VIAGGIO TRA I PROFUGHI PALESTINESI
CHATILA 2012
di Mirca Garuti
Beirut, 16 settembre 2012 - Papa Benedetto XVI ha terminato il suo viaggio in Libano. Il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” invece inizia il suo viaggio nei campi profughi palestinesi. Le strade che dall’aeroporto portano al centro di Beirut sono piene di manifesti che danno il benvenuto al Papa.
Lo scopo ufficiale del viaggio del Papa era quello di consegnare e firmare l’Esortazione Apostolica “Ecclesia in Medio Oriente”. Un documento, o meglio un vademecum sulla convivenza fra le varie religioni, che riguarda circa 15 milioni di cristiani, ma che è anche riconosciuto dalle altre religioni. Le comunità cristiane e musulmane, nell’attesa della stampa del documento in lingua araba, hanno stampato l’esortazione dal sito web vaticano. “E’ una lettura fatta con avidità e fortissimo interesse” spiega il laico cattolico Wissam Lahham, membro dell’Ong cristiana “Assembly of Eastern Christians” con sede a Beirut. Lahham continua la sua esposizione: “Comunità musulmane la stanno studiando e l’apprezzano. Cristiani di tutte le confessioni, cattolici, ortodossi, protestanti, ne rimarcano un punto molto importante: l’invito a ‘Non avere paura, a vivere in Medio Oriente costruendo la pace e la convivenza. E’ una frase fondamentale che resta impressa nelle menti dei cristiani nel contesto in cui oggi viviamo. E’ un documento che dà molta speranza ai cristiani in questa regione.”
Mai come in questo momento, il Capo della Chiesa Cattolica deve proteggere la presenza dei cristiani in M.O. dando loro sicurezza e speranza cercando di fermare la continua fuga da queste terre. Presenza importantissima, perché qui, ci sono le radici del cristianesimo. Questo viaggio, infatti, terminava i lavori del Sinodo e la fine di un percorso di sostegno morale e spirituale alla presenza dei cristiani. L’arcivescovo di Cipro dei Maroniti, Monsignor Youssef Soueif, d’origini libanesi, nel concludere il dibattito attorno alla questione mediorientale, aveva affermato che “adesso è il momento giusto per essere presenti, per dialogare, per lavorare attraverso le istituzioni sociali, culturali e l’esercizio della cittadinanza. Occorre fare presto perché i due terzi della comunità cristiana sono sotto minaccia in Iraq, Siria ed altrove. Spesso sono costretti a lasciare le proprie case in cerca di una maggior sicurezza, per cercare lavoro, per sentirsi anche psicologicamente più protetti.”
Sempre secondo l’arcivescovo, uno dei frutti del Sinodo è stato che Benedetto XVI abbia scelto come motto per il suo viaggio in Libano, ” La pace sia con voi”, ad indicare che nella regione “è necessaria la pace politica, ma soprattutto è necessaria la pace dei cuori, interiore.”
L’esortazione post-sinodale Ecclesia in Medio Oriente non usa mai il termine “democrazia”, ma fa riferimento ai valori di libertà, cittadinanza, rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali, anche presenti nelle altre culture e religioni. Ma allora perché nel suo viaggio in Libano, Papa Benedetto XVI non ha mai parlato del popolo palestinese che vive sul territorio libanese come profugo senza avere nessun diritto, al quale è negata semplicemente una dignità umana?
Durante il viaggio aereo da Roma a Beirut, il Papa ha incontrato i giornalisti del Volo Papale. Alla domanda: “Santo Padre, in questi giorni ricorrono anniversari terribili, come quello dell’11 settembre, o quello del massacro di Sabra e Chatila; ai confini del Libano vi è una sanguinosa guerra civile, e vediamo anche che in altri paesi il rischio della violenza è sempre attuale. Santo Padre con quali sentimenti affronta questo viaggio? E’ stato tentato di rinunciarvi a motivo dell’insicurezza o qualcuno Le ha suggerito di rinunciarvi?”. Il Santo Padre ha risposto: “Posso dire che nessuno mi ha mai consigliato di rinunciare a questo viaggio e, da parte mia, non ho mai contemplato questa ipotesi, perché so che se la situazione si fa più complicata, è più necessario offrire questo segno di fraternità, di incoraggiamento e di solidarietà. E’ il significato del mio viaggio: invitare al dialogo, invitare alla pace contro la violenza, procedere insieme per trovare la soluzione dei problemi.”
