giovedì 3 ottobre 2024   
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Visti per Voi » Gran Torino  
L’ultimo eroe di Clint, in un America marcata da razzismo e intolleranza

Gran Torino – voto : 7.5

 


Il ritorno da attore
Era dal 2005, anno del meraviglioso e pluridecorato da Oscar e Golden Globe “Million dollar baby”, che Clint Eastwood non copriva la duplice veste di attore e regista nei suoi film. Un ritorno che sembrava incerto fino all’annuncio di questo ennesimo grande lavoro, che ora secondo alcuni, potrebbe costituire la sua ultima volta davanti alla macchina da presa.
 “Gran Torino” è la nuova conferma di un talento plasmatosi nel corso di una vita vissuta rendendo grande il cinema americano. Ignorato incredibilmente dalla Academy Awards nella notte degli oscar, l’ultimo film di Eastwood ha ottenuto gli incassi maggiori tra quelli da lui prodotti. Trattasi di una prova dal sapore particolare, nel quale le piaghe visibili del razzismo e dell’intolleranza imperanti nell’America di oggi, si sovrappongono alle ancestrali barriere generazionali edificate da sempre nei rapporti tra padri e figli, per fondersi nel quotidiano privato di un uomo alle prese con i ricordi dolorosi del passato, e un conflittuale rapporto con la religione. Per raccontare tutto questo, Clint sceglie di dare vita a Walt Kowalski, un altro personaggio della sua lunga collezione destinato ad essere difficilmente dimenticato.


Walt il misantropo
Walt Kowalski è un americano di vecchio stampo: un uomo cinico, burbero, scontroso e razzista. Reduce della guerra in Corea dalla quale ha ereditato cicatrici che gli hanno segnato l’esistenza, ha lavorato per il resto della sua vita come operaio alla ford. Ama aggiustare le cose, detesta il disordine e le persone che non hanno cura dei propri averi, e a portata di mano tiene sempre il fucile M1 suo compagno in Corea. Il suo hobby preferito consiste nel riparare oggetti destinati ad essere gettati, e possiede un garage pieno di ogni tipo di attrezzo ordinatamente custodito. La casa di Kowalski è in un quartiere oggi abitato da immigrati di ogni etnia che l’uomo disprezza apertamente, rimpiangendo quei vecchi vicini oramai estinti o trasferitisi altrove. Una zona lacerata da continui scontri tra bande di afro americani, ispanici, asiatici, tasselli di un puzzle sociale incapace di coesistere.
Walt ha appena perso la moglie e la sua solitudine è amplificata dal profondo abisso che lo separa dal resto della sua famiglia. Un fossato scavato negli anni senza celare mai il feroce disappunto con cui critica di continuo vita, scelte, abitudini di figli e nipoti, ma che i familiari aridi e superficiali hanno contribuito e rendere incolmabile. Nemmeno la ostinata vicinanza nel rispetto di una promessa alla moglie defunta di padre Janovich (Christopher Carley), sembrano sortire effetti.
Gli unici tesori a cui l’anziano uomo è attaccato sono una attempata Labrador di nome Daisy, e la ford Gran Torino del 1972, simboli come lui di un tempo che scivola inesorabile, al quale Walt cerca di rimanere aggrappato disperatamente. 
Nel corso di una notte sorprenderà Thao (Bee Vang), uno dei giovani membri dell’odiata famiglia asiatica della casa accanto, frugare nel suo garage per rubargli la Gran Torino. Sarà questo l’evento che lo porterà, guidato per mano da Sue (Ahney Her) sorella di Thao, ad entrare in contatto con il mondo dell’etnia Hmong: un incontro forzato che gli cambierà l’esistenza. Scoprirà una realtà sorprendente che lo indurrà a scontrarsi con se stesso, con il suo passato, ed un futuro tinto d’incertezza. 


Un susseguirsi di capolavori
Il curriculum da regista di Clint Eastwood è un susseguirsi di capolavori tra loro dissimili, ma tutti di sublime qualità realizzativa , nella scelta di temi e soggetti, nonché nella bravura degli interpreti, che sotto la sua guida hanno collezionato oscar e premi a ripetizione. Un percorso che ha toccato le vite private di perdenti ed emarginati con rilievo a valori come l’amicizia, il sacrificio, il riscatto, in “Mystic River” e nel già citato “Million Dollar Baby”, per  compiere poi un duplice viaggio rievocando la battaglia di Iwo Jima, riportandola a noi prima vista dagli americani in “Flag of our Fathers”, poi con gli occhi nipponici in “Letter from Iwo Jima”. Solo pochi mesi fa scardinò il cuore e la pancia del suo pubblico con un penetrante e indimenticabile “Changeling”, nel quale ricostruiva attraverso la vera storia di Christine Collins, le strumentali intrusioni dello stato nella più drammatica delle circostanza per una madre, quale è la scomparsa del figlio.


