RICORDANDO….. DANIEL
AMIT
Una diretta
conseguenza della guerra
Daniel
Amit, nato in Polonia nel 1930, cittadino italiano dal 1999, era un importante
scienziato, pioniere delle reti neurali. Immigrato in Palestina nel 1940, fu
professore di Fisica a Gerusalemme, poi a Roma dal 1991. Amit è conosciuto, non
solo come grande ricercatore scientifico, ma anche come uomo profondamente
impegnato nel conflitto israelo-palestinese. Ha riproposto, con estrema
fermezza, il tema del rapporto fra scienza - potere - forza militare.
Nell’aprile 2003, infatti, mentre le truppe alleate entravano a Baghdad, prese
la decisione di interrompere la quarantennale collaborazione che aveva con la
Physical Review, rivista dell’American Physical Society, troncando così ogni
rapporto ufficiale con la comunità scientifica statunitense. Questa scelta fu
fatta perché l’intreccio tra scienza, politica e militare negli Usa, in quel
ultimo periodo, era diventato molto stretto, tanto da rendere la comunità
scientifica, o almeno una parte di essa, corresponsabile della realizzazione e
dell’uso di armi micidiali. Un esempio è dato dal fatto che, nel 2002, un gruppo
di riviste scientifiche statunitensi ed inglesi ha deciso di darsi un
regolamento che avrebbe limitato la libera conoscenza scientifica in settori
considerati “delicati”. Il tutto con la scusa che potevano essere usate da
gruppi terroristici contro gli Stati Uniti. Un altro esempio viene dal
Massachusetts Institute of Technology di Boston, dove nel 2003 è nato
l’Institute for Soldier Nanotechnologies. Istituto per lo sviluppo delle
nanotecnologie, con lo scopo, sostiene il suo direttore “ di incrementare la
protezione e la sopravvivenza dei soldati di fanteria”. Si parla di “tute
invisibili”, corazze leggere e imperforabili, scarponi avveniristici per creare
solo guerrieri invincibili. Per tutto ciò gli scienziati di questo istituto
hanno potuto beneficiare, per cinque anni, di fondi molto generosi: cinquanta
milioni di dollari dal governo federale ed altri quaranta milioni da privati.
Pochi scienziati dunque, di fronte a queste lusinghe economiche e pressioni
politiche, riescono ad apporsi a questa collaborazione. La scelta di Amit è
stata, come è facile capire, molto criticata dalla maggior parte degli altri
scienziati, perché ha riaperto l’antico tema della responsabilità sociale della
scienza. Tema molto importante nell’era delle guerre
preventive.
Il ricordo di Luisa
Morgantini:
Daniel Amit ci ha
lasciato. Si è ucciso nella sua casa a Gerusalemme.
Non sopportava più il dolore di vivere in un mondo cosi' violento e
ingiusto.
Non trovava più la forza di
credere che valesse la pena continuare a resistere, che potevamo
farcela.
Anche Daniel è vittima
dell'ingiustizia.
L'8 Giugno, anniversario
di quarant'anni di occupazione militare era con noi in piazza a Roma, per dire
basta all'occupazione militare israeliana, a chiedere giustizia ed uno stato per
i palestinesi, a dire basta alle guerre.
Mi
mancherà molto, mi mancheranno anche i suoi messaggi di sostegno e di
incitamento a continuare, e non posso accettare che sia morto.
Dovremo ricordarlo, cerchiamo di vedere i
modi.
Sancia gli era credo più vicina di
tutti noi. E' lei che oggi mi ha comunicato la sua morte.
Vi abbraccio.
Dall’inferno della Palestina
(La rivista del manifesto n.27
aprile 2002)
TESTIMONIANZE CONTRO IL MALE
Daniel
Amit
Se avessi anch’io fatto
il mio dovere di uomo, se avessi cercato di far valere la mia voce, il mio
parere, la mia volontà, sarebbe successo? E perciò è necessario che spariscano
gli indifferenti, gli scettici, quelli che usufruiscono del poco bene che
l’attività di pochi procura, e non vogliono prendersi la responsabilità del
molto male che la loro assenza dalla lotta lascia preparare e succedere.
