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Medio Oriente » Verso il Kurdistan:Incontri e testimonianze 3°part  

(Leggi 2° parte)

VERSO IL KURDISTAN: INCONTRI E TESTIMONIANZE
(3° parte)

di Mirca Garuti

DIYARBAKIR: MADRI DELLA PACE e TUHAD FED, associazioni che si occupano di madri e famiglie che hanno perso o che hanno in carcere mariti, figli, padri, fratelli o sorelle.

 

ASCOLTA L’INTERVISTA AL DEPUTATO CURDO ALTAN TAN



Lasciati i festeggiamenti del Newroz, siamo ancora a Diyarbakir per gli ultimi due appuntamenti molto importanti.
Diyarbakir è una grande città in movimento piena d’energia, simbolo dell’identità e della tenacia del popolo curdo. E’ una città storica con monumenti, antiche case costruite in basalto nero ed ornate con decorazioni a stampo su pietra, moschee in stile arabo ed un imponente cerchia di mura che si snoda per quasi 6 km, con numerosi bastioni e torri.

Incontriamo le Madri della Pace nella sede della loro associazione. Ci accolgono sorridenti, sono tante, di tutte l’età e tutte portano sul capo un gran foulard bianco che ci ricorda subito altre Madri, quelle della Plaza de Mayo in Argentina. L’incontro con queste donne è emozionante. La “questione Donna” è un argomento molto sentito all’interno della nostra delegazione. Oltre all’associazione Alkemia, infatti, c’è l’avvocato Simonetta Crisci che fa parte della Casa internazionale delle donne a Roma e la giornalista Emanuela Irace che scrive per la rivista “Noi Donne”, un mensile di politica e cultura fondato nel 1944. L’associazione “Verso il Kurdistan”, da oltre dieci anni, prosegue un progetto di sostegno a distanza di queste donne, offrendo loro l’opportunità di poter continuare ad avere una vita dignitosa, in mancanza di mezzi di sostentamento.

Le Madri della Pace sono donne adulte, sono le madri dei detenuti, dei guerriglieri, dei rifugiati, dei martiri. Le loro vite sono spezzate, non per questo, però, sono rimaste immobili e mute. (vedi Madri della Pace - 2012)

Organizzate in associazioni, a Diyarbakir, Van e Istanbul, sono riuscite a trasformare il loro dolore in forza, diventando protagoniste di molte iniziative, sit-in e lotta per i diritti umani, per la pace e la democrazia. Ogni anno organizzano un congresso per decidere insieme nuove strategie e confrontarsi sui vari problemi e situazioni.
In un appello del 2002, le Madri sostenevano "Vogliamo costruire un futuro di pace e libertà per le future generazioni” Nell’appello precisavano inoltre le loro richieste: “Apertura di un dialogo di pace, amnistia generale per i prigionieri politici, abolizione della pena di morte, delle leggi d’emergenza, scioglimento delle formazioni paramilitari dei "guardiani di villaggio", diritto al ritorno dei profughi e alla ricostruzione, istruzione nella lingua madre, e un nuovo patto costituzionale di cittadinanza che garantisca pluralismo culturale e piena libertà d’espressione e di pensiero.”
La ragione della loro battaglia non violenta è rivolta alla riconciliazione tra il popolo curdo ed il governo turco. Da sempre cercano di portare all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale gli scopi delle loro azioni. Per questo raccontare le loro storie è importante, perché Raccontare significa “Esistere.

 

  

 

Nonostante la sofferenza che traspare dai loro visi segnati dal tempo e dal dolore, sono donne serene e fiere di se stesse. Non hanno più paura, hanno visto la morte e la disperazione troppe volte per temere ancora la vita. Sono sedute intorno a noi, pronte a raccontare le loro storie senza versare nessuna lacrima.

   Husinè Guler ha 75 anni ed ha sei figli.  Descrive l’angoscia che la tormenta ogni giorno da 15 anni nell’attesa di ricevere qualche notizia sulla sorte di uno dei suoi figli, andato in montagna a combattere. Un altro figlio e suo marito di 80 anni sono stati condannati alla pena massima, 36 anni di carcere, arrestati, forse, durante un’operazione militare o in uno scontro armato. Il figlio ha già scontato 11 anni, mentre il marito 20. Husinè proviene da un villaggio vicino a Diyarbakir che fu bruciato dall’esercito. Oggi vive qui a Diyarbakir con due figli.