Tante fotografie in una
Oggi il regista quasi 80enne di San Francisco, costruisce un lavoro semplice ed essenziale nella sua fattura, libero di ogni ricostruzione storica e ambientale, ponendo al centro della storia un uomo, con un presente ed un passato in conflitto, ma non solo. Narrando di Walt Kowalski, un patriottico americano d’altri tempi di origine polacca, Eastwood riesce a farci sorridere e commuovere come solo i grandi registi sanno fare, scattando tante fotografia in una.
Si rimane colpiti dalla disillusa immagine di un paese lacerato da una giovanile intolleranza e ignoranza che pare non riuscire ad imparare dal suo passato, dove le etnie si trovano ad affrontarsi aspramente, alimentando un cancro sociale mai estirpato. E quale parametro di una convivenza possibile, genera nello spettatore il confronto con una attempata generazione di irlandesi, polacchi e italiani, che nell’acido ma rispettoso sfottò, hanno saldato nei decenni le basi per una non semplice ma proficua coesistenza. Il grande Clint non si sottrae al compito di fornirci una speranza, e dopo aver illustrato il male, ci propone la cura, munendo al suo Walt l’incontro scontro con l’etnia Hmong, una scelta come sempre non casuale. Gli Hmong sono una antica popolazione originaria del sud est asiatico, sparsa nei territori di Laos, Cambogia, Vietnam e Thailandia con lingua, cultura e tradizioni proprie. Nel corso della guerra in Vietnam collaborarono con gli americani, ma al momento della sconfitta subita dai vietcong, in tanti furono costretti a fuggire dalla loro terra e seguire gli americani nel rimpatrio. Divennero una delle tante tessere di quel puzzle multi etnico che è l’America, ma l’inserimento non fu indolore. Una volta sbarcati in Usa, in molti si dimenticarono presto del loro appoggio in quella sanguinosa e lontana guerra che tutti volevano scordare in fretta. Per i tanti americani alle prese con i molteplici trascorsi bellici asiatici, i loro contorni somatici bastarono per ispirare i più svariati epiteti che nelle forme più dolci suonavano come “musi gialli” o “mangiatori di riso”. Il renderli gli artefici di una nuova stagione per il protagonista, fautori di saggezza e ispiratori di tollerante convivenza, disegna la pista da seguire, e costituisce un omaggio prezioso verso questa tribolata gente. La produzione ha ricercato interpreti originariamente Hmong, per lo più al debutto, inclusi gli attori Bee Vang e Ahney Her. Thao e Sue divengono attraverso le magie dell’animo umano, quei figli o nipoti che Kowalski avrebbe da sempre desiderato, ed il tramite per il regista di affrontare un tema senza tempo come il legame padre e figlio. In esso ritroviamo l’istintivo bisogno nell’ultima stagione della vita di lasciare in eredità ad altri l’essenza del proprio sapere e di se stessi, un passaggio generazionale essenziale per dare un senso all’esistenza.


Una nuova fucina di emozioni
Eastwood ci regala una interpretazione straordinaria, forse la migliore della sua carriera. Walt è un personaggio complesso, un uomo dall’ironico schietto e offensivo cinismo, sinceramente intollerante, che ringhia tutto il suo livore verso una vita che spezzatasi 50 anni prima in Corea, non è più riuscito ad aggiustare. E così per punirsi del senso di colpa di chi si sente un indegno sopravissuto malgrado gli orrori commessi, sceglie di inaridire gli affetti e si circonda di attrezzi silenti con i quali si illude di rimediare agli squarci dell’anima, riparando ogni oggetto che incontra, o garantendo alla sua Gran Torino e al cane Daisy, come lui dinosauri in estinzione, quelle attenzioni e cure che ignora per se stesso. Come la bandiera a stelle e strisce che sventola dalla sua casa, e unica superstite nel quartiere, Walt Kowalski incarna un tempo lontano dove gli americani erano fieri di sacrificare la vita per il loro paese, epoca oggi appannata dai recenti modelli di democrazia da esportazione.
Ciò nonostante, in uno dei dialoghi più intensi dove “l’orrore peggiore fu in quello che non ci venne ordinato”, Clint pone l’accento sulle reali conseguenze della guerra, per lo più ignorate dai proclami populisti dei governanti, per esibirne il volto distruttivo anche a decenni di distanza.
Ma se la ricchezza del cuore è solo sepolta e non dissolta, una nuova possibilità esiste sempre, e con essa la speranza di ricucire i brandelli sfrangiati della propria anima, ritrovando quella pace interiore necessaria per affrontare con coraggio e lucidità, la via per fare ciò che si ritiene giusto, ben oltre l’insistente giudizio di un Dio invocato dai suoi terreni messaggeri.
Nell’osservare Walt Kowalski e il suo sguardo da duro, quale paladino degli indifesi nel nome di ordine e giustizia, incapace di scendere a compromessi e con la mano che mima una pistola tante volte impugnata in altre pellicole, si scorge come Clint Eastwood sia ricorso a molte delle sfumature che hanno reso indimenticabili tanti suoi personaggi. Di tutti loro il protagonista di “Gran Torino” però non ne è una sintesi, ma piuttosto una ulteriore evoluzione. L’incedere delle stagioni hanno segnato una maturazione a tutto tondo dell’artista californiano, e anche l’ultimo, forse, grande duro della sua carriera, rivelerà una sensibilità insospettabile per i suoi predecessori, tanto che parte della critica lo ha accusato di buonismo. In perfetta linea con il suo stile invece, Eastwood svicola alle trappole della nostalgia, innovandosi in un finale inedito per il suo eroe senza paura.
Una delle migliori virtù dei film di Clint, consiste nel risultare così veri e credibili che il suo cinema diventa una fucina di emozioni che puntano dritte al cuore, per solcare una traccia indelebile di emozioni.


 

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