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Medio Oriente » Usa-Israele e il rischio di una terza intifada  
PALESTINA: DALLA CRISI USA-ISRAELE AD UNA NUOVA INTIFADA?

 



Le frizioni tra la nuova amministrazione statunitense e Israele tutto possono essere tranne che sorprendenti. Compreso lo stile di brutalità con le quali sono emerse.

La brutalità diplomatica, e non solo,  del nuovo governo israeliano…e dell’ “opposizione”

Tzipi Livni, ex primo ministro israeliano, criminale di guerra, durante i bombardamenti sulla striscia di Gaza del 2008-2009 rivendicò, in modo chiaro, che la politica israeliana sarebbe stata costellata da azioni “folli”. Lei è una che se ne intende: in 22 giorni, sotto la sua responsabilità, sono stati assassinati 1.400 civili palestinesi, di cui un numero intollerabile di bambini.
La Livni è la rappresentante moderata di un’«opposizione» al governo il più oltranzista, razzista e xenofobo della storia israeliana.  Il governo è peggio. 
In questo quadro, appena abbozzato, non è sorprendente che il ministro dell'interno israeliano  Eli Yishai, esponente dell’estrema destra religiosa, abbia contribuito a tendere i rapporti con gli USA, annunciando, durante il viaggio nella regione del vice presidente John Biden, la costruzione di 1.600 nuovi alloggi nella colonia di Ramat Shlomo, a Gerusalemme Est. Tutto questo dopo che l’inaugurazione, in grande stile, di una restaurata sinagoga, risalente al XVII secolo, sita a poche centinaia di metri dalla Moschea di Al Aqsa, aveva già prodotto, agli inizi del mese di marzo, scontri tra palestinesi e esercito israeliano.
Si può perfettamente concordare con Gideon Levy, una delle poche voci rimaste lucide del giornalismo israeliano, che in un editoriale su Hareetz, il giorno dopo l’annuncio di Yishai, ringrazia il ministro per aver sollevato la nebbia della patina dorata con cui si voleva avvolgere la visita di Biden in Palestina.

L’agenda degli USA non coincide con quella israeliana

È chiaro che ora, a poco più di un anno dall’annunciato ritiro dall’Iraq, l’amministrazione USA ha bisogno urgentemente di allentare la tensione sul dossier palestinese.
Il tentativo avviato ormai da mesi dall’amministrazione Obama è quello di tornare al “clima di Oslo”. Per questo motivo, Biden aveva il compito di approntare un “negoziato indiretto”. Indiretto perché è evidente l’impossibilità di poter avviare un negoziato reale. Sarebbe bastato poco a Obama, Biden e Clinton per ritenersi soddisfatti.
In cambio di una loro posizione intransigente contro l’Iran e il suo nucleare, si sarebbero accontentati di una promessa di congelamento degli insediamenti a Gerusalemme est. Ovviamente, anche se ciò è insufficiente, una cosa simile sarebbe bastata agli USA per imporre all’ANP di Abu Mazen di accettare dei negoziati.
Se lo scompiglio prodotto da Yishai ha provocato una crisi che non possiamo prevedere come si concluderà, tuttavia conferma un dato: le agende di Stati Uniti e Israele, oggi, non coincidono.
A Tel Aviv, durante il discorso tenuto all’università, Biden ha detto parole precise in questo senso: « A volte proprio un vecchio amico di Israele, appunto come me, deve far sentire la sua voce».
Questo, ovviamente, non significa che concretamente, come si è già detto, gli USA siano pronti a rimettere in discussione la politica di colonizzazione della Cisgiordania, che prosegue indisturbata, né, ancor più, la costruzione del Muro di separazione e l’assedio feroce alla striscia di Gaza. Ciò significa che, come ribadito da Netanyahu nel suo viaggio negli Stati Uniti, il suo governo rivendica il «diritto» a costruire a Gerusalemme perché si rivendica Gerusalemme come capitale eterna dello Stato ebraico di Israele. Per altro a Gerusalemme, compresa la sua periferia, già vivono 200.000 coloni.
Moshe Dayan, il generale che nel giugno 1967 conquistò la parte est della città, con questo slogan attraversò la Porta di Damasco, uno degli accessi alla città vecchia di Gerusalemme.
Oggi, nel 2010, Netanyahu inscrive l’azione politica del suo governo in questa direzione, mai abbandonata in questi quarantatre anni di occupazione.
Netanyahu e il governo israeliano si possono permettere questa disinvoltura perché è chiaro che l’alleanza di fondo con gli Stati Uniti – soprattutto quella militare – non è scalfita neanche dalla brutta figura di Biden in Medioriente e neanche dalla vendetta attuata dallo staff della Casa Bianca che ha tenuto, la visita di Netanyahu negli USA e soprattutto il suo incontro con Obama, nell’ombra.

