UN
NOME… UNA SPERANZA …. “ANNAPOLIS”
Mirca
Garuti
L’indifferenza
degli Stati Uniti, nei confronti del popolo palestinese, in questi
ultimi mesi, si è trasformata in un interesse così
profondo, tanto da voler organizzare una conferenza “di pace” per
cercare di fare riprendere i negoziati tra Israele e Palestina.
Questa improvvisa attenzione, non è certamente dovuta alla
preoccupazione per le sofferenze dei palestinesi, ma è
scaturita, invece, dalla consapevolezza di aver capito che, il fulcro
della situazione medio orientale, che si vuole ridisegnare, è
Gerusalemme. Gerusalemme è città santa per gli ebrei,
per i cristiani e per i musulmani; qualsiasi negoziato, quindi, deve
tenere conto di questo.
Dal
1948 al 1967 la città è stata divisa in due: la parte
occidentale agli ebrei, quell’orientale agli arabi. Dopo la Guerra
dei sei giorni (1967), Israele conquistò anche la parte est ed
iniziò la costruzione di vari insediamenti intorno alla città
santa, ampliando così i confini municipali per inglobare il
maggior numero possibile di popolazione ebraica.
Un
trattato di pace, quindi, che possa escludere una qualsiasi forma di
sovranità palestinese su Gerusalemme est, è destinato
al fallimento.
Grandi
preparativi, dunque, per organizzare un nuovo piano di pace, chiamato
“Fine dell’oscurità” dai quattro grandi della Terra:
Usa, Russia, Onu e Ue.
Luogo
del vertice
Annapolis
si trova nello Stato del Maryland ed è stata la prima capitale
americana, dopo la fine della guerra d’indipendenza nel 1783. In
origine si chiamava Providence (sarà un augurio?), ma, solo
dopo il 1694, prese l’attuale nome, in onere della principessa
Anna, futura regina di Gran Bretagna. Nel 1786 fu qui convocata una
riunione (Annapolis convention) dei delegati di tutti gli Stati
dell’Unione. Si dovevano stabilire le misure per una migliore
regolamentazione del commercio. Non fu, però, una convention
fortunata, perché si dovette rinviare ogni decisione ad un
altro incontro, poichè intervennero i delegati di soli cinque
Stati. Si tenne l’anno successivo a Philadelphia, dove nacque,
proprio in quell’occasione, l’attuale Costituzione degli Stati
Uniti.
Annapolis,
oggi, è conosciuta perché ospita l’Accademia navale
americana, fondata nel 1845. E’, inoltre, ricordata nel famoso
libro di Alex Haley “Radici”, per essere la città nella
quale sbarcò, dalla nave “Lord Ligonier”, proveniente dal
Gambia, il 5 luglio 1767, il suo antenato Kunta Kinte.
Annapolis
dunque, dopo essere stata al centro di uno degli incontri preliminari
più efficaci per la nascita degli Stati Uniti d’America, si
trova, a distanza di più di duecento anni, ad essere il luogo,
forse più importante, da dove iniziare un percorso di pace.
Tre
giocatori in bancarotta
Uri
Avnery, giornalista e pacifista israeliano, in una dichiarazione
rilasciata al quotidiano “Il Manifesto” il 22 novembre scorso,
afferma che questo summit è destinato al fallimento, perché
giocato fra tre giocatori in bancarotta, che non hanno un centesimo
da mettere sul tavolo. Bush e Condoleezza Rice – continua Avnery –
devono dimostrare che gli Usa sono veramente impegnati a promuovere
la pace e la democrazia e che possono riuscire dove, invece, Henry
Kissinger, Jimmy Carter, Bill Clinton, hanno fallito. Evidentemente
Bush vuole finire “in bellezza” il suo mandato ed essere
ricordato, quindi, come “il più grande”.
Ehud
Olmert ha bisogno di un forte risultato politico per cancellare il
fallimento della guerra in Libano e per allontanare da sé le
decine d’inchieste penali per corruzione che lo affliggono. La sua
posizione è debole ed i partner di governo gli proibiscono di
arrivare a qualsiasi accordo. La Knesset, il parlamento israeliano,
ha votato una legge che richiede una maggioranza dei due terzi per
qualsiasi cambio di confine della Grande Gerusalemme.
