momento che il problema dei rifugiati palestinesi persiste ad oggi, è stato ripetutamente rinnovato. Prossima scadenza: 30 giugno 2014. Quest’agenzia nasce per volontà dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dopo la guerra araba-israeliana del 1948. Si può definire un caso anomalo. Un’Agenzia di soccorso solo per il popolo palestinese, dove lo “status di profugo” è tramandato per linea maschile a tempo indeterminato. Per esempio, se tuo padre era tra coloro che vivevano in Palestina ed è fuggito perdendo tutto tra il periodo temporale giugno ’46 e maggio ’48, tu nasci e vivi come profugo e così i figli dei tuoi figli e così via. I palestinesi che invece arrivarono in Libano a seguito della Guerra dei sei giorni sono registrati dalle autorità libanesi, ma non godono dello “status di rifugiati”ed infine, quelli arrivati negli anni ’70, non sono registrati da nessun’autorità, con la conseguenza che non “esistono”, senza documenti e nessun diritto.
Successivamente, dopo la seconda guerra mondiale, il 14 dicembre 1950, nasce l’UNHCR (Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati) con il compito di assistere i cittadini europei fuggiti dalle proprie case a causa del conflitto. Il suo primo mandato doveva durare solo tre anni. L’anno successivo fu adottata la Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status di rifugiato, base giuridica e statuto guida della sua attività. L’UNHCR cerca di garantire che tutti i rifugiati possono esercitare il diritto di ricevere asilo e trovare un rifugio sicuro in un altro Stato, con la possibilità o di tornare a casa volontariamente o d’integrarsi a livello locale per il reinserimento in un paese terzo. Questa convenzione si applica a tutti i rifugiati con la sola esclusione dei palestinesi.
Il mandato poi sarà sempre prorogato, a causa dei numerosi conflitti mondiali (rivoluzione ungherese, Africa, Asia, America Latina, Balcani…) che necessitano della sua assistenza. L’agenzia oggi opera in 123 paesi. Secondo l’UNHCR, chi nasce in uno stato, diventa cittadino di quello stato, non più profugo. Per i palestinesi questo meccanismo non vale, loro sono tutelati dall’UNRWA, quindi saranno sempre considerati profughi. Sorge una domanda molto semplice: ma perché è nata un’agenzia Onu esclusiva per i palestinesi? Non esiste, per esempio, un’agenzia per i Kurdi, anche se è un popolo millenario a cui sono negati tutti i diritti. La risposta è ovvia. Non c’è bisogno: i palestinesi devono rimanere nel limbo, sospesi, non esistono.
L’ex direttore dell’UNRWA in Libano, Salvatore Lombardo, a fine settembre 2011, aveva lanciato una proposta per concedere ai rifugiati palestinesi diritti civili ed umani e la possibilità di equipararsi alle regole dell’Alto Commissariato dell’Onu. L’analisi che ha spinto Lombardo a presentare questa proposta è incontestabile: la situazione nei campi in Libano è insostenibile e centinaia di migliaia di persone sono discriminate, con il rischio di finire poi inghiottite dall’estremismo islamico.
Dei 16 campi originari, oggi, a causa della guerra civile libanese, ne sono rimasti 12 collocati da nord a sud del Libano. La popolazione palestinese continua ad aumentare, ma, nonostante questo, la superficie dei campi non può essere ampliata. La conseguenza è lo svilupparsi degli edifici in modo verticale, creando così enormi palazzi fatiscenti, vicoli tortuosi, stretti e bui perché il sole non riesce a penetrare attraverso il cemento delle case, ma solo in qualche piccolo spazio aperto. Aumentano i piani delle case e aumentano anche i fili elettrici per carpire un po’ di corrente. Questi fili che corrono da una parte all’altra, sopra ogni cosa, perfino intorno ai pochi alberi che a fatica strappano un po’ di spazio alla ricerca di luce, sembrano un’enorme ragnatela mortale. La folgorazione è, infatti, una delle prime cause di morte nei campi. Il sovraffollamento, la mancata manutenzione delle case e delle infrastrutture, la povertà, la disoccupazione si riflettono sui problemi di salute, sulle malattie croniche e sull’alta percentuale di mortalità infantile del popolo palestinese. Non possono aprire attività commerciali, non possono possedere niente, non possono lavorare. In queste condizioni tutto è possibile. La proposta di Lombardo è semplice. Concedere gli stessi diritti di cui godono i cittadini libanesi, permetterebbe ai profughi palestinesi di uscire dai campi, di trovare un lavoro, di aprire attività, di studiare e di acquistare le proprie case. Tutto questo, porterebbe stabilità al paese dei cedri, ma, non tutti sono d’accordo. Una parte del governo libanese (i partiti cristiani ed Hezbollah) teme che la concessione di diritti civili ai palestinesi possa rompere il delicato equilibrio esistente tra le varie confessioni religiose. I palestinesi, in quanto sunniti, rappresentano un pericolo e, nello stesso tempo, possono far comodo come “capro espiatorio” in caso di un conflitto con Israele.
