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HOTEL RWANDA – VOTO – 7

Un premio e un riconoscimento speciale questo film li merita per l’essere stato il primo e a mia conoscenza unico lavoro cinematografico ad essersi occupato della tragedia del Rwanda. Aggiungiamo a tutto ciò che si è trattato di un bella opera, davvero, dove la catastrofe umanitaria viene messa in primo piano, al di sopra di ogni altro aspetto. Prima di entrare un pochino nella più ristretta sfera della pellicola diretta da un coraggioso Terry George, regista di cui mai prima d’ora avevo sentito parlare o visto pellicole, vorrei tornare indietro nel tempo e indicare in maniera sintetica come si è giunti al momento storico in cui è collocato “Hotel Rwanda”.

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Le etnie hutu e tutsi a differenza di quanto si è portati a credere o di ciò che è avvenuto in altri scontri etnici del continente africano, hanno convissuto in pace per millenni. E’ falso sostenere, come ha cercato di fare il mondo occidentale in alcuni frangenti, tanto per lavarsi la coscienza dalle responsabilità che oggi sono evidenti agli occhi del mondo, che tra queste due frange della popolazione esistesse una sorta di rivalità ancestrale, frutto di remoti trascorsi violenti. Per secoli e secoli hanno popolato e condiviso le ricchezze della natura sviluppando la loro cultura in un clima di rispetto reciproco. Gli hutu erano in prevalenza agricoltori, i tutsi prediligevano per tradizione l’allevamento del bestiame.

Dal 1900 le dominazioni coloniali prima della Germania, poi dal 1918 del Belgio congiunta alla forte presenza dei missionari cattolici hanno snaturato l’equilibrio. Viene consegnato il controllo dell’intero panorama della vita sociale e politica del paese ai tutsi, ponendo in uno stato di pesante emarginazione la comunità hutu. Seguendo criteri di totale parzialità i missionari europei eleggono la porzione tutsi come razza superiore generando una profonda ferita nel tessuto sociale e creando i presupposti per la rivalità etnica. Verso la metà degli anni ’50 questo stato di cose matura in un crescente bisogno d’indipendenza. Il governo belga e la chiesa cattolica, accorgendosi che il vento sta pericolosamente per cambiare direzione, cercano con una disastrosa inversione di cammino un salvataggio delle loro posizioni e promuovono un processo di trasferimento del potere agli hutu.

Tra il 1959 e il 1961 gli hutu prendono in mano le sorti del paese e questo passaggio avviene inevitabilmente con lo strascico di morti e vendette per lo sfociare dell’odio e del risentimento accumulato per decenni. Migliaia sono i tutsi uccisi o che devono rifugiarsi nei paesi limitrofi per sfuggire alla morte. Gli hutu proclamano nel 1961 Kayibanda presidente della nuova repubblica del Rwanda.

Dal 1 luglio 1962 le autorità militari e politiche belga lasciano lo stato africano. Nel 1973 una fazione di hutu del nord del paese con al comando il generale Habyrimana sferra una sorta di colpo di stato assumendo militarmente il controllo del Rwanda. A seguito di questo nuovo evento altre migliaia di tutsi verranno massacrati e con loro molti hutu appartenenti alle fazioni oppositrici del generale, ruandesi originari per lo più della regione meridionale del paese. Da questo momento ha inizio una dittatura militare che Habyrimana governerà fino al 1990. Fu quello l’istante, a 17 anni dalla sua costituzione che il FPR ( fronte patriottico ruandese), costituito da familiari e figli dei rifugiati all’estero tutsi, nonché da tutti coloro che si opponevano alla dittatura hutu compresi, accenderà uno scontro con le forze governative. Il periodo tra il 1991 e il 1993 sarà segnato da una sanguinosa guerra civile che troverà una tregua solo nell’agosto del 1993, dove le fazioni contrapposte firmeranno un accordo. Il governo di transizione che ne consegue, formato da elementi di Habyrimana e da uomini del FPR, non sarà capace di condurre ad una pace stabile e duratura. Il generale ex dittatore preoccupato di perdere il controllo della situazione, allestirà degli squadroni killer con pronte liste di oppositori da eliminare, ma a far precipitare gli eventi sarà l’attentato che provocherà la morte dello stesso Habyrimana. E’ il 6 aprile 1994 e sarà la data che salirà alla storia come l’inizio di uno dei genocidi di massa più feroci e cruenti che la nostra storia moderna ricordi. Le fazioni hutu che avevano già predisposto esecutori e bersagli, avviano un sistematico piano sterminio dell’etnia tutsi. Uomini, donne e bambini vengono massacrati a colpi di macete degli squadroni della morte. Le donne che vengono risparmiate dal massacro sono sottoposte a giorni di stupri e violenze sessuali, con il preciso obbiettivo di porre fine con ogni mezzo al futuro dell’etnia tutsi. Anche per gli oppositori al regime allineati tra le file degli hutu la sorte sarà la medesima.

