I COLORI DELLA PASSIONE
di Enrico Gatti
Regia: Lech Majevski
Svezia, Polonia, 2011
Voto: 6 ½
I colori della passione è l’infelice titolo italiano scelto per il film The Mill and the Cross, del regista polacco Lech Majevski, ispirato all’omonimo libro del critico e storico dell’arte Michael Francis Gibson pubblicato in lingua inglese nel 2001.
La salita al Calvario, celebre quadro del pittore fiammingo Pieter Bruegel, rivive attraverso la pellicola di Majevski. Le figure che lo popolano diventano i protagonisti di una Storia, e di mille altre contemporaneamente. La Storia è quella delle Fiandre, terre violentate dall’oppressione spagnola che ha dichiarato guerra ai movimenti religiosi riformisti. Le mille storie sono invece quelle dei contadini, dei braccianti, dei vagabondi, dei bambini che vivono perennemente in bilico fra la tranquillità di una vita povera e semplice, ma felice, e il terrore della morte, del sangue, rosso come le uniformi dei mercenari spagnoli.
Ciò che qui viene rappresentato è dunque il calvario di un popolo, una sofferenza unita dal tempo alla tragedia del Cristo. Croci, ruote, tombe, sepolcri, sono i macabri elementi di un rito di morte che sembra accompagnare da sempre il destino dell’uomo.
La splendida fotografia, oltre che il fino lavoro di computer graphic, rendono omaggio al pittore ricreando le atmosfere magiche dei suoi quadri grazie ad una minuziosa ricerca dei dettagli, delle ambientazioni e dei colori perfetti.
Un ottimo esercizio di stile che non riesce però ad essere un’opera completa. L’incedere lento, lentissimo, delle situazioni vorrebbe essere la chiave che apre le porte alla contemplazione del capolavoro, ma l’incomunicabilità del film rende tutto l’esercizio piuttosto inutile. A parte qualche suggestione infatti il film ha il carisma di una didascalia. Anche le poche parole sparse qua e là durante i 97 minuti di film sono incapaci, nella loro retorica, di aggiungere qualsiasi contenuto, risultano anzi fastidiose nel voler apostrofare riflessioni già abbastanza scontate.
In più, dispiace dirlo, ma anche tutto il finale dice ben poco. Porre un’enfasi, così “enfatica”, su un tema incredibilmente inflazionato come la passione svilisce anche quel piccolo sforzo richiesto allo spettatore per completare da sé la tela coi colori mancanti.
Ci sono voluti quattro anni di lavoro per completare questo film. Quattro anni per creare un mondo magnifico e aulico, ma al contempo schiavo di un’ampollosità in cui ingenuamente cadono, e sono caduti, molti di quelli che con le loro opere pensano di esaltare i grandi temi filosofici e, ancor di più, lasciatemelo dire, se per farlo utilizzano dei capolavori indiscussi frutto dell’abilità e dell’intelletto umano (vogliamo riparlare del Faust di Sokurov?).
Alcune fonti riferiscono che il regista, dopo questa esperienza, abbia ancora voglia di tornare ai "Giganti" del passato, non a caso ora che ha ultimato I colori della Passione sembra abbia iniziato a lavorare ad un nuovo progetto su Dante Alighieri. La nostra prossima ‘salita la calvario’?
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