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Visti per Voi » Come Dio comanda  
Una scuola di vita all’odio, con molto amore

Come Dio comanda – voto: 7 –

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Salvatores e Ammaniti di nuovo insieme

Era il 2003 quando il regista premio oscar per “Mediterraneo” (1991), Gabriele Salvatores, interrompeva un ciclo di lavori non del tutto convincenti, per proporre “Io non ho paura”, tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. In una assolata e afosa estate del nostro sud di fine anni ‘70, dipinta nelle sconfinate distese di dorato frumento tra Puglia e Basilicata, fiorisce la più pura e salda delle amicizie tra due ragazzi costretti a subire il degrado, l’avidità e la miseria degli adulti.
A pochi giorni dal natale di questo 2008, il regista d’origine napoletana ma milanese d’adozione, presenta il suo ultimo film ancora tratto da un romanzo di Ammaniti, il Premio Strega 2007 “Come Dio comanda”. L’ambientazione non poteva risultare più lontana di quella incontrata nella precedente collaborazione. Quale denominatore comune, solo il rapporto tra adulti e adolescenti, seppur con sfumature infinitamente diverse.

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Rino, Cristiano e 4 formaggi

Rino (Filippo Timi) è uomo violento, razzista, misogino. Cova una rabbia ed un odio permanente verso i padroni, che sfruttando gli extra comunitari, che questi siano slavi o africani, hanno contribuito a costruire un mondo del lavoro che lo obbliga ad una disoccupazione quasi permanente. Scaglia il suo rancore contro gli stessi immigrati, che incolpa di avergli rubato ogni chance d’impiego anche nelle condizioni più umili, le uniche che la sua istruzione gli consentano. La scuola e la società in genere poi, sono responsabili di minare il diritto a vivere con il suo figlio Cristiano, unici membri di una famiglia ristretta, costretta a fare i conti con la ricorrente minaccia di separazione da parte dei servizi sociali. Con lo stesso filo di odio, diffidenza verso il prossimo, e risentimento sparso in ogni direzione, si è tessuta l’educazione con la quale Rino ha cresciuto Cristiano. Svegliarlo la notte all’improvviso, urlandogli che occorre sempre dormire con un occhio aperto, o ordinargli di impugnare un’arma per uccidere a sangue freddo un cane la cui unica colpa è abbaiare nel buio, fanno parte di un quotidiano che vede il ragazzo sottoposto ad una scuola di vita quasi feroce, lontana anni luce da quella di ogni suo coetaneo.
Cristiano (Alvaro Caleca) è un quattordicenne ombroso, introverso, e il sorriso non illumina quasi mai il suo volto. I limpidi occhi chiari celano l’universo tumultuoso di un’anima cresciuta all’ombra di un padre brutale e dispotico. Intimorito dai dettami paterni che gli urlano di non raccontare mai a nessuno il contenuto del loro vivere, Cristiano cresce senza stringere amicizie. I compagni di classe lo isolano, dando mostra di quella tipica crudeltà giovanile verso coloro fuori dal coro, o che rinunciano ad unirsi al branco. Verso gli insegnanti inoltre, si alimenta una mancanza di stima che sfocia quasi nel disprezzo: adulti che come tutti gli altri sanno solo giudicare, e come ripete da sempre il padre, mirano tutti a separarli.
Nonostante le aride premesse, il rapporto tra Rino e Cristiano è fondato su di un amore viscerale e ancestrale. Un legame fortissimo costruito sullo scontro, sulla violenza, con la legge del più forte come arbitro di ogni contesa, ma in grado di saldare due anime in un corpo solo.
Quattro Formaggi (Elio Germano) è una umanità disadattata aggregata alla famiglia di Rino e Cristiano. La sua mente disturbata a conseguenza di un grave infortunio sul lavoro, vive una realtà tutta sua. Un mondo popolato di sogni fantastici, di personaggi stravaganti che abitano tutti il suo strambo presepe, di amori virtuali con pornodive che sente reali. Una vita povera di ogni cosa, vissuta ai margini, dove l’affetto di Rino e Cristiano costituisce l’unica goccia di umanità concreta.
Tre figure fuori dal gioco, anime annaspanti per non soccombere, che in una notte di pioggia battente, dovranno affrontare il loro diluvio universale, nella prova regina della loro esistenza.

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Una storia dura in una ambientazione aspra

Salvatores costruisce una storia forte, un racconto di estremo degrado culturale e sociale quale sfondo a un drammatico rapporto padre figlio. In una intervista il regista ama definire l’educazione di Rino a Cristiano, come una via dove “…il padre insegna al figlio l’odio con molto amore…”. Un sentimento indissolubile, una interpretazione del ruolo di padre discutibile, un esempio non da seguire, ma una presenza forte e concreta, in un epoca dove la figura paterna è scomparsa da decenni. Ad acuire l’asprezza del tema, contribuisce la scelta dell’ambientazione in un imprecisato nord est desolato e tetro, dove alla durezza dei sentimenti fanno da sfondo immense cave di pietra, dove l’assenza di luce interiore nei personaggi, si amplifica nelle frequenti sequenze notturne. Sulle villette a schiera come sulle ciminiere delle industrie, un diluvio quasi apocalittico si abbatte impietoso. Un fiume d’acqua che inonda un deserto di sogni e passione comune ad una intera nazione.
Su tutte le umanità in campo aleggia la presenza di un Dio nell’aria, ma assente nelle misere esistenze, come incapace di frenare gli orrori figli delle debolezze terrene.