(Antonio Gramsci)
Mentre sto scrivendo
queste righe non è ancora chiaro se la pressione americana su Israele per
fermare la violenza generalizzata contro i palestinesi sia seria o effimera,
come la dichiarazione del presidente Bush, dopo l’11 settembre, che asseriva la
necessità di uno Stato palestinese. Se è credibile la storia recente, ci sarà un
breve periodo segnato da un’azione anglo-americana più equilibrata nei confronti
di Israele, per preparare la coalizione in sostegno all’attacco all’Iraq.
Seguirà una riduzione del livello di violenza militare (per qualche tempo Arafat
potrà fare una gita o due), seguito da un attentato palestinese, spontaneo o
provocato dai coloni o da qualche militare di medio rango che capisce i desideri
del governo, seguito a sua volta da un nulla osta degli americani (e in coda
dagli europei) per una nuova eruzione di violenza dello Stato
israeliano.
Intanto ogni giorno vengono
superati nuovi limiti di violenza e di barbarie, e, come scrive Lanfranco
Caminiti («il manifesto», 9.3.2002), «ormai è difficile capire quale sia
l’occhio e quale sia il dente, tutto è solo un grumo sanguinolento indistinto».
Invece è assai chiaro che una distinzione c’è ed è esplicita: non è mai stato
proposto ai palestinesi il minimo, cioè il possesso del 22% del territorio della
Palestina storica, come territorio a loro piena sovranità. E allora un
israeliano (o un sostenitore d’Israele) vive (e pratica) questo orrore
nell’incertezza se ci sia o meno una via d’uscita a condizioni accettabili e
sensate, che prendano in considerazione sia l’esistenza, sia la sovranità ma
anche la sicurezza d’Israele, nonostante sia ormai diventato palese che né i
Territori, né le colonie, né l’estrema violenza contribuiscono alla sicurezza o
alla fiducia in sé dello Stato d’Israele. Come dicono apertamente i militari di
Seruv 1: «L’obiettivo dell’occupazione e della repressione non serve [alla
difesa dello Stato di Israele] e noi non parteciperemo». Infatti, non c’è mai
stato un periodo, nemmeno prima della guerra del 1967, in cui la
demoralizzazione, la paura, l’incertezza del futuro siano arrivati ai livelli
attuali.
Una delle cose più difficili per
la società liberal-tecnologica odierna sembra sia l’ammissione del fallimento
del calcolo e delle previsioni unilaterali basati su calcolatori ed elicotteri
Apache. Come se una tale ammissione mettesse in questione l’ethos stesso della
cultura su cui si regge la più profonda sicurezza psicologica. Sembra che la
centralità dell’approccio razional-tecnologico nella formazione dell’etica
dominante prenda il sopravvento sui valori fondamentali per cui queste società
si autodefiniscono: la vita umana, la dignità umana, i diritti umani, lo Stato
di diritto, ecc. Si spara sulle ambulanze, ma non si ripensa la politica. Che lo
spazio della politica non sia stato mai esplorato per la questione
israelo-palestinese è (come ho scritto poco prima) assai ovvio. Ma questo è
altrettanto vero per le aggressioni che l’America e la Gran Bretagna hanno
scatenato almeno dal Vietnam in poi. Il deputato Kucinich (Ohio) ha detto in
pubblico (il 17.2.2002): «Non abbiamo chiesto che il sangue della gente
innocente uccisa l’11 settembre sia vendicato col sangue di contadini innocenti
in Afghanistan».
Si spara alle ambulanze.
Solo negli ultimi giorni l’esercito israeliano ha ucciso 17 persone in servizio
medico, ne ha ferite 185, e ha attaccato 170 volte ambulanze, tutte chiaramente
segnalate. Si bombardano indiscriminatamente case e scuole, cannonate a tappeto
su Gaza, e ora anche su Tul Karem e su Ramallah. Si entra nelle baracche e nelle
casupole dei territori autonomi e si passa da una casa del campo profughi
all’altra ‘attraverso i muri’. La gente delle case viene espulsa con i gas (ma
gli viene impedito di tornarvi). Nei campi vengono arrestate centinaia e
centinaia di persone senza aver diritto ad un avvocato. L’Associazione per i
diritti civili (un’importante organizzazione israeliana liberale) «si è rivolta
con urgenza e insistenza all’esercito perché fosse reso pubblico il luogo di
detenzione degli arrestati, e perché fosse reso possibile ai loro avvocati di
incontrarli». Però, aggiunge il comunicato dell’associazione (10.3.2002),
«Questa richiesta è finita, come tante altre fatte durante questa Intifada». Il
4 marzo, alle 13, un carro armato israeliano ha colpito due automobili; Bushra
Abu Quaik, una madre, e i suoi tre figli (Mohammad (9 anni), Baraq (14), e Aziza
(17)) sono stati uccisi così a Ramallah insieme ad altri due bambini di sette
anni. Uno dei soldati di Seruv mi racconta, durante la loro prima
manifestazione, dell’ordine ricevuto di schiacciare con un carro armato un
palestinese sospetto, con quella che si chiama «procedura della bomba a mano»,
il carro armato la mette sotto e la fa esplodere.
