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Visti per Voi » SPECIALE: Asian Film Festival 11  

SPECIALE

ASIAN FILM FESTIVAL 11
Di Enrico Gatti

 


L’ Asian Film Festival compie undici anni. Ad ospitarlo, per il terzo anno consecutivo, la città di Reggio Emilia. All’interno delle iniziative culturali di qualità che si potrebbero definire “minori”, in termini di numero di partecipanti, l’Asian Film Festival si conferma una manifestazione viva e sentita, in crescita e capace di coordinare l’operato di diverse realtà culturali del territorio.
Anche quest’anno, il festival è stato in grado di portare in Italia una grande selezione di film stranieri che, dispiace dirlo, non solo non verranno proiettati nelle nostre sale, ma rimarranno esclusi, e questa è la cosa più grave, anche dal circuito home video salvo forse qualche eccezione.
Nonostante tutto, le difficoltà economiche degli ultimi anni e la disaffezione del pubblico per un cinema ‘diverso’, questo bellissimo festival continua il suo viaggio alla scoperta di pellicole che celebrano la dimensione più Culturale della settima arte. Purtroppo sono tempi difficili e difficile è portare questi film in Italia, difficile è convincere le persone a sperimentare (spesso troppo frenate dallo stereotipo oramai antico sull’inaccessibilità del cinema orientale) e difficile è mantenere negli anni la qualità che i partecipanti abituali si aspettano. Eppure, a dispetto della riduzione dei film e dell’annullamento delle repliche durante la settimana, la qualità del festival sembra addirittura superare quella delle ultime edizioni.
12 film in concorso, una giuria di esperti e, per la prima volta, il voto del pubblico. Ospiti internazionali, la regista cinese Emily Tang e il produttore Chow Keung.

Ad inaugurare la settimana di proiezioni, il più importante dei tre film fuori concorso: Ace Attorney, pellicola giapponese del 2012 diretta dal regista Takashi Miike (13 assassini). Il film è ispirato all’omonimo videogioco ideato da Takumi Shu e prodotto dalla Capcom. Ambientato in un improbabile futuro, la pellicola racconta la storia del giovane avvocato Phoneix Wright impegnato nella difesa legale di imputati accusati di omicidio. In un mondo dove i crimini sono fuori controllo e i metodi investigativi sempre più sofisticati, i processi lampo di al massimo tre giorni si susseguono senza sosta in tribunali ipertecnologici simili a ring da combattimento. Adrenalinico come i suoi processi, Ace Attorney costruisce un meccanismo in cui tutti gli elementi, narrativi, tecnici e artistici, ingranano alla perfezione. E’ classico e moderno al tempo stesso. Gli omaggi ai classici legal thriller americani non si sprecano, ma la visione surreale di Miike ne fa un film fuori categoria. E come poteva in tutto questo mancare una sana dose di divertimento? Pur essendo un concentrato di cultura popolare giapponese il film eccede descrivendo con ironia le esuberanze e gli stereotipi fumettistici, in cui quella stessa cultura sembra esaurirsi, in modo distaccato e spiritoso, mai sprezzante e sempre orgoglioso, sia che si tratti delle acconciature da Pokemon dei personaggi, dei pupazzoni blu che sembrano usciti da pagine manga, o dello stile grafico da videogioco con cui vengono lanciate (letteralmente) le prove in aula. Regia e fotografia perfette per un film, giustamente fuori concorso, maestoso e insieme capace di non prendersi troppo sul serio.

Meno adrenalinico e spiazzante è stato sicuramente Japan’s Tragedy di Kobayashi Masahiro (Giappone, 2012).
Da un raffinato bianco e nero e lunghissimi piani sequenza, prende vita la tragedia di un uomo incapace di superare la morte della moglie e che per questo decide di chiudersi in se stesso e in una camera da letto. Il cinema di Masahiro ricorda per certi versi quello classico di Ozu e rivela un’impronta decisamente teatrale. La camera, fissa, riprende i personaggi e le stanze da diverse angolazioni, ma il tutto resta estremamente statico, estremamente immobile. E immobile è il protagonista, schiacciato dal lutto e schiavo di ricordi felici che affiorano una sola volta come unica nota di colore in mezzo al grigiore della vita. Oltre a quella umana, il film attinge ad un’altra tragedia: quella del Giappone. L’obiettivo, forse troppo ambizioso, è di creare una sorta di parallelismo fra le sofferenze dell’uomo e quelle di una nazione vittima dell’ennesima disgrazia. La tosse che scuote con impeto il corpo del vecchio ha la stessa irruenza del terremoto che nel 2011 colpì l’isola. Tanta sofferenza dunque, ma poca originalità. Anche a non voler puntare sul patetismo degli avvenimenti, qualcosa che manca c’è, e non si risolve scegliendo la lontananza come punto di vista del racconto. Manca quella lucidità glaciale, entomologica direbbero alcuni, che ha reso grandi i film come il recente Amour di Michael Haneke, simile per coincidenza come soggetto, ma più esaustivo nell’insieme.

