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IL SILENZIO SULLA GIORNATA INTERNAZIONALE DI SOLIDARIETA’ PER LA PALESTINA
di Mirca Garuti
Le Nazioni Unite dedicano il 29 novembre 2008, alla solidarietà verso il popolo Palestinese.
La campagna “2008 Anno della Palestina” si chiude proprio con la manifestazione a Roma del 29 novembre. E’ stato un impegno difficile sostenuto solo da persone comuni che continuano con determinazione, a lottare per una giustizia dimenticata da vari governi per un sentimento di subordinazione nei confronti d’Israele. Mille, duemila, tremila persone hanno perciò voluto, ancora una volta, riconfermare la propria vicinanza a questo popolo.
L’assemblea generale dell’ONU ha esaminato, il 24–25 novembre scorso, il rapporto del Segretario generale sulla situazione in Palestina.
Il Presidente dell’Assemblea, Miguel d’Escoto Brockmann (Nicaragua), aprendo la seduta, ha dichiarato:
“Io invito la comunità internazionale ad alzare la sua voce contro la punizione collettiva della popolazione di Gaza, una politica che non possiamo tollerare. Noi esigiamo la fine delle violazioni di massa dei Diritti dell’uomo e facciamo appello ad Israele, la Potenza occupante, affinché lasci entrare immediatamente gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Questa mattina ho parlato dell’apartheid e di come il comportamento della polizia israeliana nei Territori palestinesi occupati sembri così simile a quello dell’apartheid, ad un’epoca passata, un continente più lontano. Io credo che sia importante che noi, all’ONU, impieghiamo questo termine. Non dobbiamo avere paura di chiamare le cose con il loro nome”.
Continua ancora: “Noi dobbiamo agire con tutto il nostro cuore per mettere fine alle sofferenze del popolo palestinese. Tengo ugualmente a ricordare ai miei fratelli e sorelle israeliani che, anche se hanno lo scudo protettore degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza, nessun atto di intimidazione cambierà la Risoluzione 181, adottata 61 anni fa, che invita alla creazione di due Stati. Vergognosamente, oggi non c’è uno Stato Palestinese che noi possiamo celebrare e questa prospettiva appare più lontana che mai”.
L’ambasciatore Miguel d’Escoto Brockmann è un sacerdote cattolico, teologo della liberazione e membro del Comitato politico del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN). E’ stato eletto per acclamazione, il 04 giugno 2008, Presidente dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
La prima organizzazione sionista a reagire di fronte a queste dichiarazioni è stata l’Anti-Defamation League (ADL). Ha chiesto al Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki Moon, di mettere fine a questo “circo” così come alla cosiddetta “giornata di solidarietà con il popolo palestinese”. Ha inoltre denunciato il carattere “antisemita” delle proposte del Presidente Brockmann, ispirate da un secolare antigiudaismo cattolico.
Questa notizia non è passata attraverso a nessun organo d’informazione importante nel nostro paese, perché si continua ancora a non poter criticare liberamente lo Stato d’Israele.
Anche il Parlamento Europeo prende una posizione sulla questione palestinese. Il 04 dicembre decide di rinviare il voto sulla proposta di Commissione e Consiglio per l’avvio del protocollo di cooperazione tra Israele-UE e sui principi generali della partecipazione d’Israele nei programmi comunitari. Un voto ritenuto importante per il potenziamento dei rapporti tra UE e Israele, come richiesto dal ministro degli esteri israeliano, Tzipi Livni. Ma invece 194 Deputati contro 173 hanno chiesto di posticipare il voto ad una data ancora da definire.
Luisa Morgantini, Vice presidente del Parlamento Europeo, ha dichiarato: “E’ tempo che il governo israeliano non si consideri al di sopra della legalità ed inizi a rispettarla, a cominciare dal blocco degli insediamenti e dalla fine dell’assedio di Gaza. Fino a quando questi segnali non verranno dati dal governo israeliano, il Parlamento Europeo non è disposto a votare”. Questo è un messaggio politico importante, ma non vuole essere contro Israele, vuole fare assumere invece la responsabilità dei dirigenti israeliani affinché i negoziati tra palestinesi ed israeliani siano veramente efficaci. E’ anche un segnale rivolto alla Commissione Europea per spingere Israele a fermare i coloni e la colonizzazione dei territori occupati del ’67.
E’ un voto di speranza per i palestinesi.
E’ un voto positivo per noi europei.
Dimostriamo così che il rispetto dei diritti umani e la ricerca della giustizia non sono solo dichiarazioni astratte, ma qualche volta, riescono ad essere reali.
L’On.Jamal Al-Khudari, presidente del Comitato Popolare contro l’Assedio, ha apprezzato la decisione europea ed ha affermato che tale scelta rappresenta un passo nella direzione giusta contro le pratiche aggressive dell’occupazione.