Dal primo ottobre 2012, l’UNRWA in Libano è rappresentata da un nuovo direttore, la cittadina svedese Ann Dismorr. La Dismorr è riuscita in poco tempo ad attirarsi l’antipatia dell’Ambasciatore israeliano all’Onu, Ron Prosor, che ha provveduto ad inviare al Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon una formale denuncia nei suoi confronti. In occasione di una cerimonia ufficiale per l’avvio di un progetto in Libano, finanziato dalla Germania, nei primi giorni del maggio scorso, la nuova direttrice si è fatta fotografare accanto ad una mappa dell’intera area che va dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo, intitolata “Palestina araba”, tutte le città israeliane, Haifa, Tel Aviv, Beer Sheba, Tiberiade e Gerusalemme, sono diventate “Palestina”, mentre, Israele non c’è”. Inoltre, l’articolo, riportato dal sito http://www.amicidisraele.org/2013/05/la-solita-maniera-dellonu/, critica anche la borsetta che portava. Non era la solita borsa Chanel, ma “un affare informe dall’aria plasticosa con l’immagine della moschea di Al Aqsa sul monte del Tempio di Gerusalemme, circondata da vari simboli della Palestina”.
La situazione attuale con l’arrivo di tanti profughi palestinesi siriani, è davvero al collasso.
Ne parliamo, durante il nostro primo incontro, con Layla Al-Ali del coordinamento delle organizzazioni non governative palestinesi.
I palestinesi sono sempre influenzati da quello che succede in Medio Oriente e, a causa del conflitto siriano, hanno dovuto lasciare le loro case e cercare un rifugio in Libano. E’ in corso una “Seconda Nakba”. Questo modo di definire la fuga dei palestinesi siriani ci accompagnerà per tutto il resto del nostro viaggio. Layla inizia con dei numeri: ad agosto 2013, le famiglie arrivate in Libano sono state 17.558, pari a 71.694 persone, di cui il 50% donne. La maggior parte (5204) di queste famiglie si sono fermate al Sud a Sidone, altre (4246) nella Valle della Beqaa ed il resto si è distribuito nelle altre città del paese. Tutte queste persone sono per la maggior parte (33.289) ospiti presso altre famiglie, mentre solo 6.521 da parenti e 8.470 in affitto. (Leggi ulteriori dati)
Dopo questa panoramica, Layla spiega che sono 12 le associazioni che hanno contribuito a dare un primo soccorso ai profughi palestinesi in fuga dalla Siria. Il problema non è l’aiuto immediato, ma è quello rivolto al futuro, un aiuto non soggetto a scomparire nel tempo, non appena le luci dei riflettori si spengono. Progetti d’aiuti che riguardano la sanità, l’istruzione, l’ambiente per migliorare la situazione odierna dei campi.