Completamente diverso è invece Lethal Hostage di Cheng Er (Cina, 2012), un noir crudo e potente sulla storia di un trafficante di droga e del suo ostaggio; un incontro il loro destinato a cambiare la vita di molte persone. Il regista affida la narrazione quasi esclusivamente alle immagini. I dialoghi sono essenziali e dosati, ma non superflui. Ogni parola è perfettamente calibrata e aggiunge quello che manca quando manca. Lo stile d’insieme è ricercato, le inquadrature sono virtuose al limite di eccessi manierati. La storia non per questo rallenta; si svela a poco a poco e la tensione non fa che aumentare quanto più ci si avvicina all’epilogo. Tutto si concluderà dove era cominciato, come ogni buon noir che si rispetti. Il finale rimane equivoco e, colpo di genio, la vera chiave di lettura arriva addirittura a film concluso grazie al testo della canzone che accompagna titoli di coda scritto per l’occasione dallo stesso Cheng Er. Probabilmente uno dei film migliori in concorso. 

Non si può invece dire lo stesso del film Dreams for Sale di Miwa Nishikawa (Giappone, 2012). Partendo da una tragedia, l’incendio del ristorante di proprietà di due giovani sposi, la storia si evolve raccontando la truffa che i protagonisti perseguiranno allo scopo di sottrarre denaro a donne sole e infelici. Purtroppo, nonostante un inizio promettente, il film non trova mai una propria identità. Sempre in bilico fra dramma e commedia, è appesantito dalle tante, troppe, storie delle donne truffate. Una sola di queste verrà sviluppata adeguatamente, ma senza tuttavia grandi ripercussioni sulla vicenda principale, dimostrando quindi una certa inutilità. Nonostante alcuni spunti ad alto potenziale, il film sembra perdere definizione e carisma. Alla fine delle due ore rimane ben poco e il film finisce in niente come la relazione fra i due protagonisti.

Sicuramente più originale è invece il taiwanese When a Wolf Falls in Love with a Sheep, secondo lungometraggio del regista Hou Chi-jan. Il film racconta di un amore nato fra le risme di carta; una giovane assistente agli studi disegna sui fogli degli esami un personaggio di sua invenzione, una pecora, e il ragazzo delle fotocopie, incuriosito dalla cosa, scarabocchia un simpatico lupo per fare compagnia al fumetto. Ovviamente l’amore dei due non rimarrà platonico, ma nemmeno diventerà carnale. Con un romanismo alla Wong Kar-wai e la verve ironica e sognante de Il favoloso mondo di Amelie, la pellicola affronta in modo tutt’altro che superficiale i temi esistenziali dell’amore, del destino e della felicità. Lo stile pop rimanda ai video di MTV, colorati e divertenti, mentre la delicatezza del racconto dona un’aurea malinconica estranea alla maggior parte delle commedie romantiche occidentali. Molto indovinato, rimane la “pecora nera” di questa edizione del festival (premiato non a caso con il premio per il film più originale).

E per finire l’incompreso (almeno giudicando il voto medio del pubblico) Cold Bloom. A dirigere questo film meraviglioso, il regista giapponese Funahashi Atsushi. Shiori è una giovane vedova impiegata nella fabbrica dove Kenji, suo marito, ha da poco perso la vita in un terribile incidente. Takumi, responsabile dell’incidente e ora collega di Shiori, tenterà in ogni modo di ottenere il perdono della ragazza. Quando la solitudine è più forte della perdita, nemmeno l’odio sembra impedire la nascita di nuovi sentimenti. Il dolore e la frustrazione di non poter perdonare si uniscono al senso di colpa per i sentimenti che affiorano da una vicinanza sconveniente. Atsushi studia la mente dei suoi personaggi attraverso l’evoluzione dei loro sentimenti preferendo alla narrazione la contemplazione delle loro (re)azioni, in grado di descriverli più di mille parole. Molta lucidità quindi, ma senza freddezza. L’etica estetizzante dell’autore non impedisce alla pellicola di trovare una sua dimensione più intima e inconfessata. Tutto ciò che è ripreso diventa bello e sublime, ma senza apparire abbellito o idealizzato; un mondo da contemplare estremamente romantico, nel senso più classico del termine. E romantico è anche il finale, giocato su un’unica esitazione preannunciata dalle parole di Kenji, che sembra, o forse no, compromette un futuro diverso, se non proprio felice, almeno meno triste. Giustissima la menzione speciale della critica. 



VINCITORI DI ASIAN FILM FESTIVAL 2013:

- PREMIO DEL PUBBLICO a "All Apologies" di Emily Tang (Cina)

- PREMIO PER IL FILM PIU' ORIGINALE a "When a Wolf Falls in Love with a  Sheep" di Hou Chi-jan (Taiwan)

- PREMIO DELLA CRITICA a "Japan's Tragedy" di Kobayashi Masahiro (Giappone); menzione speciale a "Cold Bloom" di Funahashi Atsushi (Giappone)


MEDIA DEI VOTI DEL PUBBLICO PER I 12 FILM IN CONCORSO:
1) ALL APOLOGIES: 7,85
2) THY WOMB: 7,82
3) LETHAL HOSTAGE: 7,5
4) WHEN A WOLF FALLS IN LOVE WITH A SHEEP 7,5
5) MY LITTLE HONEY MOON: 7,4
6) FLOATING CITY: 7,3
7) THE HAPPY LIFE OF DEBBIE: 7,3
8) GF*BF: 7,1
9) COLD BLOOM: 7,1
10) JAPAN'S TRAGEDY: 7
11) OUTRAGE BEYOND: 6,9
12) DREAMS FOR SALE: 6,3

Per gentile concessione di
Stefano Locati
vicedirettore Asian Film Festival



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