LIBANO:L’ESCALATION
POSSIBILE
di Germano
Monti
22/05/07
La
storia del popolo palestinese e della sua lotta per non essere
annientato è costellata di vicende e personaggi ambigui ed
oscuri, in quelle che talvolta sono state zone d’ombra fra lotta di
liberazione e provocazione internazionale. Non è un mistero,
come non è un mistero che la lotta dei Palestinesi sia stata
spesso strumentalizzata dai "fratelli arabi", o meglio dai
governi reazionari dei Paesi i cui confini vennero tracciati con il
righello dai plenipotenziari del colonialismo europeo. Si può
dire che la strumentalizzazione della lotta dei Palestinesi sia
iniziata con la lotta stessa, come sa chiunque abbia conoscenza delle
vicende degli anni 30 e 40, quando ad ergersi ad improbabili tutori
della liberazione araba dal colonialismo erano le potenze dell’Asse,
e i punti di riferimento del movimento anticolonialista erano le
cancellerie di Roma e Berlino: basti pensare al sostegno
italo-tedesco al celebre Muftì di Gerusalemme, o alle
trasmissioni in arabo dai microfoni di Radio Bari e di altre
emittenti che trasmettevano dall’Italia (Radio Giovane Tunisia,
Radio Nazione Araba e Radio Egitto Indipendente), fino al
coinvolgimento diretto del futuro Presidente egiziano, Anwar Sadat,
nei rapporti con il generale Rommel, che i nazionalisti egiziani
vedevano come il liberatore dall’odiata occupazione britannica. Per
la verità, piuttosto stretti furono anche i rapporti
intercorsi fra le dittature di Roma e Berlino ed altri movimenti di
liberazione non arabi, primo fra tutti quello indiano, come
testimoniano anche alcune corrispondenze personali fra Hitler e il
Mahatma Gandhi, che nel 1931 venne accolto trionfalmente a Roma dal
Duce, davanti al quale si presentò insieme alla capretta che
lo seguiva e nutriva ovunque con il suo latte. Successivamente, i
vari governi arabi si sono alternati nel ruolo di "protettori"
della causa palestinese, a volte anche muovendo i loro sgangherati
eserciti contro la formidabile macchina da guerra sionista, più
spesso limitando il proprio impegno a dichiarazioni roboanti contro
l’entità sionista, accompagnati da accordi sottobanco con
l’entità medesima e i suoi potentissimi protettori
atlantici.
In questo sottobosco hanno spesso agito uomini ed
organizzazioni di difficile decifrazione, quando non direttamente al
servizio di cause che con la Palestina avevano (ed hanno) ben poco a
che spartire; del resto, fino alla svolta impressa dalla comparsa di
Yasser Arafat e dalla nascita di Al Fatah, la stessa Organizzazione
per la Liberazione della Palestina (OLP) era poco più di un
ente assistenziale gestito dai governi arabi. Il caso di ambiguità
più conosciuto degli ultimi decenni è stato senza
dubbio quello di Abu Nidal e della sua direttamente organizzazione,
Fatah – Consiglio Rivoluzionario, nata da una scissione del
movimento fondato e guidato da Arafat. Dalla seconda metà
degli anni 70 alla sua misteriosa fine, avvenuta in Iraq poco prima
dell’invasione angloamericana del 2003, probabilmente per mano dei
servizi iracheni, che eliminavano così un testimone
decisamente scomodo. Nel corso della sua attività, Abu Nidal è
stato sostenuto, di volta in volta, da diversi regimi arabi, e –
pur potendo contare su un discreto seguito nei campi palestinesi in
Libano – nelle azioni della sua organizzazione non è mai
apparso chiaro il confine fra la lotta contro l’occupazione
sionista e l’operato, per così dire, di servizio per conto
terzi. Una di queste azioni (l’attentato contro l’ambasciatore
israeliano a Londra) fornì il pretesto ad Israele per
l’invasione e l’occupazione del Libano nel 1982, che porterà
all’espulsione di Arafat e dei fedayn e allo smantellamento della
struttura dell’Olp in quel paese. Quello che sta avvenendo in
queste ore in Libano presenta alcuni caratteri di novità, ma
anche inquietanti analogie con il passato. La novità è
rappresentata dalla caratterizzazione islamica delle organizzazioni
che si sono (troppo?) rapidamente insediate e sviluppate nei campi
palestinesi di Nahr El Bared e Beddawi, nei pressi di Tripoli, e in
