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STOKER
di Enrico Gatti


Regia: Park Chan-wook
USA, G.B., 2013
Voto: 8


Tutti i più grandi prima o poi finiscono negli States, e così anche Park Chan-wook si aggiunge alla lista dei registi ‘stranieri’ che volano in America per dirigere il loro film.
E non c’è che dire, l’esperimento ha dato ottimi risultati. Le incertezze certamente ci sono, la sceneggiatura ad esempio, scritta dall’attore Wentworth  Miller, prende sicuramente ispirazione dai  gialli e dai thriller di grandi cineasti come Hitchcock, ma ricorda anche quelle ‘inquietanti’ pellicole televisive pomeridiane che ammaliano a suon di drammi psicologici, uomini violenti e intrighi da ‘ferro da stiro’. Il risultato finale perciò è ambiguo, alcune scelte sono necessarie quanto scontate, altre invece risultano eccezionalmente non banali: l’evoluzione del personaggio di India (a proposito … pessimo nome!) o, ancora, la non-chiarezza riguardo al ruolo che il singolo personaggo ha nell'influenzare i comportamenti degli altri. Chi veramente causa cosa? Il film cavalca questo aspetto avendo la capacità, e la fortuna, di rimanere enigmatico come le personalità dei protagonisti, bella prova.
E una bella prova è anche quella degli attori, la Kidman si gestisce con sobrietà senza ricordare troppo i ruoli già interpretati (che cominciano ad essere un numero impegnativo), Goode è azzeccatissimo nella parte del Norman-Bates-piacione-e-piacente, mentre Mia Wasikowska risulta essere la meno brillante, comunque brava, ma in parte soffocata da un ruolo ritrito come quello dell’adolescente diafana, cupa, imbronciata e pazza, particolarmente arduo da reinventare. Fortunato invece il cammeo di Jacki Weaver (Animal Kingdom) nei panni della madre di Charlie Stoker, lo zio cattivo interpretato da Goode.
Inutile dire che, in realtà, il vero protagonista della pellicola rimane Park Chan-wook. Regista arcinoto per aver ridefinito il noir (il dramma e l’horror) con la sua trilogia della vendetta, ad oggi i suoi film più famosi, Park Chan-wook mette tutto se stesso anche in questa produzione lasciando che la sua cattiveria psicologica (cinematograficamente parlando) e la sua spregiudicatezza visiva permeino l’intera opera. Il regista ha, in Stoker, un peso maggiore persino dei personaggi che si alternano sullo schermo e fa di tutto per non rimanere nell’ombra; chi finisce nell’ombra sono invece gli attori, ridotti talvolta a decori umani all’interno di immagini estetizzanti, la fotografia è di Chung Chung-hoon, sempre alla ricerca della perfezione indipendentemente dalla semplicità del soggetto che viene ripreso.
La regia gioca anche col tempo, interrompendo continuamente la consequenzialità della storia e ricominciando ogni volta tralasciando un qualcosa di abbastanza importante da far perdere l’orientamento allo spettatore e coltivare la tanto riuscita ambiguità del film. Il massimo viene però raggiunto nei cambi scena, piccole rivelazioni di un talento poetico e visionario che, anche grazie agli effetti digitali, unisce la luminosità della perfezione estetica (molto orientale) al lato più oscuro della natura umana. Neanche fossimo in un film di Park Chan-wook.



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