L’ FPR reagirà militarmente e dalle postazioni situate appena fuori dai confini dello stato si sposterà all’interno per opporsi ai ribelli hutu. Lo scontro sanguinoso e il genocidio non consentiranno mai un bilancio ufficiale delle vittime, ma i morti di quegli anni si aggirano sul milione di esseri umani. Testimoni dell’epoca in quelle regioni parlavano di fiumi e laghi rossi del sangue dei tutsi massacrati e fatti a pezzi. La ferocia con cui si eseguono le uccisioni sono figlie di un odio frutto della manipolazione popolare. Il contesto maturato in decenni di discriminazioni ha consentito ai leader militari di imbottire uomini e soprattutto tanti bambini del seme di crudeltà capace di tutto questo. La povertà, l’assenza d’istruzione e di una cultura anche minima, hanno reso decine di migliaia di giovani pedine malleabili ai giochi di potere di uomini senza scrupoli. Le immagini dei soldati bambini che imbracciano armi enormi, al cospetto delle loro esili figure, compiono il giro del mondo. Lo sguardo da bimbo e le mani che si macchiano del sangue dei coetanei, sono l’emblema della deriva culturale del continente africano. Area del pianeta questa, da sempre crocevia di violenza, dove lo sfruttamento, la fame e la miseria trovano fertile dimora.

E di fronte a tutto questo la comunità internazionale dov’era?

E’ rimasta a guardare, inerme, incapace per assoluta mancanza di volontà e d’interesse economico. In Rwanda non vi sono ricchezze naturali che costituissero un boccone succulento da spartire e pertanto qualsiasi sforzo per interrompere il massacro e frapporsi come garante di pace, vedeva le potenze occidentali davanti all’eventualità di doversi impegnare in un intervento che non sarebbe stato ripagato con nessuna forma di moneta. L’ONU con la sua figura di riferimento a tutore della pace mondiale, ne esce largamente screditata e indebolita, così come è accaduto nella quasi totalità delle circostanze in cui è stata chiamata in causa nell’ultimo ventennio. L’incapacità di elevarsi al di sopra degli interessi delle super potenze mondiali, ha assunto una evidenza disarmante.

Dovevo essere sintetico e penso nonostante tutto di esserci riuscito. Era importante effettuare un minimo di ricostruzione storica anche per rendere omaggio a tutti coloro che partecipando a vario titolo alla realizzazione di questo film, avevano come obbiettivo principale quello di riportare alla luce gli orrori di quei giorni. Un omaggio come già detto coraggioso e sicuramente non nella ricerca del successo al botteghino ad ogni costo. “Hotel Rwanda” è rimasto nelle sale pochi giorni e credo che appaia nelle zone basse della classifica degli incassi cinematografici stagionali.

Proviamo a parlare del film vero e proprio anche se tanto di ciò che lo riguarda è già stato raccontato.

Si narra la vera storia di Paul Rusesabagina, interpretato da un bravissimo Don Cheadle che per questo ruolo ha ricevuto una nomination agli oscar come attore protagonista. Paul è un uomo di etnia tutsi e nei giorni in cui esplose il massacro è il direttore di uno dei più prestigiosi alberghi della regione. La proprietà è ancora legata allo stato belga, ma mister Rusesabagina ha ampia autonomia gestionale. L’albergo è il teatro di incontri d’affari e di piacere che vedono protagoniste le alte sfere politiche e militari dello stato. Generali e funzionari di governo hutu bazzicano con assiduità e il rapporto con il direttore è di assoluta familiarità. Paul è abile nella sua professione e sa districarsi tra quelle pericolose e scaltre figure tessendo una rete di favori reciproci e scambi più o meno regolari, che gli consentono di accattivarsi il consenso di tutti i clienti e gli permettono di rimanere al di fuori della mischia come figura imparziale. Non ci riuscirà per molto.