Non ha volutamente accennato all’anniversario della strage di Sabra e Chatila e del significato che questa ha ancora oggi per i quasi cinquecento mila palestinesi costretti a vivere qui, in un paese straniero perché “qualcuno” (Israele) ha occupato la propria terra. Non ha voluto interferire con il suo pensiero su delle questioni ritenute evidentemente “interne” di un paese sovrano, ha semplicemente ringraziato per essere in Libano, un paese che può essere considerato un modello di convivenza tra musulmani e cristiani per tutto il Medioriente, un punto d’incontro tra le civiltà e le culture. La pluralità del Libano, unico stato multi confessionale della regione per statuto costituzionale, può essere una fonte di ricchezza ma purtroppo anche la causa di divisioni e guerre.
I cristiani rappresentano il 35% della popolazione ed i musulmani, il 65%, divisi tra sunniti e sciiti. Il Vaticano, alla vigilia di questo viaggio, per evitare problemi con le varie comunità e con lo stesso paese ospitante, ha sottolineato che “il pontefice in Libano sarà solo un messaggero di pace e non un capo politico” e, che le parole che pronuncerà vanno intese, ha così riferito il suo portavoce Padre Lombardi, come riflessioni rivolte a tutte le 18 confessioni religiose.
Il Vaticano ha anche evitato prudentemente qualsiasi giudizio sulla questione “Hezbollah”, sollevata dal ministro britannico William Hague e l’olandese Rosenthal, all’interno di un dibattito all’Ue, se inserire o no il braccio armato di Hezbollah nella lista dei gruppi terroristici, per non incrinare il clima di collaborazione riscontrato in Libano.
L’altro difficile argomento “tabù” riguardava invece la questione palestinese. Il patriarca Melkita, Gregorio III di Laham, incaricato di dargli il benvenuto nella sede del patriarcato, aveva espresso la speranza di sentire una parola da parte del Papa sulla questione dello Stato palestinese, ma il Vaticano, anche su questa questione, aveva deciso di mantenere il silenzio.
Padre Lombardi ha poi anticipato che i sei discorsi che pronuncerà il Papa si concentreranno sul ruolo e la missione di pace che spetta ai cristiani e sul bisogno d’armonia da costruire nel rispetto di tutti.
Morale, niente interventi politici, nemmeno sulle vicende siriane che stanno contagiando il Libano. Come capo politico del Vaticano si può capire il silenzio imposto di fronte a tutte queste problematiche, ma come capo spirituale non è possibile accettare l’indifferenza dimostrata dal Papa nei confronti dei profughi palestinesi costretti a vivere in condizioni indegne per qualsiasi essere chiamato “umano”. Non si può rimanere incuranti davanti alle continue stragi subite e che subiscono ancora oggi i palestinesi per l’occupazione delle loro terre.
L’ex capo di governo italiano Silvio Berlusconi, nel suo viaggio in Israele, non ha “visto” il muro di separazione costruito dal governo israeliano per una sua “difesa”, come Papa Benedetto XVI, nel suo viaggio in Libano, non ha “visto” i campi profughi palestinesi.
Il Comitato “Per non dimenticare Sabra e Chatila” è ritornato invece in Libano per trasmettere la sua testimonianza sulle condizioni di vita all’interno dei campi e, attraverso il dialogo tra le varie forze politiche libanesi e palestinesi, di poter svolgere un importante lavoro d’informazione affinché la questione dei profughi palestinesi non sia dimenticata dal mondo.*
Il viaggio inizia nel sud del Libano, punto di partenza di ogni invasione da parte dell’esercito israeliano, con la deposizione di una corona in onore al martire Maarouf Saad, simbolo della Resistenza e del Movimento di Liberazione Nazionale di tutto il mondo arabo. Saad, difensore di tutte le classi sociali più deboli e povere, è stato ucciso nei primi anni ’70 dalle forze fasciste di destra libanesi durante una manifestazione di protesta di pescatori.
Lasciato Sidone, ci dirigiamo verso la collina di Mlita che domina il Sud del Libano per visitare il Museo della Resistenza inaugurato il 21 maggio 2010. Il museo offre un inedito percorso di combattimento nel cuore di una vecchia base segreta di Hezbollah e rappresenta il luogo del ricordo della resistenza per la liberazione di questa regione avvenuta 10 anni fa.