L’inferno non è descrivibile in un racconto che non diventi troppo lungo,
ripetitivo e noioso. Quando si torna da laggiù e si seguono le notizie e i
comunicati (decine al giorno), si capisce un po’ l’incubo di Primo Levi, che
sogna di essere tornato nella sua Torino, e attorno a un tavolo, a cena, di
cominciar a raccontare Auschwitz, e si accorge che nessuno lo sta ascoltando
(non perché Ramallah assomigli ad Auschwitz, o perché io sono un reduce di
Ramallah, ma perché gli orrori non si possono raccontare abbastanza, e
ascoltarli o leggerli è sempre troppo). Questa storia non parlerebbe dei bambini
vivi che girano sotto shock, della gente per strada che guarda sempre in alto
per cercare di indovinare le intenzioni degli elicotteri che sorvolano le città
autonome, talvolta uccidendo le madri (come posso testimoniare, di persona, a
Ramallah, il giorno prima del massacro della `madre coi figli’, un figura
simbolo ebraica della festa di Hanuka).
E
invece, a Gerusalemme, o a Tel Aviv, regna la paura. Belle giornate e nessuno
negli autobus, che prima erano sempre affollati. Il monopolio del trasporto,
Dan, di Tel Aviv è alla bancarotta. Attentato kamikaze dopo attentato: più
violento è l’attacco dell’ esercito, più terribile è la risposta del terrorismo
suicida, del tutto incontrollabile dalla violenta risposta militare. Per
spiegare questa sconfitta dell’intero quadro, sia concettuale che tattico, del
far ‘capire’ con la forza, si dovrebbe cercare nei meandri della psicologia del
potere moderno.
In una casa di anziani sono
bene in vista i giornali popolari «Yediot» e «Màariv». Un anziano dice
all’altro: – Ma secondo te bisogna rioccupare il territorio autonomo e buttare
fuori quell’Arafat? E l’altro risponde: – Sei matto? A cosa servirebbe? Quelli
non smetterebbero mai. Così (con Arafat qua) li teniamo sotto controllo. Non c’è
scelta, dobbiamo dargli uno Stato, e basta. Un altro anziano, guardando i
giornali, dice: – L’economia sulla faccia, la sicurezza sulla faccia. È
un’espressione dialettale israeliana per dire ‘disastro totale’. Gli chiedo: – E
la faccia? Un novantenne con lo sguardo perso all’orizzonte dice: – La faccia è
cosparsa di sangue, usando la parola ebraica che descrive le mani di Lady
Macbeth.
Quello che sconvolge e appare
paradossale in questo inferno di odio, paure, violenze, ingiustizie, massacri,
suicidi, terrore, è che in entrambe le società, quella israeliana e quella
palestinese, in tutto questo periodo tormentato non è mai cessata l’attività
della società civile. Questa attività, civile o sociale, è diretta per la
maggior parte verso la propria comunità in un tentativo di educazione o di
realizzazione di funzioni trascurate dai governi. Parlo delle ben note Ong
locali. Naturalmente conosco meglio le decine di iniziative israeliane di questo
tipo e su alcune di queste mi soffermerò di seguito. Ma abbondano anche le
associazioni palestinesi, di sanità publica e di prevenzione, per i diritti
delle donne, di educazione e di formazione alla costruzione di istituzioni
democratiche (a volte più creative di quelle che conosciamo in Occidente), di
educazione all’eliminazione della cultura della violenza dopo la fine del
conflitto ecc.
