LO ZIO BOONMEE CHE SI RICORDA LE VITE PRECEDENTI
di Enrico Gatti
Regia Apichatpong Weerasethakul
Thailandia produzione internazionale, 2010
Voto 6
Dicono che appena prima di morire un uomo riviva in pochi istanti la sua intera esistenza.
E se questi pochi istanti diventassero giorni?
E’ quello che accade Boonmee, agricoltore tailandese proprietario di una piantagione di tamarindi, che immerso nel verde della foresta attende l’ora della fine ormai prossima a causa di un’incurabile malattia ai reni. Ad assisterlo un giovane dipendente e la cognata, sorella della defunta moglie. La sofferenza spirituale dell’uomo risuona nelle notti della foresta, turba energie mistiche richiamando fantasmi che arrivano per accompagnarlo verso la sua nuova vita. Durante una cena si materializzano alla tavola il fantasma della moglie e quello del figlio scomparso anni prima. La strana convivenza di vivi e spiriti durerà fino al giorno dell’ultimo viaggio, verso una grotta che ha visto nascere lo stesso Boonmee in una vita precedente.
Una surreale parabola del cerchio della vita raccontata attraverso le immagini di un film, sicuramente per pochi, che ha raccolto lodi dalla critica e il premio della giuria al festival di Cannes presieduta nientemeno che da Tim Burton in persona. Il regista americano avrà forse apprezzato la forza visionaria del film e forse anche le somiglianze col suo splendido Big Fish. Nel film di Weerasethakul e in quello di Burton, si percepisce la stessa valorizzazione della fantasia. Onirico e realistico allo stesso tempo, il film allontana le barriere di accettabilità del non reale. L’elemento fantastico giustamente raccontato diventa concreto (come scrive Mereghetti sul Corriere della sera) quando accostato alla quotidianità del lavoro nei campi e della malattia.
A completare il quadro una cornice karmica, ricca di storie popolari e filosofia, che collega passato e presente dell’uomo. I fantasmi custodi di ricordi sono legati ai vivi e non ai morti perché, come ricorda il film, per resistere al tempo il passato ha bisogno dei viventi per poter essere ricordato.
Sicuramente un film complesso, densissimo di significati e forse proprio per questo al limite del pretenzioso. Per quanto sobrio a livello visivo e registico, il film è appesantito dalla miriade di simboli e temi che forzatamente vengono inseriti nella storia: ad esempio l’ultima parte in cui il regista denuncia la perdita di identità del proprio paese poteva essere un film completo a se stante.
Anche stilisticamente in film non incanta. Il lavoro di montaggio appare praticamente inesistente, gli effetti sonori ridotti al minimo e i colori sono molto realistici considerate penso le pochissime luci artificiali. Uno stile interessante, sicuramente in controtendenza, ma che non lascia troppo spazio alla vera originalità.
Il film è più un’esperienza fine a se stessa. Gli elementi fantastici sono validi ma senza lo spessore di veri protagonisti. I personaggi delle maschere immobili. Lo spettatore non è mai coinvolto emotivamente fino in fondo.
Solamente due cose, veramente dell’altro mondo, sono però degne di nota. La spiegazione che arriva al padre quando chiede al figlio il perché della sua trasformazione in grosso scimmione dagli occhi rossi fluorescenti, e questi risponde di essersi accoppiato con una scimmia fantasma. E la scena copulatoria fra una principessa dal volto sfigurato e un pesce gatto. A scriverlo, col senno di poi, è più strano che vederlo.
Un giudizio a mio avviso non brillante per un film che si era presentato con ben altre referenze. Da vedere in ogni caso col suggerimento di seguire i lavori futuri del regista.