Pochi chilometri infine ci separano dal confine che divide la Palestina occupata dal sud del Libano. Ci troviamo, infatti, nel parco, situato sulle colline, della città di Maroon El Ras, dove tutte le famiglie di questi territori, anche se appartenenti a religione diverse, possono usufruire gratuitamente di tutti i servizi. Questa splendida struttura composta da 33 gazebo, uno per ogni giorno della guerra del 2006, è un dono della Repubblica islamica iraniana al popolo del sud del Libano.
Il sindaco di El Debeyye accoglie la nostra delegazione con un sincero benvenuto:
Il ricordo del massacro di Sabra e Chatila
La giornata ha inizio al Centro culturale della municipalità di Ghobeiry,dove dopo l’inno nazionale libanese e palestinese,
si sono susseguiti numerosi interventi: i famigliari delle vittime del massacro, il saluto di Antonietta Chiarini, l’ambasciatore della Palestina in Libano Mr.Ashraf Dabbour e il Sindaco di Ghobeiry Mr. Abou Said Al Khansaa:
Familiari delle vittime
Antonietta Chiarini
Ambasciatore della Palestina in Libano, Mr.Ashraf Dabbour
Sindaco di Ghobeiry Mr. Abou Said Al Khansaa
Foto manifestazione per non dimenticare
Sono passati 30anni da quella terribile invasione del Libano da parte dell’esercito israeliano.
Invasione (la quinta) iniziata a giugno 1982 nel Sud.
Robert Fisk, corrispondente inglese per il quotidiano “The Independent”, si trovava in quei luoghi e, nel suo libro “Il martirio di una nazione” racconta:
“Gli attacchi israeliani erano stati – almeno fino a quel momento – i più feroci che fossero mai stati sferrati contro una città libanese. Nella zona sud di Sidone, sembrava che un tornado avesse sconquassato i palazzi, portando via balconi e tetti, abbattendo muri e facendo crollare interi edifici sulla testa dei loro occupanti. Molti morti erano rimasti incastrati tra le macerie. Nelle strade, da dove i bulldozer israeliani avevano spazzato via detriti con militare efficienza, gli abitanti di Sidone camminavano come storditi. Non rispondevano ai soliti saluti e fissavano stupiti i palazzi rimasti ancora in piedi perché non avevano mai visto la loro città in quelle condizioni . La morte è spaventosa. I morti del Libano – la vista continua di cadaveri gettati come sacchi sulle strade, nei fossati e nelle cantine – ci ricordavano costantemente quanto fosse facile essere uccisi.”
Mi mancano veramente le parole per poter continuare a descrivere tutto quello che accadde in quel lungo assedio, dal sud fino a Beirut. Fisk si fa una domanda che preannuncia il massacro che sarebbe accaduto di lì a pochi mesi:
“Se gli israeliani a Sidone e a Tiro si erano comportati a quel modo – se avevano potuto uccidere tanti civili in un periodo di tempo così breve – quanti ne avrebbero uccisi a Beirut, dove almeno mezzo milione di persone vivevano ammassate nel settore occidentale accerchiato della città?”
La Croce Rossa e la polizia libanese, alla fine della prima settimana dell’invasione (14 giugno 1982), dimostrarono che in Libano erano morte 9.583 persone e ferite 16.608.
Sidone è stata la città più colpita dopo Beirut. Su Beirut Ovest caddero anche le bombe al fosforo e i medici, non conoscendo la composizione chimica di quelle bombe, furono impreparati ad affrontarne le conseguenze.
Il fosforo bianco è stato usato fin dalla Prima guerra mondiale per riempire proiettili di mortaio e granate e nel bombardamento di Amburgo durante la Seconda guerra mondiale. Le bombe sono fabbricate in Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania, sono considerate “munizioni ordinarie” anche se non rientrano nelle convenzioni internazionali e tuttavia sono ritenute “molto utili per sgomberare gli edifici”. Il loro fumo rimane nell’aria per parecchio tempo e brucia la pelle per ore nonostante l’immersione in acqua nel tentativo di spegnere il fuoco.
Tra il 4 giugno ed il 10 luglio all’ospedale Barbir, che si trovava vicino al Museo Nazionale di Beirut Ovest, arrivarono 200 morti e la Dottoressa Shamaa ricorda:
“Il personale non poteva lasciare l’edificio a causa degli attacchi aerei e del cannoneggiamento. Per quattro o cinque giorni c’è stato odore di morte dovunque. Poi siamo finalmente riusciti a seppellirli in una fossa comune. Ancora non sappiamo chi fossero.”
