Una commovente storia di riscatto e libertà
The Wrestler – voto: 7.5
Randy, “The Ram”, l’ariete
Sembrano appartenere ad un altro secolo, quegli anni ’80 che videro Randy Robinson (Mickey Rourke) detto “The Ram”, l’ariete, conquistare la vetta del wrestling professionistico. Nella memoria di migliaia di appassionati, è rimasta indelebilmente impressa la data del 6 aprile del 1989, quando “The Ram”, al termine di uno degli incontri più epici che si ricordino, sconfisse l’altrettanto mitico “The Ayatollah”, suo storico avversario. Quel giorno rappresentò per Randy il culmine di un sogno, ma oggi a 20 anni di distanza, di quel sogno non resta quasi più nulla, se non l’acre sapore di un ricordo che giorno dopo giorno, si ricolma sempre più del dolore e della tristezza del presente.
Randy oggi continua a salire sul ring, ma di quel eroe che portava al delirio i suoi fan non resta che l’ombra. Il suo fisico appesantito dal tempo, dai farmaci e dagli infortuni, porta evidenti le cicatrici di una vita spesa al limite, anche se gli sfregi più dolorosi sono quelli silenti e nascosti che gli solcano l’anima. Quali palcoscenici delle sue esibizioni, le scarne palestre di periferia frequentate da poche decine di nostalgici, hanno preso il posto degli impianti più affollati e maestosi del paese. In una di queste una sera come tante altre, al termine dell’ennesimo violento e bizzarro incontro in grado oramai di garantire il minimo per sopravvivere, il provato fisico del lottatore cede e Randy viene colpito da infarto. Al suo risveglio dovrà affrontare il mondo da cui da sempre era fuggito: quella vita reale parallela al wrestling composta di affetti, sentimenti e relazioni. Con l’ostinazione tipica dell’ariete, l’uomo proverà a ricostruirsi una vita avvicinandosi a Cassidy (Marisa Tomei), una ballerina di lap-dance di cui s’innamorerà, e tentando di recuperare il rapporto con la figlia Stephanie (Evan Rachel Wood), abbandonata da bambina per seguire la carriera di lottatore.
Come temeva, Randy dovrà affrontare il più duro dei combattimenti, costretto a muoversi su di un ring a lui sconosciuto e ostile, privato del calore del suo pubblico, e spogliato del rispetto e della dignità riconosciuti solo dal popolo del suo mondo.
Un viaggio nel Wrestling
Il 40enne regista Darren Aronofsky, da sempre attratto da figure umane decadenti, ma spesso abbandonatosi a lavori troppo carichi di un misticismo quasi delirante e appesantiti da una vacua sperimentazione, si libera dei gravosi orpelli del passato, per dare vita ad una storia semplice ma efficace. Aronofsky rimane fedele al suo amore per i perdenti, e sceglie di condurci tra le quinte di uno spettacolo controverso che sfugge ad ogni banale definizione quale è il wrestling, per narrarci la storia di uno dei tanti vinti che lo hanno popolato. Un tempo riconosciuto come sport con relativa federazione mondiale, alla luce dei ripetuti casi di doping accertati, il wrestling è stato da anni declassato a forma di intrattenimento con incontri dall’esito prestabilito. Questa specie di circo è però ben lontano dall’essere un gioco innocuo. Sui ring si affrontano atleti poderosi dalle virtù acrobatiche come stuntman, fisici forti dalle masse muscolari possenti, spesso gonfiate dall’uso di prodotti dopanti non più vietati. I colpi accordati inflitti e subiti, assestati con il corpo e i più svariati oggetti fanno parte della coreografia, ma l’integrità degli uomini è comunque messa in serio pericolo dagli infortuni e dalle sostanze chimiche. Nonostante la rude violenza ostentata sul ring, tra i lottatori regna un genuino spirito fraterno e spontaneo cameratismo, forse perché uniti dall’identico sogno e rassegnati al medesimo destino. In molti con gli anni si trasformano in vecchi leoni infermi e pieni di cicatrici, stanchi reduci di un sogno appassito, che nel corso di malinconici raduni, si assopiscono in attesa di pochi nostalgici fan.