Questa importante posizione politica assunta dall’ONU e dal Parlamento europeo evidenzia soprattutto la progressiva degenerazione della situazione umanitaria in Palestina. Lo dimostrano i tanti episodi di violazione dei diritti umani che quotidianamente si compiono sui territori palestinesi.
La Caritas Internazionale, per esempio, ha affermato che questa giornata dovrebbe essere un momento di riflessione su come riallacciare il processo di pace. Nel comunicato che ha inviato a “Zenit.org” si legge: “Senza un sostanziale impegno per affrontare le ben note cause di questa lotta per uno Stato indipendente, la vita dei palestinesi rimane prigioniera, ridotta alla sua sopravvivenza angosciata, a livello sia mentale sia fisico. I diritti inalienabili del popolo palestinese sono definiti per legge come diritto all’autodeterminazione, all’indipendenza nazionale e alla sovranità, e il ritorno dei rifugiati palestinesi alle loro terre d’origine”.
Sul Diritto al ritorno è stato organizzato un Forum arabo-internazionale a Damasco, il 23-24 novembre, con la partecipazione di più di cinquemila persone, tra partiti politici, associazioni e comitati. I lavori del congresso si chiudono con la firma della Dichiarazione di Damasco che in sedici punti riafferma diritti irrinunciabili. Conclude, affermando che: “Sono passati 60 anni dallo stupro della Palestina senza che sia stato realizzato il diritto al ritorno dei palestinesi alle loro case e terre; dichiariamo inoltre che le Nazioni Unite sono obbligate ad espellere l’entità sionista da membro dell’Onu, per non aver applicato il diritto al ritorno previsto, e accettato, come condizione per il rispetto delle risoluzioni internazionali”.
(fonte:notizie dalla Terra Santa)
Il Corriere della sera del 17 novembre riportava una curiosa ed insolita notizia: il piano di Obama in Medio Oriente. Durante una sua breve visita ad Abu Mazen, nel luglio scorso, Obama si lasciò sfuggire la frase: “Un piano per l’area c’è e se Israele non ci sta, sono pazzi”. Il piano prevede: 1) il riconoscimento d’Israele da tutti i paesi arabi; 2) ritorno ai confini anteriori la guerra del 1967; 3) restituzione del Golan alla Siria; 4) capitale palestinese a Gerusalemme est; 5) diritto di veto d’Israele sul rientro dei palestinesi fuoriusciti nel 1948.
La risoluzione Onu 194 prevede, infatti, il diritto al ritorno.
Questa notizia non ha avuto seguito… silenzio..
L’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite Il 10 dicembre 1948 approvò e proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Sono trenta gli articoli che sanciscono questi diritti, ma quante sono le persone a cui sono totalmente negati? Il popolo palestinese è l’esempio più chiaro e semplice. Sono esattamente sessantanni che 750/800.000 palestinesi sono stati cacciati dalle loro case con le armi dalle forze israeliane.
Gli articoli più significativi sono tre:
art. 4
Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù: la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.
art. 5
Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti.
art. 17
Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in comune con altri.
Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua proprietà.
Le tutele esistono, ma, c’è sempre qualcuno che si eroga il diritto di poterle eluderle e, addirittura, di essere considerato un governo democratico ed onesto. Tanto democratico da negare, ad un altro popolo, i diritti umani più basilari, come per esempio il cibo, l’acqua, l’energia, la salute, l’alloggio, la sicurezza e la dignità.
Nella Striscia di Gaza, diventata ormai un carcere a cielo aperto, un milione e mezzo di persone sono rimaste senza cibo, acqua ed elettricità. I soccorsi non arrivano. Non entra e non esce nessuno. Un rapporto della Croce Rossa descrive gli effetti dell’assedio “devastanti”.
La marina militare israeliana, nei giorni scorsi, ha respinto al largo di Gaza una nave libica che portava aiuti umanitari alla popolazione per un valore di circa 15 milioni di dollari. Questo era il primo segnale di solidarietà dimostrato da un governo arabo nei confronti degli assediati. Il ministero della Difesa ha subito dichiarato che le coste di Gaza rientrano nella zona di sicurezza sotto il controllo dello Stato ebraico.
Gli aiuti possono quindi essere inviati solo via terra, attraverso Israele, oppure essere scaricati al porto egiziano di Al Arish, per essere poi trasportati con i camion.