L’artiglieria israeliana non risparmiò neppure l’ospedale che fu colpito! Gli israeliani cercavano di censurare le notizie sulle sofferenze dei civili a Beirut Ovest trasmesse dalle varie troupe televisive presenti sul territorio libanese. Le registrazioni inviate dai corrispondenti oltre le linee di Beirut Est arrivavano a Tel Aviv per poi essere trasmesse a New York. Qui arrivavano però censurate dagli israeliani, sempre per “ragioni di sicurezza” e “risparmiando al pubblico statunitense gli orrori della guerra”. I produttori televisivi di New York infuriati per l’interferenza israeliana mandarono in onda i vari filmati offuscando lo schermo per la durata dei pezzi tagliati per far capire agli utenti che quella parte era stata volutamente tolta dalle autorità israeliane. Alla fine i filmati non furono più inviati a Tel Aviv ma si preferì usare la strada di Damasco.
Le troupe televisive ed i giornalisti che si trovavano a Beirut avevano quindi iniziato a raccontare in modo molto dettagliato questa terribile escalation militare. Gli israeliani non potevano permettere che tutto questo arrivasse al mondo intero, così il 21 giugno in un comunicato affermavano che: “L’Operazione Pace in Galilea” non era diretta né contro la popolazione libanese né contro quella palestinese … Se c’erano delle vittime civili la colpa era dei terroristi, che avevano installato i loro quartieri generali e le loro posizioni militari in zone fittamente popolate da civili e tenuto prigionieri uomini, donne e bambini.”
L’obiettivo del governo d’Israele era l’Olp ed i suoi guerriglieri.
Il 30 giugno l’Olp aveva annunciato che avrebbe lasciato la città, ma i dettagli della loro evacuazione non erano ancora stati decisi. I negoziati si prolungavano e Israele continuava l’assedio. Ariel Sharon il 2 luglio nella sala dell’hotel Alexandre di Beirut Est annuncia ai giornalisti che: “l’unico motivo per cui siamo qui è annientare i terroristi dell’Olp…”
Terroristi, ma chi sono i veri terroristi? La loro qualificazione dipende dai diversi punti di vista e dalla giustificazione che si vuole dare a delle reazioni violente. In nome della guerra al “terrorismo” si tende, anche oggi come allora, a legittimare qualsiasi azione. Tutto diventa ammissibile con la licenza di uccidere indiscriminatamente.
Sia Arafat che gli israeliani sapevano che l'Olp avrebbe presto lasciato Beirut, ma si doveva contrattare 'quando' e a quali garanzie. Ognuno quindi cercava di anticipare o ritardare il momento giusto a seconda del proprio interesse. Arafat era disposto a consentire l'allontanamento dei suoi uomini solo sotto la protezione di una forza multinazionale che comprendesse oltre ai marines americani anche i soldati francesi ed italiani. Arafat inoltre aspettava ancora il riconoscimento dell'organizzazione da parte degli Stati Uniti in cambio del suo ritiro. Intanto i bombardamenti continuavano e, verso la fine di luglio, le incursioni si intensificarono sfrecciando nel cielo quasi tutti i giorni.
Il 4 agosto 1982 piovevano bombe su tutta Beirut Ovest, le vittime erano tutte civili e Robert Fisk si chiedeva che fine avesse fatto la precisione chirurgica dei piloti israeliani:
“Cadevano al ritmo di una ogni 10 secondi. Alcune bombe al fosforo esplosero su Hamra. Definire quel bombardamento indiscriminato sarebbe stato poco, anzi una bugia. Il bombardamento israeliano fu, come avremmo scoperto in seguito, discriminato: aveva come obiettivo ogni zona di abitazione civile e ogni istituzione di Beirut Ovest – ospedali, scuole, appartamenti, negozi, alberghi... Al culmine del bombardamento, corsi all'ospedale dell'Università americana. C'era sangue dappertutto. Trovai un centinaio di uomini, donne e bambini stesi nel loro sangue sul pavimento o che si lamentavano sulle barelle nei corridoi. Corsi all'obitorio. Braccia e gambe – a decine – erano state accatastate contro la parete. Sul pavimento c'erano diversi neonati morti chiusi in sacchi di plastica”.
