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HABEMUS PAPAM
di Maurizio Montanari

Regia: Nanni Moretti
Italia, Francia; 2011


Spaccato fedele italiano, con sorpresa.
Così si potrebbe definire   il film di Nanni Moretti, ‘Habemus Papam’. Si comincia con un formidabile attacco di panico, quello che colpisce il cardinal Melville  appena investito della carica papale. Una crisi d’angoscia montante, limpida, che attanaglia il quasi Pontefice nell’atto di affacciarsi al balcone e sancire così’ l’accettazione del soglio  di Pietro. Un accettazione che egli non si sente di fare, un desiderio che sembra non abitarlo.  Vittima di un troppo che lo schiaccia .
Quel che Lacan ci insegna ( ecco dunque la psicoanalisi in primissima fila) è che l’angoscia è quel tormento che attanaglia l’uomo nel momento in cui cade nell’enigma del desiderio irrisolvibile: cosa vuole l’Altro da me? Quali le altrui aspettative? Come rispondere alle attese di chi mi ha assegnato questo posto? In quella scena la radice di tanti guai della contemporaneità: l’angoscia.
E qua Moretti si mostra da  subito antimoderno. Vagli tu a dire che essere moderni significherebbe prendere il neo Papa ed imbottirlo di farmaci al primo attacco di panico, assestare una sberla chimica al sussulto del soggetto che dice ‘non ce la faccio’ per poi tornare di nuovo nei ranghi. Al suo posto. Guarito e normalizzato. Per fortuna Moretti non ama le mode, e ci mostra magistralmente quanto l’angoscia introduca e moduli il tempo di analisi. Alla faccia dunque di ogni prontuario, il cardinale si chiama fuori da quel posto, e si mette a riflettere.
Ha inizio, da questa rinuncia al posto assegnato, l’elaborazione personale del soggetto. L’analisi allo stato puro. Il segretario pontifico anche lui mostra di conoscere bene Freud. In particolare quando in ‘Psicologia delle masse e analisi dell’Io’ descrive il fenomeno del panico come un ondata che sommerge e scardina la massa nel momento in cui il referente barcolla, il capo cade da cavallo.
Accortamente intercetta i primi segnali di disgregazione e vi sopperisce con un figurante, la grassa guardia svizzera, che ne andrà  ad occupare il posto nei papali appartamenti, mostrando ogni tanto la sagoma che tranquillizza e placa la folla e la preserva dallo sgretolamento.
 Ancora: mentre se ne ridicolizzano giustamente i protagonisti saccenti ( ‘io sono l’analista migliore!’ dice Moretti, che stiletta da par suo le schiere di saccenti nipoti di  Freud che affollano la ribalta mediatica, dimentichi di quel diceva Lacan sul fare ‘ l’analista..senza troppe manie di grandezza’) si mostra la forza di un percorso di analisi. Michel Piccoli abbandona il Vaticano ( il posto assegnato) e va nello studio di una caricatura d’analista: moglie infarcita di sapere posticcio e con problemi di coppia  per lasciarlo. La sua analisi, intesa come disvelamento del proprio desiderio, avviene infatti lontano da questi luoghi deputati . Il posto dell’analisi non coincide con il luogo di analisi. E’ infatti tra la gente, in strada, tra le bancarelle e dal panificio che inizia a dare forma al suo no. E mentre rimemora vaghe aspirazioni di attore, confessa davanti ad attori autentici ( eletti ad analisti ) che lui quel sogno l’aveva, ma non ha avuto al forza di portarlo sino in fondo.  Il finale è , come detto, una sorpresa. Una scena non Italiana.
Rasserenato, ormai certo delle sue intenzioni affinate per i borghi romani, Melville dice no a quel posto. Rinuncia con un coraggio inattuale ad un sontuoso incarico di Pontefice. Gonfio di benefit, agi,  e con potere incondizionato sui sottoposti. In un tempo di padri sbilenchi e rabberciati, di saccenti narcisi ed opportunisti pronti a cavalcare ogni moda pur di apparire, o di menar vanto di titoli di plastica  per  un posto al sole, è un insegnamento  formidabile. E’ la scena che vale il film. Come il balletto iniziale di De Niro in ‘Toro scatenato’.

  


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