La Coalizione contro la tortura, gruppo composto da quattordici organizzazioni palestinesi ed israeliane per i diritti umani, ha pubblicato il 01 dicembre il rapporto annuale per il 2008. E’ denunciato l’uso della tortura e dei maltrattamenti da parte delle autorità israeliane contro i palestinesi. I responsabili sono membri dell’esercito, dell’intelligence e della polizia. Il rapporto esamina l’uso continuativo e sistematico della tortura da parte d’Israele, sia nei territori palestinesi occupati sia in quelli israeliani. In base al mandato della Coalizione, il rapporto è realizzato attraverso il materiale fornito dalla Coalizione stessa al Comitato Onu contro la tortura, nel settembre 2008. Il testo comprende oltre ottanta pagine di testimonianze ed estratti di testimonianze. Sono stati studiati i vari casi di tortura e maltrattamenti, da parte delle autorità israeliane contro i palestinesi, sin dal momento del loro arresto per tutto il periodo degli interrogatori e della detenzione. Hanno ripercorso le confessioni nelle corti militari ottenute sotto minaccia. L’uso della tortura comprende anche le demolizioni di abitazioni, l’assedio di Gaza e il divieto, da parte dei servizi di sicurezza israeliani, di permettere ai malati di lasciare la Striscia di Gaza.
(fonte:Infopal.it)
Il Comitato israeliano contro la demolizione delle case palestinesi (Icahd) ha organizzato un tour di medici per verificare lo stato della sanità, nei Territori Occupati e in Israele. L’ingresso a Gaza però è stato vietato, non passa nessuno. Fuori dalla Città Vecchia l’apartheid è reale: le strade per le colonie sono larghe, ben tenute e con i marciapiedi. Nelle zone ancora occupate dai palestinesi sono, invece, piene di buche. Ai palestinesi di Gerusalemme non è concesso il permesso di costruire. La popolazione cerca di spostarsi oltre i confini metropolitani, ma chi lo fa perde la carta d’identità blu dei residenti e, con questa, anche la possibilità di trovare un lavoro, entro i confini israeliani. Alcuni stati esteri finanziano la costruzione di una strada per palestinesi, da Ramallah a Betlemme, passando da Gerico, evitando Gerusalemme. Si aiuta quindi l’esclusione dei palestinesi dal loro fulcro economico e religioso, più importante. Ai Palestinesi inoltre è proibito scavare pozzi (l’acqua può essere concessa una volta ogni tre settimane), mentre, le colonie si trovano sopra le falde idriche. I coloni utilizzano l’ottimo sistema sanitario israeliano, per i palestinesi, invece, persino partorire può diventare un problema, se i posti di blocco, impediscono di arrivare in tempo all’ospedale. L’Anp non ha risorse per acquistare molti farmaci, questo fa la differenza tra chi può e non può, permettersi di acquistare medicinali. Né a Betlemme, né a Nablus è possibile eseguire una Tac o una broncoscopia. Bisogna andare a Gerusalemme, sempre che Israele conceda il permesso.
I palestinesi, per ovviare al problema della scarsità dell’acqua, hanno messo cisterne sul tetto delle case, per raccogliere l’acqua piovana. A Hebron, però, i coloni ci versano dentro sporcizia, oppure vi sparano contro, per romperle…
Questa è la realtà d’oggi vista attraverso gli occhi di un medico ebreo.
(fonte:Il manifesto – Paola Canarutto)
La storia della Palestina è raccontata in modo superbo, ancora una volta, da uno storico israeliano.
Ilan Pappe, ricercatore appartenente alla corrente dei New Historians israeliani, ha studiato a lungo tutta la documentazione esistente, compreso anche gli archivi militari desecretati nel 1988, per capire, il più possibile, la storia cruciale del suo paese. Nel suo saggio “La Pulizia Etnica della Palestina”
Pappe spiega che, già dagli anni trenta, la leadership del futuro Stato d’Israele, aveva ideato e programmato in modo sistematico un piano di pulizia etnica della Palestina. “La pulizia etnica è un tentativo di rendere omogenea una nazione ad etnia mista, espellendo un particolare gruppo di persone, trasformandole in profughi e demolendo poi le case dalle quali sono state cacciate. I massacri accompagnano le operazioni, ma quando avvengono non fanno parte di un piano di genocidio: sono la chiave tattica per accelerare la fuga della popolazione destinata all’espulsione. In seguito, gli espulsi saranno cancellati dalla storia ufficiale e popolare del paese ed esclusi dalla memoria collettiva”. Questo comporta, sempre secondo Pappe, un enorme implicazione di natura morale e politica, perché definire, pulizia etnica, quello che fece Israele nel 1948, significa ammettere che lo Stato d’Israele commise un terribile crimine contro l’umanità. Per questo, il processo di pace potrà avere un vero risultato, solo dopo che gli israeliani e l’opinione pubblica mondiale avranno riconosciuto ed ammesso questa responsabilità.
Ilan Pappe, per la coerenza delle sue idee, ha subito nel suo paese un forte boicottaggio, non solo personale ma anche accademico. Il suo recente trasferimento all’Università di Exeter (Gran Bretagna), dopo aver insegnato per anni ad Haifa, è il risultato del modo di agire dello Stato di Israele.