Il 26 settembre 1987 Fisk incontra in Inghilterra Philip Habid, rappresentante del presidente Reagan nonchè suo inviato speciale, che presente in quel giorno poteva parlare con gli israeliani. Perchè non aveva fermato quella carneficina?
“Ero a Baabda. Vedevo tutto. Dissi agli israeliani che stavano distruggendo la città, che la stavano bombardando senza tregua. Loro dissero che non era vero, che non lo stavano facendo. Chiamai Sharon al telefono. Mi disse che non era vero. Quel maledetto mi disse al telefono che quello che vedevo non stava succedendo. Così misi la cornetta fuori dalla finestra per fargli sentire le esplosioni. Allora mi disse: Come facciamo a parlare se tieni il telefono fuori dalla finestra?”
I protagonisti di questa guerra hanno sempre mentito al riguardo delle loro vere intenzioni ed azioni: dovevano avanzare solo 40 chilometri all'interno del Libano, invece erano arrivati fino a Beirut. Hanno mentito sulle vittime civili, sul taglio dell'acqua e corrente elettrica a Beirut Ovest; sull'uso delle bombe a grappolo ed al fosforo bianco nelle zone civili.
Il 12 agosto, senza preavviso, decine di cacciabombardieri israeliani erano apparsi nel cielo di Beirut. Il loro obiettivo: i campi profughi. Tonnellate di esplosivo ad alto potenziale caddero per nove ore su Sabra e Chatila. Ma perchè tutto questo dal momento che erano state accettate tutte le richieste per procedere all'evacuazione dell'Olp e stabilito anche i percorsi che doveva seguire? Quella sera il portavoce ufficiale dell'esercito israeliano disse:
“Abbiamo appena completato il rafforzamento delle nostre postazioni intorno a Beirut in vista di una grossa operazione militare.. se e quando attaccheremo.”
C'era quindi la possibilità di un avanzamento su Beirut Ovest , mentre, in realtà, avrebbero dovuto andarsene non appena l'Olp avesse lasciato la città. La guerra era finita.
A Beirut la guerra aveva fatto 3.983 vittime e in tutto il Libano erano morte 11.492 persone. Il campo profugo palestinese di Burj al-Barajne praticamente non esisteva più, sembrava un paese lunare dove si camminava su tetti sbriciolati.
Il 19 agosto il governo libanese aveva presentato ufficialmente la richiesta scritta di una forza multinazionale di ‘'disimpegno’', senza accennare che fosse stata l'invasione israeliana a renderla necessaria.
Il 23 agosto ci furono le elezioni presidenziali dove gli israeliani avevano assicurato la vittoria al loro uomo, Bashir Gemayel (figlio di Pierre Gemayel il fondatore delle Falangi), capo delle milizie al comando del più grande esercito privato del Libano.
L'accordo per l'evacuazione dell'Olp comprendeva la clausola dell'allontanamento di tutti gli eserciti stranieri dal Libano. I libanesi ora si sentivano più tranquilli perchè, come sostenevano in molti, i loro problemi erano dovuti dall'arrivo dei guerriglieri palestinesi dalla Giordania nel 1970 e non dai civili esuli palestinesi del 1948. L'esercito israeliano lasciò la sua postazione nel terminal dell'aeroporto internazionale all'esercito libanese.
Arafat lascia Beirut su una nave greca per andare in esilio in Tunisia, sotto il controllo dei marines americani, degli uomini della legione straniera francese e dei bersaglieri italiani. Più di 10mila guerriglieri palestinesi e soldati siriani lasciarono con le loro armi Beirut Ovest.
La partenza dell'Olp era condizionata dalla garanzia che le decine di migliaia di civili palestinesi rimasti nei campi di Sabra, Shatila e Burj al Barajne non avrebbero corso nessun pericolo, come aveva assicurato Philip Habid. Washington, Parigi e Roma in questa operazione avevano dato la loro parola. Il distacco però delle donne, dei vecchi e dei bambini dai loro mariti, padri, fratelli, figli in partenza per l'esilio non è stato facile, è stato un momento molto doloroso e di paura. Paura per il loro futuro, ora che erano rimasti soli, orfani di tutto. La guerra era finita, tutti se ne stavano andando, anche i giornalisti si preparavano a tornare nei loro paesi o andare in vacanza.