Abu
Mazen, invece, vuole dimostrare a Hamas ed ai gruppi ribelli
all’interno di Al Fath, che può arrivare dove Yasser Arafat
ha fallito: essere accettato fra i grandi leader del mondo.
Infine
Uri Avnery tocca il nodo cruciale, relativo a quanto è
richiesto ai palestinesi, dallo stato d’Israele: riconoscere
Israele come “stato ebraico”.
Ma
cos’è uno “stato ebraico”? Non è mai stato
chiarito. Si chiede dunque ai palestinesi di riconoscere qualcosa che
è oggetto ancora di discussione all’interno dello stesso
stato d’Israele. La definizione di “stato ebraico” non può
essere accettata dai palestinesi perché questo modificherebbe
la condizione di un milione e mezzo di palestinesi che oggi sono
cittadini d’Israele. Questa richiesta è posta proprio perché
è inaccettabile; in questo modo, hanno l’opportunità
di una utilizzare una scusa per non avviare seri negoziati.
“Quando
i leader della comunità ebrea in Palestina, conclude Avnery,
dovevano firmare la dichiarazione d’indipendenza, il 14 maggio
1948, il documento non era pronto. Seduti davanti alle macchine
fotografiche e alla storia, dovettero firmare su una pagina bianca.
Temo che qualcosa di simile avverrà ad Annapolis”.
L’incontro
Il
fatidico incontro è, infine, avvenuto il 26 e 27 novembre
scorso. Sono stati invitati oltre quaranta paesi, tra i quali anche
Brasile e Polonia, sebbene non avessero mai avuto un ruolo importante
nelle questioni medio orientali. Presenza giustificata forse solo,
dalla loro politica filo-Usa.
La
partecipazione siriana, invece, è stata, fino all’ultimo
momento incerta, ma alla fine, Damasco ha accettato l’invito degli
Stati Uniti. Consenso subordinato alla garanzia dell’inserimento
nell’agenda dei lavori, della questione delle alture contese del
Golan, occupate ed annesse da Israele nel 1967, durante la Guerra dei
Sei Giorni. Tale convocazione significa, quindi, che la Siria non è
più considerata solo “uno stato canaglia”.
L’Arabia
Saudita, invece, ha legato la sua partecipazione nel quadro
diplomatico della conferenza, alla garanzia dell’inclusione del
piano di pace proposto dall’attuale sovrano, re Abdullah, ed
accettato dalla Lega Araba nel 2002 a Beirut.
Unico,
così, grande assente, tra i principali paesi islamici, rimane
l’Iran.
La
nascita di un probabile Stato Palestinese, comporta necessariamente
dei riflessi negli altri paesi arabi e, di conseguenza, la loro
presenza, è doverosa.
Come
d’altra parte, sarebbe stata molto importante ed efficace, la
partecipazione di Hamas, grande escluso di quest’iniziativa.
“ Mai
con i terroristi” è lo slogan americano, ma come si fa a non
tenere conto della realtà delle cose, a non voler accettare la
volontà di un popolo e ad imporre, invece, la propria? Non si
può rifiutare il dialogo con Hamas, Hezbollah e Iran, se
veramente le intenzioni sono quelle di porre fine a questa guerra
infinita.
Non
ci sarebbe pace in Irlanda, per esempio, senza l’Ira!
Perché
invitare 40 rappresentanti di tutto il mondo e lasciare invece più
di metà dei Palestinesi senza una rappresentanza?
Hamas
non è solo la milizia armata che ora domina la Striscia di
Gaza, ma è, prima di tutto, il movimento politico che ha vinto
in Palestina le elezioni nel gennaio 2006. La vittoria di Hamas ha
subito la reazione degli Stati Uniti e dell’Europa, con l’embargo,
come punizione, per essere stato un popolo che “aveva votato male”,
senza minimamente cercare di analizzare la situazione.
Hamas
ha infine comunicato che “Il popolo palestinese non terrà
conto delle eventuali decisioni prese alla conferenza, che non lo
impegneranno, non avendo autorizzato – certe persone – a redigere
un trattato sui loro diritti”.