Un lavoro essenziale, credibile e commovente
Su questa traccia, Aronofsky trae un film sincero e commovente senza cadere nelle trappole del facile sentimentalismo. Per riuscirci aveva bisogno di un personaggio forte e credibile, e pensiamo non potesse trovarne uno migliore in quel Mickey Rourke che con il ruolo di Randy “The Ram”, segna il suo riscatto da protagonista sul palcoscenico del grande cinema. Alla luce del risultato ora è facile unirsi al coro degli elogi fini a se stessi, ma non si è trattata affatto di una scommessa dall’esito scontato. Coraggio e intuito hanno premiato il regista newyorkese, che nei dolorosi trascorsi privati dell’uomo Rourke prima che nel talento artistico dell’attore, ha captato le potenzialità necessarie al suo progetto.
La struttura narrativa è semplice e lineare, senza l’utilizzo di nessun escamotage. Inquadrature essenziali, spesso con camera a mano che lo riprendono di spalle, per acuire la soggettività del suo incedere, quasi fosse in procinto di salire sul ring ad ogni momento. Aronofsky si è concentrato sulle sfumature umane ed emotive che disegnavano i suoi personaggi, e attraverso la riuscita fotografia scattata dall’interno del pianeta wrestling, ha chiesto con successo agli attori di renderle vere e credibili. Un lavoro consegnato in gran parte alle interpretazioni, e nel caso di Rourke poi, la fiducia era così smisurata che il regista ha lasciato all’attore un campo libero pressoché illimitato. Mickey ha scritto di suo pugno gran parte dei dialoghi del suo Randy, ha condiviso parte delle scelte del regista su inquadrature e taglio del personaggio: un ruolo disegnato su misura.
Marisa Tomei e Evan Rachel Wood sono con Cassidy e Stephanie, le bravissime comprimarie di Rourke. La prima sente anch’essa il proprio tempo scadere, e come Randy è qualcuno solo in un luogo discriminato da molti, ma a differenza del lottatore, in quanto donna e madre, riesce a calarsi con dignità ad un umile destino. Nella figlia Stephanie, le cicatrici per l’affetto negato del padre, risulteranno difficili da guarire. Per entrambe e con effetti diversi, più che i sentimenti sinceri, a dominare sarà la paura di soffrire ancora.
Dopo aver ottenuto il Leone d’Oro a Venezia 2008 quale miglior film, “The Wrestler” ha conquistato i Golden Globe per l’interpretazione di Mickey Rourke, e per la canzone omonima scritta appositamente da Bruce Springsteen per il personaggio di The Ram e per tutti i lottatori caduti dentro e fuori dal ring. Una ballata aspra e tagliente che riempie la sala piombata nel buio dell’ultima sequenza, e nella quale abbandonarsi per immergere le vivide emozioni che ancora ti avvolgono.
Il riscatto di Mickey raggiunge la pancia ed il cuore
L’analogia tra la vita reale di Mickey Rourke e quella del suo Randy nella finzione, appartiene a quelle favole del destino che a volte sorprendono e meravigliano e forse ci consolano. Servono ad illuderci che a volte esiste per ogni uomo la possibilità di un riscatto e di una nuova opportunità, ma sappiamo che non è così. Eppure per l’attore 52enne nato a Schenectady, New York, l’incontro con Darren Aronofsky ha significato proprio questo: una rivincita dopo anni bui in ambito professionale, segnati dalla deriva nella sfera privata. Come “The Ram”, Rourke vive oltre un ventennio addietro l’apice della sua popolarità, più quale autentico sex symbol che attore dal talento cristallino. A consacrarlo fu l’uscita di “9 settimane ½” (1986), preceduto da altre pellicole di successo e discreta qualità come “Rusty il selvaggio” (di Francis Ford Coppola, 1983), e “L’anno del dragone” (di Michael Cimino, 1985). Il film che insieme ad una splendida Kim Basinger, lo vedeva protagonista in quella sequenza dello striptease eletta tra i simboli dell’erotismo nella storia del cinema, precederà una precipitosa discesa verso lunghi anni dove Rourke tornerà all’antica passione per il pugilato. Pellicole e interpretazioni secondarie, si alterneranno a 7 anni di boxe, a 4 plastiche facciali per ricostruire un volto distrutto dai colpi, a momenti conditi da altalenanti ricadute vittima di alcol e droghe. Il volto segnato dalle ferite e dagli eccessi, è lo specchio di un anima scivolata più volte ad un passo dall’auto distruggersi.