quello di Ein Elweh, vicino Sidone; una novità che deve far
riflettere, se solo si pensa che anche le organizzazioni di
ispirazione islamica più forti nei Territori Occupati –
Hamas e Jihad Islamico – nei campi palestinesi del Libano non hanno
mai avuto molto seguito, stante l’egemonia conflittuale fra Al
Fatah, le fazioni della sinistra (FPLP e, in misura minore, FDLP) e
quelle più o meno dichiaratamente legate a Damasco (Fatah –
Intifada, Saiqa, Fronte Popolare – Comando Generale, ecc.). Dirò
di più: subito dopo la precipitosa evacuazione degli
Israeliani e dei loro alleati fascisti libanesi dal sud del Paese,
sotto l’incalzare dei combattenti della resistenza di Hezbollah,
nel nord avvenne una strana "sollevazione" di elementi –
si disse – legati ad Al Qaeda, che vennero letteralmente annientati
proprio dai miliziani di Hezbollah, congiuntamente a truppe regolari
libanesi e siriane. L’inconciliabilità fra il jihadismo
globale di Al Qaeda, il nazionalismo laico del Baath siriano e quello
religioso ma pragmatico di Hezbollah è cosa nota; fra l’altro,
il fondamentalismo sunnita wahabita che sta alla base dell’ideologia
di Al Qaeda considera gli sciiti come "traditori dell’Islam"
e li pone sullo stesso piano degli "ebrei" e di tutti gli
altri "infedeli". Non si capisce, allora, come sia
possibile parlare – come stanno facendo tutti gli organi di
informazione in queste ore – di gruppi "legati alla Siria e
vicini ad Al Qaeda". Si tratta di un evidente ossimoro, se solo
si considera che il migliore alleato di Damasco e dei Palestinesi in
Libano sono proprio gli sciiti di Hezbollah e che lo stesso gruppo
dirigente siriano è espressione di una minoranza sciita,
quella degli Alaouiti. La confusione aumenta nel leggere che il
gruppo palestinese Fatah al Islam, che si sta scontrando con le forze
regolari libanesi, sarebbe - oltre che "legato alla Siria e
vicino ad Al Qaeda" – nato da una recentissima scissione di
Fatah - Intifada, fazione palestinese staccatasi da Al Fatah nel 1983
e alle dirette dipendenze di Damasco. I conti non tornano, e davvero
ci mancano la straordinaria cultura e l’ineguagliabile conoscenza
del Medio Oriente di Stefano Chiarini, la cui scomparsa continua a
pesare come e molto più di un macigno. Stefano sarebbe
riuscito meglio di chiunque altro a decifrare gli attuali
avvenimenti, ma il loro segno appare chiaro anche a chi non dispone
della sua levatura intellettuale.
I piani dei neocons statunitensi
e israeliani per la destabilizzazione dell’intero Medio Oriente a
partire dall’anello debole, il Libano, hanno subito una battuta
d’arresto a causa del fallimento dell’aggressione israeliana
dello scorso anno e della perdurante impossibilità degli U.S.A
di sconfiggere la resistenza irachena e quella afgana, nonostante il
generoso sostegno della N.A.T.O. e dei governi europei. Ma quei piani
non sono mai stati accantonati, e quello che sta avvenendo in queste
ore in Libano sembra fatto apposta per provocare un’escalation,
come segnalano gli analisti di Al Jazeera, ovviamente ignorati dai
loro colleghi occidentali. In una scheda di approfondimento su Fatah
al Islam del 20 maggio, Al Jazeera osserva che esiste un accordo in
base al quale le forze armate libanesi non possono entrare nei campi
palestinesi, ma che la Risoluzione O.N.U. n. 1559 dell’ottobre 2004
(quella fortemente voluta da U.S.A. e Francia, i nuovi e vecchi
colonizzatori del Libano) chiede "lo scioglimento e il
disarmo di tutte le milizie libanesi e non libanesi" e
dunque, sempre secondo Al Jazeera, "invita implicitamente
all’azione contro i gruppi armati palestinesi", poiché
non si riferisce solo alle milizie libanesi, ma anche a quelle
palestinesi cui è affidata la sicurezza dei campi profughi. La
successiva Risoluzione O.N.U. n. 1701 dell’agosto 2006 (quella in
virtù della quale sono stati inviati in Libano più di
duemila soldati italiani), sottolinea Al Jazeera, reitera la
posizione espressa nella 1559. Adesso i conti cominciano a tornare, e
non sono affatto tranquillizzanti.