Con
queste premesse, i potenti hanno dato il via ai “giochi”. Il
premier israeliano Olmert e il presidente dell’Autorità
nazionale palestinese Abu Mazen non hanno letto la tanto attesa
dichiarazione congiunta! Non c’è stato, infatti, l’accordo
sulla sua formulazione, troppe erano le divergenze, ognuno ha
mantenuto il proprio punto di vista. Difficile è quindi
immaginare che possano esserci svolte clamorose sul suolo americano.
Per Olmert comunque, la cosa importante, è quella di essere ad
Annapolis, perché, qui, ha la possibilità di trovare
leader arabi con i quali non ha normalmente rapporti ufficiali. Più
che un vertice di pace, questo, quindi, sembra essere un vertice di
pubbliche relazioni.
Anche
per Abu Mazen, che nel frattempo, ha accettato tutte le condizioni
poste da Israele, specialmente quell’inerente alla lotta ai
combattenti dell’intifada a Nablus, la cosa più importante,
è quella di ottenere un pieno appoggio arabo.
Abu
Mohammad, portavoce del gruppo armato che fa capo a Fatah, ha,
infatti, spiegato ad un giornalista del Manifesto, che non sono più
solo gli israeliani, ma anche i poliziotti palestinesi, a dare loro
la caccia. “Il rais Abu Mazen vuole una tregua e noi siamo
disposti a rispettarla – continua Mohammad – ma, le armi non le
cediamo, perché dobbiamo difenderci dai soldati israeliani.”.
Il
paradosso, infatti, della situazione è quello che, mentre
l’Anp lotterà contro il terrorismo e le sue infrastrutture,
l’occupazione israeliana, continua, invece come al solito, senza
tregua.
I
temi principali dell’incontro sono stati quelli riguardanti il
sostegno internazionale al processo di pace, le riforme istituzionali
e un accordo di pace globale in Medio Oriente. Bush ha definito
questo momento “ un’opportunità
storica” per israeliani
e palestinesi e che “adesso”
è il momento giusto per riprendere i negoziati. “Adesso è
il momento di dimostrare ai palestinesi che il loro sogno di uno
stato palestinese libero e indipendente può essere raggiunto
con i negoziati di pace”. Bush, infatti, dichiara che, israeliani e
palestinesi hanno concordato di avviare “immediatamente”
negoziati per arrivare ad un accordo di pace “entro il 2008” e
che sono determinati a mettere fine alla violenza.
I
palestinesi devono combattere il terrorismo e gli israeliani devono
porre fine all’occupazione iniziata nel ’67. “ Oggi –
continua Bush – palestinesi e israeliani capiscono entrambi che
aiutare l’altro a realizzare le proprie aspirazioni è la
chiave per raggiungere le proprie: entrambi hanno bisogno di uno
Stato palestinese indipendente, democratico. Uno stato che assicurerà
ai palestinesi la possibilità di vivere in libertà,
stabilità e dignità. E agli israeliani qualcosa che
cercano da generazioni: vivere in pace con i loro vicini”.
Abu
Mazen afferma che Gerusalemme Est dovrà essere la capitale del
futuro stato palestinese. Olmert, da parte sua, si augura che, nel
2008, ci saranno negoziati diretti, permanenti e continui con i
palestinesi. Nessuno, però, parla di Gaza e della sua
difficile e preoccupante situazione. Nessuno parla dei profughi e del
diritto al ritorno. Nessuno parla di o con Hamas. Eppure esistono.
I
territori palestinesi sono divisi in due; da una parte la Striscia di
Gaza, controllata da Hamas e dall’altra, la Cisgiordania
amministrata dall’Autorità Palestinese di Abu Mazen. I
negoziati, quindi, in realtà si limitano ad un dialogo
parziale.
Si
può quindi affermare, che Annapolis non sia stata una vera
conferenza di pace, ma bensì una riunione di guerra.
Contemporaneamente
ad Annapolis, si svolgeva a Roma, presso l’Auditorium Parco della
Musica, un gran concerto di pace ed un appello per la giustizia. Pax
Christi, con questa rappresentazione, ha voluto lanciare la sua
“Campagna” per non dimenticare i sessantanni della Nakba
(catastrofe).