L’ondata di questi nuovi profughi ha riacceso il ricordo della Nakba del ’48, sono trascorsi 65 anni, e la situazione non è mutata, anzi, è notevolmente peggiorata. Ci troviamo di fronte a forti discriminazioni che non hanno alcuna giustificazione, che sono inconcepibili. I profughi siriani possono ricevere aiuti e possono passare la frontiera senza troppa burocrazia. I profughi palestinesi siriani, invece, per disposizioni dettate dallo Stato Libanese, in risposta a quest’emergenza, possono entrare in Libano con un permesso d’uscita del governo siriano, e solo se, in possesso di un contratto d’affitto oppure sposati con un/una palestinese in Libano. Il permesso che, prima della crisi siriana era di una sola settimana, ora, dopo una forte pressione da parte degli stessi profughi e di tutte le organizzazioni palestinesi, è valido per tre mesi, rinnovabile, ma solo dopo essere usciti e rientrati. Chi non sta alle regole, oltre all’immediata espulsione, deve pagare una multa di 200 dollari. Il rinnovo del permesso costa 35 dollari a persona. L’ONU si occupa solo dei profughi siriani, i palestinesi sono invece sotto la giurisdizione dell’Unrwa, l’Agenzia messa in piedi esclusivamente per loro. Questo è dunque un modo “gentile” per dire di restare dove c’è la guerra e di affermare che i palestinesi non hanno il diritto di vivere.
Kassem Aina, molto amareggiato e triste, la chiama la “Seconda Nakba”. Ancora una volta il popolo palestinese è stato abbandonato dalla legalità internazionale. Il governo libanese non ha fatto nulla per i profughi, mentre le varie organizzazioni palestinesi non governative hanno iniziato a dare il loro contributo sei mesi prima rispetto i tempi dell’ONU. Tutto l’aiuto ai profughi palestinesi siriani è stato dato dai loro fratelli palestinesi in Libano, condividendo tutto. Il palestinese siriano è uguale a quello che vive in Libano. Entrambi non possono tornare in Palestina. In Siria però possono studiare, lavorare, possedere una casa, ora, invece, provano sulla propria pelle, cosa significa essere discriminati dai propri fratelli arabi. Sono disperati, non sanno a chi chiedere aiuto, sperano solo che tutto possa ritornare come prima e.. in fretta. Per chi scappa dalla Siria, se è palestinese, non è facile trovare un posto sicuro, molte porte sono chiuse e molti paesi arabi chiedono un visto che, però non viene quasi mai concesso. Così veniamo a sapere che pochissimi sono entrati in Giordania, una decina di famiglie è entrata in Egitto e circa 200 sono tornate a Gaza.
E’ doveroso evidenziare e denunciare la forte discriminazione che si sta consumando nei confronti dei profughi palestinesi siriani, perché nessuno ne parla. Le televisioni ed i giornali diffondono notizie sulla crisi siriana, sulle persone che scappano, è la notizia del momento, ma nessuno si sofferma sulla loro vera condizione. Non si tratta solo di aver perso la casa o il lavoro, si tratta di aver ri-perso la propria dignità umana, di ri-tornare a scappare e di ri-trovare le porte chiuse.
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La questione siriana sarà l’argomento principale che accompagnerà tutto il nostro viaggio. Siamo invitati, il giorno dopo, ad assistere ad un Convegno organizzato da strutture arabe e internazionali contro la prevista aggressione degli Stati Uniti in Siria. Gli interventi sono tutti concentrati sulla resistenza.
Il primo a prendere la parola è l’ex ministro libanese Marwan Hamadi, affermando che gli americani, israeliani sionisti ed alcuni regimi arabi hanno utilizzato le cosiddette “primavere arabe” per affondare la Siria. La macchina mediatica si è abbattuta sulla Siria, ma ha trovato la resistenza del suo popolo. Hamadi ringrazia apertamente la Russia per la sua posizione insieme alla Cina. Afferma, in modo categorico, che la risoluzione nei confronti della Siria deve essere politica, rifiutando quindi qualsiasi tipo d’intervento armato. Conclude, affermando che quello che sta succedendo in Siria fa parte del vecchio progetto americano-sionista ed imperialista di ricostruire il Grande Medio Oriente, affondando tutti i paesi che ancora resistono.