 

Serine Unat, ha dieci figli.  Non ha notizie di un figlio da 21 anni. Era uno studente di medicina. Gli mancavano solo 6 mesi dalla laurea, ma questo non gli ha impedito di partire per andare a combattere in montagna. Durante una perquisizione avvenuta nell’abitazione, suo marito è stato colpito violentemente alla testa dal calcio di una pistola da un militare dell’esercito turco. Dopo pochi mesi è deceduto. Da 50 anni vive a Diyarbakir. Ha dovuto lasciare il suo villaggio a causa della violenza dei “guardiani del villaggio”.

 

 

 

 

Nafiye Vigit, ha 5 figli: uno in carcere e due si nascondono, in quanto sono ricercati. Uno di questi era uno studente della facoltà di medicina al terzo anno. Suo marito è malato di cancro.

 

 

 

Leyla Astan ha perso il marito, quando aveva 25 anni in un incidente d’auto ed ha 4 figli. Ha trascorso la sua giovane vita fuggendo da un villaggio all’altro. Prima, per il suo villaggio dato alle fiamme e poi, di nuovo, a causa di una denuncia fatta alla polizia da un vicino di casa.
La sua famiglia - dice – era ricercata”. E’ stata quindi costretta a trasferirsi a Diyarbakir. Suo fratello era il Presidente del partito DEP (ora BDP) a Batman. E’ stato ucciso in un agguato al mercato. E’ stata un’esecuzione eseguita dallo Stato. Leyla vive con un figlio, mentre gli altri sono sposati. La sua sofferenza però non ha fine. Ora il suo dolore è per i nipoti. Il figlio di suo cognato, studente di medicina, ha dovuto abbandonare gli studi a causa della continua oppressione della polizia. Arrestato più volte e torturato, ha scelto la strada della montagna. E’ diventato martire. I suoi familiari però non hanno mai avuto il suo corpo. Un altro cognato è stato ucciso nella sua auto, una notte, nel 1993, mentre rientrava a casa, in un agguato in un villaggio nel distretto di Batman.  Lasciava tre figli piccoli.


Sultan Aksoy. Nel 1993 uno dei suoi figli è stato ferito, arrestato e torturato. E’ rimasto invalido. Nel 1994 è stato ucciso. Altri due figli hanno fatto 3 anni di carcere. La voce di Sultan, a questo punto, s’incrina, trattiene le lacrime, mentre racconta: ” I poliziotti hanno perquisito la nostra casa, con molta violenza, per tre volte, ma non siamo stati arrestati”. Sultan abitava in un paese vicino a Mardin. Il Governo turco, dietro minacce di morte, ha obbligato la sua famiglia ad abbandonare il villaggio. Sono stati quindi espulsi e si sono poi trasferiti a Gaziantep.
Sultan, guardandoci negli occhi, termina così il suo racconto: “Dopo tutta questa sofferenza, noi offriamo ugualmente la nostra mano per la pace”.



  L’ultima donna che vuole lasciare la sua testimonianza è Karain. Ha sei figli: uno, martire; uno, scomparso da 21 anni ed un altro che vive in Europa, dove si è trasferito dopo la sua scarcerazione.  Era un guerrigliero. Karain è di Diyarbakir e vive con due figlie. Suo marito è morto sotto tortura. L’ultima figlia, Fatma, è stata uccisa un anno fa. Era con un gruppo di 15 guerriglieri. L’esercito turco ha usato contro di loro armi chimiche. Fatma aveva 23 anni. Karain ci fa vedere, orgogliosa ma triste, la fotografia della figlia ritagliata da un giornale. 