Le
note, dunque, del celebre violinista palestinese Ramzi Aburedwan, i
testi della giornalista-scrittrice israeliana Amira Hass, la
performance dell’attore palestinese Mohammad Bakri e del
raccontastorie ebreo Moni Ovaia, in un impasto di lingue
(arabo-ebraico-inglese-italiano) affrontano la questione “pace”
attraverso il racconto di una storia vera piena di speranza: la
storia di Ramzi. Ramzi nasce nel 1979 nel campo profughi di Al Amari
e a otto anni diventa famoso per aver lanciato nella prima intifada
contro un tank israeliano, le pietre che “la terra continuava a
partorire”. Ramzi non è un personaggio storico, non è
morto, non è un martire, né uno sconfitto.
La
musica diventa quindi protagonista. Consente alla pietra di colpire
il bersaglio. Chi la suona è protagonista, come lo è la
vicenda collettiva del popolo palestinese lunga 60 anni.
“La
vera sicurezza – esprime Moni Ovadia – si ottiene solo con la
pace e la pace si conquista con il pieno riconoscimento dell’altro,
con l’accoglienza del suo volto”.
La
Road Map….ritorna
Il
punto di riferimento dell’incontro di Annapolis, considerato dagli
Stati Uniti come la base di partenza della fase finale del negoziato
israelo-palestinese, è stato, ancora una volta, la Road Map.
Torna quindi in scena, come protagonista principale, la road map del
2003, considerata, già allora, impraticabile e indeterminata.
Il
12 novembre 2001 si costituisce il famoso “quartetto”,
protagonista oggi di Annapolis, allora formato dal segretario
generale dell’Onu (Kofi Annan), dal segretario di Stato Usa (Colin
Powell), dall’alto rappresentante dell’Ue (Javier Solana) e dal
ministro degli Esteri russo (Igor Ivanov). Il 20 dicembre 2002,
Ue-Usa-Onu-Russia s’incontrano a Washington, dove elaborano una
prima bozza della “road map”. Il 30 aprile dell’anno
successivo, il documento è stato consegnato al premier
israeliano Ariel Sharon, dall’ambasciatore Usa in Israele, mentre
invece, al nuovo premier palestinese Abu Mazen, dagli inviati in
Medio Oriente di Onu, Unione Europea e Russia. La consegna, quindi,
di questo nuovo piano di pace, risulta essere piuttosto curiosa ma
emblematica, considerando anche il fatto che, in tutto questo, Yasser
Arafat ne rimane escluso.
La
road map è accettata dai palestinesi, mentre Israele invece
esprime riserve. Il 02 maggio 2003, gli Usa presentano la Road Map,
all’Onu. L’accordo doveva risolvere il conflitto
israeliano-palestinese e mettere fine all’occupazione cominciata
nel 1967, basandosi sulle conclusioni della conferenza di Madrid, sul
principio terra per la pace e sulle risoluzioni Onu 242,338 e 1397.
Il quartetto doveva poi incontrarsi con regolarità per
valutare i progressi delle parti.
La
road map prevedeva tre fasi: la prima, vera base dei negoziati,
riguardava la fine del terrore e della violenza, la normalizzazione
della vita palestinese, la ristrutturazione delle sue istituzioni ed
il riconoscimento reciproco. La seconda, chiamata, la transizione,
aveva come obiettivo la costituzione di uno Stato indipendente
palestinese con confini provvisori
basato su una nuova Costituzione. La terza, infine, doveva portare
all’accordo definitivo con la fine del conflitto
israelo-palestinese, previsto per il 2005.