L’arresto e la deportazione del pacifista italiano Vittorio Arrigoni del 21 novembre scorso è l’ennesimo esempio del comportamento violento di un governo occupante.
Quelle barche rapinate da Israele sono il simbolo dell’assedio a cui è costretta Gaza.
L’incursione è avvenuta a circa sei miglia dalla costa di Gaza che, secondo le leggi internazionali (il trattato di Oslo conferisce sovranità ai palestinesi sino a venti miglia dalle coste della Striscia), sono considerate acque palestinesi. Per questo non si può parlare di arresto, ma di un vero e proprio sequestro di persona, e non di confisca dei pescherecci, ma, di un furto. Un vero e proprio blitz: corpi speciali della marina militare israeliana, teste di cuoio, incappucciati ed armati. Vittorio chiese all’ufficiale di più alto grado, quale minaccia alla sicurezza d’Israele, potevano causare dei semplici pescatori palestinesi nella ricerca di cibo nel loro mare. L’ufficiale non ha saputo rispondere. Questi soldati sono addestrati ad uccidere in pochi secondi, ma non sono in grado di capire il significato dei termini come diritto di vivere, diritto di sopravvivenza. Vittorio decise quindi di resistere passivamente. Quei soldati israeliani non avevano nessuno diritto di agire in quel modo. Per sfuggire all’arresto, si arrampicò sul tetto del peschereccio, ma i militari lo inseguirono puntandogli le armi al viso. Arrivò un quarto soldato con una pistola taser che, nonostante l’avvertimento di Vittorio sulle proprie condizioni di salute, sparò ugualmente una scarica elettrica, sulla schiena, mandandolo sottoschock. A questo punto, l’unica possibile salvezza, era il mare. Così fece. Nuotò verso Gaza, incurante degli spari, per una mezz’ora ma, poi, il freddo e la stanchezza posero fine alla fuga. Per i pescatori palestinesi, invece, la sorte fu ancora più crudele ed umiliante. Il loro viaggio di ritorno, circa cinquanta chilometri nautici, fu all’aperto: inginocchiati nudi, incatenati alle caviglie, con i polsi ammanettati dietro la schiena e bendati. E tutto questo, solo perché cercavano cibo nelle loro acque! Vittorio fu, poi portato in prigione, prima a Ben Gurion poi a Ramie, insieme agli altri due pacifisti. Iniziarono uno sciopero della fame per poter chiedere, alle autorità israeliane, il rilascio immediato dei pescatori palestinesi. La detenzione di Vittorio durò sei giorni. Sei giorni vissuti in una cella angusta, lurida, popolata da insetti e parassiti, ma, e questo è il fatto più grave, privato del più fondamentale diritto di difesa, attraverso un avvocato o un consolato. Vittorio, infine, denuncia che, nella prigione di Ramie, sono sepolti vivi centinaia di rifugiati africani, etiopi, eritrei e sudanesi, tutti con un visto UN in perfetta regola.
Questo episodio conferma che, Israele considera la Carta Universale dei diritti umani, pura e semplice carta straccia. (fonte: il manifesto)
Il governo israeliano è responsabile anche dei crimini commessi dai coloni.
Il giornalista di Ha’aretz Gideon Levi, dopo gli ultimi episodi accaduti a Hebron, denuncia pubblicamente l’azione del governo israeliano.
I coloni che abitano Hebron sono chiamati: "coloni ideologici", infatti, la loro scelta di vivere in una colonia non è dettata dall'opportunità di avere un abitazione a basso costo, come avviene altrove, ma è per rivendicare il diritto storico e religioso ad avere questa terra solo per se. Dichiarandosi così in guerra nei confronti della popolazione araba.
I coloni di Hebron sono tra i più violenti. Negli ultimi giorni, alcuni coloni, nella maggioranza di provenienza statunitense, hanno occupato la casa di una famiglia palestinese. La corte suprema israeliana ha ordinato lo sgombro immediato, ma i coloni, non riconoscendo nessuna legge, non hanno voluto rispettare la sentenza. Lo scontro quindi era inevitabile. Mentre le forze dell’ordine davano inizio allo sgombro forzato, altri coloni assediavano e bruciavano altre case palestinesi. La tensione è alta e rischia di propagarsi anche in altre città, come Nablus o Qalqliya. Levi ha attaccato Israele per “le selvagge violazioni commesse dai coloni contro i palestinesi di Hebron”. Ha accusato anche il governo di averle permesse e finanziate. Denuncia l’indifferenza e la responsabilità del suo governo.
(fonte: Bassam Saleh)
Per tutti questi motivi si continuerà a scendere in piazza per dimostrare solidarietà a questo popolo affinché sia riconosciuto il loro diritto al ritorno, la cessazione dell’occupazione ed il rispetto dei Diritti Umani.
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