Quale
distanza ci separa dal male?
La
giusta distanza – voto : 7.5
La provincia
veneta è stata teatro di buona parte delle opere che
scandirono l’inizio della carriera di regista di Carlo Mazzacurati,
ma era dal 2000, anno in cui diresse “La lingua del Santo” , che
non sceglieva la propria terra d’origine come teatro di un suo
lavoro.
Dopo alcuni anni
“trascorsi lontano da casa”, Mazzacurati torna tra la sua gente
e in quel Veneto in cui nacque 51 anni fa, ambienta questo bellissimo
“La giusta distanza”.
Un film che si
alimenta della sua maniera elegante, delicata e leggera di narrare le
storie, ma che a differenza di alcuni lavori passati, colpisce ancora
più a fondo il cuore e l’anima di chi vi assiste. Critica e
pubblico hanno a volte lamentato una carenza d’incisività
nei suoi racconti, quasi che allo spettatore venisse meno la
possibilità di affondare i denti nel suo cinema dopo averne a
lungo assaggiato il gusto comunque gradevole.
Mazzacurati ci
conduce nel Polesine, a pochi passi dalla sua natia Padova, in un
piccolo paese vicino alle foci del Po, Concadalbero.
Un luogo dove la
vita scorre apparentemente priva degli stridenti e acuti suoni del
nostro tempo, quasi che la nebbia, i pioppi e gli ampi spazi di un
orizzonte dove gli argini del grande fiume costituiscono l’unico
rilievo visibile, attutissero i rumori dell’anima e quietassero le
turbolenze dei cuori dei suoi abitanti.
Quando un giorno
giunge in paese Mara ( Valentina Lodovini), supplente della scuola
elementare, chiamata a sostituire l’ormai anziana e mentalmente
instabile maestra di ruolo, è come se un improvviso raggio di
sole illuminasse una penombra stantia da molto tempo.
Mara è una
giovane sulle soglie dei 30anni, bella, piena di vita, aperta al
mondo e gioiosa nel rapportarsi con il prossimo.
Inutile dire
quanto tutto questo costituisca una sorta di piccolo terremoto
all’interno dell’esile comunità, attirando su di lei gli
occhi di tutti i suoi esponenti maschili. Ognuno di loro si pone ad
una propria distanza da Mara, in base alla natura e cultura.
Giovanni (
Giovanni Capovilla ), 18enne liceale serio e posato, con un debole
per una atletica coetanea e per le moto, ha la vera fiamma della sua
vita che arde per il giornalismo, tanto da coltivarlo segretamente
all’oscuro di tutti, ma con tale determinazione da conquistare la
fiducia di Bencivegna ( Fabrizio Bentivoglio), vecchia volpe della
carta stampata nonchè capo redattore del maggior quotidiano
della provincia.
Il giovane si
posiziona ad una distanza da Mara che si può definire di
sicurezza. Non lascia trapelare l’attrazione che prova verso quella
bellezza adulta quasi fanciullesca in grado di assottigliare una
notevole differenza d’età, ma senza annullarla nei fatti e
nella consapevolezza.
Sceglie di
osservare da lontano i suoi pensieri e i suoi sogni, di nutrirsi
delle speranze e confidenze di una giovane donna che appare ai suoi
occhi provinciali come una traccia da inseguire verso la scoperta di
un mondo ancora tanto lontano dall’essere esplorato.
Hassan ( Ahmed
Hafiene ), è un tunisino che da tanti anni vive in Italia e a
Concadalbero è il titolare dell’officina di riparazioni
d’auto. Un’integrazione apparentemente serena, nasconde in realtà
una immensa e lacerante solitudine con un passato pieno di ricordi e
dolore difficili da ammaestrare. A mitigare questo bisogno di affetti
e amore è la vicinanza della sorella che con il marito
gestisce un bar tavola calda, ma il gelo nel suo cuore bisogna di una
fiamma ben più ardente.
L’uomo alla
vista della ragazza subisce un richiamo irresistibile alla vita, che
lo porta ad avvicinarsi a Mara fino a spiarla di sera, attendendo in
silenzio al buio fuori dalla sua casa. Un gesto ripetuto e divenuto
quasi rituale che comporterà una frattura tra i due, quando
lei finirà per scoprirlo. A riconferma di quanto misteriose
siano le strade che legano i sentimenti e le persone, la rottura sarà
il viatico per una nuova scoperta che attende Hassan e Mara; una
creazione figlia delle alchimie che attraggono gli uomini e le donne,
oltre le barriere e i confini che le convenzioni e i pregiudizi
modellano.