La situazione in Libano però si presentava ancora molto fragile, perché c’erano troppi interessi diversi che dovevano essere bilanciati e nessuno voleva perdere. Da una parte, il nuovo presidente Bashir Gemayel con la sua dichiarazione di non volere la presenza di stranieri sul territorio libanese, che significava anche gli israeliani e dall’altra il Primo Ministro israeliano Begin e il Ministro della difesa Sharon, che durante un incontro a Gerusalemme reclamavano, entro la fine dell’anno, un trattato di pace tra il Libano ed Israele.
La Siria, dopo l’elezione del nuovo presidente libanese, aveva dichiarato che avrebbe ritirato le sue truppe dal Libano solo quando i soldati israeliani se ne fossero andati dal paese. Un alto funzionario dell’esercito siriano aveva inoltre dichiarato che se Gemayel avesse firmato quel trattato, “La Siria si sarebbe considerata in stato di guerra con lui”.
Gemayel dunque si trovava in mezzo tra Israele e la Siria, senza dover dimenticare però anche gli Stati Uniti che lo avevano appoggiato.
Dalla fine della guerra al 16 di settembre ci sono stati alcuni episodi che potevano presagire quello che poi accadde dal 16 al 18, ma nessuno diede importanza a quegli “annunci” anche perché non si poteva immaginare che la malvagità umana potesse arrivare ad un tale livello.
Arafat lasciò il Libano il 30 agosto e l’ultima nave carica di guerriglieri palestinesi, il primo di settembre. Le truppe siriane dovettero anche sfilare davanti al Maggiore Sa’d Haddad, militare libanese fondatore dell’esercito "Armata del Sud del Libano" totalmente sostenuto da Israele, che non mancò di prodigare con gesti osceni e di disprezzo i suoi “saluti” verso i militari che stavano lasciando il paese. Ma perché gli israeliani erano ancora a Beirut?
Le truppe di pace l’11 settembre avevano iniziato ad abbandonare il Libano con quindici giorni di anticipo rispetto agli accordi presi. Il quotidiano “Daily Telegraph” riportava la notizia che Sharon aveva fatto una visita di sorpresa alle sue truppe alla periferia di Beirut ed aveva dichiarato che, dopo l’evacuazione dell’Olp erano ancora rimasti in città “duemila terroristi”. Ma chi erano questi misteriosi terroristi? Intanto le truppe israeliane stavano, molto lentamente, avanzando verso la città.
Il 14 settembre viene assassinato Bashir Gemayel e gli israeliani iniziano ad invadere Beirut Ovest. Inizia la caccia ai terroristi ed il cerchio intorno ai palestinesi si chiude. Un colonnello israeliano aveva detto a Robert Fisk poco prima che partisse da Beirut:
“Il nostro grande problema non sarà liberarci dai palestinesi, sarà impedire ai falangisti di entrare a Beirut Ovest per regolare qualche vecchio conto”.
Il 16 settembre le Falangi entrarono a Beirut Ovest con gli israeliani e per questo, Fisk decide di ritornare a Beirut. Inizia il massacro: ancora nessuno è consapevole di quello che sta accadendo.
Il 17 settembre corre voce che qualcosa di terribile sta succedendo dentro i campi profughi di Sabra e Chatila. Fisk ricorda quella sera che dal suo balcone guardava gli aerei, i cacciabombardieri che volavano basso nell’oscurità:
“Uno dei jet lasciò cadere un tracciante, poi un altro ed il cielo opaco della città si illuminò di una luce dorata che si diffuse sui campi. Era di un giallo argenteo come la luce del giorno. Avrei potuto leggere un libro sul mio balcone con quella luce. I traccianti scendevano lentamente, quasi tutti sulla zona di Sabra e Chatila… L’alba a mezzanotte”.
Quello che trovarono i primi giornalisti nel campo palestinese di Chatila alle 10 di mattina del 18 settembre è stato qualcosa di irreale. Una cosa atroce, uno sterminio di massa, un crimine di guerra avvenuto sotto gli occhi vigili e totalmente indifferenti di un esercito regolare.
Chi sono in questo caso i terroristi? Le vittime o i carnefici?
