L'infinita guerra preventiva di Israele - ed i limiti
dell'unilateralismo
di Michael Warschawski
Martedi 18 luglio 2006
"Noi siamo
in guerra!" rivendicarono cinque anni fa i leader israeliani. Un genere
unico di guerra: una guerra unilaterale, dove solamente una parte, Israele, sta
lottando, colpendo, distruggendo, assassinando, arrestando, torturando. Quando,
improvvisamente, l'altra parte sta lottando, attaccando avamposti militari
israeliani e veicoli blindati, facendo prigionieri di guerra, costoro non
vengono considerati nemici di guerra, ma terroristi che attaccano senza ragione
un stato sovrano.
Cinque anni di
uso quasi unilaterale della violenza hanno creato l'illusione che Israele sia
l'unico attore sul palcoscenico, tutti gli altri sono meri oggetti passivi
della brutalità unilaterale. L'illusione è seguita da sorpresa, e poi da
disillusione.
I Servizi
militari israeliani furono sorpresi dall'attacco palestinese andato a segno
sull'avamposto militare di Kerem Shalom, così come dall'attacco di Hezbollah
sul confine meridionale del Libano; il Mossad è stato sorpreso dall'abilità
dello stesso Hizbollah di colpire importanti città israeliane coi suoi razzi e
missili. La sorpresa è sempre il prezzo da pagare per l'arroganza coloniale e
la sua inabilità strutturale a relazionarsi ai colonizzati come esseri umani,
in grado di pensare, pianificare, agire e reagire.
Tuttavia,
parlando sempre di "Arabi", "minaccia araba", "nemico
arabo", "minaccia musulmana", ecc., gli Israeliani non
comprendono l'ovvio collegamento tra i massacri perpetrati dall'esercito
israeliano a Gaza ed il contrattacco da parte degli attivisti libanesi.
Perciò, essi sono, quasi unanimamente,
sorpresi e profondamente offesi: come osa un'organizzazione libanese attaccare
città israeliane senza alcuna ragione o provocazione da parte nostra?!
Assuefatti all'uso unilaterale della violenza, i cittadini dello Stato
d'Israele in questi giorni sono totalmente disorientati e, come al solito, si
identificano con un sentimento di forte vittimismo, come le vittime dell'odio
globale contro gli Ebrei.
La risposta
strategica del comando militare israeliano è moltiplicare l'uso della violenza,
secondo il vieto concetto militare che "quando la forza fà cilecca, usa
più forza". Essi non hanno la più pallida idea di come i loro
bombardamenti dell'infrastruttura civile del Libano possano avere un impatto
sulla stabilità del regime. Essi sognano di attaccare la Siria, senza alcuna
valutazione seria della potenziale reazione dell'Iran ad un simile attacco,
incluso il possibile incitamento di un'insurrezione sciita contro forze
statunitensi in Iraq. Come ci si aspetta da qualunque esercito coloniale, gli
Israeliani vogliono usare la loro superiorità militare per "dare una
lezione" agli Arabi o ai Musulmani.
Nel frattempo,
gli Israeliani sono gli unici che stanno imparando, con difficoltà, che prima o
poi l'uso unilaterale della forza porta ad un'intensificazione corrispondente
della violenza, e nel prossimo futuro anche loro potrebbero imparare che, nel
Medio Oriente, un conflitto locale può degenerare in una guerra regionale. Il
fatto che una piccola, ben strutturata organizzazione libanese possa provocare
seri danni nel cuore d'Israele è un colpo tremendo alla capacità di dissuasione
dello Stato ebraico, e neanche le tonnellate di bombe gettate sul Libano
potranno cambiare questa nuova realtà.
L'attuale crisi
non è prossima ad una fine, per molte ragioni. Primo, non ci sono segnali che
indichino l'eventualità di una resa, né nei Territori Occupati palestinesi, né
in Libano. Sebbene molti regimi arabi, in particolare Arabia Saudita, Egitto e
Giordania, come anche parte dell'élite governativa libanese, siano scontenti
della contro-guerra di Hezbollah, la brutalità degli attacchi israeliani sta
creando rapidamente un ampio sentimento arabo contro la violenza israeliana ed
in appoggio alla Resistenza. Secondo,
non c'è e non ci sarà nessuna pressione internazionale su Israele; anche
l'Unione Europea sta trattando Israele come vittima avente diritto legittimo di
rivalersi, benché con un uso proporzionale della forza. Terzo, la gente comune
in Israele non considera la perdita delle vite israeliane un fallimento della
politica del proprio governo ed un catalizzatore per un movimento massiccio
anti-guerra, come era durante la guerra libanese nel 1982-1985. La maggioranza
dell'opinione pubblica israeliana, avendo interiorizzato la visione del mondo
dello "scontro di civiltà" e, quindi, il bisogno di una guerra preventiva
e infinita, considera il fatto che ci siano vittime israeliane, civili e
militari, naturale ed inevitabile. In altre parole, il governo non è più
responsabile della sofferenza del popolo israeliano, considerata un prezzo
legittimo da pagare per proteggere lo Stato d'Israele, come parte del
"mondo civilizzato", dalla civiltà musulmana e
"barbara."
L'idea sbagliata
dello "scontro di civiltà" si è profondamente cristallizzata
nell'opinione pubblica israeliana dal 1996, cosa che la rende estremamente
difficile da combattere. Questa cristallizzazione è confermata ulteriormente
dal totale crollo di "Peace Now", di gran lunga la più grande
organizzazione di pace israeliana di massa che è restata in silenzio durante la
brutale guerra di distruzione lanciata da Ariel Sharon tra il 2001 ed il 2005 e
che oggi sostiene l'aggressione israeliana a Gaza ed al Libano.
Ecco perché,
diversamente dalle dimostrazioni del 1982, solamente 800 uomini e donne hanno
dimostrarono a Tel Aviv domenica sera contro le operazioni di aggressione in
Libano e la politica israeliana della forza. Per quanto possano essere
coraggiosi e determinati, gli attivisti del movimento anti-coloniale in Israele
non possono cambiare il corso delle azioni del governo e il suo intenzionale sforzo
per arrivare ad una guerra senza fine nella regione. Comunque, la loro chiara
opposizione alla politica israeliana di guerra è la prova vivente che non c'è
nessuno "scontro di civiltà" definitivo o, usando le parole dei portavoce israeliani, "un
problema generale di cultura" tra Ebrei ed Arabi. C'è, effettivamente, un
scontro - un scontro, da un lato, tra coloro che a Washington e a Tel Aviv
stanno cercando di approdare ad una ricolonizzazione del mondo sotto la
dominazione delle società per azioni multinazionali e l'Impero degli Stati
Uniti, e, dall'altro, i popoli del mondo che aspirano alla vera libertà, alla
sovranità e alla vera indipendenza.
Traduzione di Benedetto Palombo