Ascoltare le storie di queste Madri ci fa capire l’importanza di questi racconti. È sempre doloroso dover ricordare, ripercorrere momenti tristi, sofferti, ma è indispensabile per far capire cosa c’è dietro l’Associazione delle “Madri della Pace”. E’ questo il messaggio che, la delegazione italiana “Verso il Kurdistan” , rivolge a queste donne coraggiose. Questo deve essere il nostro impegno. Dobbiamo far conoscere a chi ci circonda, al mondo che è fuori di qui, chi sono queste donne, cosa e come hanno vissuto, cosa hanno patito e cosa, invece, oggi sono in grado di fare. Le Madri della Pace vanno in ogni luogo dove si svolgono azioni, iniziative, interventi per impedire disordini o scontri. Sono gli scudi umani del popolo curdo. Sono state in montagna sotto la pioggia e la neve, niente, le può fermare. La loro è la battaglia per la pace. In merito al discorso di Ocalan, hanno di nuovo ripetuto che loro pregano per la pace, sono pronte per la pace, ma “Aspettiamo un passo in avanti da parte del nostro governo turco”, hanno così concluso la nostra domanda.

Audio Ass. Madri della Pace 

 

 

 

  


 Ci troviamo ora nella sede di Tuhad Fed, federazione formata dai familiari dei detenuti del PKK e KCK. L’associazione è stata fondata nei primi anni novanta, mentre la federazione negli anni 2000.
La federazione è composta da 9 associazioni e 2 uffici di rappresentanza. Sono responsabili di 10 mila detenuti e 82 carceri. Il loro scopo è quello di sostenere le necessità sia dei detenuti e sia delle loro famiglie, dare sostegno giuridico e denunciare le violazioni dei diritti umani. La responsabile di Tuhad Fed dichiara: “ Siamo un’associazione per i diritti umani, non politica, siamo i portavoce dei detenuti, lottiamo anche per la libertà di Abdullah Ocalan e denunciamo le sue cattive condizioni carcerarie”. Ogni anno, il 4 aprile, ci ricorda, è il compleanno di Ocalan e si celebra ad Amara, suo villaggio natale, con una conferenza stampa e vari festeggiamenti. Da un anno e mezzo il loro presidente si trova in totale isolamento, non può vedere i suoi avvocati e non può far sentire la sua voce al popolo curdo. Per questo il popolo ha reagito duramente, compiendo molte azioni violente. All’interno delle prigioni, in quel periodo, le guardie carcerarie aggredivano i detenuti politici con estrema violenza, non facendo distinzione tra donne e bambini, contribuendo così, ad incrementare le numerose rivolte. In alcune strutture, diversi detenuti civili si univano a queste ribellioni, come nel carcere di Urfa.   A causa di un incendio, provocato proprio durante alcuni tumulti, morirono 13 detenuti civili, di cui uno solo era stato condannato, gli altri 12 erano ancora in attesa di giudizio. Per questo ci furono trasferimenti forzati di molti detenuti in altre carceri. La responsabile poi continua, affermando che ”Noi abbiamo 137.000 detenuti, il popolo per questa guerra è diventato molto povero e, la conseguenza è l’aumento di crimini comuni. Le guardie carcerarie si divertono ad umiliare i detenuti, specialmente se sono curdi.” Tuhad Fed fece una conferenza stampa ed organizzò una manifestazione. La polizia reagì molto violentemente, usando i soliti mezzi in uso, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua, con il risultato di lasciare dietro di sé ancora morti.

  


 I detenuti politici decisero, allora, d’iniziare uno sciopero della fame senza termine. Lo sciopero è iniziato il 12 settembre 2012 in sette carceri da 64 detenuti. E’ durato 68 giorni, coinvolgendo 78 carceri e circa 10.000 detenuti, sostenuti dalle famiglie, da intellettuali, scrittori e dalla sinistra turca.  Il 30 ottobre personaggi dello spettacolo in Piazza Taksim ad Istanbul decisero di dare voce ad alcuni dei 700 detenuti curdi in sciopero della fame, leggendo il testo di otto lettere, specificando i motivi della loro lotta: fine dell’isolamento di Ocalan, il diritto all’istruzione in curdo e di potersi difendere in tribunale nella propria lingua madre. 