Il
paradosso era che, ogni fase doveva dare la priorità alla
responsabilità palestinese, di assicurare la sicurezza
d’Israele. La Road Map, però, non completò neppure la
sua prima fase. Gli incontri di Powell con Sharon e Abu Mazen,
infatti, non produssero efficaci sviluppi. Nella prima fase,
l’autorità palestinese aveva creato un apparato di
sicurezza, supervisionato dalla CIA con addestramento da parte delle
forze di sicurezza giordane ed egizie, che aveva l’obiettivo di
eliminare la resistenza palestinese. Aveva quindi ordinato, per le
sue posizioni assunte, agli attivisti di Al Fatah di lasciare le
armi. Alcuni di loro accettarono la richiesta, mentre una parte
consistente si era rifiutata, portando nuovi attacchi contro i
soldati e coloni israeliani. Le altre fazioni principali, come Hamas,
la Jihad islamica e il Fronte Popolare per la liberazione della
Palestina, avevano condannato la road map, dichiarando la loro
volontà di continuare la resistenza all’occupazione. I
palestinesi avevano, quindi prima di tutto, l’obbligo di
riconoscere il diritto d’Israele di esistere in pace e sicurezza.
Abu Mazen, proprio per questo motivo, aveva ricevuto pochissimi
consensi, poiché il popolo palestinese sospettava che avrebbe
ubbidito solo agli ordini di Stati Uniti e d’Israele.
L’obbligo
d’Israele, invece, era di mettere in atto tutte quelle disposizioni
necessarie al fine di contribuire alla normalizzazione della vita dei
palestinesi. Doveva, innanzi tutto, iniziare a rinunciare a tutte le
azioni che minavano la fiducia reciproca, come gli attacchi alla
popolazione civile ed alla confisca o distruzione di case e beni dei
palestinesi. Infatti, l’impegno assunto era di ritirarsi dalle aree
dei territori occupati dal 28 settembre 2000 (data d’inizio della
seconda intifada) e di smantellare le colonie costruite dal marzo
2001.
Sharon,
però, era contrario a tutto ciò e voleva continuare a
mantenere tutti gli insediamenti nella West Bank, anzi, il suo
obiettivo non era certo quello di frenare il numero dei coloni
israeliani sul territorio palestinese. Infatti, Israele, nel 2004,
annuncia che considera le aree che il Quartetto ritiene “occupate”,
unicamente quelle fuori dai propri maggiori blocchi d’insediamento
e dalla grande Gerusalemme. Così, in modo del tutto
unilaterale, Israele riuscì a ridurre il territorio da
negoziare con i palestinesi dal 22% al 15% e, frammentandolo anche in
tanti distretti.
Il
Muro
Un
Muro di difesa per gli israeliani nei confronti dei palestinesi.
Un
Muro di protezione, come unico strumento per racchiudere paure e
pericoli, mai sconfitti.
Un
Muro di schiavitù per tutti quelli che ne sono imprigionati
all’interno, senza libertà.
Un
Muro vergognoso ed inaccettabile per tutti gli altri che lo osservano
da fuori.
La
costruzione del Muro, “barriera difensiva” per gli israeliani,
“Muro dell’apartheid” per i palestinesi, è iniziata il
16 giugno 2002, di domenica.
Gli
israeliani spiegano che sarà ad alta tecnologia, che sarà
fatta di reticolati ad alta tensione, rotoli di filo spinato,
barriere anti-carro, profonde trincee, lastroni di cemento armato
alti tre metri, sensori ad onde magnetiche, telecamere mobili e
torrette di guardia. I palestinesi, naturalmente, iniziano subito
una protesta. Permettere la realizzazione del Muro significa,
infatti, legalizzare pratiche non consentite, come la separazione
fisica tra popoli e razze e la negazione della libertà di
circolare. Inoltre il Muro non segue il tracciato della Linea Verde
(linea di confine stabilita tra Israele e Palestina nel 1967), ma lo
costeggia ad est, in un raggio di 5-20 chilometri di distanza, per
inglobare popolosi blocchi d’insediamenti ebraici. In questo modo,
Israele si prende una parte considerevole della Cisgiordania,
stabilendo un confine arbitrario, contro tutte le norme
internazionali. Israele sostiene che questa barriera è
necessaria per fermare le infiltrazioni dei terroristi palestinesi e
che il confine disegnato dal Muro è solo un confine “di
sicurezza” e non geo-politico. Di fronte a tutto ciò il
mondo occidentale tace, l’Onu sottovaluta la situazione e l’Europa
e gli Stati Uniti non s’impegnano minimante a documentarla. Il
Muro, alla fine della sua esecuzione, avrà una lunghezza di
600 chilometri, contro i 350 della Linea Verde. Il Muro è alto
8 metri ed è circondato da fossati, larghi dai 60 ai 100 metri
e da reti di filo spinato. Il costo complessivo è di un
milione di dollari al chilometro.