In Israele la diffusione di
iniziative dal basso non è mai cessata, nemmeno durante la più ossessiva
pressione propagandistica durante le diverse guerre, le due Intifada, o dopo il
fallimento delle trattative per un accordo definitivo (Camp David, Taba), o
anche durante i periodi di più acuta tensione tra la popolazione ebrea e quella
araba. Un numero elevato di queste associazioni, da entrambe le parti, si
rivolge spontaneamente alle associazioni affini dell’altro popolo. In parte
questi tentativi nascono dalla convinzione che una comunione di interessi
sociali dovrebbe creare una comprensione più facile al di là dei confini: donne
con donne, medici con medici, avvocati e attivisti di diritti con i loro simili,
artisti con artisti, gente attenta alla qualità dell’informazione delle due
parti ecc. Un altro motore della ricerca delle associazioni nei due campi è
costituito dal fatto che spesso, in Israele, le Ong di impegno civile attraggono
membri della comunità degli arabi israeliani, che, come minoranza discriminata,
ha una forte coscienza sociale. I legami tra ebrei e arabi in queste
associazioni si trasformano assai naturalmente in ricerca di contatti e di
solidarietà con i palestinesi nei territori occupati; o per conseguenza
dell’affinità nazionale degli arabi israeliani e dei palestinesi occupati; o
perché gli ebrei di queste associazioni presto generalizzano il lavoro comune
con concittadini arabi in uno slancio di solidarietà con i palestinesi. Una
terza forza, non meno importante, che promuove queste relazioni sono i contatti
comuni con le Ong e le associazioni estere per la pace, che lavorano nella
regione e interagiscono con quelle locali.
Lo stesso fenomeno può essere visto da un altro punto di vista. Il
piccolo territorio della Palestina storica (27.000 km2) è attraversato da tante
frontiere che separano ma che possono anche avvicinare e incuriosire. «La
frontiera non è soltanto un luogo di separazione dove si afferma la differenza;
potrebbe essere anche uno spazio di scambio e di arricchimento, ove si possono
generare identità multiple. È là che possono nascere degli incontri che non si
potrebbero creare da nessun’altra parte perché, dentro il grembo delle proprie
tribù, incontriamo di solito delle copie di noi stessi», scrive il militante per
la pace per eccellenza, Michel Warschawski (Sur la frontière, Stock,
2002).
Molte di queste associazioni si
aggregano per motivi solidaristici, o per il sostegno militante alla lotta degli
altri che si ritiene giusta, o per la convinzione etica e politica che una causa
che esiga tante violazioni di diritti non può essere giusta. Tali posizioni
vengono sempre più spesso considerate suicide. Infatti, come ha scritto
recentemente Edward Said: «Credo che finalmente la politica di Sharon è apparsa
suicida a un numero significativo di israeliani, anche perché un numero
crescente di israeliani condivide la posizione degli ufficiali di riserva
avversa al servizio militare nei territori occupati come modello di opposizione
e di resistenza. Questo è il risultato migliore dell’Intifada».
Spero che qualcuno stia facendo un elenco sistematico di
tutte le iniziative e dei gruppi oggi in campo. Saranno alcune decine, tra
grandi e piccoli, tra vecchi e nuovi, settoriali o generali, etnocentrici e
internazionalisti, ebrei e misti ebreo-arabi. Forse, sulla linea di Edward Said,
i più interessanti, emersi nel periodo ‘post Oslo’, sono Seruv e Tàayush 2.
Nessuno dei due è una novità assoluta, ma c’è una sensazione netta che le cose
stiano cambiando. Seruv è un figlio, un po’ mutato e adeguato alle nuove
condizioni, di Yesh Gvul 3. Quest’ultima organizzazione, formatasi nel 1982
durante l’invasione israeliana del Libano, compie in giugno vent’anni e in
occasione dell’anniversario ha in programma un grande evento di sostegno agli
obiettori.