Nel secondo intervento parla il Vice segretario generale di Hezbollah, Naim Al Qassem, che ricorda subito a tutti i presenti il perché è stato scelto il 16 settembre come giorno per mettere in atto questo convegno. Il 16 settembre rappresenta l’inizio della resistenza libanese contro l’occupazione israeliana del 1982 e la ricorrenza del massacro di Sabra e Chatila. I suoi argomenti sono stati: perché la Siria e perché la resistenza. L’aggressione che sta affrontando la Siria è molto forte e mira alla sua distruzione, com’è già successo in Iraq e in altri paesi arabi. I combattenti contro il governo sono più mercenari che veri soldati e provengono da ben 80 paesi diversi. Non si vuole il bene del popolo siriano, ma si vuole soltanto che la Siria possa far parte del gruppo di quei paesi arabi che girano intorno all’orbita americana. La resistenza è l’unico modo di opporsi al piano americano, come insegna la vittoria della resistenza libanese e quella che sta facendo la Palestina e l’Iraq. La resistenza per Hezbollah fa parte della loro strategia militare. Il loro desiderio è quello di creare un Libano forte basato sulla resistenza, sull’esercito e sul popolo. Uno Stato forte è in grado di difendere e proteggere i suoi cittadini. Al Qassem sembra poi rivolgersi al mondo arabo con una semplice domanda: “Basta parlare di difendere la resistenza, la resistenza c’è, perché invece non parlate dell’occupazione israeliana?” Questa domanda, a mio avviso, dovrebbe essere anche fatta al nostro mondo occidentale! Cosa si fa per contrastare l’occupazione israeliana?
Il partito Hezbollah, infine, si dichiara favorevole ad una riforma politica costituzionale in Siria, purché siano essi stessi a poter decidere e scegliere senza nessuna violenza esterna sia araba e sia straniera.
Dopo l’intervento del Vice segretario generale di Hezbollah, prende la parola l’Ambasciatore siriano in Libano. L’Ambasciatore afferma convinto che: “La Siria vince la guerra contro questa macchina mediatica e questi gruppi militari appoggiati dagli americani e dai sionisti”. Gli Stati Uniti non vinceranno perché sono già stati fermati due volte. La prima, dalla resistenza libanese nel 2000 contro l’esercito israeliano e poi, nel 2006 al termine della guerra in Libano durata 33 giorni. Costretti a cedere, hanno dovuto iniziare a pensare a chi faceva parte della resistenza, per poterli colpire in un secondo momento. Nella resistenza c’erano: Siria, Iran ed il partito Hezbollah. La resistenza siriana ha fatto infine frantumare il vecchio piano americano di costruire il “Suo Medio Oriente”.
L’ultimo intervento a cui noi abbiamo assistito è stato quello dell’Ambasciatore Russo.
La sua analisi è stata più scientifica. Ha parlato della capacità politica e diplomatica della Russia per arrivare a creare un nuovo sistema mondiale equilibrato che rifiuta l’ingerenza militare negli affari interni di altri paesi. Ha chiamato questo particolare momento “una fase transitoria a livello mondiale”, finché non si riesce a raggiungere un bilanciamento strategico di politica internazionale. Ha citato anche l’importanza del Diritto internazionale ed il rispetto della legalità internazionale sia dell’ONU e sia del Consiglio di Sicurezza e che nessuno, da oggi, può utilizzare questi due enti internazionali per affari propri. Anche la Russia è d’accordo sul cambiamento in Siria con modifiche delle riforme che dovranno fare in piena autonomia senza nessuna pressione da parte di qualcuno. L’Ambasciatore rileva, inoltre, che l’intervento russo sulle armi chimiche non deve essere visto come una debolezza del governo siriano, ma, al contrario, è un punto di forza della Siria e dei suoi alleati, perché questo sistema può essere poi utilizzato per tutti i conflitti della regione. La Russia, infine, afferma di aver presentato delle proposte, accettate poi sia dal governo e sia dalle altre forze, per trovare un modo di fermare quest’aggressione, applicando un processo di riforme interne alla Siria, dove il governo e l’opposizione dovranno attivare delle trattative senza pre-condizioni.
Discutere per arrivare ad una soluzione politica. Creare uno Stato moderno, laico che possa garantire sicurezza, progresso e prosperità ai suoi cittadini.
Audio traduzione bassam
La questione siriana continua ad essere al centro dell’attenzione anche all’incontro con il Partito Comunista Libanese. La caratteristica che contraddistingue il PCL dagli altri partiti, è quella di non essere un partito confessionale e, per questo, nonostante abbia un forte radicamento, non ha nessuna rappresentanza nel parlamento libanese. L’analisi politica del PCL, sia in generale e sia in particolare in Libano, è tenuta in molta considerazione non solo all’interno della sinistra araba e mediorientale, ma anche in Europa. Lo dimostra il fatto che, l’anno scorso la riunione di tutti i partiti comunisti del mondo (Africa, Asia, America Latina ecc.) si è tenuta proprio a Beirut.