Il
Muro è uno dei pochi argomenti su cui, sia la destra che la
sinistra israeliana, si sono trovate d’accordo. Divergono solo
sulle diverse modalità di costruzione, ma per entrambi il Muro
è fondamentale per fermare gli attacchi terroristici. Ma il
Muro non separa Israele dalla Palestina, non la protegge da
attentati, ma si addentra, invece, nei territori occupati della West
Bank, separando gli abitanti dei villaggi dai loro campi, i campi
dalle acque, i centri agricoli dai mercati, i villaggi dalle città,
i bambini dalle loro scuole, gli operai dalle loro fabbriche, i
pazienti dagli ospedali e le famiglie dai loro parenti. Esso
rappresenta la realizzazione del vecchio progetto sionista di
aggiungere ad Israele “il massimo di territorio con il minimo di
arabi”. Nella sola “prima fase” della sua costruzione, il Muro
ha distrutto trenta chilometri di rete idrica, sradicato circa
102.320 alberi e demolito 85 edifici commerciali, decine di ripari
agricoli, oltre alla confisca e distruzione di 14.680 dunum (unità
di superficie) di terreni agricoli. Non si tratta, però, di un
Muro unico che si snoda attraverso la regione, ma di tanti Muri:
quello, per esempio, occidentale verso Israele che sposta il confine
del 1967 di molti chilometri all’interno della Cisgiordania e
quell’orientale, parallelo al primo, ma dalla parte della
Giordania, che annetterà ad Israele anche tutta la valle del
Giordano. C’è poi ancora, la barriera che avvolge
Gerusalemme est, staccandola, così, dal resto della
Cisgiordania con una parte di Betlemme ed il centro di Hebron ed
infine, quello che circonda la striscia di Gaza. Vi sono poi i muri
che circondano completamente alcune città, come Gerico o
Qalqilya, trasformandole unicamente in ghetti chiusi. In questo modo
non solo sarà ridotta la superficie del futuro stato
palestinese, ma risulterà, così, spezzata in quattro
grandi bantustan o
riserve indiane, senza continuità territoriale, senza sbocchi
verso la Giordania, senza la sua capitale politica-religiosa con le
moschee di Omar e di Al Aqsa (terzo luogo santo nel mondo per i
fedeli dell’Islam), senza fonti d’acqua e le terre migliori. La
costruzione del Muro dell’apartheid intorno a Gerusalemme ha un
preciso scopo: serve per dividere la parte settentrionale da quella
meridionale della Cisgiordania; per avere l’accesso ed il controllo
israeliano sulla valle del Giordano; per bloccare ogni collegamento e
passaggio di merci e persone tra Gerusalemme e la Cisgiordania; per
accelerare l’espulsione dei palestinesi residenti a Gerusalemme ed
infine per renderla più ebraica possibile.
Il
percorso del Muro, quindi, segue questi obiettivi. Numerose colonie
sorgono, intorno alla città, isolando spesso villaggi
palestinesi adiacenti. La popolazione palestinese, isolata da
Gerusalemme, perde dunque l’accesso al lavoro, alle istituzioni
sanitarie e educative, alle terre e, migliaia d’ulivi, alberi di
mandorle e vigne saranno quindi sradicati o diventeranno
irraggiungibili. I palestinesi che, sono riusciti a restare
all’interno della città, devono avere un permesso speciale
per la residenza, da dover sempre mostrare ai controlli.
Il
“Muro” quindi divide le popolazioni sulla base della razza e
dell’etnia. Secondo il diritto umanitario internazionale, il Muro è
chiaramente un crimine di guerra. E’ illegale, anche per la
legislazione internazionale sui diritti dell’uomo.