La certezza era che gli israeliani sapevano quello che stava succedendo, avevano illuminato i campi, guardavano da lontano i loro alleati, i falangisti ed i miliziani di Haddad mentre mettevano in atto il loro sterminio di massa. Gli israeliani erano al comando di tutto, dovevano sorvegliare l’area di Chatila da tutti i lati e dai tetti degli edifici più alti, ma non dovevano vedere, sentire e testimoniare.
I soldati israeliani in uniforme e agenti segreti dello Shin Bet in borghese, sorvegliavano anche il lato ovest dello stadio dove erano stati portati centinaia di uomini, per lo più libanesi, per essere “interrogarti”. Gli israeliani lasciavano fare tutto alle milizie senza interferire in nessun modo. Questa era solo una caccia ai “terroristi”. Una parola che suonava oscena in bocca a loro, ma che gli dava carta bianca su tutto.
Quello che è successo a Sabra e Chatila non è stato definito da tutti come “massacro”, ma allora da cosa dipende questa definizione? Dal numero delle vittime? Dal modo in cui sono state uccise? O da chi sono state uccise? La responsabilità israeliana è palese, dimostrabile e uguale a chi materialmente ha commesso il fatto, ma nessuno ha mai pagato per questo.
Gli israeliani alla fine avevano rivelato che i responsabili della strage fossero i falangisti guidati dal comandante Elie Hobeika. Ma come hanno potuto gli eredi dell’Olocausto aver consentito che venisse commessa quell’atrocità?
Il tenente Avi Grabowski vicecomandante della compagnia dei carristi che in seguito testimoniò sul massacro davanti alla Commissione d’inchiesta israeliana, riferì che quel venerdì a mezzogiorno l’equipaggio del suo carro aveva chiesto ai falangisti perché uccidessero i civili. Loro risposero: “Le donne incinte partoriranno dei terroristi, quando cresceranno i bambini diventeranno terroristi”.
Begin, ai giornalisti che gli fecero notare che Israele aveva, in qualità di paese occupante, la responsabilità di quello che succedeva nei campi, rispose: “Nessuno ha il diritto di farci prediche sui valori morali e sul rispetto della vita umana, sono i principi in base ai quali siamo stati educati e continueremo ad educare generazioni di combattenti.”
Le manifestazioni in tutto il mondo contro questo massacro costrinse Israele ad aprire un’inchiesta sui fatti, ma come al solito usò questo sua atto “democratico” a suo favore: “Quale paese arabo aveva mai pubblicato un rapporto come quello che condannava sia il suo esercito e sia i suoi leader politici?”.
Nel rapporto della Commissione Kahan (1983) è stata evitata la parola “palestinese”, si parla di “fatti” e non di “massacro”. I giudici non erano riusciti a portare prove dell’esistenza di quei 2000 terroristi che si dovevano trovare all’interno dei campi e chiamava “soldati” gli unici veri terroristi presenti, i miliziani cristiani mandati dagli israeliani. La Commissione alla fine giudicò Sharon “personalmente responsabile dei fatti” e suggerì a Begin di rimuoverlo dal suo incarico. Qualche anno dopo però Ariel Sharon, ritorna al governo israeliano come Primo Ministro e nessun processo ha mai punito gli artefici del massacro di Sabra e Chatila.
La professoressa Bayan Nuwayhed al-Hout docente di Scienze politiche all’Università di Beirut nel 2003 ha pubblicato in arabo il libro “Sabra e Shatila: settembre 1982”, tradotto in inglese nel 2004, mentre ad oggi non è stato ancora possibile farlo conoscere in Italia.
Il libro ripercorre la storia del massacro e, attraverso varie interviste ai familiari delle “vittime viventi” e ai sopravvissuti, l’autrice ha impostato il suo progetto come una storia orale per conservare le testimonianze. Questo libro è quindi un coraggioso tentativo di rendere il senso di ciò che è accaduto. Un documento politico molto importante.
La docente di Beirut scrive: “Più tardi, un grande inaspettato evento avvenne diciotto anni dopo il massacro, nel settembre 2000. Senza preavviso, una delegazione italiana giunse all’aeroporto di Beirut per commemorare Sabra e Chatila… Le vittime viventi non avrebbero osato sognare che la visita si sarebbe trasformata in un appuntamento annuale, ogni settembre, e che i loro nuovi amici non li avrebbero mai abbandonati… Il Comitato presieduto da Stefano Chiarini, noto come “Per non dimenticare Sabra e Chatila” si è assunto la responsabilità di commemorare Sabra e Chatila per tutti i sette anni scorsi.”