Un lavoro ben costruito ma manca la scintilla

Il film è tecnicamente girato benissimo. La regia quasi mima gli attori, entra fisicamente in scena al loro fianco con la maggioranza delle sequenze realizzate con camera a mano. Bravi gli attori, tutti, ma ovviamente in prima linea i 3 protagonisti, affiancati da un Fabio De Luigi finalmente in un ruolo non comico, anche se il suo “Trecca”, ci appare come un assistente sociale non sinceramente devoto alla causa.
Filippo Timi sa fornire al suo Rino uno spessore consistente di drammaticità forte e credibile. La natura gli ha fornito lineamenti marcati, sguardo intenso e la sua tecnica sta crescendo, così come la consapevolezza di poter rivestire finalmente ruoli da vero protagonista. La vita gli ha involontariamente fornito prove difficili: dall’abuso subito in giovanissima età, ha origine quel dolore capace di regalare un valore aggiunto nei ruoli drammatici.
L’esordiente Alvaro Caleca è molto bravo, convincente nella sua timorosa devozione verso la severa figura paterna, ma anche come presenza fisica in scena. Molte sequenze gli richiedono uno sforzo atletico che trasmette con energia.
Tra Filippo e Alvaro poi, è nato un rapporto paterno anche sul set: Salvatores ha narrato di come Timi facesse fare i compiti al ragazzo tra le pause cinematografiche.
L’emblematico e controverso quattro formaggi di Elio Germano, ci appare all’inizio ingenuo ed inoffensivo, ma si rivelerà in possesso di una malvagità nascosta anche a chi credeva di conoscerlo bene. Ad una porzione della critica è risultata una interpretazione forzata e forse un po’ troppo accademica. Non sono d’accordo. Ritengo quella di Germano una prova di valore, da aggiungere ad altre importanti espresse in film recenti come “Il passato è una terra straniera” ( di Giovanni Veronesi 2008), o “Mio fratello è figlio unico” che nel 2007 gli valse un David di Donatello come miglior attore protagonista.
Un limite di questa pellicola è da ricercare nella mancanza di quella scintilla emotiva che non scatta nello spettatore. Il lavoro è coinvolgente e non annoia mai, apprezzandone a pieno l’ottima fattura in tutte le sue sfumature, sceneggiatura, fotografia, tagli d’inquadratura. Gli attori sono tutti in gamba, intensi e molto credibili. Ciò nonostante non sopraggiunge quella emozione che colpisce la pancia, non si innesca la scintilla per infiammarti nel profondo. In diversi momenti attendi quel cambio di passo, quel evento che ti scuota, ma non arriva.
Non sono tra coloro che hanno letto il romanzo di Ammaniti, e non riesco a dire se questo può essere un motivo. I critici hanno definito il film fedele al libro, con qualche variante e taglio, dove il rapporto padre e figlio ha conquistato la centralità della trama, e con un finale ispirato ad un lieve e maggiore ottimismo.

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Oltre la pellicola

Gabriele Salvatores si conferma regista importante e quasi illuminante per il nostro cinema. Si può a volte non apprezzare a pieno i suoi lavori, ma non si discute il talento e la continua ricerca di nuovi stimoli. Ai trionfi indiscussi ha spesso reagito proponendo pellicole distanti dalle precedenti, tentando di sfuggire alle auto celebrazioni, e alle trappole del successo garantito. Con “Come Dio comanda” si addentra in meccanismi sociali molto profondi, spingendosi ben aldilà dell’originalità di un soggetto abilmente trasposto da un romanzo di grande successo. Viviamo in una società guidata da uomini spesso molto maturi, se non anziani, ed in una intervista televisiva, il regista ha provocatoriamente detto che l’Italia sta diventando un “Non è un paese per giovani”. E’ nei ragazzi invece, che risiede la speranza, e l’energia per un futuro diverso. Con il suo lavoro lancia un messaggio in linea con il soggetto del film, dove i figli possono elevarsi a salvatori dei padri.
Un altro motivo di scoramento insito nel nostro presente, è da ricercare nella ancora troppo esigua presenza delle donne nei ruoli di potere o decisionali. L’importanza del femminile in questo film, viene esaltata dall’assenza del femminile stesso dalla storia. Gli eventi narrati nella pellicola, come tanti altri della nostra epoca, si gioverebbero di esiti differenti se il peso del pensiero femmineo risultasse maggiore.
Salvatores, richiamandosi al cantautore Fabrizio De Andrè, ha più volte citato brani quali “…dai diamanti non nasce niente e dal letame nascono i fiori…”, oppure “…per tutti c’è un po’ di amore sulla cattiva strada di tutti…”.
Il rapporto tra Rino e Cristiano, ci rivela quanto amore si possa celare anche dietro a comportamenti lontani dal nostro sentire e persino condannabili. Da ogni contesto, anche in presenza di violenza e degrado, possono scaturire gesti preziosi e nobili, e l’amore può trovare dimora in ogni luogo. Un invito a non elevarsi a giudici improvvisati, a sforzarsi di comprendere chi è il nostro nuovo vicino di casa. Un appello a non arrenderci dinanzi a tesi scontate, un monito a riflettere con maggiore empatia sui fatti che ci propongono già confezionati, serviti e pronti da consumare senza lo sforzo di usare la nostra mente.
Occorre rimanere vigili e attenti, perché sono sempre di più coloro che vogliono disabituarci a servirsene.


































































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