Verso una terza intifada?



L’altra carta in mano a Netanyahu è il caos che regna sovrano in campo palestinese e arabo.
Certo, l’ANP di Abu Mazen, sempre più in crisi, cerca di recuperare credibilità presso il suo stesso popolo grazie a questa crisi.
In molti scordano facilmente tre cose elementari: la subalternità dell’ANP verso Israele, la complicità dell’ANP nei massacri di un anno fa a Gaza e il ruolo attivo dei Paesi Arabi, soprattutto dell’Egitto, nell’assedio di Gaza. I palestinesi, anche di Cisgiordania e di Gerusalemme Est, non dimenticano, al contrario.
A guardare la mappa degli scontri esplosi a marzo, ci si rende conto che essi sono scoppiati lì dove l’ANP e le sue forze di repressione erano meno presenti. I centri più grandi della Cisgiordania erano totalmente controllati ed era impossibile una qualsiasi forma di protesta.
Questo a dimostrazione del fatto che l’ANP sta puntando a inserirsi nello scontro tra Stati Uniti e Israele come elemento passivo. Di questo atteggiamento evidentemente cerca di approfittare Hamas.
Con la proclamazione della giornata della collera, il primo venerdì dopo l’annuncio dei nuovi 1.600 alloggi a Gerusalemme Est, l’organizzazione di ispirazione islamica ha cercato di inviare un messaggio all’ANP: state attenti che riusciamo, se vogliamo, a prendere la leadership della rivolta anche in Cisgiordania. Ma questo, oltre all’effetto propagandistico, è tutto da dimostrare.
Ciò che invece emerge in modo chiaro è che Hamas cerca di riprendere il ruolo che aveva prima del 2006, quando, anche se può sembrare paradossale, la vittoria schiacciante alle elezioni legislative, lo ha messo più in difficoltà di quanto si aspettasse.
Negli anni precedenti al 2006, Hamas ha costruito il suo consenso e il suo radicamento tra la popolazione palestinese, grazie al fatto che si presentava contemporaneamente come l’unica forza politica in grado di garantire un sostegno concreto alla popolazione e contraria agli accordi di Oslo.
A causa dell’assedio a Gaza sicuramente la capacità di garantire il sostegno concreto è molto diminuita. Inoltre, in vari momenti, le conseguenze di questo si sono trasformate in scontri armati anche all’interno della Striscia prima contro Fatah (giugno 2007) e poi contro altre formazioni politiche di ispirazione islamica ben più estremistiche di Hamas (2009).
Inoltre, non è un dettaglio secondario, Hamas deve far fronte a condizioni di vita a Gaza sempre più intollerabili.
Una vera e propria catastrofe economica: nell’arco di due anni, il 95%  delle imprese hanno chiuso e il 98% degli impieghi, nel settore privato, sono andati distrutti. L’impossibilità di importare cemento ed altri materiali edili, impedisce di fatto la ricostruzione dopo la devastante distruzione del 2008-2009.
Inoltre, a meno di non volersi bendare gli occhi, il clima politico a Gaza è tutto tranne che rose e fiori.
Questo, ovviamente, non significa sposare l’idea che stia per realizzarsi il progetto israeliano, europeo, statunitense e arabo di una rivolta della popolazione palestinese di Gaza contro Hamas. Significa non perdere mai di vista di che natura è l’organizzazione politica Hamas: un’organizzazione conservatrice e reazionaria che fa della religione lo strumento privilegiato di controllo politico, culturale e sociale.
Il compito di Hamas viene «facilitato» da Israele che l’assedia e tenta di «sradicarla» militarmente e dall’ANP che cerca di usare questo assedio e le aggressioni militari perché non ha speranza alcuna di sostenere il confronto, dai Paesi arabi e l’Occidente che partecipano a pieno ai piani di Israele.
Ma la decomposizione quasi totale delle organizzazioni politiche in Cisgiordania sia che siano  o no legate all’ANP e, l’inefficacia assoluta sul piano politico ed economico dell’ANP,produce anche l’effetto, che, a lungo termine, non può che dare risultati implosivi, dell’impossibilità di sfruttare in positivo l’afflusso consistente di aiuti economici che essa riceve dall’estero.
L’ultima iniezione, 500 milioni di dollari, l’ha ricevuta in queste settimane dalla Lega Araba.
Lega Araba che, riunita d’urgenza dopo le dichiarazioni israeliane su Ramat Shlomo, non ha potuto che prendere atto del fallimento del piano lanciato, del tutto ignorato da Israele, nel 2002 dall’Arabia Saudita e, che consisteva nell’impegno da parte araba a riconoscere Israele in cambio della restituzione dei Territori Occupati, compresa Gerusalemme Est.
Si può osservare che la Lega Araba ha impiegato otto anni a capire ciò che era chiaro già nel 2002, quando Sharon iniziò la costruzione del Muro e che aveva come obiettivo quello di annettersi di fatto gran parte della Cisgiordania, creando l’ennesimo fatto compiuto.
Oggi, dopo le enormi mobilitazioni di un anno fa al fianco dei palestinesi di Gaza, i Paesi Arabi hanno (come molte altre volte nella storia) la necessità di far finta di schierarsi per evitare che le proprie popolazioni scelgano fino in fondo la via dell’opposizione interna. Tra l’altro, al contrario di ciò che si pensa, nei diversi Paesi arabi non tutto è piatto e inamovibile.
Gli scontri di queste settimane in Cisgiordania, con quattro giovani adolescenti assassinati, in meno di dodici ore tra il 20 e il 21 marzo, hanno fatto ricordare in parte ciò che avvenne nel dicembre 1987 allo scoppio della prima Intifada e nel settembre 2000 allo scoppio della seconda.