Lo
stato d’Israele rifiuta di applicare il diritto internazionale nei
territori palestinesi occupati ed anche in Israele, rifiuta di
riconoscere sia i diritti civili e politici, sia quelli economici e
sociali, della popolazione palestinese. Israele rifiuta di
riconoscersi “occupante” della Cisgiordania e della striscia di
Gaza.
Se
è questa la terra promessa, come si può essere
occupanti della propria terra promessa?
Si
parla spesso di terrorismo, ma poi ci si dimentica di parlare
dell’occupazione.
L’occupazione, non è una cosa che si può negoziare.
La
debolezza maggiore, sia del processo di Oslo che della road map, è
quella riguardante l’accettazione che gli insediamenti come le
altre terre palestinesi sequestrate, siano oggetto di negoziato. In
questo modo, si mette in secondo piano l’illegalità
dell’occupazione.
Tutti
i Muri devono cadere. Per la fine di tutte le occupazioni e per una
pace giusta in Palestina.
La
conclusione……… della farsa
Il
summit di Annapolis, infine, è giunto al termine e sembra non
abbia avuto molto effetto sulla politica israeliana. L’alleato
americano, in fondo, ha chiesto ad Olmert solamente di offrirsi ad
uno spettacolo mediatico, come poter quindi rifiutare? Chiusa la
conferenza, si torna alla normalità “dell’occupazione”!
Infatti,
Olmert congela subito, le attese dei pacifisti, mentre avanza una
novità dal Labor Party (partito Di Lavoro, partito politico
sociale-democratico israeliano, basato sui valori del movimento di
lavoro ebreo), con la proposta di dare una compensazione ai coloni
che volontariamente abbandonino la West Bank. Tutto questo quando, al
termine del meeting, gli Stati Uniti presentano al Consiglio di
Sicurezza un testo (di una sola paginetta) che prevede solo un
calendario di incontri tra i due leader, per cercare di
ufficializzare l’incontro tra il premier israeliano ed il Capo
dell’Autorità nazionale palestinese. Il governo israeliano,
però, obbliga Bush a ritirarlo immediatamente e il vice
ambasciatore Usa all’Onu ubbidisce, comunicando la notizia del
ritiro della bozza di risoluzione. Questo rifiuto non è stato
determinato dal contenuto, basato sempre sui capitoli della road map
e insistendo sulla necessità di disarmare i bracci armati dei
partiti palestinesi, ma dal fatto che Israele voglia evitare che
l’Onu possa intervenire su questioni ritenute “interne”.
Olmert, molto diplomaticamente, da una parte sconfessa il documento
firmato ad Annapolis con Abu Mazen, dall’altra assicura la sua
disponibilità a voler continuare un dialogo fra le parti. Con
calma e tempo. Forse fra qualche anno. La scadenza presa per
l’accordo finale alla fine del 2008, è in pratica da
considerarsi impossibile, causa i temi troppo impegnativi. Infine,
per non scontentare la sinistra del Labor, Olmert rilascia,
un’intervista al quotidiano Haaretz, con questa dichiarazione: “Se
la soluzione dei due stati crollasse e ci trovassimo di fronte ad una
lotta per il diritto di voto anche per i palestinesi dei Territori,
com’è avvenuto in Sudafrica, allora, in quel momento, lo
Stato d’Israele, è finito”. Il riferimento al sistema di
segregazione sudafricano è molto indicativo perché, in
questo modo, il premier israeliano ha ammesso che quello che sta
accadendo, all’interno dei territori occupati, non è altro
che un regime d’apartheid. Inoltre i numeri e le tendenze
demografiche sostengono che tra qualche anno, i palestinesi saranno
la maggioranza. Ci potrà essere, quindi, una situazione in cui
una minoranza ebraica, più ricca e potente, controllerà
una maggioranza palestinese priva di diritti e di risorse. I due
Stati sono, quindi, per Olmert una necessità perché in
questo modo, potrà tracciare una divisione netta tra Israele
“patria del popolo ebraico” e un bantustan
arabo(termine usato
durante l’apartheid in Sudafrica per definire i territori assegnati
alle etnie nere) come patria dei palestinesi. Un luogo dove far
“tornare” anche i profughi che perderebbero in questo modo, il
loro diritto a ritornare nelle loro località d’origine in
Israele. Olmert, in realtà omette di dire che l’eventuale
stato palestinese avrà una sovranità limitata,
indipendente a parole ma ancora sotto il controllo d’Israele. In
special modo per quanto riguarda l’economia. Il piano dunque
d’Israele è cambiare tutto per non cambiare niente.