Amos ( Giuseppe
Battiston ), è un bambino mai cresciuto. Tra i suoi averi
annovera un costoso fuoristrada, una vistosa imbarcazione, e una
volubile moglie rumena incontrata su di un catalogo web. Mara assume
ai suoi occhi i contorni di un nuovo luccicante giocattolo da
conquistare, e senza cattiverie d’animo finirà per
collezionare una serie di quei luoghi comuni tipici della volgare
goffaggine maschile nell’arte del corteggiamento.
Il quadro della
provincia Veneta contemporanea che dipinge Mazzacurati, illude lo
spettatore di trovarsi dinanzi ad un microcosmo ovattato, un luogo
dove ognuno ha il suo ruolo, dove dall’autista delle linee
d’autobus dal viso pulito, allo strambo del paese, si sia in
presenza di un isola meno infelice di tante altre, nella quale sia
possibile costruire una vita migliore. S’intravede l’immagine di
uno spazio lontano dalla corsa al potere e al denaro, in una terra
dove i bisogni dell’uomo si fondono ancora con quelli della natura.
Un posto dove persino gli immigrati nord africani riescono a danzare
felici la loro cultura tra gli applausi degli indigeni.
Ma un giorno,
all’improvviso come la tempesta, la tragedia si abbatte crudele
sulla comunità e tutto cambia. Le certezze crollano come
castelli di carta, i rapporti umani ne escono travolti. Diventa
difficile trovare la giusta distanza da conservare dinanzi ad atti
così sconvolgenti. In quegli attimi sarà la paura,
l’odio recondito, la diffidenza a prendere il sopravvento e il
regista mostrerà il vero volto di un popolo ancora non in
grado di accettare il diverso, incapace di azzittire quella voce
razzista che si annida nell’anima. Il pregiudizio con la sua
nefasta azione discriminante distorce il cammino degli uomini,
influenza la giustizia, condiziona l’opinione pubblica.
La ricetta per il
calcolo di “Quella giusta distanza” dai fatti, che un cronista
deve conservare nel raccontare la sua storia, “ Non troppo distante
da apparire freddo e distaccato fino a perdere il contatto con le
emozioni, ma non troppo vicino da essere dalle stesse condizionati e
sviati”, materia di una lezione di Bencivegna a Giovanni in una
sequenza iniziale, si rivela insufficiente e incompleta.
Il regista
padovano ci indica una via che non si può circoscrivere in una
o più regole, ma che deve trovare il suo fondamento nella
capacità del “sentire umano”. Ogni uomo, cronista o meno,
deve sforzarsi di trovare “ la giusta distanza dal male” libero
dai vincoli dettati dalle discriminazioni razziali, dai
condizionamenti dei media, dalle conclusioni indotte da comode
convenienze e può riuscirci solo sviluppando una sensibilità
mossa dall’istinto e dal cuore.
Possiamo solo
sperare che come ci propone Mazzacurati, risieda nei giovani la
speranza di una nazione che in futuro sia in grado di compiere quel
balzo di civiltà che le generazioni oggi adulte, non riescono
a sferrare. Occorre una maturità consapevole in grado di
accettare il male come piaga insita nell’animo umano, che senza
dettami di razza si può annidare in chiunque, e proprio per
questo bisogna sviluppare una cultura diffusa che respinga l’impulso
di una giustizia “fai da te” e sommaria.
Un lavoro maturo e
complesso, strutturato su due porzioni dalle atmosfere molto diverse
ma mai in conflitto, che mettono in mostra le due facce di quella
stessa medaglia cucita sul petto di una grande fetta del nostro
paese. Attori protagonisti tutti all’altezza e al loro debutto in
ruoli primari, con Capovilla all’esordio assoluto nel cinema
italiano, e se per ognuno di loro si possono spendere solo buone
parole, per tutti si attendono nuove conferme.
Una pellicola a
cui viene fornito un taglio che avvicina questa storia a quei drammi
ambientati nella provincia americana, dove gente semplice compie
delitti crudeli in un contesto di quasi normalità.
A garantire
ulteriore assonanza con quel cinema d’oltre oceano, contribuisce
una fotografia bellissima, impostata su frequenti inquadrature
dall’alto in movimento o totali allargati, quasi Mazzacurati
volesse esaltare il senso di pace ispirato dalla bellezza del
paesaggio , per porla in netto contrasto con l’inquietudine che si
cela tra i suoi abitanti.