Centinaia di accademici delle più importanti università del paese hanno poi firmato un appello per “La fine del conflitto e il ritorno immediato al tavolo delle trattative” e, giornalisti dei media di sinistra o pro-curdi hanno manifestato ad Istanbul scandendo lo slogan: “Non vogliamo scrivere notizie di morte”.  Personaggi famosi in Turchia, come la cantante Sezen Aksu o lo scrittore Yaşar Kemal, si sono infine appellati al primo ministro Recep Tayyip Erdoğan perché non lasciasse la voce dei detenuti inascoltata. La direzione delle carceri invece si accanì sui detenuti in sciopero, mettendoli in isolamento, con torture fisiche e non dando loro né acqua e zucchero e né vitamine. Il governo turco negò al mondo l’esistenza di questi scioperi in atto nelle sue carceri. Allo scadere dei 68 giorni, le condizioni dei detenuti erano diventate veramente critiche, al limite della morte. Il 17 novembre Ocalan, tramite una lettera consegnata a suo fratello Mehmet, sollecitava i detenuti ad interrompere subito lo sciopero della fame.(vedi prima parte Newroz di Diyarbakir)
Questo sciopero si è rivelato molto importante – continua la responsabile - perché ha visto l’unione di tutti i curdi che vivono nei quattro paesi del Kurdistan (Turchia, Siria, Iran e Iraq) insieme con quelli della diaspora, in altre parole a chi vive all’estero, anche con l’appoggio dei socialisti del popolo turco ed i difensori dei diritti umani. Questa solidarietà è la dimostrazione di quanto il proprio presidente è importante per il popolo curdo, al contrario, invece, da quanto sostenuto dal governo turco. Lo sostengono da 34 anni.” Ora è in atto un nuovo processo di cambiamento. Durante questi scioperi della fame, ci sono stati alcuni incontri, tenuti segreti, tra il governo turco e Ocalan. Nella prima settimana di gennaio scorso, invece, sono ripresi i colloqui e, questa volta, dandone notizia alla stampa, creando così un’ondata di speranza per il popolo curdo. Le lettere di Ocalan, per il suo popolo, non sono state una sorpresa, perché era già a conoscenza della sua linea di difesa: Ocalan non difende la guerra, ma, difende la lotta per i loro diritti. Durante i 14 anni d’isolamento ha lottato per creare e progettare una fraternità tra i popoli della Turchia ed i curdi. Nella lettera, infatti, – dice ancora la responsabile – “Ocalan esprime il suo desiderio affinché tutti i popoli della Turchia vivano uniti in una patria libera”. Questi messaggi sono, inoltre, importanti, sia a chi non conosce la questione curda e la figura di Ocalan per comprendere la sua idea e, sia  al popolo curdo per esaminare le nuove condizioni ed organizzare una nuova lotta cambiando i metodi finora utilizzati. Perchè questo sogno possa diventare realtà, occorre che questi “incontri” si trasformino in “trattative” e per “trattare” il Presidente Abdullah Ocalan deve essere libero. Solo così lo Stato turco si potrà dimostrare sincero.

La responsabile ricorda che Ocalan aveva iniziato questo processo di pace già nel 2009, presentando una road map che includeva anche il ritiro dei guerriglieri, ma con la garanzia, da parte del governo turco, di dare diritti civili costituzionali al popolo curdo. Processo durato fino al Trattato di Oslo nel 2011. Anche in quest’occasione si parlava del problema legato alle armi dei guerriglieri, ma prima di deporre le armi, erano necessarie serie e precise garanzie, da parte del Parlamento turco. “Tutto questo era già successo nel 1999 - ripete la responsabile - allora il governo turco non aveva fatto niente e furono massacrati 500 guerriglieri perché, rispettando gli ordini del loro Presidente, non avevano sparato”. Ora le cose saranno diverse.  Senza garanzia, i guerriglieri non deporranno mai le armi. Ocalan attende un segno positivo da parte del governo per continuare le trattative. La responsabile, inoltre, ci confida che, nell’incontro con i deputati curdi, Ocalan ribadisce che "Questa è l’ultima occasione per lo Stato turco, se non saranno accolte le sue richieste, ci sarà una nuova grande guerra popolare con almeno 50.000 curdi pronti a combattere per i loro diritti”. Per quanto riguarda invece le lettere scritte da Ocalan, quella che noi abbiamo ascoltato durante il Newroz a Diyarbakir, è quella scritta per il popolo e lo stato turco, mentre quella diretta alla sua organizzazione del PKK, è rimasta segreta. La responsabile ci fa presente che, in questo stesso momento, il comandante del PKK a Bonn sta rilasciando un messaggio in risposta alla lettera ricevuta da Ocalan. “Fra le tante richieste rivolte al governo turco – continua la responsabile – c’è anche quella inerente all’amnistia per i detenuti politici curdi, ma, dobbiamo aspettare la fine di giugno per avere una risposta. Questo è il periodo di tempo stabilito.” 

