Il mondo
crolla sulle parole non dette
WORLD TRADE CENTER – voto: 6,5
Risulta
difficile trovare parole che non
scivolino nel retorico per riparlare di questa pagina terribile della nostra
storia contemporanea. Un giorno, l’11 settembre 2001, che ha segnato un punto
di non ritorno, uno sparti acque tra il terrore temuto e relegato solo alle
fiction più catastrofiche e quello concretamente possibile divenuto realtà. Da
quel momento, per ognuno di noi, il pianeta terra è diventato un posto meno
sicuro e gioioso in cui vivere. L’universo mediatico planetario è stato invaso
da documenti di ogni tipo riguardanti quella tragedia immane.
Oliver
Stone decide di raccontare tra le migliaia di storie legate al giorno che
sconvolse l’America e il mondo, quella di due agenti di polizia rimasti
intrappolati ma vivi, sotto le macerie di un centro commerciale nel complesso
del WTC. I loro nomi rispondono a quelli di John McLoughlin e Will Jimeno (
interpretati rispettivamente da Nicolas Cage e Michael Pena). Il regista,
nativo di New York, in piena sintonia con una filmografia costellata di
capolavori ( gli oscar alla regia per “Platoon” nel 1986, “Nato il 4 luglio”
nel 1989 e il discusso ma splendido“JFK” ne sono un esempio), come di opere più
discutibili ( “Natural born killer”), attribuisce un taglio al suo film non
immune da possibili storture di naso.
Pone
al centro della storia la loro vicenda umana, senza nessun tentativo di
allacciarsi a chiavi di lettura politiche o di altra natura.
Due
uomini come tanti in una luminosa mattina di settembre. La routine di ogni
giorno muove milioni di persone nella capitale del mondo occidentale. Ognuno
impegnato a vivere la propria vita, a svolgere il ruolo che il destino gli ha
riservato. In quel destino, per tanti, è previsto da lì a pochi minuti, un
appuntamento che segnerà per sempre i più fortunati e spezzerà il cammino ai
meno.
La
tragedia viene narrata dal punto di osservazione di chi è sulla strada. Le
notizie imprecise si accavallano, la confusione acuisce lo sbigottimento, la
paura crescente abbraccia l’incredulità. L’orrore per una catastrofe indicibile
ed il terrore nel trovarsi dinanzi ad un compito che tutti leggono come
estremo, non azzera il coraggio di poliziotti e vigili del fuoco. In tanti
rispondono alla chiamata e si gettano nell’inferno.
Stone
ricostruisce questi frangenti e gli attimi del crollo delle Twin Towers con
grande realismo ed efficacia. Tutto accade in un istante infinito. Non ti trovi
dinanzi ad un thriller, conosci già il tragico destino di questi uomini, ma ciò
nonostante l’emozione è altissima e la tensione palpabile.
Dopo
la catastrofe, il silenzio.
Polvere,
fuoco, urla, dolore,disperazione, paura, rimpianto, forza, speranza, sono gli
elementi che segneranno le interminabili ore che i due protagonisti sono
destinati a vivere. La solitudine spezzata solo dalle loro voci e dai rigurgiti
impazziti della distruzione che li imprigiona.
La
ricostruzione di quei momenti senza fine rappresenta la vera anima del film.
Una disperata lotta per la sopravvivenza che ingaggiano sia i due uomini,
intrappolati nelle viscere di cemento, che le loro famiglie, nel non cedere
allo sconforto per una fine in apparenza segnata.
Oliver
Stone ci precisa che il racconto si basa sulle testimonianze dei sopravissuti e
di chi visse quei giorni il dramma in prima persona.
Nonostante
questo, rimango perplesso su alcuni passaggi di questa narrazione. Consapevole
di quanto risulti impossibile giudicare gli stati emotivi che possono
attraversare la mente di uomini in quelle condizioni disperate, la chiave di
lettura mistica e nazionalistica fino al fanatismo di alcune delle figure
chiave in gioco, mi è sembrata una stonatura, una forzatura.
Per
comprendere in modo corretto ogni sequenza, forse, occorre calarsi nella
mentalità e nella cultura di quel popolo, oltre che compiere lo sforzo di
concepire il dramma di chi sta per perdere la vita non improvvisamente, ma come
una flebile fiamma che lentamente si spegne. Con la massima consapevolezza. Pur
sforzandomi però, fatico a chiudere il cerchio in totale empatia.
Anche
con queste ombre, il lavoro del regista newyorkese, ha il grande merito di
fornire spunto per importanti riflessioni, oltre che manifestare coraggio e personalità nell’affrontare per
primo questa delicata e “sacra” pagina della storia d’america.
La
vita di tanti di noi, scivola via veloce, quasi in una corsa senza fiato.
Affetti, relazioni, famiglia, vengono spesso sacrificati sull’altare del
lavoro, del denaro, dell’orgoglio. In tutto questo affannarsi, ci accorgiamo di
quanto peso abbiano le parole non dette?
Quante
volte sentiamo di non trovare il tempo o il coraggio per pronunciare una frase
o compiere un gesto da regalare a chi amiamo?
Quanto
può essere alto il prezzo da pagare nel realizzare che non ci sarà un’altra possibilità?
Nel
momento della verità, quando avvertono vicina la fine, i nostri protagonisti si
aggrappano ai valori che sentono più vivi: famiglia, fede, amore.
McLoughlin e Jimeno, negli istanti più
drammatici, provano però anche il rimpianto dell’ultima parola mancata,
dell’ultima carezza rimasta imprigionata nella mano.
Un
monito per tutti. Un appello a non dare nulla per scontato. E’ utopistico
pensare di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo.
Possiamo,
lavorandoci sopra, tentare di rendere i nostri giorni, il nostro relazionare
con gli altri, un luogo dove non esistano parole superflue, dove non si provi
il pudore di mostrare il nostro amore anche nelle particelle del quotidiano.
Bisogna
spogliarsi di quella inutile corteccia che spesso ci rende sordi, duri,
irraggiungibili e incapaci di sentire il prossimo. Uno sterile palliativo che
costruiamo nell’illusorio sforzo di renderci più solidi e resistenti alle
asprezze della vita, condannati così, a rimanere orfani della sua essenza.
In
ultimo due parole sul lavoro degli artisti. Le interpretazioni del cast di
attori, non hanno lasciato una traccia indelebile. Dignitose ma non in grado di
elevarsi al di sopra del proprio compitino. Persino Nicolas Cage, l’anello
artisticamente più solido della catena, ha fornito una buona prova ma senza
segnarmi nel profondo. L’attore californiano, vincitore nel 1995 dell’oscar
come miglior interprete, con “Via da Las Vegas”, costituiva la figura trainante
della storia. Ho avuto l’impressione gli sia rimasto quasi il “colpo in canna”,
senza cioè riuscire a graffiare il cuore di chi siede sulle poltrone della
platea. Michael Pena, così come Maggie Gyllenhall ( la signora Jimeno), e Maria
Bello( moglie di McLoughlin), hanno sofferto dello stesso male. Tutti in gamba
e credibili, ma mi aspettavo da loro qualcosa di più. Attendevo da mesi
l’uscita di questo lavoro.
Il
prestigio di regista e attore protagonista, nonché il grande coinvolgimento
emotivo del soggetto, mi lasciavano sperare nel complesso ad un risultato
migliore .