Ma oltre alla banale constatazione del mutato contesto generale, le differenze con le due precedenti rivolte sono abissali, soprattutto con la prima Intifada.
All’epoca, quello che sembrava un episodio (un camionista israeliano che investì otto lavoratori palestinesi) di  « ordinario razzismo e colonialismo»  divenne, invece, la miccia che avrebbe incendiato tutti i Territori Occupati e, si rivelò una rivolta auto-organizzata che riuscì  a mantenere, a lungo, lo scontro con l’esercito occupante,  a coordinarlo ed a renderlo efficace politicamente.
Ciò che rese tutto questo possibile furono diversi fattori, ma tre di essi influirono in modo determinante: la Cisgiordania e Gaza erano occupate direttamente dall’esercito israeliano; il gruppo dirigente dell’OLP, nell’esilio dorato di Tunisi, solo dopo alcuni mesi, riuscì a prendere il controllo della rivolta; le organizzazioni che, nei Territori Occupati,rappresentavano la galassia dell’OLP, con l’esclusione di Hamas, nei venti anni di occupazione avevano sviluppato un coordinamento  «di base » e una collaborazione politica che non era assolutamente caratteristica dell’OLP  «dell’esterno».
Soprattutto il terzo elemento portò alla nascita del Comando Nazionale Unificato, di fatto una direzione all’interno dei Territori Occupati che non si contrapponeva ufficialmente all’OLP, ma, che era comunque alternativa ad essa. Si era creato quello che si può definire un  «dualismo di potere» tra interno ed esterno. L’organizzazione interna consentì il coinvolgimento capillare della popolazione palestinese, sganciando le rivendicazioni dirette del popolo in rivolta dalle alchimie diplomatiche in cui era invischiata all’esterno l’OLP.
Questo  « dualismo di potere » era inaccettabile per la direzione dell’OLP a Tunisi che riuscì alla fine, a disarticolare l’auto-organizzazione interna, grazie anche a Israele che chiuse gli occhi sulla nascita (nel 1988) di Hamas e sulla sua crescita. Anche se,  è necessario sottolinearlo, la carta vincente per Hamas fu quella di presentarsi presso i palestinesi come alternativa all’OLP, di cui non mancava di sottolineare la corruzione.
Come  è noto, la prima Intifada  « finì  » con gli accordi di Oslo dopo sei anni di strenua lotta che la popolazione palestinese pagò con un prezzo umano altissimo.
Ma sicuramente la pantomima che si svolse sul prato della Casa Bianca nel 1993 non sarebbe stata possibile senza la prima Intifada.
Quegli accordi erano il risultato dell’incrociarsi di tre interessi: Israele aveva capito che, nonostante l’OLP avesse determinato lo  « svuotamento » dell’Intifada, doveva creare le condizioni perché una cosa simile non si ripetesse; l’OLP aveva bisogno come l’aria di un  «risultato» da esibire al proprio popolo; i Paesi imperialistici, in primis gli USA, avevano bisogno di un  «risultato» sul versante più pericoloso del Medio Oriente, soprattutto dopo il fallimento della prima guerra del Golfo nel 1991.
I sette anni di tregua che dividono la firma degli accordi di Oslo e lo scoppio della seconda Intifada nel 2000 rivelano in pieno alla popolazione palestinese l’intreccio degli interessi di cui prima si parlava.
La colonizzazione anziché essere fermata, o anche solo diminuita, raddoppierà.
Il rientro, con grande clangore di trombe, della direzione dell’OLP, in primis di Yasser Arafat, nei Territori Occupati, invece di essere il presupposto per la costruzione di una direzione politica in loco che avesse come obiettivo quello di arrivare ad uno Stato indipendente, si trasformò, in breve tempo, al contrario, nella crescita esponenziale di un apparato che, di fatto, aveva come compito prioritario il controllo dei palestinesi, perché gli obiettivi di Oslo, tutti favorevoli a Israele, si realizzassero.
Quando Ariel Sharon, nel 2000, con la piena collaborazione del governo allora presieduto da Ehud Barak, compì la provocazione, passeggiando, attorniato dalla stampa internazionale e dall’esercito, sulla Spianata delle Moschee, era chiaro che i palestinesi avrebbero reagito.
Quella che fu chiamata la seconda Intifada, però, aveva profonde differenze con la rivolta del 1987.
