La guerra vista con gli occhi del “nemico”per ritrovarvi la medesima essenza di umanità.
Letter from Iwo Jima – voto: 8+
Nel corso della sua ultra centenaria storia, il cinema ha saputo conquistare uno spazio sempre maggiore tra le varie forme di espressione che la cultura planetaria ha sviluppato nel tempo. Da tanti è considerata una delle sorelle minori tra tutte quelle menzionabili con il vocabolo “arte”, mentre per altri rappresenta una delle sue forme più eccelse, con nulla da invidiare alle altre.
Senza entrare nel merito dei gusti individuali, il cinema centra il suo bersaglio, quando è in grado di accendere di emozioni il cuore dello spettatore, senza confini di età.
Se poi riesce nell’intento di oltrepassare il confine dello svago, del semplice divertimento, ritengo si sia in presenza di un qualcosa di molto importante.
Clint Eastwood rientra senza esitazioni tra coloro che rimarranno per sempre tra i grandi artisti che la storia cinematografica ci abbia regalato. Una valutazione che ha subito un’accelerazione nell’ultimo decennio grazie ai tanti splendidi lavori che in veste da regista, con o senza il suo contributo recitativo, ha saputo produrre.
“Letter from Iwo Jima” rappresenta per molti motivi una nuova indelebile tappa del suo cammino. Un film che è la seconda e conclusiva porzione di un progetto più ampio e di grande significato, a garanzia di quanto il cinema possa essere arte, documento, testimonianza, racconto, veicolo per trasmettere al mondo un messaggio universale di monito e di speranza, stimolo per indurre alla riflessione la mente.
Il 76enne regista di San Francisco ha scelto la feroce battaglia per la conquista di Iwo Jima del febbraio del 1945, tra gli episodi più sanguinosi della Guerra del Pacifico nel secondo conflitto mondiale, come punto di riferimento.
In “Flags of our fathers”, uscito sugli schermi nazionali diverse settimane fa, narrava la guerra, i suoi indelebili orrori, le miserie e le bassezze del suo governo politico e militare, visti dagli occhi dei soldati americani, rievocando un episodio simbolo legato alla storia di quei giorni: l’innalzamento della bandiera americana sul monte Suribachi, cima più alta dell’isola.
In questo “Letter from Iwo Jima”, Clint compie un passo ancora più difficile, ma di immenso valore: rivivere la medesima pagina invertendo la prospettiva, scavalcando il fossato profondissimo di una guerra tanto sanguinosa per costruire un ponte che consenta agli uomini di superare gli strascichi che l’odio accumula nell’anima. Una via necessaria per condurci a leggere nel cuore del nemico e ritrovarvi la medesima essenza di umanità.
Per realizzare il suo intento, Eastwood si affida al ritrovamento, a diversi decenni di distanza da quei giorni, di centinaia di lettere mai spedite che furono scritte e poi sotterrate, dai militari giapponesi a difesa di Iwo Jima. Missive composte da uomini in crescente e poi piena consapevolezza del destino che li attendeva. Parole di amore puro lasciate a testamento ai loro familiari. Brandelli di sogni e speranze che rimarranno tali, macigni di paure e angosce che li accompagneranno fino alla fine.
Attorno a questo spunto e ripercorrendo fedelmente le vicende della storia, il regista ricostruisce i giorni della battaglia vissuti dai militari del Sol Levante, dalla vigilia dell’attacco sino alla loro tragica sconfitta. Iwo Jima divenne per l’intero popolo del Giappone l’ultimo baluardo da difendere ad ogni costo, l’ultima difesa che cadendo avrebbe spianato la strada all’attacco diretto a Tokyo, e in quanto tale da non abbandonare fino all’estremo sacrificio.
A Ken Watanabe I, che ricordiamo al fianco di Tom Cruise ne “L’ultimo Samurai”, viene affidato il ruolo del generale Kuribayashi, ufficiale inviato ad organizzare la strenua difesa. Un uomo colto, dall’animo nobile, raro conoscitore per quei tempi dell’america e della sua cultura, capace di conquistare il rispetto dei suoi soldati e l’invidia degli altri ufficiali.