La vice segretaria del partito, Marie Nassif-Debs, con orgoglio, ci fa presente che il PCL è stato il primo partito libanese ad iniziare la resistenza contro l’occupazione israeliana (16/09/1982). La differenza della loro resistenza patriottica/nazionale rispetto a quella religiosa/confessionale si rivela nel tentativo con l’azione di liberazione di voler anche cambiare la società. Oggi, nel mondo arabo c’è di nuovo un movimento d’occupazione del territorio con gli stessi autori, aggressività e piano del 1982: “Costruire un Nuovo Medio Oriente”.
Nel 1988 il piano prevedeva tre punti basilari:
1) realizzare una pace durevole con il riconoscimento arabo d’Israele;
2) un coordinamento di sicurezza tra Stati Uniti ed il mondo arabo;
3) guerra all’URSS con l’intento d’impedirgli di ricevere il petrolio arabo.
Oggi si attaccano altri paesi, ma gli obiettivi non cambiano. La Siria si trova al centro. La guerra civile la sta dividendo. Il secondo piano prevede la liquidazione della questione palestinese. L’attuale Segretario di Stato americano John Kerry, a metà agosto, dichiara il ritorno alle trattative di pace tra israeliani e palestinesi. L’obiettivo di Kerry è di “mettere fine al conflitto e alle rivendicazioni”. Punto e basta. Non si deve parlare di mettere fine all’occupazione, all’assedio di Gaza, agli espropri, alle continue costruzioni illegali e all’esilio dei rifugiati palestinesi. La cosa importante è mettere fine alle tensioni e trovare un accordo. Kerry, inoltre sostiene con orgoglio che questo trattato è diverso perché basato sull’Iniziativa araba di pace, ma dimostra subito la sudditanza verso Stati Uniti ed Israele. Originariamente il piano offriva la normalizzazione degli stati arabi con Israele, soltanto dopo il ritiro completo nei confini del 1967 ed una soluzione giusta per i profughi basata sulla Risoluzione ONU n. 194 con il riconoscimento del diritto al Ritorno. Stati Uniti e Israele hanno imposto però una modifica al piano. Nella nuova versione, la questione “profughi” è svanita: non esiste e parla “dei confini del 1967 con scambi”. Significa che Israele manterrà tutte le sue città negli insediamenti e, in pratica tutte le sorgenti idriche palestinesi, mentre ai palestinesi sarà offerta un po’ di terra depressa vicino a Gaza, oppure di collocare le città a maggioranza palestinese, come Nazareth, all’interno d’Israele. Se i palestinesi rifiuteranno alcune di queste proposte, sarà loro attribuita la colpa di aver interrotto il trattato di pace in corso. Gli Stati Uniti non hanno mai imposto né pre-condizioni e né chiesto ad Israele la fine delle tante violazioni della legge internazionale, delle Convenzioni di Ginevra e l’applicazione delle varie risoluzioni ONU, come obiettivo di questi colloqui di pace. Non si parla mai d’Occupazione e del Diritto al ritorno dei profughi palestinesi. I processi di pace continueranno a fallire finché si basano sull’appoggio statunitense al potere israeliano e non invece alla legge internazionale, ai diritti umani e all’uguaglianza per tutti. Israele ha la libertà di fare ciò che vuole e lo dimostra il fatto che, all’avvio del piano di pace, dopo aver rilasciato come segno di buona volontà, 26 prigionieri palestinesi, ha dato il via alla costruzione di oltre 1000 nuove case di coloni nei Territori. Il 14 agosto scorso, inoltre, l’amministrazione municipale di Gerusalemme per l’area est approva un progetto di 942 nuove abitazioni in Cisgiordania.
Un altro importante fattore è legato alla recente scoperta di giacimenti di gas sulle coste libanesi e agli scontri in questa regione per interessi legati al nuovo progetto americano “Nabucco”, in competizione con la Russia, per portare il gas, in accordo con il Qatar, all’Europa. Ultimo rilevante elemento, presentato da Marie, per capire la complessità dell’attacco alla Siria, ha come obiettivo quello di colpire le rivoluzioni dei paesi arabi, specialmente l’Egitto per la sua importanza politica, strategica e geografica (canale di Suez).