Questo è il motivo per il quale il “Comitato Per non dimenticare” dal 2000 si reca ogni anno sui luoghi del massacro. Il Comitato vuole rappresentare quella parte dell’Italia che non ha perso la memoria, che anzi si ostina a renderla pubblica e che si schiera al fianco del popolo palestinese per sostenere la sua lotta ed i suoi diritti.
Per il Comitato ritornare a Chatila anno dopo anno è un dovere e un onore. Raccontare, per i familiari delle vittime, rappresenta sempre un dolore ma può diventare anche un modo per dare giustizia a chi non c’è più. A rendergli omaggio, a non dimenticarli.
Sono trascorsi 30 anni da quelle 43 ore terribili e noi siamo ancora una volta a Chatila ad abbracciare quelle persone, a guardarle negli occhi per rassicurarle che noi ricordiamo. Dopo la cerimonia ci inoltriamo nel campo.
Chatila è il campo che ancora continua ad esistere e a crescere, mentre Sabra, per chi l’abitava non è mai stata considerata un vero “campo” ma solo una strada che iniziava nel quartiere Tariq al-Jdideh di Beirut e finiva all’ingresso del campo di Chatila, oggi si presenta come un mercato dove si può trovare di tutto. Camminando tra banchi di frutta e verdura si arriva ad un certo punto in una strada con vari "palazzi". Uno di questi è il Gaza Hospital.
Era un ospedale gestito dalla Mezzaluna Rossa Palestinese, un luogo emblematico testimone di eventi che hanno segnato la vita dei profughi palestinesi, come quello del massacro di Sabra e Chatila. Una struttura oggi occupata da molte famiglie palestinesi, libanesi e di altre nazionalità rimaste senza casa. Un rifugio per i più poveri.
Chatila oggi è abitata da circa ventimila persone.
I suoi vicoli stretti, tortuosi, sembrano tanti infiniti labirinti spesso bui perché le case troppo alte impediscono al sole di illuminare e di scaldare. Le fognature, vecchie ed insufficienti per il numero di abitanti, si lasciano scorrere liberamente lungo le vie, specialmente quando piove.
I rifiuti abbondano neivicoli, nelle piazzette, ovunque perché chi dovrebbe raccoglierli (UNRWA) non ha più le risorse per continuare a svolgere questo compito.
Sopra le nostre teste un groviglio di cavi elettrici e di tubi corrono tra le case, creando una fitta ragnatela. La prima causa di morte nel campo è la folgorazione. Le famiglie palestinesi continuano a vivere in queste condizioni con la speranza di poter ritornare, un giorno, nella loro terra. Condizioni che, anno dopo anno, diventano sempre più difficili perché, da una parte diminuiscono gli aiuti e dall’altra il governo libanese non vuole apportare miglioramenti, non vuole accordare ai rifugiati palestinesi anche quei minimi diritti per poter avere una vita dignitosa. Nonostante tutta questa sofferenza però riescono a mantenere la dignità di un popolo che è consapevole di essere nel giusto, di aver subito un’ingiustizia storica e aspettano che gli venga riconosciuto il diritto di essere uno Stato e di poter ritornare nelle loro case occupate dai sionisti israeliani. Un diritto che è sancito dalla Quarta convenzione di Ginevra, ma da sempre, disatteso da Israele che non accetta nemmeno di discuterne. Non è facile continuare questo cammino, specialmente per i giovani che non hanno la prospettiva di un futuro migliore, la possibilità di studiare, di avere un lavoro regolare o di una casa. Non è facile neppure per noi continuare a lottare con e per loro perché siamo tutti circondati dal silenzio generale. Il mondo non parla, fa finta di niente, è indifferente. Quando si parla di rifugiati palestinesi, anzi, spesso veniamo definiti come “gli amici dei terroristi”, antisionisti che desiderano solo la fine d’Israele. Per fortuna ci sono i bambini che nella loro innocenza ed inconsapevolezza riescono ancora a sorridere.
Foto campo Chatila
Continua …
30/10/2012
* L'Osservatore Romano – Blog “Il Magistero di Benedetto XVI
Fonte: Robert Fisk (Il martirio di una nazione) – Libro “Sabra e Shatila: settembre 1982” di Bayan Nuwayhed al-Hout traduzione di Vincenzo Brandi con la collaborazione di Marta Turilli -
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