Carlo
Mazzacurati, e i suoi uomini senza cravatta
Quasi tutti sono
concordi nel sostenere che i luoghi in cui si nasce e cresce
contribuiscano a formare quel senso di appartenenza ad una cultura
che non ti abbandonerà mai.
Le radici sembrano
attecchire ancora più in profondità poi, se a darti la
luce è la provincia, quasi che la semplicità di una
vita fatta di minori esasperazioni e sentimenti più autentici,
concorrano a plasmare una natura che in questi valori ritrova un
punto di riferimento continuo ed insostituibile.
Carlo Mazzacurati
nasce a Padova il 4 marzo del 1951. Suo padre è l’ingegnere
e corridore automobilistico Mario Mazzacurati.
Carlo, cresce in
una famiglia agiata e questo gli consente di vivere un’infanzia e
una adolescenza dove ha l’opportunità di coltivare molti
interessi. L’arte, ed il cinema in particolare, sono la sua
maggiore passione e sin da adolescente si attiva in sperimentazioni
di regia. Di carattere schivo e riservato e dalla spiccata
sensibilità, il giovane Mazzacurati appena terminato il liceo,
tenta di iscriversi al Centro Sperimentale di Cinematografia per ben
tre volte ma senza riuscirvi. Decide di frequentare per un paio di
anni il DAMS di Bologna senza grandi risultati, pur essendo molto
attivo nel circuito dei cine club.
Investe una somma
di denaro ricevuta in eredità nella produzione di un medio
metraggio ( Vagabondi,1979),
che pur vincendo il premio Gaumont al festival Filmmaker di Milano,
non riesce ad ottenerne la distribuzione nelle sale. Trasferitosi a
Roma poco dopo, collabora alla stesura di alcuni programmi
televisivi, ma soprattutto incontrerà Gabriele Salvatores con
il quale contribuirà alla sceneggiatura di Marrakech Express,
viatico all’ingresso nel circuito cinematografico che conta.
Nel 1985 scrive la
sceneggiatura di “Notte Italiana”
che diverrà film due anni dopo, grazie all’intervento della
“Sacher Film” di Nanni Moretti, in veste di produttore. Un
debutto di rilievo, dove inizia quel percorso di maturazione in grado
di esibire uno sguardo disincantato sulla società italiana. Il
film racconta di un avvocato padovano ( Marco Messeri ) che si reca
nel delta del Po per fare una stima di un terreno da espropriare.
Finirà per conoscere una realtà di cui era all’oscuro:
deluso e sconvolto tornerà in città con una ragazza del
Polesine. Sotto accusa la società degli anni 80 con i suoi
rampolli rampanti ed imbecilli.
Il 1989 è
l’anno de “ Il prete bello”,
tratto dal romanzo di Alfredo Parise del 1954. Racconto di luoghi
dove regna la miseria, in una Vicenza del 1939 dove Don Gastone (
Roberto Citran ), vive a cavallo tra l’adesione al regime fascista
e i richiami del sesso, in un contesto generale dove la felicità
diventa possedere una bicicletta Bianchi. Un film elegante e
sensibile, ma una parte della critica lo definisce piatto e senza
sobbalzi.
Con “Un’altra
vita” del 1992 arrivano i primi
riconoscimenti ufficiali: Grolla D’Oro a Saint Vincent per la regia
e per Claudio Amendola.
Una ragazza russa
che in Italia se la passa male finisce a Roma in cerca di una vita
diversa e incontra un giovane dentista ( Silvio Orlando ). La storia
narra dello scontro tra gli arricchiti della periferia capitolina e
la violenza malavitosa del Tuscolano: due mondi, due Italie. Un
affondo in un paese che vive una realtà a cavallo tra le
macerie del “socialismo dell’Est” e i detriti di un
“capitalismo consumistico”: un ben riuscito viaggio trasversale
all’interno di una Roma ricca di personaggi.
In “
Il Toro” ( !994), Mazzacurati si
addentra nella vicenda di due allevatori cassa integrati che decidono
di rapire Corinto, un toro campione di riproduzione che vale un
miliardo, per rivenderlo all’Est. Una storia di mera disperazione
dall’idea originale e molto ben interpretato da Diego Abatantuono,
Roberto Citran e Marco Messeri. Un lavoro che varrà il Leone
D’Argento a Venezia e la Coppa Volpi a Citran per
l’interpretazione, nonchè altre due Grolle D’Oro a Saint
Vincent.