Attorno a lui un mare di umanità diverse, tutte imprigionate dal senso del sacrificio verso la patria, priorità assoluta della opprimente propaganda nazionalistica. Una massa soffocante che imprigiona i bisogni e i desideri naturali dell’uomo quali l’amore e la pace.
Soldati condannati a vivere in un ambiente ostile, minati dalla dissenteria senza acqua e cibo.
Ma l’animo umano possiede energie impensabili e vi sarà chi, aggrappandosi all’istinto della sopravvivenza illuminato dalla ragione, saprà scegliere la vita anziché il sacrificio. La buona sorte anche tra di loro però opererà una dura selezione.
La storia ci consegna un bilancio terribile: degli oltre 22mila soldati giapponesi della guarnigione, solo poco più di 200 si consegneranno vivi al nemico. Tantissimi rimarranno uccisi in battaglia, tanti si toglieranno la vita per difendere l’onore e non cadere vivi nelle mani americane, gesto di fedeltà estrema imposto dall’ordine supremo che giungeva dall’Imperatore.
Un lavoro intenso, arricchito da una meticolosa cura ai dialoghi e da una dettagliata ricostruzione ambientale. Numerosi i richiami a “Flags of our fathers”, con molti episodi di combattimento narrati con la soggettiva invertita. Una pellicola dai colori tenui, quasi per donare un tocco di antichità alle immagini, per porre in risalto l’intento di farne una sorta di documento. La violenza della guerra narrata con il medesimo realismo già vissuto nella prima porzione.
Steven Spielberg alla produzione e Paul Haggis curatore del soggetto, sono i grandi nomi che affiancano anche in questa occasione Eastwood. Una nutrita e bravissima squadra di attori tutti di origine giapponese, semisconosciuta al pubblico europeo, a costituire le mille sfaccettature umane di una guarnigione spaccato di un popolo.
Poca fortuna ha ottenuto l’accoppiata cinematografica alla serata degli oscar di Hollywood. “Letter from Iwo Jima” conquista la statuetta per il miglior montaggio sonoro su 4 nomination ( tra cui miglior film e regia ). Nessun premio su 2 possibilità, Per “Flags of our fathers”. Peccato, ma nulla toglie al valore e all’importanza dell’intera opera.
Un film molto intenso, non semplice da seguire perché totalmente sottotitolato. Una scelta impegnativa ma giusta, per conservare l’autenticità dei suoni dell’idioma nipponico come componente basilare nella riuscita del progetto, imperniato a ridare umanità ai volti di uomini che dalla storia occidentale furono stereotipati a crudeli nemici da abbattere, sanguinosi kamikaze devoti alla morte.
Una pellicola che esalta il bisogno di conoscenza come elemento per sottrarci alle imposizioni di regimi e governi, per sfuggire ai preconcetti inculcati da altri.
Come viene evidenziato in diverse porzioni del suo lavoro, Clint Eastwood pone l’accento sulla cultura come ingrediente base per possedere una più ampia visione della vita. Una ricchezza che può donare un significato diverso alla propria esistenza anche di fronte alle tragedie e contribuire a migliorare in modo decisivo quella degli altri.
Zittire le armi e le grida, riuscire ad ascoltare in silenzio e comprendere le parole di un nemico che muore, può aiutare in pochi minuti a capire quanto non abbia senso la guerra che ti hanno indotto a combattere, quanto vuote e sbagliate le tante parole che ti hanno spinto a crederla una cosa giusta.
Scoprire che i sogni, i sentimenti, le speranze dell’uomo a cui hai appena sparato, sono identici al tuo desiderio di tornare a casa, al tuo medesimo bisogno di stare al fianco delle persone che ami, alla tua stessa voglia di vivere, illumina la mente di una luce nuova.
Le barriere dell’odio erette dal pregiudizio, di qualsiasi natura siano, si abbattono con il desiderio di capire chi ti sta di fronte e quasi sempre trovi un uomo, come te.