La
conferenza di Annapolis, in fondo, ha però anche un merito:
quello di aver fatto parlare le organizzazioni sioniste americane, in
particolare quelle ultraortodosse. Hanno, infatti, dichiarato, in
modo unanime, che la “riunificazione” di Gerusalemme, ottenuta
nel 1967, non è, per nessuna ragione, negoziabile. Questa
ingerenza ha sorpreso Olmert che ha subito replicato che questi sono
affari interni israeliani e come tali sono di pertinenza esclusiva
dei cittadini israeliani. Le organizzazioni ultraortodosse americane
hanno però profondi legami con i partiti religiosi nelle
alleanze del governo israeliano, quindi potranno influire sulle varie
decisioni.
La
partita, dunque, è completamente aperta.
L’impegno
assunto da Olmert, durante il meeting, di “congelare” lo sviluppo
delle colonie, si è subito dissolto con la progettata
costruzione di 307 unità abitative nel sobborgo di Gerusalemme
di Har Homa.
E,
nel frattempo, la situazione a Gaza è ormai insostenibile.
All’indomani di Annapolis, infatti, l’Alta Corte di Giustizia
israeliana, ha dato il via al piano del governo Olmert per la
riduzione delle forniture di gasolio e benzina alla Striscia di Gaza.
Gaza ha bisogno ogni giorno di 300mila litri di gasolio e 120mila di
benzina, Israele invece ne fornisce solo rispettivamente 90mila e
20mila. Le autorità di Gaza devono quindi razionalizzarne la
distribuzione fra ospedali, scuole, uffici, abitazioni, lasciando
fuori “i terroristi” che lanciano razzi. Ma, è evidente
che il vero obiettivo è solo quello di portare al collasso
Gaza, mettere in ginocchio Hamas. I giudici israeliani non hanno
fermato questa decisione, si sono solo limitati a chiedere
“chiarimenti”.
La
conferenza di Annapolis, in ultima analisi, sancisce la divisione
esistente tra i palestinesi. L’Autorità Nazionale
Palestinese ha rotto il proprio isolamento politico e le sue casse
sono state riempite da finanziamenti, risanando così il suo
deficit di bilancio e potendo, in questo modo, dare inizio alla
ricostruzione delle istituzioni, in particolare dei servizi di
sicurezza. L’ANP, infatti, dovrebbe estirpare il terrorismo,
disarmare i gruppi paramilitari illegali e riprendere il controllo di
Gaza, possibilità estremamente difficile. Intanto, Israele
prende tempo. Israele ha bisogno dell’ANP, purchè rimanga
debole e sia vincolata alle trattative come unico mezzo di soluzione
del conflitto. La sua esistenza, infatti, libera Israele dalle
proprie responsabilità di stato occupante e, permette allo
stato ebraico di continuare a trattare, nel tentativo di farle
accettare quello che vuole imporre.
Israele
e gli Stati Uniti sono i paesi che hanno organizzato la conferenza di
Annapolis, sono quelli preposti a controllarne l’applicazione e
quelli che ne hanno tratto maggior vantaggio. Anche perché i
palestinesi hanno ottenuto solo risultati limitati e formali. Bush e
Olmert hanno parlato d’Israele come dello “Stato
degli ebrei” e da ogni
discorso e da ogni parola pronunciata è emerso solo che la
priorità assoluta è data alla “sicurezza”
d’Israele.
Qualsiasi
trattativa che non ha, come punto fondamentale, la delegittimazione
dell’occupazione, non
può essere una trattativa nell’interesse delle vittime, ma
solo nell’interesse dell’occupante.
Negoziati
come questo possono solo portare: al fallimento e al ritorno allo
scontro, all’esplosione della situazione interna palestinese, ad un
accordo peggiore di quello di Oslo o ad una terza Intifada
palestinese.
Nel
frattempo, si continua a morire.