Un altro biennio
trascorre prima dell’uscita sugli schermi di “Vesna
va veloce”, dove una ragazza
proveniente dalla Repubblica Ceca che vaga per l’Italia finisce per
sopravvivere solo prostituendosi. Bravi Silvio Orlando e Antonio
Albanese. Un film delicato sulla possibilità di salvare
l’anima svendendo il corpo, anche se “i vuoti d’aria” della
sua struttura non convincono tutti.
Con “
L’estate di Davide” ( 1998 ) e “
La lingua del Santo” ( 2000 ),
Mazzacurati torna nel suo Veneto. Una tormentata storia d’amore tra
un giovane in vacanza dagli zii e una ragazza più adulta del
Polesine il primo, un surreale racconto di miseria con due disperati
alle prese con il furto delle reliquie del Santo il secondo. Bocciato
per la sua lentezza nonostante una ottima fotografia e la tipica
delicatezza dei suoi racconti il lavoro del 1998, promosso a pieni
voti quello del 2000, esaltato dalla brillantezza e originalità
di un film dolce amaro e arricchito dall’interpretazione azzeccata
del duo Albanese/ Bentivoglio.
Il 2002 con “
A cavallo della tigre” remake del
noto film di Comencini del 1961, e il 2004 con “
L’amore ritrovato “, segnano una
stagione non felice per la creatività artistica del regista
padovano. Per quanto riguarda il lavoro del 2002, una brillante
prova d’attore di Fabrizio Bentivoglio, nei panni della guardia
giurata che s’inventa rapinatore, non salva un film troppo esposto
al confronto con l’illustre originale.
La pellicola
successiva, ispirata al romanzo di Carlo Cassola “ Una relazione”
( 1969 ), narra di due giovani che nella Toscana degli anni 30
s’incontrano dopo anni dalla loro prima relazione: nonostante lui
sia sposato e padre di famiglia, la passione finirà per
travolgerli. Il lavoro si manifesta esile, debole e triste. Non
riescono a risollevare le sorti, nemmeno quelli che sono tra gli
attori più bravi del nostro cinema attuale: Maya Sansa e
Stefano Accorsi.
Arriviamo ai
giorni nostri e alla “ Giusta
distanza”, che pare elevarsi tra le
migliori opere di Mazzacurati. Un pubblico che ha accolto molto
positivamente la pellicola, si fonde ad una critica finalmente in
sintonia nei commenti positivi.
Ripercorrendo le
tappe della carriera artistica, non possiamo dimenticare le
circostanze in cui il regista è stato chiamato a vestire il
ruolo di attore, unicamente sotto la regia dell’amico Nanni
Moretti:” La messa è finita”,
“Palombella rossa”, “Caro diario”.
Come accennavamo
all’inizio, Carlo Mazzacurati è tra coloro che ha trasferito
nel suo lavoro l’amore e l’attaccamento non solo alla provincia
d’origine, ma anche alle realtà poste all’estremo. Un
affetto verso quei luoghi che molti definiscono marginali, dove “vive
gente semplice che spesso non porta la cravatta se non nei giorni di
festa”. Una popolazione lontana anni luce dalla confusione e dalle
mondanità metropolitane, ma che spende se stessa alla
conquista di una serenità realizzata inseguendo i veri valori
della vita come l’amore, il lavoro e la crescita dei propri figli.
Come tutti sono afflitti da debolezze e vizi e Mazzacurati ama
narrare le storie di coloro che pur mettendocela tutta a volte non ce
la fanno.
Il nostro tempo
prende le distanze dai non vincenti, e accade che emigrati, ladri
improvvisati, rampanti in disarmo, amanti dimenticati, divengano
materia dei pochi con ancora il desiderio di raccontare i drammi
della vita reale.
Un compito arduo,
che spesso si paga con opere che non conquistano il gradimento del
grande pubblico o di tutti gli “addetti ai lavori”. Una lunga
scalinata da risalire quasi contro corrente perché i frutti
che nascono da un profondo lavoro di ricerca interiore, da un’attenta
analisi della società che ci circonda e dal desiderio di dar
voce a chi non è ascoltato, possono avere un gusto amaro e non
essere graditi a tutti i palati.
E’ uno scotto
che registi come Mazzacurati sono pronti a pagare, nel nome del
grande amore per le storie da raccontare senza il desiderio di
stupire.