Squallore
morale e illusoria ricchezza in una strada senza ritorno
Onora
il Padre e la Madre – voto : 7.5
Sidney
Lumet, autentico vecchio leone del cinema americano, torna sugli
scudi con un dramma sulle miserie e le debolezze degli uomini, e
smentendo chi da tempo lo riteneva non più in grado di
lasciare un segno, compone il suo 45esimo film realizzando un
trhiller forte come un pugno nello stomaco. L’83enne regista di
Filadelfia, intende colpire a fondo la società americana ed
uno dei suoi istituti più propagandati, la famiglia, entrambe
in apparenza rassegnate ad una profonda deriva morale e culturale.
Con
l’asserzione “ Non tutti i peccati sono uguali “, posta quale
introduzione al titolo stesso, Lumet ci anticipa l’essenza del suo
messaggio: un impietoso grido di denuncia verso lo zero assoluto dei
valori umani.
In una
New York contemporanea, Andy ( Philip Seymour Hoffman ) e Hank (
Ethan Hawke ), sono due fratelli che faticano a trovare il bandolo
delle proprie esistenze. Le rispettive vite, pur scorrendo su binari
differenti, sono entrambe marchiate dalla fragilità interiore
e da una spasmodica fame di denaro. Un bisogno di soldi che ha
origini diverse, ma che costituirà la molla per quello che
rimane uno dei più infamanti reati per un figlio: aggredire i
propri genitori per rapinarli.
Andy è
manager di una importante agenzia immobiliare, e sposato con la
bellissima ma vuota Gina ( Marisa Tomei ). L’apparente benessere
nasconde in realtà una personalità a pezzi, e il
perenne conflitto tra i suoi frammenti, sono le fondamenta della sua
stratificata infelicità. Il matrimonio con Gina è sul
punto di fallire, minato dalla cronica incapacità di amare
dell’uomo, e dalla inconsistenza d’animo della donna. Se a questo
si somma una situazione economica trascinata al collasso
dall’incessante consumo di droga, tanto da indurlo a sottrarre
denaro alla società per cui lavora, otteniamo un uomo talmente
stravolto ed in preda a se stesso, da proporre al fratello una rapina
ai danni della gioielleria dei genitori quale soluzione ai problemi
di entrambi.
Hank
infatti, non naviga in acque più tranquille. Uomo mai del
tutto cresciuto, dalla personalità fragile e immatura, si
trova strangolato dalle continue spese per un matrimonio qui già
fallito, dove le pretese economiche di una ex moglie schiumante di
rabbia e rancore, e di una figlia adolescente mai appagata,
infliggono ripetute ferite mortali alla sua dignità di padre.
Quando
sopraggiunge l’indecente proposta di Andy, Hank reagirà
inizialmente con orrore e terrore, ma la repulsione verrà pian
piano azzerata dall’ammaliante opera tentatrice del fratello
maggiore. La promessa di un lavoro facile, un colpo pulito, senza
complicazioni, dove persino le vittime non subiranno danni grazie
all’assicurazione, riusciranno a vincere ogni remora morale,
calpestando quella parvenza di valori umani che sembrava elevarsi in
quel deserto di avidità.
Sidney
Lumet elabora questo intenso dramma familiare, senza elargire
illusioni o sconti a nessuno. Attraverso la tecnica di flash back
con ripetuti salti nel tempo ( forse un poco eccessiva nella seconda
porzione del film ), il regista si addentra a più riprese
negli stati d’animo che conducono a tante scelte scellerate, scava
senza pietà tra le pieghe di queste menti devastate dalla
cupidigia, depredate dell’amore e del rispetto verso padre, madre e
affetti in genere. Uomini completamente alla mercè del dio
denaro e di un sistema che per restare in corsa, impone ritmi e
tenori di vita insostenibili a molti, e chi tra questi non è
provvisto di solide fonde, rischia di rincorrere una illusoria
felicità al prezzo di tradimenti verso la propria anima in una
strada senza ritorno. Un paradigma di una America che tra la crisi
dei mutui, l’incombente recessione e la tragedia in Iraq, vede
crollare uno dopo l’altro i suoi miti, trascinando nel baratro i
valori a cui i padri fondatori si erano ispirati.
Le
immagini distaccate di una imponente e maliarda Grande Mela come
inducono le viste da un attico, stridono con le storie di gente
comune perduta tra lo squallore morale e l’illusione di ricchezza,
dove una polizia totalmente assente, rende tangibile il distacco tra
le istituzioni della città e i bisogni di chi la popola.
Una
regia forte, risoluta, appassionante, che guida lo spettatore
attraverso questa agghiacciante spirale di violenza, grazie al taglio
introspettivo delle riprese e alla straordinaria qualità degli
interpreti.
