Toccato
dalle vite degli altri quando non se ne possiede una propria
Le
vite degli altri – voto : 8
La mia grande passione per
il cinema non è sinonimo di cultura assoluta in materia e non
posso affermare quanti altri registi al loro esordio siano stati
capaci di produrre un lavoro di qualità quale è “La
vita degli altri”.
Di sicuro Florian Henckel
von Donnersmarck, regista tedesco nato a Colonia il 2 maggio del
1973, incarna un’eccellenza non comune. Al suo primo lungometraggio
ha conquistato l’Oscar come miglior film straniero, nonché
altri prestigiosi riconoscimenti quali,
miglior film, miglior sceneggiatura e
miglior attore protagonista agli European Film Awards.
Von
Donnersmarck, prima studente di russo a Leningrado ( ora San
Pietroburgo) e di inglese a Oxford, si è specializzato in
tecniche di regia con Richard
Attenborough,
collaborando alla produzione di “Amare per sempre” (1996). Di
seguito è stato ammesso all'Accademia di cinema e televisione
di Monaco di Baviera (periodo che coincide con la realizzazione di
vari cortometraggi).
Premi
conquistati a parte, la pellicola è di grande spessore per il
suo contenuto storico e artistico. Il 34enne regista tedesco si
addentra come mai in passato tra le spire del regime comunista nella
ex DDR, mettendo a nudo le privazioni di un sistema che pianificava
in forma organizzata l’annullamento delle libertà
individuali, dove davanti alla ragion di stato e alla sicurezza
nazionale, chiunque diveniva potenziale vittima di intercettazioni,
pedinamenti e persecuzioni da parte della Stasi, la polizia segreta.
Siamo
a Berlino nel 1984, una città dilaniata da un muro che separa
due mondi distanti anni luce.
Georg
Dreyman ( Sebastian Koch) è un noto drammaturgo e insieme alla
propria compagna di vita, la bella Christa Maria Sieland (Martina
Gedek) sua attrice prediletta, sta portando in scena il suo ultimo
lavoro teatrale. Agli spettacoli del famoso regista assistono tutte
le maggiori personalità del paese tra cui le alte sfere della
polizia segreta Stasi a cui nulla sfugge. Per rispondere alle
pressioni del Ministro della Cultura ( Thomas Thieme) che si scoprirà
invaghito dell’attrice, il Ten.Col. Anton Grubitz (Ulrich Tukur)
ordina ad uno dei suoi più abili ufficiali, il Cap.Gerd
Wiesler ( Ulrich Muhe), di mettere sotto strettissimo controllo
l’abitazione dei due artisti per verificare che la loro attività
non celi azioni che possano risultare una minaccia per il paese.
Il
cap. Wiesler famoso per la sua meticolosità, affidabilità
e inflessibilità nel condurre indagini e interrogatori, è
perplesso per la scelta del soggetto da sottoporre ad una simile
sorveglianza. Dreyman non ha mai lascito trasparire nessuna labile
forma di opposizione al regime e svolge il proprio lavoro sempre
attento a soddisfare le esigenze del partito comunista.
Comunque
sia gli ordini vengono eseguiti e nel giro di pochissimi giorni
l’abitazione della coppia e sorvegliata 24 ore su 24. Wiesler di
giorno si alterna ad un giovane sottoufficiale di notte ed il loro
compito è di trascrivere un resoconto di ogni ora di
intercettazione, in modo da fornire in tempo reale un rapporto
dettagliato ai superiori.
Una
missione come centinaia in passato, ma la vita di ognuno non è
fatta di eventi prevedibili e senza sapere il perché Wiesler
si sente attratto e coinvolto nella vite che deve usurpare. La gioia
e la passione che colora l’intimità di Georg e Christa Maria
ha un effetto contagioso e “La vita degli altri” diventa per il
capitano della Stasi, una fonte di calore che irrompe e contrasta il
grigiore e il freddo che regolano la propria.