Le divisioni all’interno dell’apparato dell’ANP portarono alla militarizzazione della rivolta, con l’esclusione della popolazione. Al posto degli scioperi generali, le milizie dell’ANP che non avevano a disposizione che poche armi leggere, iniziarono a reagire agli attacchi dell’esercito israeliano, che, non facendosi sfuggire l’occasione, rispose usando, contro i fucili,tutte le armi a sua disposizione: dagli elicotteri di guerra ai carri armati. Il conto è presto fatto se si tiene conto che quello israeliano è l’esercito più tecnologizzato del Medio Oriente.
Il costo umano fu enorme e pagato molto più rapidamente che in precedenza.
La leadership di Arafat era sempre più in difficoltà: dal lato militare (cosa scontata visto la sproporzione dei mezzi in campo), dal lato politico, ancor di più, perché si sforzava di tenere insieme il «profilo diplomatico di Oslo» e, contemporaneamente, di apparire comunque a capo della rivolta. Cosa che ovviamente risultava impossibile.
La marginalizzazione delle masse portò lo scontro su un livello insostenibile, ossia quello militare.
Nel 2002 Sharon lancia l’operazione «Scudo di difesa» che altro non era che la reinvansione militare della Cisgiordania.
In seguito a questa operazione fu iniziata la costruzione del Muro di separazione, che, in realtà,  serve solo  ad appropriarsi delle terre palestinesi e alla messa sotto assedio di Yasser Arafat, nel suo quartier generale alla Muqata a Ramallah, dove rimase prigioniero e malato in pratica fino alla fine dei suoi giorni, nel novembre 2004.
Dopo la sua morte, l’ANP non ha alcun gruppo dirigente reale e credibile e, la scelta di investire nella successione, un burocrate scialbo come Mahmud Abbas, non fa che acuire le contraddizioni.
Contraddizioni che nel gennaio 2006 si traducono nella vittoria imponente di Hamas alle elezioni legislative.
Hamas, nel corso degli anni, si delineò come un’organizzazione assai pragmatica, ben lontana dall’estremismo confessionale che caratterizzava altre organizzazioni politiche di ispirazione islamica in altri Paesi arabi. In altri termini, essa portava avanti la lotta in nome di Allah, ma soprattutto contro Israele: infedele, ma anche occupante, o almeno in questo modo l’ha percepita la maggioranza della popolazione palestinese, soprattutto a Gaza.
Questo pragmatismo ha messo in sordina il suo carattere religioso. Anche perché, a differenza di altri Paesi arabi in cui lo scontro confessionale è più drammatico (l’Iraq), sia a Gaza che in Cisgiordania, l’omogeneità religiosa, ossia la stragrande maggioranza sunnita e una minoranza cristiana, ha permesso a Hamas di presentarsi innanzitutto e sostanzialmente ancora come l’organizzazione che privilegiava la resistenza agli accordi a tutti i costi.
Quando nel giugno 2007 forzando l’acceleratore dello scontro arrivò a cacciare gran parte dei dirigenti di Fatah, ancora presenti a Gaza, la situazione mutò radicalmente.
Questo mutamento consisteva fondamentalmente in due fattori: Hamas si trovava a gestire e non cogestire il potere, il blocco imposto da Israele, con la complicità esplicita di alcuni Paesi arabi, soprattutto l’Egitto, gli USA e l’Europa diventa totale.
L’ANP, dal canto suo, cerca di approfittare della divisione tra Cisgiordania e Gaza, ma nonostante tutto il conto è ancora sbagliato.
Da un lato, come abbiamo già detto, c’è l’incapacità di gestire in modo appropriato le risorse economiche di cui dispone, dall’altro, la volontà di non uscire dalla «logica di Oslo» porta l’ANP a restare, di fatto, estranea alla lotta quotidiana dei palestinesi di Cisgiordania: dal Muro all’espansione delle colonie, alla sempre maggiore violenza dei coloni e dell’esercito.
Quando poco più di un anno fa l’ANP accettò l’aggressione israeliana contro Gaza, sperando le risolvesse, così, un po’ i problemi, essa per non precipitare nell’abisso dei propri errori,cercò goffamente di fare marcia indietro, ovviamente, senza riuscirci.
E gli scontri di questo drammatico inizio di primavera lo dimostrano.
Non possiamo prevedere ora se si andrà verso una «terza Intifada». Certo, il clima resta incandescente e, come abbiamo tentato di spiegare, molto più confuso rispetto al passato.



