MELANCHOLIA
di Enrico Gatti
Regia: Lars Von Trier
Danimarca, Svezia, Fra., Ger., 2011
Voto 9 ½
Recensione
Che piaccia o no, dichiarazioni improbabili a parte, bisogna ammettere che Lars Von Trier è stato e rimane uno dei registi contemporanei più interessanti ed originali.
Assolutamente anti hollywoodiano nei modi, nello stile e, soprattutto, nella morale è sempre in grado di stupire grazie ad un cinema unico e magnetico. Un cinema impossibile da classificare, un cinema che guarda solamente alla propria narcisistica realizzazione, non schiavo della critica, un cinema che rifugge da inutili intellettualismi vanagloriosi preferendo a questi dei veri contenuti.
Con Melancholia, Trier continua il suo decadente cammino verso i punti più oscuri dell’inconscio, dove albergano le radici più primitive e inevitabili del fallimento umano. La lucidità con la quale il regista delinea l’intima natura dell’uomo è senza precedenti. Ed è proprio questa natura che viene addotta a sostegno della personale crociata del regista contro la bellezza e la bontà del mondo. Se il male sta nell’essenza delle cose allora la disfatta diventa inevitabile, e ogni riscatto pura illusione.
Melancholia in questo senso parla chiaro. La splendida cornice fotografica e lo stile epico, quasi barocco, sono il linguaggio attraverso il quale viene espressa una morale altrettanto altisonante, crudele nella sua semplicità quasi disneyana: siamo soli, siamo cattivi, non meritiamo di vivere e quando moriremo nessuno se ne accorgerà. Questo l’augurio che Lars confeziona per il futuro della specie. Una specie destinata all’estinzione, un evento inevitabile che trova la sua rappresentazione metafisica in una maestosa collisione della Terra con un pianeta il cui nome da il titolo al film.
Con questo lungometraggio, Trier sembra continuare il percorso stilistico iniziato nel 2009 con Antichrist, un altro capolavoro di spietata bellezza ed esplicita violenza. Per Melancholia il regista abbandona le tinte horror del precedente film e sceglie qualcosa al sapore di fantascienza. Il prologo questa volta è a colori, ma eguaglia per potenza e bellezza quello di Antichrist. La conclusione non è affidata ad un epilogo, ma la scena ultima è sufficientemente apocalittica e il cupo eco della fine accompagna per intero i titoli di coda.
Due i capitoli, due le protagoniste principali (Dunst e Gainsbourg). Nella prima parte, più psicologica e intima, compaiono numerosi personaggi (fra cui un divertente Udo Kier nei panni del wedding planner) che animano un ‘dogmatico’ banchetto di nozze. La seconda invece ,con pochi personaggi rimasti ormai soli (come tutti nel momento della fine direbbe il positivo Lars), da più spazio allo svolgimento di un plot che lascia la concretezza del primo atto per una dimensione digitalmente onirica giusta per l’amaro finale.
Il virtuosismo non è tuttavia affidato solamente alle immagini. Le musiche, sempre solenni, trasportano la storia in una dimensione mitica propria dei racconti senza tempo, una dimensione in cui gli archetipi riemergono da un passato lontano ammonendoci per quello che siamo e spesso dimentichiamo di essere: solo uomini.
La malinconia di Trier
Melanconia: il tema portante di un film capace di carpirne il vero significato studiandone la completa evoluzione. Dalla tristezza alla malattia, dalla malattia alla consapevolezza, dalla consapevolezza all’accettazione.
Le figure femminili, come in Antichrist, sono ricettacolo del male, un male interiore patologico, un male che solo una sensibilità superiore può coltivare. La rappresentazione è quella di una bile nera, che si spande dentro al corpo bloccandolo, come quei lacci scuri trattengono la sposa durante il prologo; un umore che rende infelici senza nessun motivo apparente, che annulla qualsiasi volontà personale e lascia il corpo in balia degli eventi quando la mente è già altrove per sfuggire la sofferenza.
Ed è a questo punto che la malinconia conduce verso qualcosa di superiore, una conoscenza sovraumana fuori dall’esperienza sensibile dove la mente può scoprire le geometrie sconosciute di cui è fatta l’invisibile struttura del mondo. Conoscenza in grado però di svelare solamente una terribile realtà, il lato peggiore della vita e della sofferenza: la mancanza di significato. Più che conoscenza quindi, una ritrovata consapevolezza dalla quale la vita stessa ha sempre cercato di proteggersi attraverso la creazione di illusioni.
La malinconia diventa nel film anche la soluzione, l’unica arma di un uomo rimasto senza difese perso nel labirinto dell’esistenza con l’errata convinzione di conoscere la strada verso l’uscita. Solo una malinconica alienazione può salvare quest’uomo; come l’apatia respinge l’angoscia, un sereno distacco allontana le paure dell’oblio senza ricorrere nuovamente alla menzogna. L’accettazione riesce a proteggere l’anima dalla follia, facendola perire anticipatamente. Una salvifica morte interiore prima del buio dei sensi.