In
quella casa abita vero amore, sana allegria, sincera tristezza, menti
e cuori che pulsano, stimolati dalla chimica che ci conserva esseri
capaci di vivere, in barba a qualsiasi regime o imposizione che privi
la libertà d’espressione. Di fronte a questo e stanco di
condurre un’esistenza solitaria, squallida, priva di qualsiasi vera
emozione, se non la paura e il terrore che legge negli occhi dei
malcapitati che subiscono i suoi interrogatori, l’umanità
di Gerd ha il sopravvento sul dovere, tanto che quando in maniera
insospettabile le intercettazioni lasceranno trasparire materiale
esplosivo, si troverà combattuto sul da farsi e sceglierà
di schierarsi contro il proprio governo.
Gli
eventi si susseguiranno in modo drammatico e imprevedibile
conducendoci ad un finale toccante, bellissimo, in grado di regalare
una non prevista dose di suspence, dove la magia dell’anima e il
romanticismo del cuore, pur non sfuggendo alla dura realtà
imposta dagli uomini, saranno ripagati dal destino e dalla storia.
Un
film recitato benissimo da un cast che solo in minima parte ho
scoperto avere esperienze note ad un pubblico occidentale.
Superlativo Ulrich Muhe, il suo capitano Wiesler è l’emblema
dell’umanità che si ribella alle imposizioni, al perpetrarsi
delle privazioni, perché fondare la propria esistenza sulla
persecuzione altrui, diviene la forma più estrema del privare
a se stessi la possibilità di un arco vitale basato sulla vita
e non sulla morte. La sua interpretazione è intensa ed
emozionante, la sua lenta metamorfosi avviene lasciando trasparire
l’immenso dolore nel prendere coscienza di una realtà non
più sopportabile e la consapevolezza di un futuro durissimo
nell’assecondarla. Pensate che la seconda moglie nella vita di Muhe
fu collaborazionista della Stasi. Alla domanda su come si fosse
preparato ad interpretare un personaggio simile, l’attore ha
risposto: “Ho ricordato”.
Bravissimi
anche Sebastian Koch e Martina Gedek. Il primo capace di rendere viva
la rabbia ed il coraggio di chi realizza quanto inutile risulti una
vita vissuta al guinzaglio del potere, scosso dal gesto estremo di un
caro amico anch’egli regista, che per sfuggire alla totale mancanza
di speranza e di libertà decide di rifugiarsi nella morte. La
seconda brava e toccante nel raccontare come la bellezza e la
sensualità di una donna diventa strumento e preda del potere,
di come sia impossibile conservare l’integrità anche quando
l’amore per il proprio uomo sia forte e sincero, perchè
davanti alla violenza delle persecuzioni tese a mirare e colpire le
debolezze umane, si crolla con facilità.
Von
Donnersmarck ha dato il via al progetto per la realizzazione di
questo film nell’anno 2000. Lungo e meticoloso è
stato il lavoro di studio e ricerca storica, attraverso l’incontro
e la testimonianza di vittime delle persecuzioni ed ex collaboratori
e funzionari della Stasi. Tra gli stessi componenti della sua troupe,
vi erano persone che in qualche modo avevano subito le conseguenze di
quella lunga e oscura pagina della storia della ex DDR. Oltre al già
citato Ulrich Muhe vi è il caso del capo attrezzista, detenuto
all’epoca in un centro governativo.
Lo
stesso giovane regista nato nell’ovest ma figlio di genitori
fuggiti dalla Germania dell’est, rivela il bisogno di trasparenza,
il desiderio di illuminare in modo definitivo e senza ombre quella
pagina di storia d’Europa. "I mie genitori erano
entrambi dell'Est - racconta oggi, alla presentazione italiana del
film - ma erano andati all'Ovest prima della costruzione del Muro. A
volte, però, ci portavano dall'altra parte, a trovare i
parenti: ricordo bene la paura che provavamo, ogni volta. E anche
l'atteggiamento di chi viveva lì, quel tenere sempre gli occhi
bassi".