Sidney
Lumet come si accennava all’inizio, ritorna a dare mostra di quel
talento che tra la fine degli anni ’50 e il tramonto dei ’70, gli
ha consentito di creare film tosti e di successo quali “ La parola
ai giurati “( 1957 ), “ L’uomo del banco dei pegni” ( 1965 ),
“ Spirale d’odio” ( 1972 ), “ Serpico “ ( 1973 ), “
Assassinio sull’Orient Express “ ( 1974 ), “ Quel pomeriggio di
un giorno da cani “ e “ Quinto potere “ ( 1975 ).
Una
stagione artistica lunghissima e prestigiosa, che l’Academy Awards
di Hollywood ha omaggiato con l’Oscar alla carriera nel 2005.
Un
curriculum cinematografico, che annovera tra gli attori da lui
diretti, i nomi più illustri di più generazioni del
cinema americano: da Henry Fonda, Ingrid Bergmann, James Mason e
William Holden, a Marlon Brando, Paul Newmann, Sean Connery, passando
per Al Pacino e Robert Duvall, ma senza dimenticare le nostre Anna
Magnani e Sophia Loren. A questo gotha citato in modo incompleto, ora
si aggiungono Philip Seymour Hoffman, Ethan Hawke e l’altrettanto
bravo Albert Finley nel ruolo di Charles, loro padre. Il primo, dopo
una lunga carriera costellata di molti convincenti ruoli anche se non
da protagonista, vede il suo talento premiato con l’Oscar come
miglior attore in “ Truman Capote, a sangue freddo “ ( 2005 ).
Una bravura che si consolida anche in questa pellicola, attraverso la
lucida follia in cui sfocia la cupidigia di Andy, freddo e spietato
calcolatore inghiottito dall’irrefrenabile vortice della droga. Una
anima dannata senza più riferimenti, pronta a travolgere ogni
ostacolo.
Ethan
Hawke, che in tanti ricordano come uno dei fanciulli romantici
dell’ottimo e celebre “ L’attimo fuggente “ di Peter Weir (
1989 ), al fianco di Robin Williams, ha oggi lo spessore artistico
dell’attore completo e maturo dalle intense virtù
drammatiche, già messe in mostra quando nel 2002, ottenne la
nomination da non protagonista in quel “ Training Day “ che valse
l’oscar al partner di pellicola Denzel Washington. Il suo Hank ha
il volto della fragilità e del senso di colpa, nonché
l’emblema dell’incapacità per ognuno di stravolgere se
stessi e di forzare la propria natura.
A
completare il triangolo familiare, Albert Finley, altro grande attore
che ha costruito parte della sua carriera calcando i più
celebri palcoscenici teatrali. Sul grande schermo lo ricordiamo tutti
al fianco dell’Oscar Julia Roberts, nell’ “ Erin Brokowich”
di Soderbergh del 2000. Dietro al volto segnato di Charles, e agli
occhi acquosi di uomo anziano costretto a vivere con sgomento una
tragedia inimmaginabile, si celano gli errori di una generazione
forse troppo intenta a realizzare quel sogno americano, e incapace di
cogliere la morte interiore in seno ai propri figli.
“ Onora
il Padre e la Madre “ è il titolo in italiano dell’opera
di Lumet, ma concordo con buona parte della critica che, quando lo
scorso ottobre accolse con entusiasmo il film al Festival del Cinema
di Roma, lo definì assai meno efficace dell’originale in
inglese “ Before the devil knows you’re dead “ ( Prima che il
diavolo si accorga che sei morto ).
Richiamandosi
ad un antico proverbio irlandese dove “ Bisognerebbe provare almeno
mezz’ora di paradiso prima che il diavolo si accorga che sei morto
“, vi è il riferimento ad una umanità disposta a
qualsiasi compromesso con il male, pur di soddisfare ogni desiderio.
La mezz’ora di tempo in cielo che il detto popolare indica quale
premio da estorcere al demonio, in cambio di ogni possibile peccato
da commettere nella vita terrena, ho l’impressione si stia
drasticamente riducendo fino a scomparire. In parte questo accade sia
per il progressivo calo di chi ritiene di possedere un anima da
scambiare, sia perché si è dissolta la percezione di un
paradiso da conquistare.
In un
era dove la realtà spesso soffoca i sogni, si sta
pericolosamente diffondendo il virus della rassegnazione, e quando
aumentano le schiere di chi non spera, la sfiducia diviene una
palpabile compagna quotidiana, dove miserie e debolezze finiscono per
avere il sopravvento. Il presente finisce così per perdere
contatto con una qualsiasi forma di paradiso, che questa la si
intenda come una dimora celeste per chi crede, o una felicità
terrena da conquistare in un futuro migliore, per gli altri.
In
questi cuori si smarrisce il valore della vita e ogni malvagità
diventa possibile. Si giunge così alle soglie di un baratro
profondo e nero, oscurato dall’egoismo assoluto, e quando i
pensieri sono tutti tesi a soddisfare i propri bisogni a qualsiasi
costo, agli occhi della nostra coscienza tutto diviene
giustificabile.
Quando
non vi è nessun limite da noi imposto, e senza più
nessun minuto in paradiso da conquistare, ci si muove solo verso una
strada senza ritorno.