Rourke porta all’interno di Randy anni di sofferenza personale, fusi al richiamo per uno sport logorante e durissimo, nel quale egli si sente vivo consapevole di come lo avvicini alla morte. Il risultato è una interpretazione emotivamente intensa e vera, la migliore della carriera proprio perché forgiata dal dolore dell’intimo. Una prova che gli regala la nominations all’oscar, il già citato Golden Globe ed una virtuale Coppa Volpi a Venezia 2008. Il riconoscimento in laguna venne assegnato al pur bravo Silvio Orlando per “Il papà di Giovanna”, ma solo perché il concorso veneziano non prevede nel regolamento che un attore di un film già vincitore del Leone d’Oro, possa aggiudicarsi anche il premio quale miglior attore.
Fino all’ultimo secondo prima dell’annuncio alla notte degli oscar, Rourke ha conteso la statuetta quale miglior protagonista a Sean Penn. La vittoria di questo ultimo per l’immensa interpretazione di Harvey Milk mi è sembrata alla resa dei conti tecnicamente corretta, ma sul piano emotivo Randy Robinson raggiunge la pancia ed il cuore come il personaggio di Penn non riesce a fare.
Significativo il grande attestato di stima e affetto che il vincitore dell’oscar ha concesso all’amico e rivale un attimo dopo la consegna della statuetta: “Mickey Rourke rises again and is my brother, Mickey Rourke risorge ed è mio amico”.
Buona parte della stampa presente quella notte, pur riconoscendo il valore dell’interpretazione di Sean Penn, ha ricordato quanto da sempre l’Academy Awards non annoveri il coraggio tra i criteri di attribuzione dei premi: la consegna della statuetta a Mickey Rourke era possibile e non scandalosa, ma ne richiedeva una dose forse eccessiva per i giurati.
Una pellicola di sentimenti e libertà
“The Wrestler” è un film che racchiude una toccante storia di umanità alla deriva, una delle molte in un contesto sociale impietoso con i perdenti. Una pellicola che suggerisce riflessioni in grado di travalicare i confini di quel folle mondo che è il wrestling. Randy è un uomo che combatte per essere. Un lottatore nell’anima che non riesce ad essere diverso da ciò che da sempre è stato. Egli rimane aggrappato come tanti all’illusione di un sogno infrantosi o congelato 20 anni addietro, ma la paura della solitudine inasprita dal volto della morte che gli appare improvvisa, lo obbliga a scontrarsi con il fallimento della sua vita familiare. Come tutti ha bisogno di amore e di risposte, e la consapevolezza di essere oramai “un vecchio pezzo di carne maciullata”, non lo sottrae dal continuare a combattere con se stesso per riallacciare i brandelli di quei legami affettivi troncati nel passato. E’ l’unica via che conosce per andare avanti, come ha sempre fatto, da lottatore, incontro dopo incontro, ignorando il dolore dei traumi e delle cicatrici, sordo al senso di colpa che lo assale per il male che sa di aver inferto a chi gli voleva bene. Eppure, anche per chi come lui è abituato a soffrire, tutto avrà un limite, poiché la natura di ognuno non è soffocabile all’infinito.
Le sequenze che vedono l’incontro tra padre e figlia così come tra lo stesso Randy e Cassidy alla vigilia dell’ultimo match, comunicano emozioni forti e sincere. Esse esprimono il vigore della semplicità delle emozioni vere, la trasparenza della fragilità umana, al cospetto dei propri errori, della propria natura inviolabile, della paura di soffrire, e di un destino che impone con i suoi tempi, anche quella “asincronia dei sentimenti” che ci impedisce a volte di congiungerci con chi amiamo più di ogni altra cosa. La vita di tutti è scandita da un individuale metronomo di cui nessuno conosce il ritmo di battuta, e le gli amori, gli incontri, le scelte, sono regolate dal suo incedere misterioso. Gioie e dolori sono il frutto del suo sincronizzarsi o meno con tutti i suoi simili che battono nell’universo.
Una pellicola di sentimenti e di libertà, oltre le convenzioni, perché a dispetto di quanto i più potessero immaginare, per Randy il tappeto del wrestling era “l’unico luogo dove sentiva di non farsi del male”. In fondo ognuno di noi è chiamato ogni giorno a disputare un proprio match quotidiano…e quante volte il ring su cui ci troviamo a combattere, magari ambito o invidiato da altri, non è quello che sentiamo il nostro?