"Per legge, in
Germania - racconta ancora il regista - tutti i cittadini dell'ex DDR
hanno diritto a consultare il fascicolo contro di loro della Stasi.
Ebbene, solo il 10 per cento ha usato questa possibilità: gli
altri preferiscono dire che in fondo allora si stava meno peggio di
quanto si dice. Per non parlare dei collaboratori della polizia
segreta: erano duecentomila, solo due o tre lo hanno ammesso. Gli
altri sostengono che il loro risultare collaboratori era una bugia
messa in giro proprio dalla Stasi!".
L’esito della grande
quantità di materiale visionato e delle interviste con ex
dirigenti o funzionari della polizia segreta ha portato ad un’altra
conclusione: "In nessuno di loro - racconta l’autore- ho visto
il minimo rimorso. Un ufficiale, ad esempio, mi ha detto: 'Era la
guerra fredda, e in guerra ci sono altre regole'. Insomma, usava il
concetto della guerra come scusante per tutto quello che aveva
fatto".
Un
tema ancora scomodo da affrontare in un paese quale è la
Germania, sofferente per le laceranti ferite non cicatrizzate da una
riunificazione troppo recente per i tempi della storia.
Numerose
sono state dall’unificazione del paese le battaglie nel parlamento
tedesco, prima per l’apertura degli archivi segreti, poi per la
loro conservazione e infine per respingere la richiesta di
prescrizione per i reati commessi dai funzionari della polizia
segreta. A difendere in prima linea il diritto a far luce sul passato
gli attivisti orientali, spesso ostacolati dai parlamentari dell’ex
porzione occidentale della Germania. Qualcosa sta cambiando nella
società tedesca, a giudicare dal sensibile aumento di
visitatori che il museo dei crimini della Stasi ha registrato negli
ultimi anni e dal grande successo di critica e pubblico di questo
film.
La Stasi ha rappresentato
per decenni un vero gioiello organizzativo, una macchina per il
terrore pubblico. Centomila gli effettivi operanti, duecentomila i
collaboratori, uno su sei abitanti i delatori occasionali.
Selezionava le vittime in base a dichiarazioni o scritti definiti
“pericolosi”, segnalazioni, sospetti, semplici curiosità.
I perseguitati venivano classificati in base ad una graduatoria di
pericolosità, e differente poteva essere il livello di
sorveglianza. Si poteva finire controllati 24 ore al giorno mediante
pedinamenti e intercettazioni ambientali. Nessuna professione veniva
risparmiata. Decine di migliaia di dossier riempiono gli archivi ora
accessibili. Al loro interno una minuziosa descrizione di ogni
frammento di vita delle persone bersagliate, dove qualsiasi sfera
della vita privata inclusi i rapporti intimi non ne risultava
esclusa. Coloro che venivano considerati colpevoli e una minaccia per
la sicurezza nazionale, vedevano l’esistenza distrutta, privata
della possibilità di lavorare e di avere contatti pubblici,
fino alla reclusione. Questo clima di terrore e di futuro senza
speranza ha condotto un numero imprecisato di persone ha togliersi
la vita in forma più o meno volontaria, o a trovare la morte
in disperati tentativi di oltrepassare il muro. Una stima che
presumibilmente si avvicinava alla realtà parlava di diverse
migliaia di suicidi l’anno, il tutto spesso tra l’indifferenza ed
il silenzio di molti governi occidentali.
Il film di Florian Henckel
oltre ad una pellicola di condanna e denuncia storica è
soprattutto un inno alla possibilità che ha l’uomo di
cambiare il corso della propria esistenza sempre e comunque, anche in
condizioni estreme, e con esso il destino di altri, fino a innescare
mutamenti impensabili all’inizio.
In una battuta di un
dialogo tra il Ministro della Cultura e Dreyman, il primo afferma con
presunzione ed arroganza riferendosi ad un amico del secondo
impossibilitato a lavorare per motivi politici: “Le persone non
cambiano così facilmente, succede solo nelle commedie”.