 

La responsabile porta la discussione sull’uccisione di Sakine Cansiz (una fondatrice del Pkk insieme al leader Ocalan nel 1978), Fidan Dogan e Leyla Soylemez, uccise il 9 gennaio scorso a Parigi e sui continui arresti del popolo curdo. Tutto questo danneggia la loro relazione con l’Europa. Noi vogliamo – incalza la responsabile – che voi facciate pressione sul vostro governo, non vogliamo solo progetti economici. L’Unione Europea dà molti soldi alla Turchia che acquista armi e ci uccide. Noi siamo uccisi dai vostri soldi. Voi potete fare critiche serie per queste scelte dei governi nel vostro paese. Anche i curdi della diaspora soffrono molto, come noi. Il nostro partito è considerato “terrorista” e noi lottiamo per quest’ingiustizia. Voi ci vedete, siamo forse terroristi? Tutto questo deve essere spiegato in Europa. La Germania e la Francia sono vicini al governo turco e l’Italia ha un ruolo molto passivo. Vi chiediamo di essere il nostro portavoce in Europa ed ognuno di voi può spiegare ai suoi amici, conoscenti, la nostra sofferenza e l’ingiustizia che, tutti i giorni, siamo costretti a subire”.  Il nostro incontro termina con gli ultimi aggiornamenti che riguardano, sia i lavori della diga sul sito di Hasankeyf ed il massacro di Roboski. Le opere per costruire la nuova diga sono sospese, le banche hanno ritirato i finanziamenti ed il governo turco sta cercando altri finanziatori. Per la questione di Roboski, lo stato voleva pagare un’indennità alle famiglie colpite dal massacro, ma loro hanno rifiutato. Lo stato continua a sostenere nel suo rapporto che non si è trattato di un massacro voluto, ma è stato un errore. Le famiglie di Roboski sono andate più volte ad Ankara per chiedere giustizia e vogliono portare questo processo alla Corte europea.


L’associazione Onlus “Verso il Kurdistan” dal 1999 ha attivato il progetto “Oltre le sbarre”. E’ un progetto di affido a distanza che permette il sostegno di famiglie che, dopo l’arresto del capofamiglia o dei figli, si trovano in condizioni economiche particolarmente difficili. Attraverso la formula dell’adozione, si può esprimere così la propria solidarietà ai detenuti politici e alle loro famiglie. Anche quest’anno al termine del nostro incontro, l’associazione “Verso il Kurdistan” consegna personalmente gli affidi raccolti in Italia.

AUDIO TUHAD FED

Documento sulle carceri Turche

 

 

  


Ultimo giro al bazar di Diyarbakir. E’ quasi sera, il cielo è grigio, ha appena smesso di piovere, giro tra le stradine del Gran Bazar, molti stanno chiudendo la loro giornata di lavoro, non c’è molta gente. Sono triste. Io parto, torno a casa. Sento su di me il peso dell’indifferenza, dell’immobilismo in cui versa la maggior parte delle persone che hanno ancora molti privilegi. Sento ancora le parole della responsabile di Tuhad Fed che ho da poco incontrato ed ascoltato. Riuscirò veramente ad essere ambasciatore di questo popolo? Riuscirò ad arrivare al cuore di tanti sconosciuti con i miei racconti e le fotografie delle donne, dei bambini e degli uomini di questo popolo dimenticato dal mondo? Oggi, con la crisi economica e di lavoro che regna in Italia ed in Europa, è ancora più difficile attirare l’attenzione verso queste situazioni, ma, come questo popolo fiero e dignitoso m’insegna, non perderò la fiducia. Continuerò a parlare di tutti quei popoli che lottano ancora per ottenere una giustizia, per non essere più oppressi, per non dover più andare in carcere perché sei curdo o palestinese, per poter, semplicemente, vivere.

Fonti: Osservatorio Balcani & Caucaso

02/06/2013

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