IO SONO L’AMORE
di Enrico Gatti
Regia: Luca Guadagnino
Italia, 2009
Voto 7.5
Con “Io sono l’amore” Guadagnino realizza il suo progetto più ambizioso. Dopo ben undici anni, sette dei quali per scrivere la sceneggiatura (firmata fra gli altri dallo stesso regista), il film approda finalmente nelle sale italiane a Marzo 2010.
La storia è quella dei Recchi, una famiglia della borghesia milanese. Tutto comincia una sera d’inverno quando la famiglia al completo si riunisce per festeggiare il compleanno del nonno. A sorpresa, fa la sua rapida apparizione un giovane cuoco destinato a diventare il migliore amico del primogenito, e non solo. La rete di intrecci si espanderà, tante le strade e tanti i personaggi come impone ogni buon melodramma.
Guadagnino irrompe sulle scene con un film che guarda al passato di un cinema italiano fatto di nomi come Antonioni e Visconti, riuscendo però ad inserire elementi nuovi fuggendo dalla banale nostalgia.
Il merito più grande del film è quello di prendere le distanze dal cinema medio contemporaneo preferendo al “troppo raccontare” un approccio distaccato che fa del suo punto di forza il “non detto”.
A questo proposito il regista fa l’ottima scelta di introdurre i personaggi con discrezione, come se fossero semplici comparse inserite in una trama di cui non sono i protagonisti. Subito però si comincia ad intuire la presenza di dinamiche estranee alla semplice apparenza, nascoste dietro a ogni porta della casa, in spazi dove la telecamera non accede mai. Emerge poco alla volta una storia sotterranea che collega le sagome fuggevoli trasformandole lentamente nei veri protagonisti della storia. Le prime immagini nella casa dei Recchi sono essenziali, la camera mantiene le distanze osservando passivamente coloro che non si concedono agli occhi indiscreti dello spettatore.
La storia però esce dalla casa e nonostante la tensione narrativa venga mantenuta, anche grazie all’ottima colona sonora di John Adams, le inquadrature a tratti zoppicano. Gli esterni spesso non vengono valorizzati per colpa di una immotivata ostentazione di primissimi piani tremolanti e inspiegabilmente fuori fuoco.
Bello invece il distacco stridente fra il mondo esterno, moderno e attuale, e il mondo dei Recchi. La casa in primis si colloca fuori dal tempo come quella casta borghese sempre più chiusa in se stessa. Gli arredi interni appaiono maestosi, ma anche polverosi e stanchi. Così anche la famiglia, con gli anni ha accumulato ricchezze enormi e si è contemporaneamente svuotata di quei valori etici e sociali che l’hanno portata al successo, perdendo non solo la fierezza, ma anche la capacità di affrontare le nuove sfide; di qui la decisione di vendere la ditta di famiglia, ad una compagnia indiana capace di rinnovarla, senza però pensare ai dipendenti che hanno lavorato per farla crescere.
Chi più di tutti sente questa stanchezza e ottusità è Emma, interpretata da una magnifica Tilda Swinton. Nella storia Emma è una donna di origini russe (omaggio a Tolstoj), sposatasi giovane con il figlio di un industriale milanese sente di non aver mai vissuto veramente la sua vita. Il riscatto la porterà a rinascere ma dovrà per questo pagare un prezzo molto alto. La coraggiosa attrice sulla soglia dei cinquanta, non esita ad esporsi in scene forti e audaci mostrando tutta la sua determinazione per rendere indimenticabile il personaggio. La Swinton, anche produttrice, è stata coinvolta fin da subito nel progetto (data la lunga amicizia col regista) e ha letto ogni singola stesura della sceneggiatura contribuendo alla sua forma definitiva.
Ben riusciti anche i personaggi della figlia (interpretata da Alba Rohrwacher) e della domestica. Gli attori si comportano bene e risultano particolarmente credibili nei ruoli.
Complessivamente ben riuscito, nonostante qualche caduta visiva, il film soddisfa e, cosa più importante, emoziona.