IL RICORDO DELL’ALPINO MATTEO MIOTTO
LA SUA LETTERA
Il 31 dicembre 2010 è morto il caporal maggiore Matteo Miotto del 7mo reggimento alpini di Belluno nel distretto del Gulistan (provincia di Farah) nell’ovest dell’Afghanistan.
Il governo italiano, in questa occasione, si è dimostrato poco attendibile rilasciando notizie non corrette, imprecise, suscitando una polemica tra lo stesso ministro della Difesa ed i vertici dell’Esercito italiano sulla ricostruzione dell’incidente. Ma lasciamo perdere queste inutili polemiche che non portano a niente se non ad una profonda amarezza ed impotenza. Focalizziamo invece la nostra attenzione su quello che ha scritto Matteo un mese prima della sua morte.
Una lettera semplice dove si avverte l’orgoglio di appartenere al corpo degli alpini al servizio del proprio paese senza però non perdere la propria dignità di uomo. Lo dimostra il fatto che prova un profondo rispetto per il popolo afgano, per quel popolo invaso da truppe straniere che devono riportare democrazia e legalità nel loro territorio. Matteo non è lì per cambiare o insegnare loro qualcosa, anzi capisce che lui stesso si può arricchire se solo saprà capire. Inconsciamente comprende l’inutilità di questa guerra che non riuscirà a migliore le condizioni di vita del popolo afgano.
LA LETTERA (*)
“Voglio ringraziare a nome mio, ma soprattutto a nome di tutti noi militari in missione, chi ci vuole ascoltare e non ci degna del suo pensiero solo in tristi occasioni come quando il tricolore avvolge quattro alpini morti facendo il loro dovere.
Corrono giorni in cui identità e valori sembrano superati, soffocati da una realtà che ci nega il tempo per pensare a che cosa siamo, da dove veniamo, a cosa apparteniamo...
Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: invano. L'essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate. Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre. Allora riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi.
Come ogni giorno partiamo per una pattuglia. Avvicinandoci ai nostri mezzi Lince, prima di uscire, sguardi bassi, qualche gesto di rito scaramantico, segni della croce... Nel mezzo blindo, all'interno, non una parola. Solo la radio che ci aggiorna su possibili insurgents avvistati, su possibili zone per imboscate, nient'altro nell'aria... Consapevoli che il suolo afghano è cosparso di ordigni artigianali pronti ad esplodere al passaggio delle sei tonnellate del nostro Lince.
Siamo il primo mezzo della colonna, ogni metro potrebbe essere l'ultimo, ma non ci pensi. La testa è troppo impegnata a scorgere nel terreno qualcosa di anomalo, finalmente siamo alle porte del villaggio. Veniamo accolti dai bambini che da dieci diventano venti, trenta, siamo circondati, si portano una mano alla bocca ormai sappiamo cosa vogliono: hanno fame.
Li guardi: sono scalzi, con addosso qualche straccio che a occhio ha già vestito più di qualche fratello o sorella. Dei loro padri e delle loro madri neanche l'ombra. Il villaggio, il nostro villaggio, è un via vai di bambini che hanno tutta l'aria di non essere lì per giocare. Non sono lì a caso: hanno quattro, cinque anni, i più grandi al massimo dieci e con loro un mucchio di sterpaglie. Poi guardi bene, e sotto le sterpaglie c'è un asinello, stracarico, che porta con sé il raccolto. Stanno lavorando... e i fratelli maggiori, si intende non più che quattordicenni, sono con un gregge che lascia sbigottiti anche i nostri alpini sardi, gente che di capre e pecore ne sa qualcosa...
Dietro le finestre delle capanne di fango e fieno un adulto ci guarda. Dalla barba gli daresti sessanta, settanta anni e poi scopri che ne ha al massimo trenta... Delle donne neanche l'ombra. Quelle poche che tardano a rientrare al nostro arrivo al villaggio indossano il burqa integrale: ci saranno quaranta gradi all'ombra...
Quel poco che abbiamo con noi lo lasciamo qui. Ognuno prima di uscire per una pattuglia sa che deve riempire bene le proprie tasche e il mezzo con acqua e viveri: non serviranno certo a noi... Che dicano poi che noi alpini siamo cambiati...
Mi ricordo quando mio nonno mi parlava della guerra: "Brutta cosa, bocia, beato ti che non te la vedarè mai..." Ed eccomi qua, valle del Gulistan, Afghanistan centrale, con in testa quello strano copricapo con la penna che per noi alpini è sacro. Se tu potessi ascoltarmi, ti direi "visto, nonno, che te te si sbaià ".
Caporal Maggiore Matteo Miotto
Thiene (Vicenza) - Valle del Gulistan, novembre 2010
(Da «Il Gazzettino», 31 dicembre 2010)
15/01/2011