Marie c’informa che il giorno prima del nostro incontro (16/09/13) i ministri della Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti hanno rilasciato una dichiarazione nella quale affermano che tutto è ancora aperto, che non hanno rinunciato a niente. Quindi, un’aggressione alla Siria è ancora probabile. Per questo, il partito comunista libanese sta cercando di realizzare un incontro con tutte le varie realtà di sinistra interessate, per cercare di comprendere come sarà possibile, in caso d’attacco, resistere non solo militarmente, ma anche a livello sociale ed economico. E’ necessario unirsi, convogliare tutte quelle forze che si dichiarano contro questo sistema capitalistico in un’unica resistenza, se si vuole contrastare e distruggere.
Marie, dopo questa premessa, risponde alle nostre domande dirette a capire quello che sta succedendo, all’importanza dell’informazione, alle conseguenze di una possibile guerra, al coinvolgimento dello stesso Libano e, soprattutto, cosa possiamo fare noi.
Tutto dipende dall’informazione che dovrebbe essere sempre certa ed imparziale per dare la possibilità alle persone di sapere quello che succede e di poter così valutare da che parte stare. Purtroppo però questo non avviene, i mass media controllano l’informazione secondo il proprio personale interesse. Un esempio: il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon è il coordinatore di tutti i paesi aderenti, non è il portavoce delle Nazioni Unite, e come tale, non può permettersi, dice Marie, di condannare il regime siriano, di andare contro un paese, prima della pubblicazione dei rapporti degli ispettori ONU, incaricati di verificare da chi sono state usate le armi chimiche. Questa presa di posizione certamente può influenzare il giudizio d’altri paesi. Parlando di Nazioni Unite, Marie, dopo aver considerato le varie ripercussioni che il Diritto di Veto del Consiglio di Sicurezza ha sulla questione palestinese, afferma che è giunto il momento di ripensare al ruolo stesso delle Nazioni Unite e di cercare di creare un nuovo organismo che mantenga realmente la stabilità, il rispetto e la protezione dei vari paesi nel mondo, senza utilizzare attacchi militari. La legalità internazionale deve agire prima dell’avvio dei vari conflitti armati e non dopo, come si è visto per la guerra in Libano del 1982 e 2006 e in Irak nel 1991 e 2003 ecc.
L’analisi che fa il PCL per la situazione attuale in Siria, in base anche a quello che è successo in Afghanistan con i talebani, si concentra sul fatto che l’obiettivo è quello di dividere il Medio Oriente, creando tante fazioni l’una contro l’altra, senza però escludere la possibilità di un attacco diretto. Per questo motivo il PCL sta cercando di creare un fronte arabo di sinistra democratico per organizzare una resistenza globale. Quello che è successo in Irak può succedere in Siria e in Libano.
“In Libano- continua Marie – c’è un sistema confessionale molto forte, grazie anche ai salafiti libanesi, che ora sono entrati in contatto con Al-Nusra, gruppo che lavora politicamente con altri gruppi libanesi. Il loro compito è quello di aumentare sempre più la divisione confessionale, fino ad arrivare allo scontro. Per questo il Pcl vuole creare un fronte di larghe intese politico e popolare per evitare una nuova guerra civile e, nello stesso tempo, per un cambiamento democratico che ponga fine a questo sistema politico confessionale che porta solo a divisioni e guerre. Questi sono i punti che abbiamo discusso con i tre partiti comunisti siriani e con altri settori della composizione siriana. In ogni modo, la soluzione finale deve essere solo una soluzione decisa in autonomia dalla Siria”.
Marie termina, rispondendo a tutte le nostre domande, affermando che il lavoro fatto dai vari movimenti pacifisti contro la guerra è molto incoraggiante, ma bisogna fare di più. Si deve iniziare a protestare davanti al Parlamento Europeo e fare pressione sui parlamentari locali delle varie realtà. Il Pcl, dopo l’aggressione subita nel 2006, aveva organizzato una serie di conferenze in tutta Europa per cercare di spiegare cosa era veramente successo in Libano. Ora, vogliono fare il contrario, andare in Europa prima della guerra per far capire il perché bisogna assolutamente cercare di evitarla.
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21/10/2013
Leggi al 2° parte
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