Prospettive

Oggi Hamas è certamente più in difficoltà.

Da un lato, per le conseguenze dell’aggressione e dell’assedio, come rilevato sopra, ma anche, se non soprattutto, perché è chiaro che una «stabilizzazione religiosa» che le consenta di conservare il controllo della Striscia, non è scontata.
La galassia dei gruppi «jihadisti», che si riconoscono nella rete di Al Qaida e che, come obiettivo, hanno la costituzione a Gaza di un emirato islamico, cresce e cerca di approfittare del fatto che, dopo la devastante aggressione del 2008-2009, il governo di Hamas a Gaza sta cercando una via d’uscita politica, non solo militare.
Questo, ovviamente, passa anche attraverso il cercare di fermare i lanci di razzi contro Israele, cosa che avviene utilizzando una forza di sicurezza interna di quindicimila agenti, che su una popolazione di un milione e mezzo di persone non è poca cosa.
Hamas cerca anche di edulcorare il proprio pragmatismo introducendo leggi che impediscono alle donne di andare in moto e ai parrucchieri di avere clientela femminile.
Inoltre, per garantirsi i fondi economici ha imposto una tassa sulle «merci di importazione» che a Gaza significa solo una cosa: tassare i beni di prima necessità che riescono ad entrare nella striscia dai tunnel sotterranei che la collegano all’Egitto.
Sulle prospettive occorre essere prudenti perché, nonostante la divisione tra Gaza e Cisgiordania, è chiaro che, è una pura illusione, poter pensare che queste due porzioni del popolo palestinese abbiano destini separati.
Sia in Cisgiordania e che a Gaza vanno formandosi delle nuove aggregazioni politiche diffuse in cui confluiscono sempre più persone. Queste non si possono però confondere con quella che in Occidente amiamo chiamare «società civile»  che significa niente, sia qui che lì.
L’organizzazione di comitati in Cisgiordania che nascono sempre più spesso per lottare contro il Muro, i check-point, la colonizzazione, che non di rado vedono anche la presenza di israeliani; e, la nascita, a Gaza dei comitati per la lotta contro la «zona cuscinetto» imposta da Israele, una vasta zona frontaliera che di fatto impedisce a molti contadini di lavorare quelle terre, tra le più fertili della striscia, sono lì a dimostrare, ancora una volta, che nulla si può dare per scontato in Palestina.
Ma tutti questi sono segnali da tenere presenti per poter comprendere  se ci potrà essere o no una terza Intifada sulle orme della prima.
Per altro, i giovani palestinesi che, nel mese di marzo, si sono più volte scontrati con l’esercito israeliano non fanno certo riferimento organico a Hamas, né, ovviamente, all’ANP.
Certo, i giovani palestinesi non hanno alcun timore di scontrarsi con uomini in divisa, siano israeliani o palestinesi, ma è anche vero che, se non troveranno una sponda politica adeguata alle loro richieste, ma solo un rimaneggiamento di vecchi slogan, magari sotto mentite e «nuove» spoglie, i loro sforzi, e certamente le loro vite, andranno sprecati.

07/04/2010

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