Fatah al Islam è una
milizia palestinese, anche se sembra che i suoi componenti siano
prevalentemente di altre nazionalità arabe e non si comprende
come abbiano fatto ad entrare così facilmente in Libano. Dal
punto di vista della cosiddetta comunità internazionale, a
questo punto l’esercito libanese sta cercando di applicare le
Risoluzioni 1559 e 1701 e, qualora non vi riuscisse, sulla base delle
predette Risoluzioni sarebbe ampiamente legittimato a sollecitare
l’aiuto internazionale, in primo luogo quello delle truppe
inquadrate nella missione UNIFIL 2 già presenti sul suo
territorio. Appare ragionevole l’idea che l’intervento non si
limiti a Fatah al Islam e che si estenderà alle altre milizie
palestinesi, innescando un’escalation che non potrà non
coinvolgere Hezbollah e dare il via al tragico gioco del domino
pensato dai think tank di Washington e Tel Aviv. Allo stato, questo
scenario è ancora del tutto ipotetico, ma il fatto che sia
stato evocato dal media più informato del mondo arabo dovrebbe
indurre a qualche riflessione. Prima che sia troppo tardi per
riflettere.
Crisi
umanitaria nel campo profughi palestinese di Nahr al-Bared
21/05/07
Da
ieri è in corso nel campo profughi palestinese di Nahr
al-Bared vicino Tripoli , 90 chilometri a nord di Beirut, il
conflitto armato tra l'esercito libanesi e i miliziani del gruppo
ultra-radicale palestinese Fatah al-Islam, considerato vicino a
'al-Qaeda E la scorsa notte un'autobomba è stata fatta
esplodere in un parcheggio del quartiere cristiano di Ashrafieh di
Beirut est. Gli scontri infuriano intorno al campo profughi
palestinese di Nahr al-Bared, che si estende alle porte della città
che ospita circa quarantamila rifugiati. L’esercito libanese
continua a martellare con l'artiglieria pesante il campo, dove si
sono appostati i guerriglieri integralisti. Le Tv libanesi mostrano
le colonne di fumo che si levano in cielo dal campo. La popolazione
civile corre il grave pericolo di essere coinvolta nel conflitto
armato. Il campo profughi è assediato dai militari e rischia
una grave crisi umanitaria. Dopo un breve cessate fuoco la Croce
Rossa ha evacuato 11 feriti dal campo. Il numero
delle vittime
cresce ad ogni ora. I palestinesi nei 12 campi ufficiali e ben 45
campi spontanei sono preoccupati per eventuali future ripercussioni.
Più di 390.000 profughi
palestinesi vivono nei campi in
Libano. La situazione dei profughi già per se drammatica
potrebbe peggiorare. I profughi palestinesi sono privi dei diritti
civili e sociali e non possono usufruire di alcun servizio offerto
dal Paese ospitante. Oltre 60% vive sotto la soglia della povertà .
Il tasso di disoccupazione raggiunge il 42%. E’ altissimo il tasso
di mortalità infantile e maternale (239 per 1.000). I
rappresentanti in Libano dell'OLP e di Hamas, Abbas Zaki e Osama
Hamdan, hanno incontrato il premier libanese Fuad Siniora
apparentemente in ricerca di una soluzione ma finora gli scontri
continuano. Nelle conferenze stampa, i rappresentanti istituzionali
libanesi promettono ferro e fuoco contro i miliziani del Fatah
al-Islam senza prendere in considerazione le conseguenze per i civili
abitanti nel campo. Alcuni osservatori sottolineano il rischio di
estensione del conflitto ad altri campi palestinesi in cui
l’equilibrio politico, dopo gli eventi successi tra Al Fatah e
Hamas a Gaza si regge su un filo sottile. La capitale, Bierut, le
città di Tripoli e Sidone sono assediati dai militari e
dai servizi segreti,e ad ogni angolo dei maggiori quartieri
sono
situati i carri leggeri e posti di blocco. Le ambasciate dei paesi
occidentali consigliano i loro cittadini di evitare i movimenti non
indispensabili, i più pessimisti preparano le valige.
Associazione per la Pace
Libano