Tra la popolazione tutsi che raccoglie tutta la sua cerchia di familiari e amici, cresce l’inquietudine per le correnti voci di focolai di violenza che si accendono in regioni poco distanti e sulle insistenti indiscrezioni che vedrebbero gli hutu in procinto di scatenare una sorta di repressione razziale. Ironia della sorte, uno dei suoi familiari maggiormente preoccupato e capace di leggere in anticipo l’imminente tragedia sarà tra i primi a scomparire. La violenza appena temuta si trasforma in realtà con la velocità di un torrente in piena e sarà lo scorrere delle ore e non dei giorni a scandire il crescente numero di conoscenti che allungano le fila dei deportati e scomparsi.

In un lampo quegli uomini che fino a poche ore prima frequentavano il suo albergo da clienti, sono gli stessi che rastrellano i quartieri casa per casa e deportano tutti i tutsi che incontrano per condurli alla morte. La situazione precipita e Paul deve compiere la scelta più difficile della sua vita. I favori raccolti in anni di contatti con trafficanti di armi, di diamanti, di uomini, con generali e uomini di potere, gli consentono di possedere una serie di gettoni da spendere per poter portare in salvo la sua vita e quella della sua famiglia anche se tutsi. Alla vista di un simile orrore, la sua anima riesce a prevalere sulla paura e l’uomo non può chiudere gli occhi. Decide d’intavolare la partita d’azzardo più rischiosa che un uomo nella sua posizione potesse giocare. Sfrutta i gettoni a disposizione non per fuggire e portare in salvo i suoi cari, ma per rilanciarli sul piatto del destino e in barba a qualsiasi dose di buon senso decide di trasformare il suo albergo in un rifugio per i tutsi.

Diventa una sorta di zona franca e fino a quando ha qualcosa da scambiare con i militari o qualche vecchio favore da riscuotere, riesce a barattarli per consentire che altri uomini in fuga e disperati trovino rifugio nel suo locale. Arriverà il giorno in cui la ferocia degli hutu sempre più assetata di sangue e la mancanza di contropartite lo porranno più di una volta ad un passo dalla capitolazione. Inventerà storie, racconterà bugie, darà sfogo a tutta la sua abilità di commerciante e la forza della disperazione gli fornirà la spinta per non cadere nell’abisso dello sconforto. L’aiuto internazionale è per così dire garantito da una ventina di caschi blu dell’onu che hanno l’ordine di non frapporsi alle violenze con le armi. A capo di questi uomini vi è il colonnello Oliver interpretato da uno splendido Nick Nolte. Oliver è un testimone impotente e vittima di una profonda frustrazione. Egli è un uomo dotato di un profondo senso di giustizia e l’assistere da spettatore ad un orrore così grande diventa una prova difficile da superare.

Paul, la sua famiglia e la sua comunità sfuggiranno alla morte e alla ferocia degli hutu in un numero incredibile d’occasioni. Un tira e molla tra speranza e disperazione che per giorni segnerà le loro ore. Dove non arriverà la sua abilità ed il suo coraggio, giungerà il destino che forse ha deciso di costruire per tutti questi uomini un angolo di giustizia in questa marea di morte che è stata la carneficina del Rwanda. Riusciranno a raggiungere al termine di una corsa disperata le linee in avanzamento del FPR che gli forniranno la salvezza dagli hutu.

Tutto quello che potevo dire sulla vicenda l’ho già scritto. Non mi rimane che completare gli elogi a questo lavoro che nonostante il tema, riesce a trasportarti nell’orrore della tragedia senza far uso di una violenza visiva gratuita. Il film è duro per l’atmosfera e per la grande drammaticità che riesce a trasmetterti, ma non è truculento nelle sue immagini. La crudeltà viene raccontata con grande efficacia senza il bisogno d’inondarti di sangue. Gli attori sono tutti di grande valore. Don Cheadle è stato protagonista con ruoli secondari di molti film. Ocean’s Eleven e Twelve, Hamburger Hill, Traffic sono solo alcuni titoli. Già aver ottenuto la candidatura ad un premio così commerciale come gli oscar hollywoodiani con un film del genere, la dice lunga sul livello della sua interpretazione. Bravissima e capace di una parte tanto drammatica anche Sophie Okonedo, nel ruolo della forte e coraggiosa moglie di Paul.

Un grazie, il più grande senza dubbio, al vero Paul Rusesabagina per il miracolo di cui è stato capace. Egli è anche stato consulente di produzione e degli attori per tutta la durata delle riprese. Un uomo che forse avrà vissuto tanti giorni dove la propria moralità ed etica non erano immuni dalle influenze dei suoi discutibili clienti, ma che ha saputo riscattarsi con enorme credito nel momento in cui ha saputo salvare la vita a centinaia di uomini e donne.


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