Quello che è assai particolare,
sia per Yesh-Gvul che per Seruv, è l’obiezione selettiva. Mentre Yesh-Gvul, a
differenza di Seruv, sostiene anche pacifisti per convinzione ideologica,
entrambe puntano al rifiuto selettivo. Per l’organizzazione madre, l’obiezione è
a priori e parte dal presupposto che l’occupazione, sia del Libano che del
territorio palestinese, è inaccettabile ed esprime la mancanza di una vera
volontà da parte di Israele di vivere in pace. Seruv, invece, parte
dall’esperienza diretta sul campo nel vivo dell’esperienza della politica di
repressione dell’Intifada. L’assenza di un approccio a priori si dimostra anche
nel fatto che tutta questa gente ha, per più di un anno, partecipato (come
riservisti, un mese all’anno) all’attività militare nei Territori. Si
riconoscono nelle posizioni dello storico Elam («il manifesto», 26.2), che dice:
«I soldati di riserva che rifiutano di servire nei Territori, hanno la giustizia
formale e la giustizia sostanziale dalla loro parte, perché nei territori vige
una situazione che è a priori illegale: non perché c’è un regime di occupazione
[corsivi miei, D.A.], ma perché c’è un regime mostruoso, un vero sistema di
apartheid, inteso ad assicurare l’esistenza e la prosperità di 200.000 coloni
ebrei, considerati cittadini di Israele, alle spese dell’esistenza, della
prosperità e della libertà di 3.200.000 palestinesi che sono cittadini di
niente». Infatti, l’appello all’esperienza diretta si è mostrato assai efficace,
sia per il ricorso alla categoria dei crimini di guerra, sia per la
testimonianza diretta del prezzo umano che si paga continuando la politica di
occupazione e colonizzazione.
È bello
guardare il sito di questi soldati, che oggi sono 331. Accanto a molti nomi c’è
un link che riporta alla loro testimonianza. Se ci si sofferma sul nome di
Shamai Leybovitz (il nipote del filosofo-scienziato religioso che ha annunciato
la fine dell’occupazione qualora si arrivasse a 500 soldati obiettori), si trova
una dettagliata argomentazione religiosa per giustificare il rifiuto e
l’opposizione all’occupazione (purtroppo questo testo appare solo in
ebraico).
Il gruppo Tàayush è stato descrito
in dettaglio da Zvi Schuldiner («il manifesto» 6.3.2002). Anche questa
organizzazione trova i suoi precedenti in un lungo lavoro da sempre svolto
attivamente nel Partito comunista, nel quale si sono ritrovati insieme per tanti
anni arabi e ebrei che cercavano la coesistenza, la riconciliazione, la
cooperazione, sia nella prospettiva di una convivenza all’interno dello Stato di
Israele, sia per solidarietà con i palestinesi sotto occupazione. La
partecipazione massiccia degli arabi israeliani nel Partito comunista ne faceva
il veicolo principale di superamento delle frontiere. Oggi, con la formazione di
partiti nazionalisti degli arabi israeliani, il peso del Pc è diminuito. D’altra
parte, il bisogno di esprimere solidarietà sta sempre crescendo, sia per
l’aumento della violenza israeliana nei territori, sia, dopo l’uccisione di 13
manifestanti, arabi cittadini israeliani, nell’ottobre 2000, per il pericolo che
la frontiera arabo-palestinese all’interno di Israele divenga un luogo di aspri
conflitti. Questa organizzazione si è infatti costituita dopo l’inizio della
nuova Intifada nel novembre 2000. Opera su due piani: «Per l’ugualianza di
diritti civili, politici, e sociali all’interno di Israele; e per la fine
dell’occupazione e la costituzione di uno Stato palestinese indipendente nei
Territori» 4.
È commovente scorrere nel sito
di Tàayush il numero e la varietà delle iniziative in corso o già svolte. E
altrettanto commovente vedere la collaborazione attiva tra i diversi gruppi. Non
passa un giorno senza che in parti diverse di Israele e dei Territori quattro o
cinque iniziative diverse si snodino promosse da gruppi di ogni
tipo.
Il potere del male resta enorme:
quando, come accade spesso, esso supera sempre di nuovo tutti i limiti
immaginabili, tutto sembra futile. Mentre vengono scritte queste righe, mi
arrivano messaggi su messaggi dai Territori. Uno da Ramallah dice: «Abbiamo
bisogno del vostro aiuto… siamo totalmente occupati a Ramallah, cannonate e
spari, la battaglia dentro Amari (campo di profughi) è durata tutta la notte…».
Uno da Gaza, da AP: «Carri armati e truppe israeliane hanno invaso il campo
profughi della Striscia di Gaza e scatenato una battaglia feroce, uccidendo
almeno 17 palestinesi, smentendo la decisione di Israele di finirla con la
reclusione di Arafat» 5.
note:
1 Seruv, ‘rifiuto’ in ebraico, vedi: .
2 Tàayush, ‘insieme’ in arabo, vedi: .
3 Yesh Gvul , ‘c’è un limite’ in ebraico,
vedi: .
4 Vedi il sito web citato.
5 Questa, come tutte le altre traduzioni,
sono dell’autore.